Video arte e videogiochi - Dipartimento di Arti e Scienze dello
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Video arte e videogiochi - Dipartimento di Arti e Scienze dello
Video arte e videogiochi Video arte Anche se il primo video è stato introdotto gia nei anni 50, il vero uso per le forme artistiche inizio nei anni 60, specialmente dopo la introduzione di portatile video recorder di Sony, il portapak. Subito quanto è emerso il video ha inspirato gli artisti di riflettere di più di che cosa si tratta e come si può usare nei termini artistici. I primi video non erano integrati nei musei e grande gallerie e le loro mostre, ma solo nei posti clandestini e piccoli film festival. Subito quando usci, il video si definiva come la opposizione totale verso la TV. Solo nei anni 70 sono introdotte le media arti che hanno aiutato la nuova strada verso arte del video. La culminazione rappresentano i anni Novanta con la introduzione della tecnica digitale e il computer. Finalmente, la video arte si sviluppo in 5 direzioni: 1. video nastri che hanno esplorato le possibilità tecniche e le limitazioni del medium; 2. tempo-reale, le situazione del circuito chiuso, dove un artista è emerso in un interattivo dialogo con la video camera e registra questo sul nastro per la distribuzione futura; 3. l’uso di video arte dove in una situazione dal vivo il artista è confronto con la mediata presenza, e incoraggia il pubblico di riflettere 1 sulla natura rappresentante della video arte; 4. avvenimenti participatori o interattivi dove il pubblico sta manipolando e trasformando il tv e video, accompagnati dalle istruzioni di artista; 5. video sculture, single o multi-monitor installazioni e ambienti dove il visitatore della galleria vede una assemblea dei video che dimostrano i nastri pre-registrati. I primi video erano prodotti dai pittori e scultori ispirati dai happening e performance. La produzioni di immagine elettronici rappresentava una alternativa al olio sul tela, o come ha dichiarato Pipilotti Rist, per lei il video rappresenta pittura sul vetro. Dopo l’introduzione del digitale nella video arte, la cosi detta, de-materializzazione del arte si è completata, e cosi le immagini digitali diventano considerate le idee del arte piuttosto che gli oggetti fisici, finché la video arte si sviluppo in due direzioni, una che era la continuazione della tradizione modernista di sperimentazione ed altra di produzione e ricezione di processo come una prassi sociale. Poi un grande numero delle nuove teorie hanno influenzato questo sviluppo: • le teoria di McLuhan sui nuovi media e comunicazione di massa; • teorie di semiotica, post-strutturalismo, 2 deconstruttivismo e post-modernismo; • le contra-teorie sulla manipolazione sociale della TV; • femminismo e in genere il movimento delle donne che hanno messo in questione le forme tradizionali di rappresentazione e decostruzioni delle donne sulla tv ed altri media di massa; La questione di cui ci accingiamo a discutere, riguarda le forme che le opere video hanno adottato per rappresentare il mondo, per riconfigurarlo attraverso le immagini e il suono: sembra che l’estraneità dell’immagine elettronica e adesso anche quella digitale nei confronti della narrazione abbia indotto un analogo atteggiamento da parte degli studiosi (Valentini, Birnbaum) che hanno assunto come un assioma la anti-narratività delle opere video. L’assenza di linearità narrativa (senza una fabula e un personaggio che la svolge) in un testo audiovisuale, richiede l’elaborazione di categorie capaci di prendere in carico forme compositive dalla temporalità come la sua forma più importante: temporalità dilatata, oppure estremamente contratta, costruita sull’ iterazione, la ciclicità, sul predominio dello spazio sul tempo, l’accumulo paratattico, l’intermittenza di un tempo frattale, la segmentazione e l’autonomia dei singoli blocchi narrativi, etc. Linguaggio video-grafico sin dalle sue origini si è fatto carico della ri-sensibilizzazione percettiva 3 dello spettatore. La diretta, l’incrostazione di una immagine su uno sfondo che non gli appartiene naturalmente, le finestre, le sovrimpressioni (da non confondere con gli effetti di ascendenza cinematografica), hanno contribuito a incrinare – sia a livelli fruitivi; che produttivi - il regime alimentato dai due grandi apparati del cinema e della tv, organizzato per piani, inquadrature, rapporto sfondo e figura di tipo umanistico. L’incapacità di raccontare del video è in rapporto diretto a questa implosione di immagini frutto di riciclaggi, passaggi, prelievi che occludono e saturano la vista, mentre la possibilità di espressione, affezione, emozione è presente ed emana laddove l’immagine riesce a stabilire un prolungamento, un’oltre che è innanzitutto avvertito percettivamente. La anti-narrativita del video nello stesso tempo rappresenta il suo anti-illusionismo: si vedono tutti i tagli (nascosti nei fim tradizionali) ovvero le ferite (le lacune e le spaccature nello tempo e nello spazio). Chiamando la video arte “altro cinema” (Raymond Bellour) e riferendo si ai artisti come Almond, Ahtila e Douglas, Daniel Birnbaum nota certamente un punto nella storia dell’arte delle immagini in movimento. Nelle loro installazioni composte da proiezioni multiple, gli eventi temporali sono “spazializzati” in modo tale da poter essere compresi in termini scultorei ed architettonici piuttosto che strettamente cinematografici. Infatti, se cinema potesse produrre 4 quello che Deleuze chiama immagine-cristallo, riuscendo a catturare per un instante il funzionamento interno del tempo stesso, allora le possibilità temporali di questo altro cinema è di esplorare le forme più complessi dell’immaginetempo, come il parallelismo e sincronicità. Per esempio, la simultaneità di diversi flussi d’immagini in movimento garantisce la possibilità non solo di avere immagini comprese e stratificate a livello temporale, ma anche di intricate costellazioni e giustapposizioni. In breve, ci sono molti strumenti nuovi per mettere in discussione la questione della linearità in tutte le sue forme. Il tempo, è senza dubbio, il tema centrale di tutti video artisti, possiamo anche dire che la cronologia è la loro disciplina. La distinzione vera nel cinema fra lungometraggio e cortometraggio, fra documentario e fiction come genere, nel video è priva di fondamento. Se apriamo a caso un catalogo in cui sono elencati i repertori video classificati per autore, si riscontra, che non ci sono durate standard, variando dai 7 secondi, a un minuto (Acconci e Nauman); 90 minuti (Douglas Gordon e Phillipe Parenno); 24 ore (Gordon); e 5 anni (Parenno). Il carattere di video arte risiede proprio nella molteplicità dei formati, nella molteplicità e sovrapposizione dei piani spazio-temporali, nel suo essere difforme rispetto alla linearità narrativa del cinema classico. La produzione video che ha avuto 5 come propria tradizione e statuto l’essere contro il sistema estetico-produttivo di cinema e tv, quindi in primo luogo contro la fiction, non si presenta regolata da formati, codificata in generi che definiscono personaggi, luoghi, intrecci e contesti ambientali, né ha creato qualcosa che potremmo definire immaginario collettivo al pari di quanto ha realizzato il cinema (imparagonabile per dimensione di apparati), se mai un “immaginario dell’autore”, cioè qualcosa che sta fra l’autoritratto, il diario e il taccuino di viaggio. Il sabotaggio attraverso l’imitazione parodica è espressione di una radicale resistenza del video nei confronti dei formati convenzionali e dei generi di cinema e tv, motivata da molteplici fattori fra cui, rilevante, il trattamento del tempo che, nelle opere video – generalizzando - cancella lo scarto fra tempo del discorso e tempo della storia e sposta la materia audiovisuale in un senza tempo che è dello spazio mentale. Come dice Ahtila in Birnbaum, la sua intenzione e di smantellare lo spazio, creare uno spazio che non esiste a livello cosciente. Questo spazio elaborato dall’immagine elettronica e digitale, è il luogo del “possibile, dove il soggettoattore non ha più un ruolo di agente ordinatore di eventi in un tempo-spazio: il suo trattamento è analogo a quello degli oggetti, rotto l’ equilibrio fra sfondo e figura, come fra soggetto e ambiente Le relazioni spaziali sono disintegrate per lasciar posto a trattamenti astratti e/o metaforici, non 6 convenzionali. Il video rappresenta un mondo in cui il soggetto perde sempre più consistenza fisica per attestarsi come presenza in voce, traccia sonora in un mondo completamente de-figurato, diventato magma cromatico: presenze prive di corpo, fatte di solo voce, personaggi in absentia richiamati dai discorsi liberi diretti, oppure voci che non sono personaggi ma che stanno per un nome collettivo: il maschile e il femminile. Ciò significa che in gran parte delle opere video non compaiono personaggi e neanche persone connotate in cui azione e pensiero si integrano. La figura umana, equiparata nella sua avvenuta parcellizzazione agli oggetti, è fatta a pezzi (non è la frammentazione di matrice concettuale dove la scomposizione geometrica dell’unità dell’organismo mira a dilatarne e misurarne la potenza in rapporto allo spazio e a deformarne la figura in rapporto a una riguadagnata dimensione plastica). Laddove compaiono ruoli individuati, come in Me/WE di Eija Ahtila, questi si confondono e si sovrappongono, non essendo definiti i confini fra l’io e l’altro io ( il padre parla attraverso la figlia e viceversa la figlia è parlata dal padre), sia perché l’attore si indirizza direttamente allo spettatore provocando una rottura all’interno della narrazione. Il dispositivo elettronico ha favorito il raccontarsi come flusso di coscienza, con apparente assenza di nessi di raccordo logici. In Okay (Ahtila, 1993) la multi-stratificazione visiva e sonora del testo è in 7 funzione di una connessione fra passato, futuro e presente secondo il flusso emozionale della coscienza che confonde il prima e il dopo, mentre reale e mentale, onirico e fantastico si rovesciano l’uno nell’altro. (per nozione del tempo vedere Birnbaum, “Cronologie,” pp 29-32) Nelle opere di Ahtila ciò che viene raccontato è il movimento della coscienza nella sua lotta contro il dimenticare; è il racconto di questa gara che è in corsa e che non prevede un finale segreto da scoprire, ma soltanto il rivelarsi dell’essere in un movimento di produzione e di distruzione di senso in quale il passato incontra il presente e il futuro, cioè in termini bergsoniani il tempo si sdoppia a ogni instante in presente e passato; presente che passa e passato che si conserva. Il video, sin dalle origini si è prestato a diventare il medium della comunicazione intima e privata, come una lettera o una pagina di diario, in cui la barriera fra soggetto e oggetto, propria del cinema, è oltrepassata dal rivolgersi direttamente allo spettatore o a se stesso, spettatore della propria performance (la funzione autoriflessiva ), trasgredendo con la frontalità dello sguardo in macchina e l’uso della prima persona e del discorso libero diretto, le regole della rappresentazione. Nei video di body art l’artista è nel contempo il performer che realizza l’enunciato: l’opera sono io: in nessun altro periodo della storia dell’arte l’artistaproduttore dell’opera è stato anche colui che si 8 rappresenta all’interno dell’opera, tranne nel genere specifico dell’autoritratto. Il video è una nuova forma d’accesso alla ricerca di sé, ma, come si è detto, fuori dalle coordinate di una narrazione diacronica. Comunque, ce il ritratto in video che accentua i tratti dell’estemporaneità, della flagranza dell’evento che accade davanti alla telecamera e di cui la telecamera costituisce il principale dispositivo di messa in forma: agisco perché c’è un occhio che mi interroga e mi scruta, che trasporta e trasforma la mia persona quotidiana, il mio corpo, la mia voce, i processi del pensiero. L’immagine video è adatta a rendere l’instabilità in modo naturale, a creare lo scenario di un teatro dell’esperienza e del vissuto dove centrale è l’inscrizione del corpo nel processo elettronico del suono e dell’immagine, al limite fra la verità apparecchiata per la messa in scena e quella direttamente registrata dalla telecamera. Uno non deve scordare la funzione affidata al registro sonoro: non è tanto e solo la musica, quanto i suoni d’ambiente capaci di avvolgere sensorialmente lo spettatore, trasportarlo nei luoghi raffigurati, per cui non si limita a guardare le immagini ma, stimolato dal suono, si lascia trasportare nell’ambiente ( lo scroscio dell’acqua che, scivolando lungo le pareti rocciose, forma stalattiti e stalagmiti in I do Not Know di Bill Viola). L’interscambiabilità fra sonoro e visuale che molti autori praticano, sia nei video monocanale che nelle 9 installazioni (da Cahen a Studio Azzurro, da Bill Viola a Ahtila) produce degli effetti di senso più volte sottolineati: il suono si dilata nello spazio, costruisce la terza dimensione dell’immagine, le restituisce fisicità e capacità di dialogare con l’ambiente. Esempio: Zineid Zidane, il ritratto del XXI seccolo VIDEOGIOCHI I videogiochi si potrebbero definire come testi delimitati dalla somma di due insiemi: quello dell’interazione e quello della narrazione. In questo senso, i videogiochi non sono l’entità puramente ludica, ma precisamente un ipertesto, che in parte è anche interattivo. In particolare, lo schema “autore/lettore modello” si potrebbe adattare all’analisi dei videogiochi. Al concetto d’autore modello si possono associare infatti due figure: quella del creatore modello (il creatore/sviluppatore del videogioco) e quello di giocatore modello che con la sua attività videoludica contribuisce ad attualizzare il testo videoludico. Un autore di libro Semiotica dei videogiochi, Massimo Maietti fa invece corrispondere quella di lettore modello terminale, ovvero un fruitore del testo prodotto dal giocatore, una sorta di spettatore passivo che assiste senza intervenire a una partita giocata da un altro. 10 Un’altra autrice, Agata Meneghlli, nel suo libro Dentro lo schermo, Immersione e interattività nei God games, dice che fin dalla definizione dell’ambito d’applicazione si distacca dall’abituale distinzione dei generi: infatti i “God games” vengono ripresi da quelli che normalmente sono considerati videogiochi gestionali e strategici (CIVILIZATION, CAESAR, AGE OF EMPIRE, SIMS). Si tratta dei videogiochi che mettono il giocatore nei panni di una sorta di divinità che guida di volta in volta l’esistenza di un singolo individuo o di un gruppo più o meno ampio ad intere civiltà durante la loro vita/evoluzione. Tali videogiochi permettono una relativa liberta d’azione rispetto a titoli analoghi ma più finalizzati, anche grazie alla suddivisione in missioni, al raggiungimento d’obiettivi specifici. Anzi, uno dei denominatori comuni è proprio la più o meno fondata illusione, fornita al giocatore, di poter condurre il gioco dove gli pare. Se nella realtà tale illusione è sempre limitata dai vincoli della programmazione e dalla necessita di fornire un gioco fruibile ad un largo pubblico, è certo che si tratta del genere video-ludico che lascia volutamente maggior spazio di manovra a giocatore e dove dunque il testo terminale ha maggiore suscettibilità di variazione a seconda delle decisioni prese dai vari giocatori reali. Agata Meneghelli nel suo libro parte da questa definizione per proporre un’accurata indagine 11 semiotica dei vari livelli di questi testi video-ludici, che inevitabilmente si trasforma in un indagine sulle “interfacce”. Non a caso il titolo stesso di questo volume rinvia ad un confine, lo schermo appunto, che divide lo spazio fisico del giocatore da quello virtuale del videogioco. Significativa a questo punto è la divisione tra “game” e “play”. Se la critica parla genericamente di “game-play” per indicare la “giocabbilità” del videogioco, Meneghelli approfondisce ed arricchisce di senso il termine dividendolo in un “game” che è il contesto e le regole di gioco ideate dal “creatore modello” e corrisponde al “terreno di gioco”, il livello più basso dove “accadono” gli eventi narrati nel gioco; ed il “play” che è il livello dove il giocatore può interagire e modificare gli eventi del “game” mediante menu, pulsante e testi predisposti. Quello del “play” è esattamente il livello dell’interfaccia tra il giocatore ed il gioco ed i relativi vari gradi di trasparenza/opacità contribuiscono a definire il livello di “immersivita” del videogioco. L’analisi dettagliata di tale interfaccia non è importante solo per la compressione del meccanismi di funzionamento dei videogiochi, ma diventa una miniera di riflessioni utili per ripensare la struttura e la potenzialità delle interfaccia informatiche. 12 Se una critica sostanziale è possibile muovere all’analisi semiotica di videogiochi, e principalmente allo schema “creatore/giocatore-lettore” proposto da Maietti e ripresso strutturalmente da Meneghelli. In tale schema il giocatore figura unicamente sotto la categoria “autore”, il che è un ovvio controsenso dato che egli e anche un fruitore, un lettore che per leggere il testo video-ludico deve contribuire, nel limiti impostigli dal creatore, a scriverlo. Questa duplicazione, attiva/passiva, del ruolo del giocatore contribuisce a spiegare perché il testo terminale e il lettore terminale non siano elementi puramente teorici. Il giocatore che è anche spettatore passivo può voler rivedere e proprie performance di gioco a quelle di altri anche in forma completamente passiva, per confrontarle o per rivivere il piacere del gioco. E questo spiega come siano possibili romanzi, fumetti, film, serie televisive animate o meno dedicate ai videogiochi che forniscono ad una vasta platea di “lettori terminali” testi non interattivi che vengono fruiti precisamente in questa loro funzione. Lo spettatore che va a cinema a vedere Resident Evil o Silent Hill lo fa non per vedere genericamente un film horror, ma per vedere come i rispettivi registi hanno attualizzato nella pellicola la performance rese possibili dal videogioco e gudichera tali film anche e forse prioritamente in base alla coerenza narrativa del testo filmico al testo video-ludico. 13 Considerare inoltre il videogioco come un testo rende indispensabile presupporre un grado di passività nel giocatore che di tale testo e non solo scrittore (a fianco del creatore) ma anche lettore. Altrimenti, avrebbero ragione i ‘ludologi’ a negare qualunque testualità e soprattutto narrativita dei videogiochi equiparandoli in questo a giochi puri quali quelli di carte o alle attività sportive. 14