Storia del Mezzogiorno, questione meridionale

Transcript

Storia del Mezzogiorno, questione meridionale
LUOGHI E IDENTITÀ
Storia del Mezzogiorno,
questione meridionale, meridionalismo
di Salvatore Lupo
1. Il Sud e il suo specchio.
«Meridiana», n. 32, 1998
Due equivalenze – la prima, tra storia del Mezzogiorno e questione
meridionale; la seconda, tra questione meridionale e meridionalismo –
sono profondamente radicate nella nostra cultura, fanno parte integrante dell’identità del Mezzogiorno e della stessa identità italiana.
L’una è apparsa indiscutibile sino a qualche anno fa, l’altra è rimasta
indiscussa sino ad oggi. In questo mio intervento voglio porle in discussione entrambe.
Cominciamo dalla prima, quella tra storia del Mezzogiorno e questione meridionale. In linea generale la questione, cioè il problema e il
relativo dibattito, riguarda le ragioni dell’assenza nel Sud del progresso economico e civile, o della sua insufficienza, o comunque della sua
inferiorità rispetto al Nord. Questa eterna contrapposizione tra luoghi
(o idealtipi?) non rappresenta però l’unico modo per analizzare la parte d’Italia detta Mezzogiorno, la quale può essere raffigurata anche come un «qualsiasi» frammento della modernità, dove tra Otto e Novecento emergono nuove élites urbane o rurali; si determinano i rivolgimenti dell’unificazione capitalistica del mercato e poi della società dei
consumi; lo Stato crea infrastrutture, promuove l’istruzione, sostiene i
redditi; aumenta la vita media, trionfano la cultura e la politica di massa1. Insistendo oltre misura sull’impari confronto rischiamo di ignorare tutta questa gigantesca fenomenologia storica.
1
Su questa linea, oltre agli interventi su «Meridiana», dal 1987 a oggi, e al volume del suo
direttore (P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 1993), voglio
ricordare alcune opere precedenti in cui la distinzione tra questione meridionale e storia del
Mezzogiorno era posta con chiarezza: i saggi di G. Giarrizzo poi raccolti nel volume Mezzogiorno senza meridionalismo, Marsilio, Venezia 1992; i saggi di G. Barone, S. Lupo, R. Mangiameli nel volume La modernizzazione difficile. Città e campagna nel Mezzogiorno dall’età
giolittiana al fascismo, De Donato, Bari 1983 (atti di un convegno svolto a Catania nel 1981);
G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1986.
17
Luoghi e identità
Metafora dell’arretratezza economica, il Mezzogiorno rappresenta
anche una poderosa metafora dell’arretratezza politica, cioè della fragilità della nostra identità nazionale. Il riferimento ai difetti della costruzione unitaria postrisorgimentale stava d’altronde già al centro
della prima stagione della discussione sul tema, sviluppatasi negli anni
settanta del XIX secolo attorno alla rivista fiorentina «Rassegna settimanale», allorché Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino riconobbero nel Mezzogiorno il luogo ideale della questione sociale, e puntarono il dito contro gli egoismi delle classi dirigenti, le miserie dello spirito pubblico, i limiti di una solidarietà nazionale tutta
ancora da costruirsi: tratti che mantenevano separata l’Italia dalla norma dei paesi occidentali. Riproposta a distanza di cinquanta o di
cent’anni, quest’enfasi sulle anomalie, dell’Italia rispetto all’Europa
progredita e del Mezzogiorno rispetto all’Italia settentrionale, sembra
disegnare una sorta di destino immutabile che ben poco si confà alla
storia reale del nostro paese in età contemporanea.
Rischiamo per questa via di restare intrappolati in quella tradizione
della nostra storiografia che a furia di evidenziare le mancanze ha
troppo spesso sottovalutato le novità, i punti di rottura, i successi o
semplicemente i processi costruttivi della vicenda nazionale2. Bisogna
poi dire che la sovrapposizione tra le due questioni e le due storie (italiana e meridionale) schiaccia ancor più lo specifico della storia del
Mezzogiorno sotto una massa eccessiva di elementi metaforici, che rischiano di occultare parti della realtà almeno nella stessa misura in cui
ne illuminano altre.
Nei numerosi seminari che negli ultimi anni ho tenuto per gli insegnanti di storia della scuola secondaria, o in altre occasioni di pubblica
discussione, è capitato che nel vivo di qualche polemica i miei interlocutori aggiustassero la stessa tradizione «meridionalista» cui pure essi
dichiaratamente si ispiravano, al fine di renderla ancor più funzionale
a un’immagine del Sud sempre e in toto «piagnona». Così viene spesso
richiamato il Fortunato che lamenta lo «sfasciume» del territorio, non
quello che insiste sui grandi vantaggi conseguiti dal Mezzogiorno con
l’Unità d’Italia; è citato il Nitti che tuona contro il drenaggio verso
Nord del capitale meridionale, non quello che guarda all’emigrazione
da un lato e all’industria elettrica dall’altro come ai due grandi fattori
di innovazione e di rinascita; Rossi-Doria è sempre quello dell’osso
ma mai quello della polpa, e guai a chi ricorda i suoi giudizi favorevoli
2
Mi permetto di rimandare ai miei Croce, Volpe e l’Italia liberale, in «Storica», 1, 1995,
pp. 11-36; e La decisione politica nella storia d’Italia, in «Meridiana», 29, 1997, pp. 21-53.
18
Lupo, Storia del Mezzogiorno
sugli effetti della riforma agraria. Le politiche economiche dei governi
sarebbero state sempre erronee o persecutorie, seppure ispirate a principi che in tempi diversi sono stati tra loro anche opposti: liberisti e libero-scambisti in età postunitaria, protezionisti alla fine del secolo, interventisti – dopo i timidi esordi di età giolittiana – nel primo periodo
repubblicano. Nella memoria di ognuno risuonano insomma giudizi
catastrofistici, mentre nessuno sembra conoscere un «meridionalismo» meno apocalittico. Eppure basterebbe ricordare il più noto degli
scritti di Giustino Fortunato, che nel 1904 definiva molto favorevoli al
Mezzogiorno le scelte postunitarie in campo doganale, dannose quelle
del 1887, che prevedeva dei vantaggi dai trattati commerciali stipulati
alla fine del secolo e auspicava che ne venissero sottoscritti di nuovi
(come stava in effetti avvenendo); e comunque – aggiungeva – tale
«naturale contrasto di interessi» non andava drammatizzato, non tutto il Mezzogiorno era stato ugualmente colpito, anche i meridionali
avevano fatto i loro errori di valutazione»3. Era un’analisi sfaccettata,
era la concretezza della distinzione che mal si presta ad essere inserita
in una vulgata. Ma su questi temi torneremo più avanti.
Dunque, il senso comune va, talvolta, anche oltre le fonti cui si abbevera. Ciò ha la sua logica. Se questione meridionale e storia del
Mezzogiorno coincidono, ogni vicenda storica di questa parte d’Italia
rischia di ridursi a un’eterna querelle sulle mancanze e le colpe. Il dibattito dei contemporanei resta al centro dell’attenzione, a scapito di
qualsiasi altro tipo di fonte, archivistica o statistica, oggi disponibile.
Molti continuano a citare Pasquale Villari e Fortunato, Sonnino e Nitti, Salvemini e Gramsci, non come protagonisti da collocare nel loro
tempo, nel loro strumentario intellettuale e nella loro intenzionalità
politica, ma come mero specchio di una presunta, eterna attualità: si
spiega il perché‚ sul nostro tema alla ricerca storica, basata su nuove
fonti o su nuove prospettive interpretative, sia in genere appiccicata la
vana etichetta di revisionismo, cui evidentemente si vuole contrapporre una qualche ortodossia.
Siamo qui alla seconda delle equivalenze, quella tra questione meridionale e meridionalismo. Stando ad essa, ci sarebbe una tradizione
di analisi e dibattito sulla questione meridionale omogenea e sostanzialmente concorde – il meridionalismo – raffigurabile come un movimento in difesa del Mezzogiorno. Al contrario, io credo che troppi e
troppo diversi tra loro siano i discorsi sulla questione meridionale, per
3
G. Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria, in Id., Il Mezzogiorno e
lo Stato italiano, Vallecchi, Firenze 1973, pp. 534-85, in part. p. 551.
19
Luoghi e identità
poterne dare una tale rappresentazione univoca. Tra l’altro, l’intento
politico che nel periodo postrisorgimentale muove i primi analisti della questione meridionale, quelli del gruppo della «Rassegna settimanale», non si concilia per nulla con il concetto della difesa di una parte
della nazione contro l’altra: esso è piuttosto unitario, anzi centralista,
e non potrebbe essere più lontano dai toni della recriminazione regionalista.
Contrariamente a quanto afferma o soltanto presuppone un po’ tutta la storiografia, in questa fase postunitaria il termine meridionalismo
non esiste o almeno non è nell’uso comune. Per cominciare a parlarne
con giustificazioni più salde, dobbiamo arrivare a un periodo successivo, quello a cavallo dei due secoli, quando una miriade di voci si propongono lo scopo della difesa del Sud in quanto regione, attribuendo le
colpe della sua debolezza al Nord, che viene accusato di monopolizzare
le leve del potere, dunque delle politiche fiscali, doganali, dei lavori
pubblici, e di quant’altro possa provocare la ricchezza e la miseria dei
popoli. Ora in molti, con tesi esasperatamente polemica, parlano di
«mercato coloniale», ora si invocano il riequilibrio, la riparazione, il
mutamento delle politiche generali italiane per salvare il Mezzogiorno
o, viceversa, il varo di politiche differenziate in suo favore4.
Bisogna comunque considerare il periodo liberale come la preistoria di una vicenda destinata a svolgersi in una fase più recente, cioè in
età repubblicana, quando infatti il termine meridionalismo si radica
entrando a far parte della storia d’Italia e di ogni raffigurazione della
storia d’Italia. Qui vengono elaborate e applicate le politiche dell’intervento straordinario, si svolgono le mobilitazioni del movimento
contadino e le risposte della riforma agraria, mentre la questione meridionale travalica i propri confini e invade il Nord con l’emigrazione di
massa. Qui il meridionalismo assume il proprio ruolo e il proprio nome con Carlo Levi ed Ernesto De Martino, con Manlio Rossi-Doria,
Emilio Sereni, Francesco Compagna e Pasquale Saraceno, nelle grandi
esperienze delle riviste «Cronache meridionali» e «Nord e Sud».
Qualche volta bisognerà pur ricostruire questa vicenda nella sua pienezza; ma io voglio per ora rimanere nella preistoria del concetto di
4
Bisogna comunque dire che anche in questo caso la mobilitazione si realizza in nome di
un «beninteso» spirito nazionale. Nel complesso, non sono venute da Sud importanti rivendicazioni di indipendenza, a parte che nelle due isole maggiori in alcuni brevi periodi: nulla di
paragonabile a quant’è accaduto appunto nei paesi vittime del colonialismo, in tanta parte
dell’Europa orientale, e poi in Irlanda, nel paese basco, in Catalogna. Potrebbe essere invece
interessante il fatto che l’unica forte spinta separatista nella storia d’Italia venga oggi da Nord
con la Lega.
20
Lupo, Storia del Mezzogiorno
meridionalismo, mostrando le difficoltà, i possibili equivoci concettuali ed empirici, della sua retro-applicazione alla storia dell’Italia, del
Mezzogiorno e della stessa questione meridionale in età liberale.
Se guardiamo al fondo del problema, peraltro, vedremo che il mero
riconoscimento del dualismo tra Nord e Sud non implica di per sé
uno schierarsi a favore del Mezzogiorno. Di dualismo parla nel 1904
Fortunato, al culmine di una grande riflessione sui fattori, soprattutto
naturali, che rendono il Sud un mondo per ogni aspetto distinto dal
Nord5. Ma prima il dualismo era stato riconosciuto, anzi enfatizzato
all’estremo, dai funzionari piemontesi che nella congiuntura postunitaria si erano convinti di essere in colonia e si erano comportati come
fossero in colonia; e poi dai garibaldini che sul finire del secolo si pentono di aver portato questi selvaggi in Italia, dai socialisti che lamentano
la palla che portano al piede e fischiano Salvemini nei loro congressi;
dagli antropologi positivisti, questi fedeli della religione del progresso
che a cavallo tra Otto e Novecento misurano crani cercando il quid che
rende barbari i meridionali e civili i settentrionali; oggi, dal politologo
Putnam che giudica il Mezzogiorno uncivic e da mille altri che ritengono che il civismo non vi arriverà nemmeno nei prossimi mille anni; da
Bocca che lo pensa come un inferno, da Bossi che all’inferno vorrebbe
comunque mandarlo6.
L’idea del dualismo viene dunque condivisa da coloro che sono
mossi da giudizio (o pregiudizio) sia sfavorevole che favorevole alla redimibilità del Mezzogiorno. In entrambi i casi essa suscita analisi sottili
e geniali, ma anche inaccettabili forzature interpretative, e una fuorviante, estremistica retorica della diversità – accompagnata da un’accanita ricerca delle colpe, che Fortunato non condivideva e non condividerebbe certo.
2. Regionalisti e panitaliani.
Abbiamo detto che l’equazione tra questione meridionale e tradizione meridionalistica si impone nella prima età repubblicana. Al ter5
Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributari cit., p. 539. Ma si vedano le
osservazioni di C. Donzelli, Mezzogiorno tra «questione» e purgatorio. Opinione comune,
immagine scientifica, strategie di ricerca, in «Meridiana», 9, 1990, pp. 13-53.
6
Cfr. R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Monadori, Milano 1993;
G. Bocca, L’inferno: profondo Sud, male oscuro, Mondadori, Milano 1993. Sul primo approccio dei piemontesi, N. Moe, Altro che Italia! Il Sud dei piemontesi (1860-61), in «Meridiana», 15, 1992, pp. 53-89. Sui «pentimenti» fine secolo di un garibaldino mantovano, M.
Bertolotti, Le complicazioni della vita: storie del Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1998.
21
Luoghi e identità
mine di essa, vengono dati alle stampe due libri destinati ad assumere
un ruolo di particolare importanza nella formazione di generazioni di
studenti e di studiosi: Il mito del buongoverno di Massimo Salvadori
(1960-62) e Il Sud nella storia d’Italia di Rosario Villari (1961)1.
L’allora giovanissimo Salvadori parte con la (canonica) polemica
marxista contro l’interpretazione crociana della vicenda nazionale tra il
1870 e il 1914, e ad essa contrappone la disamina delle colpe del liberalismo, l’idea che il fascismo rappresenti il «logico sviluppo del periodo
postrisorgimentale»2, la critica per il «dominio incontrastato della borghesia» di cui è frutto la questione meridionale. Questa si è mantenuta
«in termini immutati dal 1862» condannando il Sud «all’immobilità
delle sue pietre o tutt’al più a muoversi verso una maggiore disgregazione»3. La contraddizione ignorata (negata) da Croce può essere documentata ritornando al pensiero di chi al tempo la percepì, scoprendo,
attraverso i suoi interpreti coevi, un punto di vista diverso da quello
dell’Italia ufficiale, il punto di vista degli esclusi, della plebe ovvero dei
contadini.
Troppo grande era la tragedia osservata, perché uomini di puri sentimenti
e di ingegno potessero provare la tentazione di una polemica «dorata». Fu
proprio di questi uomini un ardore di apostoli; un amore sofferto per quelle
plebi che costituirono il loro sprone; e una volontà insopprimibile di testimoniare la verità4.
La verità, dunque. Gli apostoli della questione meridionale, che
uno per uno vengono presi in esame nei capitoli di questo volume,
cantano fuori dal coro dei laudatori del regime borghese, esprimono
una critica onesta, seppure insufficiente o moralistica perché ispirata a
1
M. L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a
Gramsci, II ed., Einaudi, Torino 1963. R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia. Antologia della
questione meridionale, Laterza, Bari 1972; l’antologia va collegata ai saggi dello stesso Villari,
pubblicati in Conservatori e democratici nell’Italia liberale, Laterza, Bari 1964, poi ripubblicato e ampliato col titolo Mezzogiorno e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1978. Un frutto
tardivo di questa tradizione – ma sul versante laico – è il volume di G. Galasso, Passato e presente del meridionalismo, Guida, Napoli 1978. Un esempio precedente di trattazione antologica è quello di B. Caizzi, Antologia della questione meridionale, Comunità, Milano 1950.
Sulla fortuna di questo genere letterario nel dopoguerra cfr. P. Bevilacqua, Il Mezzogiorno
tra ideologia e storia. Trent’anni di antologie sulla questione meridionale, in «Studi storici»,
1976, pp. 125-59, cui rimando anche per una più completa bibliografia. Comunque esisteva
già a quella data una tradizione diversa, meno legata al concetto di meridionalismo: cito solo
G. Arias, La questione meridionale, Zanichelli, Bologna 1921; F. Vochting, La questione meridionale, Napoli 1956; e il volume meno noto, ma molto originale, di C. Rodanì, Mezzogiorno e sviluppo economico, Laterza, Bari 1954.
2
Salvadori, Il mito cit., p.18.
3
Salvadori, Il mito cit., rispettivamente pp. 20-1 e p. 524 (in sede di conclusione).
4
Salvadori, Il mito cit., p. 43.
22
Lupo, Storia del Mezzogiorno
idee liberali e ad un ingenuo «mito del buongoverno». C’è un meridionalismo «conservatore» che si raccoglie intorno alla «Rassegna settimanale»; ad esso segue un meridionalismo democratico o socialista,
che culmina nella teoria rivoluzionaria di Gramsci o si dissolve in essa.
«Riuscire a infondere nelle masse meridionali la coscienza di classe:
questo l’obiettivo»5 del 1962.
L’introduzione premessa da Rosario Villari alla sua antologia è più
sobriamente interna all’argomento. Siamo in un momento in cui il
paese sembra superare di slancio gli equilibri tradizionali, dal punto di
vista sia economico che politico; la questione meridionale, scrive Villari, è stata «insolubile nell’ambito della costruzione liberale dello Stato», ma si avvia verso la soluzione nel quadro democratico repubblicano. Questa notazione fa riflettere. La tradizione, ovvero la «letteratura meridionalistica» (anche qui presentata attraverso la distinzione
di una corrente «liberale» da una democratico-socialista) va ad occupare nel senso comune storiografico italiano il suo posto canonico
proprio nel momento in cui la si dichiara inattuale. Per Villari, bisogna
in una certa misura «ridimensionarla» anche perché nel frattempo la
ricerca sta ridimensionando tanti discorsi del passato sulle colpe dello
Stato e sullo sfruttamento del Sud ad opera dell’industria settentrionale. In effetti in questi anni Romeo afferma che gli storici non possono
continuare a lamentare la pesantezza della pressione fiscale sull’agricoltura dimenticando che essa ha reso possibile in Italia la nascita di
un’economia industriale tutt’altro che parassitaria; mentre Cafagna afferma che i meccanismi dello sviluppo del Nord e del sottosviluppo
del Sud sono autonomi, e che non si può dunque dire che i secondi
siano funzionali ai primi6. Qui, come altrove, lo storico calabrese si
muove con grande prudenza:
Piuttosto che un forzato contributo finanziario all’industrializzazione, che
pure non è mancato e che ha ostacolato i nuclei di borghesia agraria più moderna e fattiva, il fatto centrale consiste in una più radicale «rinuncia» ad utilizzare
nel processo di ammodernamento del paese le potenziali risorse umane, economiche, politiche ed intellettuali del Mezzogiorno. È in questa forma che l’esistenza della questione meridionale ha fatto sentire il suo peso negativo lungo
tutta la storia nazionale7.
Salvadori, Il mito cit., p. 22.
Cfr. i saggi di Rosario Romeo su Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959; e quelli di Luciano Cafagna di quegli anni, ora raccolti nel volume Dualismo e sviluppo nella storia
d’Italia, Marsilio, Venezia 1989.
7
Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., p. VI. Può essere interessante un testo successivo
(1974) di Villari, che interviene soprattutto sulle tesi di Cafagna: L’interdipendenza tra Nord
e Sud, in Id., Mezzogiorno e democrazia cit., pp. 1-29.
5
6
23
Luoghi e identità
Questa rinuncia è politica e sociale quanto economica. Il meridionalismo – pur in parte ridimensionato – rimane per Villari un momento essenziale della storia d’Italia, il discorso sullo stato della nazione
senza il quale non potremmo dare «un giudizio storico sui caratteri e
sulla composizione della classe dirigente, sulla natura delle istituzioni
nate dal Risorgimento, sul processo di formazione sociale e politica
delle forze di opposizione»8. Qui abbiamo una disciplina o tendenza
che si vuole critica e di opposizione, il livello forse immaturo ma comunque importantissimo di riformismo «alto», il terreno di elezione di
una tradizione di impegno civile della quale, pur criticandola, gli intellettuali gramsciani dell’età repubblicana amano sentirsi i continuatori.
Nei volumi di Salvadori e di Rosario Villari le espressioni «questione meridionale» e «meridionalismo» vengono usate promiscuamente.
Ho già detto all’inizio che questa identificazione nasconde essa stessa
un problema, che i primi interpreti della questione meridionale non
usavano definire se stessi meridionalisti. Certo non lo facevano gli illuministi cui ne Il Sud nella storia d’Italia sono affidate le «premesse»
settecentesche del dibattito; ma, almeno per quanto posso capire dalle
loro opere maggiori, non lo facevano neppure Pasquale Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato9. Antonio Salandra, polemizzando garbatamente con i suoi amici di «Rassegna settimanale», li chiamava – alla tedesca – «socialisti sentimentali» o socialisti della cattedra10. Ancora nel
1910, tra gli analisti della questione meridionale, Arturo Labriola citava
solo Colajanni e Nitti, definendoli «economisti pratici», non meridionalisti11. Gaetano Salvemini ebbe a confessare che fino al 1910 gli era
ignoto il pensiero di Fortunato, e prima ancora, nel 1899, riferiva come
un paradosso, atto a divertire i lettori dell’«Avanti!», il fatto di essersi
scoperto d’accordo con Sonnino sul suffragio universale: evidentemente né lui né i suoi lettori ritenevano allora così ovvio che l’intellettuale
radicalsocialista e il leader dello schieramento conservatore dovessero o
potessero far parte entrambi di una medesima corrente12.
Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., p. VII.
P. Villari, Le lettere meridionali, a cura di F. Barbagallo, Guida, Napoli 1979 (I ed.
1875), che pure secondo Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia cit., p. 105, «segnano l’atto di nascita, nel 1875, del meridionalismo liberale»; L. Franchetti-S. Sonnino, Inchiesta in Sicilia, Vallecchi, Firenze 1974 (I ed. 1876); Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano cit.
10
Lettera di Salandra e risposta redazionale del settembre 1878, in Villari, Il Sud nella
storia d’Italia cit., pp. 141-60.
11
A. Labriola, Storia di dieci anni (1899-1909), prefazione di N. Tranfaglia, Feltrinelli,
Milano 1975 (I ed. 1910), pp. 100 sgg.
12
G. Salvemini, Riepilogo (1955), in Id., Movimento socialista e questione meridionale, a
cura di G. Arfè, Feltrinelli, Milano 1973, p. 672; e Id., L’intervista coll’on. Sonnino sostenitore
dei diritti popolari, in Id., Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura
8
9
24
Lupo, Storia del Mezzogiorno
Lo stesso Salvemini dall’America, dov’era esiliato da tanti anni, spedì
nel 1945 una lettera a Dorso in cui prendeva atto dell’intenzione, da questi
comunicatagli, di pubblicare un periodico «meridionalista»: così, tra virgolette e dimostrando qualche perplessità (lo ricollegava alla richiesta di
leggi speciali), Salvemini citò il termine quasi fosse la prima volta che lo
sentiva13. Forse lo aveva dimenticato. Infatti di meridionalismo si era parlato quanto meno negli anni venti con Dorso e Gramsci. Però, mentre
Dorso fa un uso del termine analogo a quello divenuto poi canonico (Fortunato e De Viti De Marco sono meridionalisti e «isolati»14), il leader comunista nel suo allora inedito Alcuni temi sulla quistione meridionale
(1926) ci riserva qualche sorpresa. Solo un accenno per ora, perché su questo torneremo più avanti. «Meridionalista» (ancora tra virgolette) viene
definita «la cricca degli scrittori della cosiddetta scuola positivista» (Ferri, Sergi, Niceforo, Orano), che in ogni rassegna del dopoguerra seguente sarà collocata sul versante opposto, nella schiera dei razzisti antimeridionali messi alla berlina da Colajanni. Croce e Fortunato sono detti
«operosi reazionari» e intellettuali del blocco agrario meridionale – dunque «panitaliani» (così nei Quaderni) e non meridionalisti. Le note apposte al testo gramsciano del 1926 da Franco De Felice e Valentino Parlato, quarant’anni dopo (1966), rimetteranno le cose a posto: Niceforo e
soci saranno definiti «esponenti dell’indirizzo antropologico», e Fortunato «importante meridionalista» seppur conservatore15; nella versione
del meridionalismo divenuta canonica Croce non sarà molto preso in
considerazione, e nessuno oserà ricondurre Fortunato al blocco agrario.
Veramente non so se questi problemi filologici legati al termine meridionalista-meridionalismo siano stati mai considerati dagli studiosi.
Manca nel genere letterario «antologia della questione meridionale»
l’esposizione del criterio per cui agli autori presi in esame o antologizzati viene attribuita la qualifica di meridionalista, e in sostanza anche la
spiegazione del che cosa si intenda con questa parola: la distinzione tra
ala liberale (o conservatrice) e ala democratica implica appunto, soltanto, una differenza all’interno della stessa corrente, la cui stessa esistenza
in quanto tale andrebbe dimostrata.
di E. Apih, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 15-8.
13
Lettera a G. Dorso del 15 agosto 1945 ora in Salvemini, Movimento socialista cit., pp.
619-21.
14
G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino 1955 (I ed. 1925), p. 120.
15
A. Gramsci, Alcuni temi sulla quistione meridionale, in Id., La questione meridionale, a
cura di F. De Felice e V. Parlato, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 134, 136 e passim. Fortunato
e Croce sono detti «panitaliani» nei Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi,
Torino 1975, vol. III, p. 2022.
16
G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi,
25
Luoghi e identità
Il punto mi pare, invece, centrale: per gli storici di fine Novecento
non può essere ininfluente sapere come i gruppi nominano, o non nominano se stessi. D’altronde, per tutto quello che ho detto prima,
nemmeno gli storici gramsciani degli anni cinquanta-sessanta si sarebbero accontentati di una definizione del meridionalismo come movimento in difesa di una parte del paese, gruppo di pressione di tipo regionalista. Essi, ad esempio, non pensavano nemmeno di inserirvi gli
esponenti della Sinistra storica (Crispi), e tanto meno quelli della «sinistra giovane», raggruppamento soprattutto meridionale che con le
sue vittorie elettorali del 1874 e del 1876 portò, com’è noto, alla prima
importante svolta politica nella storia dell’Italia unita. Questo gruppo
si schierò in difesa della proprietà del Mezzogiorno nel riparto delle
imposizioni fiscali e nel richiedere maggiori investimenti pubblici nel
campo delle infrastrutture; rivendicazione in verità legittima dopo che
un ventennio di espansione economica aveva di molto allargato la produzione e il commercio dei prodotti agricoli nel Sud, ma che apparve
a molti contemporanei segno di acrimonia regionalistica, sintomo di
un abbassamento del tono della vita politica. Si trattava sì di riformismo, privo però dell’afflato alto e sociale attribuito al meridionalismo;
nei bei libri pubblicati nel 1956 da Giampiero Carocci e da Giuliano
Procacci, altri importanti esponenti del gruppo degli storici gramsciani, traspare un giudizio piuttosto negativo e limitante su questa Sinistra «proprietaria» e meridionale assurta al governo della nazione16.
Componente essenziale di ogni puzzle meridionalistico è invece
Fortunato, che peraltro non a torto Gramsci dipinge come esponente
del blocco agrario. Si tratta infatti del rampollo di una famiglia di affittuari lucani, divenuti nella prima parte del secolo grandi proprietari e
grandi funzionari borbonici, che come tanti altri rentiers spende a Napoli, vivendo da signore, i denari accumulati dal fratello Ernesto in
aziende gestite con il sistema della cerealicoltura estensiva e dell’allevamento transumante, poi migliorato secondo il modello di lenta intensificazione colturale che caratterizza alcune parti del latifondo meridionale tardo-ottocentesco. Egli difende la razionalità di questo tipo di organizzazione economico-agraria, riportandola ai fattori naturali di inferiorità dell’agricoltura «secca» del Sud, con un ragionamento peraltro
non molto differente da quello del marchese Antonio di Rudinì17, che
Torino 1956; G. Procacci, Le elezioni del 1874 e l’opposizione meridionale, Feltrinelli, Milano
1956.
17
A. di Rudinì, Terre incolte e latifondi, in «Giornale degli economisti», 1, 1895, pp. 141231.
18
Fortunato, Introduzione a E. Azimonti, Il Mezzogiorno agrario quale è, Laterza, Bari
26
Lupo, Storia del Mezzogiorno
in genere viene dalla storiografia etichettato come apologeta del latifondo. In questa prospettiva Fortunato si dichiarerà nei primi anni
del Novecento contrario ai progetti nittiani di legislazione tesa a favorire irrigazione e bonifica, giudicandoli inutili e costosi, e nel dopoguerra al «semplicismo analfabeta della quotizzazione» del latifondo
portata avanti dal movimento contadino18. La sua idea di politica economica è semplice e corrispondente a quella liberista delle élites agrarie di metà Ottocento: meno tasse, bilancio pubblico al minimo per
favorire la circolazione del capitale, libero scambio. Anche la sua attività politica si colloca in questo contesto. Siamo davanti a un grande
notabile che per questa sua qualità sociale viene eletto ininterrottamente al parlamento dal 1880 in poi, e che si può permettere posizioni
personali e coraggiose anche perché, credo, sa che in ogni caso i suoi
concittadini lo confermeranno nel suo seggio, magari a prescindere da
esse; il meccanismo del collegio uninominale, che privilegia tale contatto personale tra deputato, grandi elettori e cittadinanza, viene da lui
difeso contro ipotesi di riforma proporzionalista19. Spesso lo si dice un
conservatore, anche se la sua battaglia per l’allargamento del suffragio,
che vorrebbe universale, indica la sua apertura ai principi della democrazia; e poi bisogna dire che, contrariamente a molti conservatori e a
qualche radicale, egli conferma in ogni occasione la sua fiducia nelle
pubbliche libertà e nella centralità delle istituzioni rappresentative,
non confondendo la critica al parlamentarismo con quella al parlamento. Perciò, con grande coerenza, in tarda età scriverà e parlerà
contro il fascismo. Da gran signore e da uomo onesto, critica aspramente il malcostume politico prevalente nel Sud e in particolare le
prepotenze, le illegalità perpetrate dalla borghesia nell’amministrazione degli enti locali. Peraltro la medesima borghesia paesana viene da
lui accusata di agitare strumentalmente la questione demaniale attizzando così gli odii popolari contro i grandi proprietari20; e qui, forse,
persino questo grande difende un più ristretto interesse di classe.
Insomma, Fortunato non esprimeva una chissà quale tendenza radicale di opposizione, né un pensiero sotterraneo e minoritario, né un
altro Mezzogiorno «nascosto» contrapposto al Mezzogiorno reale.
1921, p. VII; ma cfr. anche la lettera riportata ivi, pp. 189-91. Si veda anche E. Calice, Ernesto
e Giustino Fortunato, De Donato, Bari 1982.
19
Fortunato, Scrutinio di lista, discorso parlamentare del 25 marzo 1881, in Id., Il Mezzogiorno e lo Stato italiano cit., pp. 71-95.
20
Fortunato, La questione demaniale nell’Italia meridionale, in «Rassegna settimanale»,
2 novembre 1879, poi in Id., Il Mezzogiorno cit., pp. 55-69.
21
Fortunato, Il Mezzogiorno cit., p. 12.
27
Luoghi e identità
Egli voleva rappresentare, come scrisse ai propri elettori, «ciò che noi
meridionali siamo davvero»21, certo attraverso il filtro del personalissimo equilibrio di giudizio, della sua particolare severità intellettuale e
morale. Era espressione del potere sociale e del sistema politico meridionale, era un membro delle classi dirigenti del Sud, eppure sapeva
trovare forti e convincenti accenti autocritici. Più da lontano guardavano le cose altri membri del gruppo della «Rassegna settimanale».
Pasquale Villari era un intellettuale-politico napoletano emigrato a Firenze già dopo il 1948. Franchetti e Sonnino erano due giovani brillanti esponenti dell’alta borghesia toscana, che sarebbero voluti andare
in Romagna per dimostrare agli italiani l’esistenza della questione sociale, ma che poi, pressati dall’emergenza politica, preferirono la Sicilia. Pur da questi diversi punti di osservazione, tutti costoro erano accomunati dalla critica alle classi superiori, che nel Sud rappresentavano al massimo grado i difetti delle classi superiori italiane, poco sollecite degli interessi dei loro contadini, chiuse in un mondo di fazioni e
di piccoli interessi, troppo lontane da quella che avrebbe dovuto essere la classe dirigente di una grande nazione.
Così, mettendo in pratica la grande lezione positivistica per cui la
realtà va conosciuta de visu, non attraverso la mediazione libresca,
Franchetti e Sonnino fecero il viaggio che diede origine ai due volumi
dell’Inchiesta in Sicilia. Nel primo, Franchetti affronta il tema della
politica e dell’amministrazione locale, descrivendo una classe dirigente
abituata a considerare le istituzioni strumento di sopraffazione, impregnata di spirito feudale, incapace di sollevarsi fino alla concezione
moderna della cosa pubblica, di comprendere cioè che l’esercizio del
potere deve passare attraverso l’impersonalità della legge, che gli egoismi dei ceti superiori vanno temperati da una paterna sollecitudine per
gli interessi dei ceti subalterni. Nel secondo, Sonnino tratta della condizione contadina, critica come iniqui i patti agrari, propone la mezzadria toscana quale strada obbligata per conseguire un abbassamento
del tasso di violenza e di conflitto nella relazione tra le classi.
Di un contesto sociale, quello siciliano, affatto inadatto ai principi
liberali sui quali il mondo civile si basa, il «comportamento mafioso»
appare a Franchetti l’elemento rivelatore, allarmante e ributtante. I difetti dei ceti superiori si riflettono infatti sui ceti inferiori, e tutti indistintamente sono portatori di tale virus. Essendo per lui «i Siciliani
d’ogni classe e ceto [...] ugualmente incapaci d’intendere il concetto del
Diritto», essi vanno trattati come malati che si lamentano ma che «non
22
Franchetti, Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia, in Franchetti-Sonnino,
28
Lupo, Storia del Mezzogiorno
si rendono conto del come e del perché» del loro male; infatti non possono «intendere il fine ultimo dei provvedimenti presi o da prendersi».
Lo Stato non deve utilizzare nessuno dei canali di comunicazione che
offre questa società infetta: a nessun livello il suo personale va reclutato
tra i siciliani, e naturalmente, per «portare la Sicilia alla condizione di
un popolo moderno», il governo non deve «in niun caso» tenere conto
dei desideri, delle proposte, soprattutto delle proteste dell’opinione
pubblica e dei deputati isolani22.
Queste conclusioni di Franchetti – in genere prudentemente ignorate dalle antologie sulla questione meridionale – suscitano proteste
nell’opinione pubblica siciliana, tra i collusi con la mafia, tra i difensori dell’onore regionale offeso, o soltanto tra gli elettori della Sinistra
che si candida al governo della nazione; si tratta peraltro della coda di
una polemica ben più vasta, che già aveva sconvolto l’isola allorché
Minghetti (1874), per tutelare la pubblica sicurezza, aveva proposto
leggi repressive da applicarsi solo in «alcune» regionali. Da Sud si era
risposto che sin dal 1861, col pretesto della criminalità, il Mezzogiorno era oggetto di un regime «d’eccezione», ovvero di occupazione militare e di sospensione dei diritti statutari, che con questi mezzi il governo intendeva frenare il fiume dell’opposizione politica meridionale.
In effetti c’è uno stretto rapporto tra il discorso di Franchetti e quello,
dualistico, individuato dalla Destra postunitaria, dai suoi politici, dai
suoi funzionari e dai suoi generali che, pur predicando la teoria del
«discentramento amministrativo» e dell’autogoverno dei proprietari,
avevano preferito il centralismo e spesso anche le amministrazioni militari perché convinti dell’immaturità delle classi dirigenti, specialmente meridionali.
Siamo nella logica cui si è accennato all’inizio di questo saggio:
quella di un discorso sulla questione meridionale tutt’altro che meridionalista.
3. La scoperta del sociale.
Franchetti sembra soprattutto preoccuparsi di un processo di permeabilità del governo alle cricche e alle fazioni che si realizza attraverso i meccanismi della rappresentanza politica; come fa Pasquale TuInchiesta cit., pp. 219-24. Ma su questo rimando anche alla mia Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1996, pp. 73 sgg.
1
Questa invece era la tesi polemica di Salvemini, per cui il giovane Sonnino del 1875
29
Luoghi e identità
riello, anche lui collaboratore della «Rassegna settimanale», talora catalogato come meridionalista ma appartenente piuttosto al filone del
pensiero illiberale e antiparlamentare; come fanno i tanti che parlano
non di questione meridionale ma del peso eccessivo delle clientele,
delle elezioni, degli istituti rappresentativi, dei partiti, nella vita politica nazionale.
Come si è visto, trovare un punto di contatto tra la critica di Franchetti e l’interesse, la spinta, la cultura della società meridionale, è cosa
molto più ardua che nel caso di Fortunato. Anche Sonnino, proponendo la regolamentazione per legge dei patti agrari, non sembra certo
rispondere alle preferenze della classe dirigente meridionale, e peraltro
rischia di alienarsi larghissimi settori del riformismo nazionale. Certamente egli condivide i timori per gli eccessi della rappresentanza politica: suo sarà di lì a qualche anno il motto «torniamo allo Statuto», suo
il maggiore contributo progettuale al tentativo liberticida di Pelloux.
Chi nelle ricostruzioni del meridionalismo ha imparato a conoscere
l’adamantino riformatore sociale del 1875 avrà peraltro qualche difficoltà a riconoscerlo in questa veste reazionaria di fine secolo. Ma ancor di più sarà difficile collocare l’antico fustigatore delle classi dirigenti siciliane nel ruolo del leader dello schieramento conservatore
meridionale e settentrionale, genericamente agrario, che egli assumerà
agli inizi del Novecento; non certo sulla sua antica prospettiva di
riforma dei patti agrari, ma su quella degli sgravi fiscali in favore della
proprietà fondiaria. Scartando senz’altro l’idea che un tal personaggio
possa essere letto all’insegna della categoria del trasformismo1, bisognerà concludere che forse non esiste il distacco che tanti presumono
tra le ipotesi di riforma, o di autoriforma, e le classi dirigenti sia settentrionali che meridionali; che lo choc iniziale, la terapia d’urto praticata nel 1875 da un gruppo di intellettuali, dotati di ingegno e carattere, sia già stato assorbito, a cavallo tra i due secoli, da una cultura politica liberale resa attenta all’elemento sociale, anche in conseguenza del
cruciale allargamento della partecipazione collettiva alla vita della nazione verificatosi in quegli anni. Antonio Salandra, il grande agrario e
giurista pugliese, il membro del gruppo della «Rassegna meridionale»
che nel 1878 aveva criticato l’estremismo di Sonnino, finirà per teorizzare anche lui i doveri «sociali» della proprietà fondiaria, per schierar«non aveva bisogno di pagare col suo appoggio i voti dei latifondisti e dei camorristi meridionali», come invece faceva il Sonnino politicante di vent’anni dopo: Salvemini, La questione
meridionale e il federalismo, in «Critica sociale», settembre 1900, ora in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., pp. 157-91, in part. p. 183.
2
Salvadori, Il mito cit., p. 63.
30
Lupo, Storia del Mezzogiorno
si contro l’assenteismo dei suoi pari, e per assumere la guida dello
schieramento conservatore e agrario italiano.
Dunque non si può, riferendosi al meridionale Fortunato come al
toscano Sonnino, descrivere i cosiddetti meridionalisti liberali quali intellettuali destinati a permanente opposizione, che formulano un discorso «poco incidente sulla politica italiana»2. Già nel 1978, Rosario
Villari (autocriticamente?) mostrerà di essere ben conscio del fatto che
essi non sono
soli e inascoltati veggenti in una terra di ciechi né utopisti staccati dal contesto
dei conflitti reali, come, secondo i casi, i giudizi correnti li dipingevano e continuano ancor oggi a dipingerli. [...] A volte essi ebbero anche un’influenza
sulle concrete decisioni e sugli orientamenti delle forze dirigenti3.
Forse però nemmeno tale considerazione è sufficiente perché almeno alcuni di essi sono parte delle forze dirigenti. Si pensi solo a
quelli che divengono presidenti del Consiglio, Sonnino e Nitti, nonché – tra i collaboratori della «Rassegna settimanale» – Salandra e di
Rudinì.
Con questo non voglio certo negare la portata innovativa della
questione meridionale; ma anzi collocarla nel suo contesto e dimostrarne l’influenza. La discussione sul Mezzogiorno apre infatti il
mondo della politica alle influenze dell’analisi sociale, passaggio necessario perché gli italiani possano conoscere se stessi uscendo dai limiti di una cultura retorico-umanistica che forniva loro – secondo le
parole di Fortunato – «nessuna precisa nozione del passato, nessuna
vera coscienza del presente»4. La lezione fortunatiana sul ruolo dei
fattori naturali, geografici e pedologici, contraddice in effetti il mito
antico della feracità naturale del Sud, mostra i vincoli che attardano il
suo sviluppo, apre le porte alla grande tradizione italiana della cultura
agraria che condurrà a Ghino Valenti, a Serpieri, a Sereni, a Rossi-Doria. L’inchiesta «privata» di Franchetti e Sonnino vivifica l’idea positivista nella pratica della ricerca sul campo; e si pone come il logico antecedente di quella «ufficiale», cioè parlamentare, sulle condizioni dei
contadini, nella quale gran parte avrà la riflessione di un altro illustre
interprete della questione meridionale, Nitti (1910). Il meridionalismo, se davvero esistesse, rappresenterebbe non già il segno dell’incapacità della cultura liberale italiana, ma – al contrario – ne esprimerebbe la caratteristica duttilità, la forte capacità di rinnovamento. La tratIntroduzione a Mezzogiorno e democrazia cit., p. VIII.
Fortunato, La questione meridionale e la riforma tributaria cit., p. 543.
5
E si veda anche soltanto il grande incipit sonniniano dei Contadini in Sicilia, in Fran3
4
31
Luoghi e identità
tazione sonniniana dei contratti agrari si pone come modello difficilmente superabile di demistificazione dell’idea liberista che riconduce
agli automatismi del mercato ogni prospettiva di miglioramento della
condizione delle plebi5. È uno straordinario coraggio intellettuale,
quello che porta gli uomini della «Rassegna settimanale» a riportare il
problema della mancanza di una «classe media» al duro nocciolo
dell’oppressione di classe attorno al quale prosperano i ceti dirigenti
locali. Caso in apparenza sorprendente, ma non così raro nel pensiero
europeo a cavallo tra i due secoli, sono i moderati più che i progressisti a scoprire la «questione sociale», a chiedere allo Stato la tutela delle
classi inferiori come garanzia delle stesse basi della convivenza civile.
Ma lo Stato invocato è pur sempre una creatura dei ceti superiori. Se
questi conservatori – in qualche caso grandi proprietari essi stessi – finiscono per puntare sul suffragio universale lo fanno perché sono
convinti che in esso «c’è il motore come il freno», perché lucidamente
ritengono che il rafforzamento delle istituzioni monarchiche e la costruzione della nazione debba passare attraverso il blocco tra la proprietà «riformata» e i contadini non più sottoposti a un brutale sfruttamento, nel quale l’azione civilizzatrice dello Stato sia rivolta verso
gli uni e verso gli altri. E questo è effettivamente il «mito del buongoverno» richiamato da Salvadori.
Possiamo catalogare questi personaggi alla voce «socialismo della
cattedra», o nazional-laburismo, ma in ogni caso dobbiamo considerare la loro forte propensione nazionalistica, sempre pungolata dalla
frustrazione per la debolezza della nuova compagine statuale nel confronto con concorrenti più forti ed agguerrite. Proprio dai disastri della guerra del 1866 Pasquale Villari ricava la sicurezza che un paese
composto da pochi arcadi e milioni di analfabeti non può essere che
debole, in guerra come in pace, perché manca in esso il vincolo della
vera solidarietà nazionale: «Senza liberare gli oppressi, non aumenterà
fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la
ricchezza necessarie ad una grande nazione»6.
L’intreccio tra la questione nazionale, la questione sociale e la questione meridionale è evidente nella discussione sul brigantaggio postunitario, che rappresenta un momento fondante della nostra problematica. Quella era stata la prima «rivelazione» clamorosa e scandalosa
dell’insufficienza della retorica risorgimentale nello spiegare il rapporchetti-Sonnino, Inchiesta cit., pp. 4-7.
6
Villari, Le lettere meridionali cit., p. 67.
7
C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1975.
32
Lupo, Storia del Mezzogiorno
to tra Stato, classi dirigenti e società, nonché la relazione tra Nord e
Sud. Alla nuova classe dirigente italiana, allo strato sottile dei ceti colti
che formavano l’opinione pubblica nel primo periodo postunitario,
toccava il problema di spiegare la sanguinosa guerriglia del 1861-63, la
resistenza di massa contro l’ordine sociale e contro i valori patriottici,
i cafoni che vilipendevano la proprietà e bestemmiavano la patria. I
funzionari e i militari impegnati sul campo non ebbero alcun pudore
nell’assimilare il Mezzogiorno a una specie di Affrica ribelle perché
barbara e selvaggia, governabile solo con la forza; tesi in fondo non
incompatibile con quella prevalente a livello politico, sia a destra che a
sinistra, laddove sia pure con diversi accenti i liberali ponevano piuttosto sotto accusa gli intrighi delle corti e del Vaticano, nonché l’eredità materiale e spirituale del vecchio regime, giudicato colpevole di
aver volontariamente corrotto le plebi, di aver alimentato le discordie
civili e la criminalità per giustificare il dispotismo.
Alcuni anni dopo, l’esplodere della questione meridionale intervenne a mutare i termini della discussione. Perché, si chiese Pasquale
Villari, «abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi?» E perché il contadino si trasforma in brigante? Perché – era la risposta del riformatore
sociale – non può sentire il valore dei concetti di patria e di legge una
plebe rurale composta da proletari e analfabeti, oppressa ferocemente
dai proprietari, privata nei fatti dalla prepotenza delle classi superiori
del proprio legittimo diritto di accesso al vasto patrimonio demaniale,
di cui la legge avrebbe dovuto garantire la distribuzione agli indigenti.
Il brigantaggio indica il sordo muggire della questione sociale, forse
prelude allo sviluppo di movimenti anarchici o comunisti – spauracchio spesso usato dai collaboratori della «Rassegna settimanale» per
convincere i propri pari a portare attenzione al mondo che sta intorno
e sotto di essi.
Sia qui consentito un brusco salto in avanti. Negli anni a venire, la
questione contadina e meridionale rappresenterà sempre per la cultura
italiana il più tipico veicolo di «scandalo» sociale; e proprio per questo
si avrà l’effetto (non so quanto positivo e realistico) dell’identificazione dell’oppressione di classe, della questione sociale e della questione
criminale con l’assenza dello sviluppo. Il problema della relazione tra
il mondo rurale meridionale e la nazione verrà clamorosamente alla ribalta della storia d’Italia in una seconda occasione, all’atto della caduta
del fascismo e del fallimento del modello fascista di nazionalizzazione
delle masse. I contadini lucani magistralmente raffigurati tra la fine del
1943 e l’inizio del 1944 da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli appaiono abissalmente lontani dall’idea di Stato e di nazione, nella versio33
Luoghi e identità
ne retorica fascista come in qualsiasi altra versione storicamente data,
comunque «espressione di una civiltà a loro radicalmente nemica». I
loro unici possibili eroi sono i briganti, «le sole guerre che tocchino il
loro cuore [...] guerre infelici e destinate sempre ad essere perse; feroci
e disperate, e incomprensibili per gli storici»7. Levi si riferisce proprio
alla memoria popolare del brigantaggio postunitario, anche se si può
pensare che egli sia immerso nell’atmosfera della guerra mondiale che
si combatte mentre egli scrive, nella prospettiva di un nuovo brigantaggio che torna a funestare il Sud.
Per molti di noi – scriverà Norberto Bobbio nel 1955 richiamandosi a Levi – il crollo del fascismo e la guerra di liberazione sono stati occasione per la
scoperta di un’Italia segreta e nascosta [...] dei poveri, dei diseredati, degli oppressi, di coloro che non erano mai stati protagonisti di storia etico-politica,
né tanto meno di Kulturgeschichte, che nella storiografia come narrazione
dell’individuale non potevano trovar posto [...] [se non] attraverso nomi collettivi come contadini, braccianti, plebe, masse, soldati, banditi8.
Ancora qualche anno (1959), e questi banditi diverranno nell’analisi
di Hobsbawm – largamente basata sul caso italiano e sul dibattito politico-culturale italiano – i primitive rebels, l’espressione di una rivolta
contadina romantica e ingenuamente classista9. In generale, il dibattito
di questi anni, che vede l’intervento di altri grandi intellettuali come il
letterato Rocco Scotellaro, l’antropologo Ernesto De Martino, di un
nugolo di scienziati sociali provenienti da ogni parte del mondo, tende
a interpretare il mondo contadino meridionale come una società chiusa,
resistente al mutamento, profondamente statica10. Un ponte ideale collega questo dibattito a quello tardo-ottocentesco: la scoperta di un substrato sociale difficilmente penetrabile dal mutamento politico – la Resistenza come a suo tempo il Risorgimento, la riforma agraria come già
la redistribuzione dei beni demaniali – ciò che rende evidente, per contrasto, la vischiosità di fattori «nascosti». Anche ora, come già in età liberale, l’inchiesta sociale «sul campo» si colloca (seppure in forme e
con tecniche diverse) al centro della scena a confutare le verità convenzionali della retorica nazionale. Nel secondo dopoguerra è la sinistra,
destinata dopo il 1948 a un ruolo di permanente opposizione, a riscoprire la dimensione meridionale e sociale. Nel secondo Ottocento era
stata invece la parte più sensibile della classe dirigente a fare autocritica
Introduzione a D. Dolci, Banditi a Partinico, Laterza, Bari 1955, p. 8.
E. J. Hobsbawm, I ribelli, Einaudi, Torino 1966.
Ma si veda Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, in Id., Mezzogiorno senza meridionalismo cit., pp. 201-69.
11
Su cui cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964, che
8
9
10
34
Lupo, Storia del Mezzogiorno
sui modi della costruzione dello Stato unitario. A più riprese, lungo
tutta la storia culturale italiana e in particolare dopo ogni grande crisi
nazionale, la camorra la mafia e il brigantaggio vengono rappresentati
come la più clamorosa manifestazione del malessere sociale: nell’Ottocento come nel Novecento si ribadisce l’impressione (o l’illusione) di
una storia sempre uguale a se stessa, ovvero di una mancanza di storia.
Si tratta di due stagioni culturali di enorme forza innovativa. Ciò
non vuol dire che il passar del tempo sia vano, che la questione contadina mantenga davvero intatti i suoi caratteri tra i sue secoli. La vicenda
della mafia dimostra ad esempio come certi fenomeni giudicati arcaici,
da Hobsbawm e da tanti altri, possano acclimatarsi benissimo nella
modernità. E poi, veramente la criminalità del Mezzogiorno può ridursi in ogni tempo alla formula, un po’ vuota e retorica, dell’eterna lontananza dei contadini prima (delle masse poi) dallo Stato?
A questo punto occorre tornare al grande brigantaggio postunitario11. È dubbio che nella fattispecie lo stesso termine briganti sia da considerarsi corretto, visto che i fatti del 1861-63 ripropongono lo schema
della guerriglia popolare del 1799 e del periodo francese, insomma la
tradizione sanfedista. Quest’elemento congiunturale, cioè politico, può
essere davvero ignorato, relegato a mero epifenomeno di una non meglio specificata «lotta di classe»12? Perché chiamare sempre in causa la
questione demaniale – come facevano con grande forza polemica Pasquale Villari e Fortunato, come fanno ancor oggi molti storici – che
nei fatti non compare quale causa di azioni brigantesche o quale origine
delle carriere brigantesche? Il Regno delle due Sicilie era il maggiore
degli Stati italiani preunitari, avviatosi seppur lentamente verso una
struttura moderna con la recezione dei modelli amministrativi francesi:
non c’è ragione per non concedere che in esso si sia sviluppato un patriottismo «da piccola nazione», oltre che un senso della fedeltà dinastica. Ed in effetti numerosi furono tra i capi-briganti gli ex-sottufficiali
dell’esercito borbonico, gli esponenti dei ranghi inferiori della vecchia
amministrazione; frequente nelle loro «confessioni» ai magistrati il senso di un’ingiusta umiliazione, il desiderio di reagire alla tracotanza dei
vincitori13. Come spiegare, senza considerare quest’elemento, l’esauria più di trent’anni dalla sua pubblicazione rimane il testo fondamentale.
12
Come tra gli altri sostiene T. Pedio, Reazione e brigantaggio in Basilicata, in «Archivio
storico per le province napoletane», 1983 (numero monografico dedicato al brigantaggio), pp.
223-86.
13
Si veda, tra gli altri, il caso del sergente Romano, capobanda pugliese, ricostruito da A.
Lucarelli, Il brigantaggio politico nel Mezzogiorno, Longanesi, Milano 1968.
14
Fortunato a N. Rosselli, 4 aprile 1927, in G. Fortunato, Carteggio, a cura di E. Gentile,
35
Luoghi e identità
mento del fenomeno brigantesco dopo il 1865? Vanno poi considerate
le differenze regionali. Il fatto che in età postunitaria manchi un grande brigantaggio in Sicilia, già area forte del movimento antiborbonico,
rimanda con ogni evidenza alla diversa tradizione politica delle due
parti del Regno delle due Sicilie. Solo le circostanze del conflitto risorgimentale, la vicinanza anche geografica con l’esiliata corte borbonica e
con il Vaticano, possono spiegare la forza delle bande in Abruzzo, in
Campania, in Basilicata, nelle Puglie all’indomani dell’Unità, visto che
in età liberale queste regioni risulteranno abbastanza immuni dal banditismo (sociale o meramente criminale), mentre ben più vivace questo
sarà sino alla prima guerra mondiale – e oltre – in Calabria, in Sardegna
e in Sicilia, proprio le regioni che erano state assenti dal «grande» brigantaggio del 1861-63.
Non sembri che si voglia esagerare l’importanza del legittimismo
meridionale, o il consenso verso il modello amministrativo borbonico,
già travolto dalla sua strutturale incapacità di rappresentare politicamente élites, aree, regioni intere. Però quella del grande brigantaggio è
una vicenda che non può non essere considerata politica, a meno che
gli storici attuali non vogliano negare il diritto di un’opzione politica
alle plebi, come facevano nell’Ottocento i membri delle classi superiori
considerando il brigantaggio «frutto di secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali» – secondo l’idea tenuta ferma sino alla fine da Fortunato14.
Qui è d’obbligo una riflessione sui concetti usati dai cosiddetti meridionalisti dell’Ottocento. Per essi il sociale non rappresenta la base e
il retroterra del politico (com’è nello schema marxisteggiante che ci è
abituale), ma campo antagonistico ad esso. Una questione è sociale e
non politica: il latifondo, la stessa esistenza di un proletariato, di stratificazioni rigide di classe, rappresentano anomalie, condizioni eccezionali che valgono a spiegare fenomeni altrimenti inspiegabili. Politico è il processo di costruzione della nazione, sociale è l’elemento che
ad esso resiste; e all’inverso il Risorgimento non ha interessato le plebi
perché è stata solo una rivoluzione politica. Così questo primo revisionismo risorgimentale è tutto interno alla stessa ideologia risorgimentale: gli ex-liberali e gli ex-borbonici finiscono per concordare ex
post nella negazione di ogni legittimità alle posizioni antinazionali e
antiunitarie, ciò che risulta più facile relegandole nel campo oscuro del
sociale. Il caso-limite è quello di Fortunato, la cui ossessiva insistenza
Laterza, Roma-Bari 1980, vol. IV, p. 16.
15
Calice, Ernesto e Giustino Fortunato cit.
36
Lupo, Storia del Mezzogiorno
su questo dato non può certo essere valutata appieno dimenticando il
fatto che la sua famiglia di autorevoli esponenti del partito borbonico
fu costretta a fuggire dal natio paese di Rionero in Vulture perché accusata dai liberali di complicità coi briganti15; accusa tanto più credibile in quanto il massimo capo-brigante, Crocco, era stato un dipendente («cavallaro») dei Fortunato, da essi protetto in vari momenti della
sua carriera politico-criminale.
Così la questione meridionale mostra sin dal suo primo apparire il
pregio e il difetto da cui siamo partiti: fa emergere prepotentemente
un enorme problema, stimola cioè la riflessione sulla condizione del
popolo e sulla sua relazione con la nazione; ma come una luce troppo
vivida occulta due elementi importanti nello specifico della storia del
nostro Sud, il legittimismo popolare che fa la sua prova ultima e disperata nello scontro con l’esercito della nuova Italia, la diversità della
tradizione politica nelle varie regioni del Mezzogiorno.
4. Un partito per il Mezzogiorno?
Naturalmente non dobbiamo pensare che nell’Italia tardo-ottocentesca manchino le polemiche regionalistiche; polemiche poco colte,
poco politiche e nondimeno sempre più diffuse, man mano che ci si
avvicina alla fine del secolo, tra nordici e sudici, su chi paga e chi non
paga le tasse, sui barbari e sui civilizzati, su chi può viaggiare in carrozza ferroviaria e chi invece deve ancora muoversi a dorso di mulo,
su chi può godere delle prebende dei pubblici impieghi e chi no. Il
quattordicenne Gaetano Salvemini, viaggiando appunto in treno con
due settentrionali e ascoltando le loro battute razziste sui meridionali
sporchi e barbari, reagisce con un polemico riferimento ai quattrini
estorti dal Nord al Sud; ma non sa di quali quattrini nei fatti possa
trattarsi, e deve rapidamente chetarsi anche per il pizzicotto ammonitore della madre1.
Gli argomenti vengono opportunamente forniti nel fatale anno
1900 da un giovane lucano, che a furia di sacrifici è riuscito a studiare
conquistando alfine una cattedra all’Università di Napoli. Francesco
Saverio Nitti, in un libro (non a caso di grande successo) intitolato
Nord e Sud, sostiene che il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni,
1
2
Salvemini, La questione meridionale e il federalismo cit., pp. 157-8.
F. S. Nitti, Nord e Sud, Torino 1900. Su Nitti cfr. F. Barbagallo, Francesco S. Nitti,
37
Luoghi e identità
perché le politiche del debito pubblico e del prelievo fiscale lo hanno
espropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo borbonico,
perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste del nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati al
Nord, perché gli impiegati sono in maggioranza settentrionali2. Fortunato, che come reduce del gruppo della «Rassegna settimanale» e contemporaneamente come intellettuale napoletano (nonché grande proprietario e deputato lucano) rappresenta forse il maggiore traitd’union tra la prima e questa seconda stagione della questione meridionale, percepisce subito la possibilità che gli argomenti del suo allievo Nitti, alimentando più o meno nascoste nostalgie borboniche, possano inasprire oltre misura gli animi: da qui il suo realistico rinvio alla
vera causa dell’attivo del bilancio del Regno delle due Sicilie – il livello
infimo della spesa pubblica –, il puntiglioso rifarsi alla miseria reale del
Mezzogiorno primo-ottocentesco che nella trasfigurazione ideologica
rischia di trasformarsi nella presunta ricchezza drenata al Nord, il richiamo al grande cammino percorso dopo l’Unità:
La crisi del Mezzogiorno non trae dunque origine dal fatto della sua annessione alla rimanente Italia, come il Nitti per primo è ben lontano dal dire e
dal pensare, ma non come altri, in buona o in mala fede, può facilmente ripetere dietro le sue affermazioni. È accaduto a noi quello che accade ai ciclisti: abbiamo corso troppo, e poco veduto intorno a noi della via percorsa3.
L’argomentare equilibrato di Fortunato non è ovviamente in grado
di cambiare il corso delle cose. Il Nord accelera visibilmente sulla strada dello sviluppo economico, mentre il Sud dopo l’esperienza della
crisi agraria dubita di poter tenere il passo: è questo «effetto di dimostrazione» a creare l’idea del fronte di difesa meridionale e ad indurre
alla ricerca degli argomenti, delle retoriche adeguate, che non potranno
che essere radicali. Non è più il tempo di pudori postrisorgimentali.
Quando io pubblicai il mio libro Nord e Sud – scrive Nitti nel 1903 – sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia. Io pensavo non senza gioia: – Se mi riescisse! In un paese civile non è la discordia d’interessi che si deve temere; essa non può produrre che bene, poi che
stimola l’attività, aumenta il controllo, diminuisce l’abuso. Ciò che si deve temere è la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra4.
Utet, Torino 1984.
3
Fortunato, La questione meridionale cit., p. 560.
4
Nitti, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale, vol.
III, a cura di M. Rossi-Doria, Laterza, Bari 1978, pp. 14-5.
5
Così definito da Nitti stesso, Il partito radicale e la nuova democrazia industriale
38
Lupo, Storia del Mezzogiorno
In effetti questo è proprio il momento adatto per allargare i canali
della partecipazione e dell’informazione. La questione meridionale, divenuta querelle regionalista e protesta antistatale, va a coinvolgere tutto il Mezzogiorno politicamente attivo, i latifondisti come gli impiegati, i maestri di scuola come i commercianti, gli uomini politici della più
varia estrazione. Si forma in questo momento «un movimento per
l’Italia meridionale»5, teso cioè a difenderne gli interessi. L’analisi nittiana non guarda al passato, non vuole fornire argomenti per una polemica separatista, ma intende porre i presupposti per uno spostamento
verso Sud dei flussi della spesa pubblica, usando l’argomento robusto
della riparazione dei torti storici (veri o presunti) subiti dalla parte inferiore della nazione.
A questo fine Nitti propone leggi speciali con cui l’azione statale
lavori ad allargare i confini dello sviluppo, sul duplice fronte del riassetto territoriale e della creazione di infrastrutture, cioè dei presupposti dell’industrializzazione. Viene così varata la legge del 1904 che rivitalizza l’antica vocazione industriale di Napoli. Nello stesso anno una
legge stabilisce in favore della Basilicata agevolazioni pubbliche e sgravi fiscali, secondo un modello poi riproposto per altre regioni. Successivamente, su richiesta dei produttori siciliani di zolfo e di derivati
agrumari che mobilitano le masse in imponenti meetings (è il termine
in uso allora) in difesa della Sicilia oppressa, vengono costituiti il Consorzio zolfifero (1906) e la Camera agrumaria (1908), enti statali, obbligatori, di vendita dei due prodotti; in questi casi la deputazione isolana legifera su se stessa, senza interferenza degli altri deputati, e sembra quasi un’assemblea regionale ante litteram, con buona pace del
presunto centralismo dello Stato liberale. Il governo entra nella discussione solo per garantirsi che non si ecceda nella parte finanziaria. Interessanti le perplessità espresse in queste e in altre occasioni da Nitti.
Per lui la legislazione speciale deve svolgere un ruolo «alto» di riequilibrio delle diseguaglianze territoriali; invece essa diviene l’ennesimo
terreno di contrattazione tra il governo e le classi politiche locali, e gli
«arrivisti professionali» che vanno rapidamente imparando a far uso
della nuova bandiera degli interessi meridionali6. Direi però che non va
(1906), in Id., Scritti sulla questione meridionale cit., p. 439; è interessante notare come l’indice sistematico di questo volume rinvii per ben tre volte al termine meridionalismo, che pure
qui non si riscontra né alla pagina indicata né altrove.
6
Nitti, Il partito radicale cit., p. 439; ma si veda anche il suo discorso parlamentare sulla
Camera agrumaria (giugno 1908), in S. Lupo, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi
nella storia del Mezzogiorno, Marsilio, Venezia 1990, p. 237.
7
Si vedano gli scritti e i discorsi di A. De Viti De Marco raccolti nel volume Un trenten-
39
Luoghi e identità
demonizzata neanche questa funzione, giolittiana più che nittiana,
della legislazione speciale: essa esprime una linea di governo ispirata
non già da un programmatico divide et impera, ma dal tentativo di dare risposta a una domanda segnata da obiettiva frammentazione. Nel
periodo postunitario, nella fase della grande fiducia nell’integrazione
mercantile come veicolo unico del «progresso» economico, città e
paesi chiedevano la strada, la ferrovia, il porto a preferenza del centro
vicino e concorrente. Ora l’interventismo statale favorisce una prima
riaggregazione della domanda politica.
Le discussioni sulle leggi speciali, ancora i dibattiti sulla fiscalità
soprattutto locale, coinvolgono così gruppi d’interesse settoriali e/o
territoriali di base più ampia di quanto avvenisse in passato. Ma un altro grande dibattito scuote il Mezzogiorno di inizio Novecento, quello sui trattati di commercio.
A prendere partito su questo punto, a cercare di formare qualcosa
di simile a un partito, sono i liberisti. Riassumiamo i punti cruciali della loro tesi. Il protezionismo, industriale e cerealicolo, favorisce piccoli ma agguerriti gruppi privilegiati, danneggia i settori esportatori e in
particolare i prodotti dell’agricoltura pregiata (vino, agrumi, mandorle, olio, ortaggi), che secondo la teoria ricardiana dei costi comparati
rappresenta la vera, grande «industria» del Mezzogiorno. Dalla «catastrofe» del 1887 il Sud esce ridotto a «mercato coloniale» dell’industria protetta del Settentrione. Nel tempo, l’esistenza stessa della protezione crea lobby più vaste e poderose, induce ad esempio solidarietà
tra gli imprenditori e gli operai, i quali si impinguano anch’essi a spese
della collettività che paga gli alti salari e la legislazione sociale per loro;
mentre i consumatori tutti e i produttori del Mezzogiorno sono «rovinati». Bisogna che essi si muovano, si organizzino, si facciano sentire: questa è la finalità di tutta l’attività politica e intellettuale di Antonio De Viti De Marco, economista, deputato radicale e grande proprietario viticultore pugliese7.
Dunque per tale via, anche questa volta, la questione meridionale
vuole assumere la veste della questione nazionale. De Viti De Marco si
richiama sempre all’interesse generale (come gli altri liberisti, sia meridionali che settentrionali) e non ha formulazioni nettamente regionaliste come quelle del primo Nitti. Però i liberisti sanno di aver bisogno
dei gruppi di pressione meridionale. Quando a Bari si costituisce
l’«Associazione per la tutela degli interessi meridionali nella rinnovanio di lotte politiche (1894-1922), Roma 1929.
8
F. Papafava, Dieci anni di storia italiana (1899-1909), Laterza, Bari 1913, p. 200.
40
Lupo, Storia del Mezzogiorno
zione dei trattati commercio» (1901), un grande proprietario veneto (e
intellettuale liberista) come Francesco Papafava non ha nessun problema ad esprimere la propria solidarietà:
«Tutela degli interessi meridionali? Brutto nome», diranno i patriotti industriali che sacrificarono le Puglie nel 1887 in nome dell’interesse nazionale.
Bruttissimo infatti. Appunto la bruttezza del nome mi fa pensare che la cosa
sia «bella», nel senso che iniziative di questo genere rivelano un’aperta dialettica degli interessi non mascherata da fumisticherie patriottiche, sempre presenti quando si prendono provvedimenti protezionisti8.
Appunto perché rappresentativa (almeno nelle intenzioni) di un’alternativa generale, la polemica liberista contro l’Italia liberale, ovvero
protezionistica e giolittiana, è quella che meglio si presta a rappresentare in termini radicali l’alternativa meridionalistica. Per questo essa
deve rimanere al centro del meridionalismo neo-gramsciano di Salvadori e Rosario Villari, per quanto essa approdi ad esiti antisocialisti ed
antioperai, per quanto sia rappresentativa di un’alternativa agrarista
manifestamente improponibile, per quanto all’inizio degli anni sessanta del Novecento sia ben chiaro che tutte le sciagure a suo tempo previste dai liberisti non si sono realizzate, che l’industrializzazione di età
giolittiana rappresenta l’antecedente del «miracolo economico». Certo
è difficile trovare un comune filo «meridionalista» che leghi le posizioni dei liberisti di inizio Novecento con quelle stataliste della stagione
precedente, cioè della «Rassegna settimanale». Si consideri anche che
con il nuovo secolo l’elemento della critica alle classi proprietarie va rapidamente perdendo di centralità. Sonnino e Salandra, come si è detto,
procedono su tutt’altra strada. Con lo sviluppo dei movimenti democratici e socialisti, dovrebbe comparire una più radicale critica classista,
ma nella realtà le cose vanno diversamente. I radicalismi classisti cedono rapidamente il campo di fronte all’esigenza del socialismo meridionale di collegarsi a un più vasto spaccato sociale, al più vasto arco degli
interessi locali.
La strada della difesa degli interessi della borghesia produttiva locale oppressa dal centralismo, dallo Stato, dal protezionismo, viene percorsa dai reduci del movimento dei fasci siciliani, con un dippiù di regionalismo isolano che rende sempre difficile applicare l’etichetta meridionalista ai moti politici e intellettuali di questa parte estrema del Sud9.
9
Sul tema rinvio a S. Lupo-R. Mangiameli, La modernizzazione difficile: blocchi corporativi e conflitto di classe in una società arretrata, in La modernizzazione difficile cit., pp. 21762.
10
Salvemini, La questione meridionale e i partiti politici, in «Critica sociale», agosto 1903,
41
Luoghi e identità
Però è questa anche la strada dei riformisti ortodossi come Ciccotti,
degli anarco-sindacalisti come Arturo Labriola, dei riformisti eterodossi come Salvemini. Naturalmente il superiore senso morale, l’aguzzo ingegno e l’inesausta vis polemica di Salvemini mantengono vivo il
filone autocritico della questione meridionale, la denuncia dei caratteri
deteriori del costume politico locale, quell’aspirazione a una rottura
della configurazione oligarchica della vita collettiva che culmina nella
celeberrima battaglia per il suffragio universale. La diffidenza di Salvemini verso la grande proprietà resta forte, ed egli non si mostra particolarmente entusiasta nemmeno della battaglia di Sonnino per gli
sgravi fiscali, giudicata insufficiente a garantire l’interesse del Sud e casomai atta a mantenere artificiosamente in vita il latifondo. La critica
di Salvemini verso gli agrari, la piccola borghesia e la «cosiddetta» opinione pubblica ha radici antiche, ma finisce coll’appuntarsi sull’incapacità di queste forze di schierarsi contro il protezionismo, causa causarum dell’oppressione del Mezzogiorno.
Peraltro, nel momento in cui la piccola borghesia e l’opinione pubblica meridionale volessero fare sul serio contro una politica «ufficiale» che non vuole «salvare l’Italia dal soffocamento a cui la condanna
il parassitismo protezionista», forse varrebbe la pena di solidarizzare
con essa:
E così, con la complicità di tutti, si organizza a breve scadenza una guerra
civile tra Nord e Sud, di cui nel nostro paese, così ricco di guerre civili, non si
è mai vista l’eguale. Perché le proteste comunali della provincia di Lecce segnano nell’agitazione meridionale una nuova fase: non è più la razza maledetta dei contadini che insorge ed è assassinata; è la piccola borghesia commerciante, coltivatrice, professionista che entra nella scena. Ora i fucili, che funzioneranno contro di essa, funzioneranno contro l’unità d’Italia. Il Governo,
corrompendo i capi dell’agitazione, ha potuto provvisoriamente frastornare la
tempesta; ma la nuvola presto si ricostituirà e scoppierà terribile. Perché noi
non vogliamo morire10.
Può apparire sorprendente che un intellettuale di questo rigore morale e intellettuale si faccia trasportare dal crescendo retorico fino a immaginare che la trattativa sui trattati di commercio possa portare solo alla
morte del Sud per mano del governo assassino, alla rottura dell’unità del
paese o alla guerra civile – laddove nulla di tutto questo è nell’agenda
della storia del 1903. Però, se anche un giovane sacerdote democratico
cristiano come Luigi Sturzo prevede (o auspica) una «guerra regionali-
ora in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., pp. 284-94, in part. p. 293.
11
L. Sturzo, Pro e contro il Mezzogiorno (1903), ora in Id., La battaglia meridionalista, a
42
Lupo, Storia del Mezzogiorno
sta» in difesa del negletto interesse del Sud11, evidentemente il liberismo
riesce a fungere da lievito di moltissimi scontenti, funziona come una
poderosa retorica radicale che assume a simbolo malefico del parassitismo protezionista Giovanni Giolitti, e quindi l’Italia «ufficiale» del
nuovo secolo, col suo mediocre riformismo sociale, la sua retorica del
passo per passo, il suo uso sapiente della macchina amministrativa per
sostenere nelle elezioni i candidati amici e combattere quelli avversi.
È però assai dubbio che debba essere assunto a simbolo del protezionismo proprio Giolitti, che ritornava al potere alla fine del 1903, ed
a cui toccava il compito del rinnovo dei trattati commerciali mentre il
protezionismo agricolo si andava ampiamente diffondendo su scala
europea; in una situazione che faceva prevedere grandi difficoltà per le
merci italiane destinate a competere con merci indigene, qual era il caso del vino nell’Austria-Ungheria. Presentando il suo programma di
governo, Giolitti definiva «un dovere nazionale» l’intervento in favore
del Mezzogiorno e si dichiarava pronto ad agevolare le esportazioni
agricole diminuendo la protezione industriale12. Per il vino pugliese
non si trovarono soluzioni efficaci, donde il successo della mobilitazione antigiolittiana nella piazze e in parlamento. Però i negoziatori
dei trattati, il radicale catanese Edoardo Pantano e il napoletano Miraglia, riuscirono a guadagnare importanti e stabili spazi di mercato
nell’Europa centrale per gli agrumicultori siciliani e gli orticultori
campani. Questi interessi settoriali e regionali ottennero così soddisfazione; e al di fuori della Puglia la più aspra polemica liberista ebbe
un’eco limitata, come dimostra il rifiuto della Camera di commercio
di Napoli di seguire quella di Bari su questa strada13.
Va poi sottolineata la forza delle lobby protezionistiche meridionali. C’è innanzitutto il vastissimo schieramento favorevole al dazio sul
grano, formatosi nel 1887 a rimorchio della proprietà fondiaria settentrionale ma poi consolidatosi non solo – come si dice – attorno agli interessi degli «assenteisti», ma anche a quelli dei settori più dinamici
dell’agraria ben rappresentati da Salandra; e comprendente personaggi
come Colajanni, prestigioso intellettuale «meridionalista», deputato
cura di G. De Rosa, Laterza, Bari 1979, p. 65.
12
Discorso del 1° dicembre 1903 in G. Giolitti, Discorsi parlamentari, Roma 1953, II, p.
759. Ma sull’efficacia di questa linea nel favorire le esportazioni agricole cfr. F. Coppa, The
Italian tariff and the conflict between agricolture and industry. The commercial policy of Liberal Italy, in «The Journal of economic history», December 1970, IV, pp. 742-69.
13
Su questi temi rinvio a F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno (1900-1914), Guida, Napoli 1976, pp. 89-170. Si veda anche F. De Felice, L’agricoltura in terra di Bari, Milano 1971.
14
Si veda il mio I proprietari terrieri del Mezzogiorno, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia
43
Luoghi e identità
radical-democratico della Sicilia interna, convertito dal liberismo al
protezionismo perché convintosi che nel breve periodo il dazio sia
l’unico strumento per evitare la rovina delle figure intermedie dell’agricoltura meridionale14. Ci sono poi le richieste di protezione doganale
dell’agricoltura montana per le sue produzioni di cavalli e legname. La
stessa viticoltura finisce per guardare al mercato nazionale reclamando
anch’essa la tutela dalla concorrenza estera. Nel 1905 De Viti De Marco, con molti altri meridionalisti e tutta la deputazione pugliese, si
schiera sulle posizioni del protezionismo più rigido quando il modus
vivendi concluso dal governo Fortis con la Spagna minaccia il monopolio del mercato interno detenuto dai viticultori italiani con una possibile importazione di vini iberici; ciò che può essere considerato una
riprova della debolezza del progetto liberista, la cui razionalità totalizzante finisce con lo sgretolarsi all’impatto con una realtà assolutamente variegata.
Esiste infine un pur limitato Mezzogiorno industriale che cerca di
farsi valere, nella Taranto dell’arsenale militare e dei cantieri navali,
nella Palermo dei Florio con la loro flotta sovvenzionata dallo Stato,
proponendo altri interessi per i quali il mondo politico locale si mobilita plebiscitariamente, da destra a sinistra, e che vanno cucinati nel
calderone giolittiano. La politica delle leggi speciali – come si è detto –
tende a rafforzare questo modello di contrattazione centro-periferia.
Questa frantumazione di interessi regionali e settoriali (molto
spesso identificati gli uni con gli altri) spiega – molto meglio della corruzione esercitata del «ministro della malavita» – il perché, nel concreto della storia politica del Sud, le battaglie pugliesi dei De Viti De
Marco e dei Salvemini abbiano un impatto assai più ridotto di quanto
potrebbe sembrare stando alla nostra tradizione canonica. Esse non
esauriscono né la questione meridionale né la storia del Mezzogiorno.
Salvadori e Rosario Villari, ma certo non solo loro, danno grandissimo spazio alla catastrofe del 1887. Il lettore distratto potrebbe non sapere mai che ci sarà una successiva, ancor più grande ripresa delle
esportazioni meridionali, nel quadro di un’Europa cosiddetta protezionista che grazie ai trattati di commercio vede crescere, fino alla
guerra mondiale, il flusso dei suoi traffici internazionali. Dunque, per
ragioni politiche ma anche solo per ragioni economiche (l’Italia è un
paese trasformatore che ha bisogno di esportare per sostenere la bilancia dei pagamenti) non tutti gli interessi esportatori vengono puniti da
dell’agricoltura italiana in età contemporanea, II, Marsilio, Venezia 1990, pp. 105-49.
15
Il punto culminante di questo ragionamento viene raggiunto in N. Colajanni, Il pro-
44
Lupo, Storia del Mezzogiorno
Giolitti, e non tutti gli interessi del Sud, come ho cercato di mostrare,
si identificano con quelli degli esportatori.
È poi certo che l’abolizione del protezionismo, danneggiando il
Settentrione, favorirebbe il Meridione? A porsi il problema, speculare
a quello «nazionale» dei liberisti, è un altro intellettuale catalogato come meridionalista, Colajanni, il quale pure dà una soluzione opposta a
quella di Salvemini e De Viti De Marco. Non solo il dazio sul grano,
ma anche la protezione dell’industria giova a suo parere al Sud, perché
aumentando le capacità di consumo del Settentrione e creando un inedito mercato interno rende possibile il salvataggio dell’agricoltura meridionale sconvolta dalla crisi agraria degli anni ottanta-novanta. Siamo
davanti al primo intellettuale del Sud (a uno dei primi intellettuali italiani) che si rende conto dell’enorme progresso economico dell’età giolittiana, tra l’altro elaborando indicatori empirici della ricchezza in grado di confutare i discorsi – generalmente teorici e deduttivi – della
scienza economica del tempo15. E non dimentichiamo Nitti, che guarda
al problema del latifondo non come effetto del dazio sul grano, ma –
secondo la lezione fortunatiana – come a una forma antica e razionale
di utilizzazione del suolo in ambiente arido e geologicamente dissestato; e che per questo – contro Fortunato e i liberisti – chiede leggi, stanziamenti e strumenti nuovi, pensati particolarmente per il Mezzogiorno, per la riforestazione e la ristrutturazione territoriale. Ma Nitti soprattutto considera scientificamente erroneo e politicamente disastroso
l’assioma liberista secondo il quale il Mezzogiorno deve specializzarsi
nelle sue «industrie naturali», cioè nei prodotti dell’agricoltura specializzata, e punta sull’industrializzazione e sullo sviluppo dell’energia
idroelettrica, il carbone bianco. Essendo mossa da ispirazione antiliberista, la sua idea delle leggi speciali incontra il totale sfavore di De Viti
de Marco e Salvemini, che la giudicano tipica della corruttrice «politica dei favori» con cui i governi giolittiani cercano di impedire il saldarsi del fronte esportatore.
Molti intellettuali e politici si muovono dunque in questi anni in
difesa del Mezzogiorno, e sono forse in tal senso definibili meridionalisti, anche se (per quanto posso capire) non definiscono così se stessi.
Però io credo pur sempre che non si possa parlare del meridionalismo
come unica corrente ideale, come dimostra il fatto che le soluzioni indicate dai cosiddetti meridionalisti sono straordinariamente diverse e
in molti casi opposte tra loro, sia dal punto di vista politico-istituziogresso economico, Roma 1913.
1
Cfr. la vivacissima cronaca salveminiana, in Il ministro della malavita cit., pp. 73 sgg., e
45
Luoghi e identità
nale (abbiamo centralisti, decentralisti, federalisti; reazionari e democratici, colonialisti e pacifisti), sia su quello delle politiche economiche. Si perde la compattezza che era stata del gruppo della «Rassegna
settimanale», perché la nuova stagione della questione meridionale riflette anche la domanda politica del Mezzogiorno e questo – in barba
ad ogni retorica – non ha un unico interesse. Il liberista De Viti De
Marco e il protezionista Colajanni si scontrano con dovizia di reciproci insulti, e non penserebbero mai che qualcuno li possa collocare in
uno stesso movimento. Dunque, all’inizio del secolo ci sono almeno
tre discorsi «per il Mezzogiorno», tra loro diversi e talora inconciliabili: il primo sonniniano e salandrino; il secondo filo-giolittiano e statalista di Nitti e Colajanni; il terzo liberista alla Salvemini e alla De Viti
De Marco, destinato a sfociare nell’esperienza de «L’Unità». Quest’ultimo è il più radicale e il più ambizioso, pretendendo di rappresentare
un’alternativa globale, l’altro Mezzogiorno o meglio l’altra Italia vilipesa dal protezionismo. Alla fine, il suo peso sarà più nazionale che regionale.
5. Gramsci vs. Salvemini.
L’elenco dei misfatti attribuiti a Giolitti da Salvemini ha segnato
nel profondo la nostra immagine della vita politica di inizio Novecento, consegnandoci un Mezzogiorno del tutto escluso da ogni sia pur
graduale processo di allargamento della democrazia di quel tempo.
Qui il «ministro della malavita» avrebbe concluso un accordo con le
classi dirigenti più retrive, scambiando il consenso elettorale con la più
brutale repressione del movimento contadino, e cementando il patto
con ogni genere di prepotenza governativa per intimidire gli elettori.
In realtà Giolitti, dov’era possibile, appoggiava anche i radical-socialisti come faceva nel Nord: basterebbe pensare al caso del sindaco
di Catania, Giuseppe De Felice Giuffrida, grande leader socialriformista. Lo stesso De Viti De Marco venne eletto due volte, senza contrasto da parte dei prefetti. In genere l’ingerenza governativa andava a influire su complesse situazioni di lotta politica locale, dove il vigente sistema uninominale accentuava i tratti localistici. Vito De Bellis, il deputato di Gioia del Colle violentemente attaccato da Salvemini come
tipico ascaro giolittiano, era ad esempio appoggiato nelle elezioni del
1903 da un composito schieramento cittadino comprendente il locale
«Circolo operaio», mentre il «Circolo agrario», rappresentante la me46
Lupo, Storia del Mezzogiorno
dia borghesia rurale dei massari, preferiva il marchese De Luca Resta,
«latifondista milionario» non originario del luogo né in esso residente;
infine la lega contadina socialista, dopo aver scelto inizialmente la
strada dell’intransigenza, finì per optare per il marchese, forse perché
il suo capo era stato corrotto. Violenze e brogli diedero la vittoria a
De Bellis1, però è arduo trovare qui una linea netta di divisione tra
progresso e reazione, e soprattutto un criterio per giudicare De Bellis
peggiore dei suoi avversari. Soprattutto è difficile capire cosa tutto
questo abbia a che fare col concetto di ascaro giolittiano, termine di per
se stesso evocativo delle complicità degli indigeni col colonialismo – se
non appunto facendo ricorso all’idea del mercato coloniale propagandata dai liberisti, che abbiamo visto quanto sia problematica. Salvemini
sapeva che Giolitti godeva di un consenso, epperò riteneva che questo
fosse drogato dalla corruzione e dalla violenza: «Il governo centrale –
affermava – non fa se non approfittare dei mali nostri per opprimerci e
corromperci di più»2. Invocando l’ingresso in campo delle masse contadine, egli non si appellava tanto alla forza risolutiva del conflitto di
classe, ché anzi non nutriva se non preoccupazioni per uno scontro tra
contadini e proprietari (a suo dire) quasi altrettanto straccioni. Il suo
obiettivo consisteva nell’allargamento della competizione politica, da
cui si aspettava l’eversione delle camarille, delle camorre, cioè dei partiti locali e del meccanismo necessariamente ristretto del clientelismo.
Siamo sul terreno che davvero pone in comunicazione le varie stagioni
della questione meridionale, il democratico Salvemini con il nazionalista Franchetti, identificabile nel disprezzo per quel tanto di opinione
pubblica che esisteva nel Sud del suffragio allargato, e dunque verso la
piccola borghesia, classe di spostati, di intellettuali poveri («avvocati
senza clienti»), di instancabili aspiranti agli impieghi pubblici. È peraltro notevole il fatto che nemmeno il socialismo meridionale (al pari di
quello settentrionale) godesse della simpatia di Salvemini, che neppure
nei ceti artigiani e popolari urbani egli riponesse particolare fiducia.
Solo egli attendeva l’evento epocale e traumatico, il suffragio universale, che tutto avrebbe travolto.
Concesso da Giolitti il suffragio universale maschile nel 1912, non
si verificò il supposto rivolgimento. Anche nelle elezioni postbelliche
del 1919 e del 1921 (con il sistema proporzionale) il Sud si trovò alla
coda del rinnovamento, seppure i suoi grandi movimenti contadini fel’equilibrata rivisitazione fattane da F. Grassi, Il sistema politico giolittiano in Puglia, in L.
Masella-B. Salvemini (a cura di), La Puglia, Einaudi, Torino 1989, pp. 693 sgg., 716 sgg.
2
Salvemini, Elezioni meridionali (1904), in Id., Il ministro della malavita cit., p. 56.
3
Salvemini, Riepilogo (1955), in Id., Movimento socialista e questione meridionale cit., p.
47
Luoghi e identità
cero da pendant alla mobilitazione del biennio rosso al Nord: ci fu il
grande successo dei socialisti pugliesi (tutt’altro che liberisti e salveminiani), e soprattutto quello dei combattenti che nella stessa Puglia, in
Sardegna e – con molte contraddizioni – in altre regioni del Mezzogiorno sembrarono impersonare il tipo di rinnovamento previsto da De Viti De Marco e Salvemini. Quest’ultimo, peraltro, dopo essere stato portato al parlamento da questo movimento, se ne tirò presto fuori. In seguito avrebbe lamentato di essere caduto in quell’occasione nelle grinfie
di «quella piccola borghesia intellettuale meridionale», da lui «sempre
disprezzata»3. Credo sia lecito concludere che il radicalismo del grande
intellettuale di Molfetta, pur così affascinante e a tratti geniale, si risolveva regolarmente nella demonizzazione di tutto quanto si muoveva
nella politica e nella società meridionale reale. Un suo allievo, Guido
Dorso, scriveva intanto un libro per dimostrare che nel dopoguerra
c’era una rivoluzione meridionale «in marcia» contro l’Italia della conquista regia risorgimentale, del protezionismo, del giolittismo. Però, al
momento di indicarne i protagonisti, Dorso finiva per scartare i combattenti (pure per lui infetti dalla lue piccolo-borghese) ed anche, ma
con dispiacere, i fascisti radicali alla Aurelio Padovani, vittime della
«vendetta» dei fiancheggiatori, dell’eterno giolittismo4. Alla fine, non gli
sarebbe restato che invocare cento fantomatici «uomini d’acciaio» che
facessero giustizia.
Fu questo, come si diceva all’inizio, il contesto in cui il termine meridionalismo si propose. E fu questo anche il contesto in cui esso venne
usato da Gramsci nello scritto del 1926, una sorta di recensione a Dorso, destinato a divenire celeberrimo in età repubblicana. È bene ribadire
subito, peraltro, che il meridionalismo secondo Gramsci non corrisponde a quello dei gramsciani. Esso non comprendeva né Turiello, né
Pasquale Villari, né Sonnino e gli altri della «Rassegna settimanale», che
Gramsci nei Quaderni (richiamandosi a Croce!) avrebbe considerato
parte del filone antiparlamentare originatosi dalla caduta della Destra
storica5; né – come si è detto – i grandi intellettuali «reazionari» e «pani683.
4
Dorso, La rivoluzione meridionale cit., pp. 80 sgg. e 126 sgg. Ma sul tema del fascismo
meridionale rimando al mio Moderati e radicali nel partito fascista, in «Storica», 9, 1997, pp.
91-132.
5
Mettendoli insieme a Gaetano Mosca e ad altri scrittori reazionari: Gramsci, Quaderni
dal carcere vol. cit., pp. 1975-6. In Alcuni temi cit., p. 154, invece, Gramsci definisce Franchetti e Sonnino «borghesi intelligenti» che si erano posti «il problema meridionale come problema nazionale» anche per una «grottesca» paura dell’anarchismo e del comunismo; pure qui è
interessante la distonia tra la nota dei curatori – per i quali i due sono «i maggiori rappresentanti del riformismo liberale postunitario» – e il testo gramsciano che li dice (p. 153) espres-
48
Lupo, Storia del Mezzogiorno
taliani» del Sud (Fortunato e Croce). Abbiamo già visto anche come il
giovane leader comunista sardo chiamasse meridionalisti gli antropologi
positivisti. Ma soprattutto egli riferiva il termine a quanti più di recente
si erano nutriti della critica di Salvemini al riformismo filogiolittiano del
Psi: parlava di un «neoliberalismo antigiolittiano e meridionalista» al
centro del quale stava il sindacalismo rivoluzionario, da lui definito «debole tentativo dei contadini meridionali, rappresentati dai loro intellettuali più avanzati, di dirigere il proletariato». Tale «coorte di sindacalisti
e di meridionalisti» tra il 1911 e il 1914 si era raccolta intorno a Mussolini, venendo clamorosamente alla ribalta con la rivolta della «settimana
rossa» (1914)6.
Queste considerazioni ci fanno comprendere perché Gramsci non
pensasse minimamente a definire meridionalista se stesso – per quanto
propenso potesse sentirsi a simpatizzare per un Mezzogiorno visto sostanzialmente nei termini salveminiani. Egli riteneva infatti che l’asse
meridionalista – da Salvemini a Mussolini attraverso il sindacalismo rivoluzionario – rappresentasse un momento importante della sconfitta
della rivoluzione. In questo senso va intesa la sua battuta: «Molte delle
pallottole che le guardie regie scaricarono nel ’19, ’20, ’21 e ’22 contro
gli operai erano fuse nello stesso piombo che servì a stampare gli articoli
di Salvemini». È vero naturalmente, come più tardi avrebbe obiettato lo
stesso Salvemini tra stupito e addolorato, che i contadini meridionali o
le guardie regie non leggevano quegli articoli (né altro)7; ma la notazione
gramsciana acquista il suo peso se pensiamo non ai contadini, né tanto a
una generica opinione pubblica meridionale, quanto agli intellettuali
meridionali e settentrionali che vituperavano Giolitti e il «corporativismo» socialista orientandosi contro il proletariato.
La conclusione era destinata a divenire canonica: il movimento comunista doveva dimostrare che gli operai non erano i complici del protezionismo giolittiano, i «porci allevati colla biada governativa»8, ma rivoluzionari in grado di ritrovare il concetto di interesse generale, comprendere gli interessi dei contadini e guidarli sulla strada del comunismo.
In certi punti, questo ragionamento di Gramsci può sembrare terribilmente forzato. La «settimana rossa» non si svolse nel Sud ma nelle
Marche e in Romagna, cioè nell’Italia centrale. La presenza meridionale
sione di «gruppi politici agrari conservatori» toscani.
6
Gramsci, Alcuni temi cit., pp. 144-5.
7
Citazione di Gramsci da Alcuni temi cit., p. 137; la risposta fu data da Salvemini nel secondo dopoguerra, quando poté conoscere lo scritto gramsciano: Salvemini, Riepilogo cit.,
pp. 677-9.
8
Gramsci, Alcuni temi cit., p. 149 e passim.
9
Un accenno in tal senso in Gramsci, Quaderni cit., p. 2039.
49
Luoghi e identità
nel fronte interventista fu modesta e insomma la crisi del giolittismo
non venne certo da Sud. Solo con notevole sforzo si possono erigere i
sindacalisti, in quanto meridionali, a rappresentanti del mondo rurale. I
Labriola e i Leone erano intellettuali napoletani che probabilmente mai
avevano visto un contadino nella loro vita, che avevano fatto i loro esordi nella lotta alle «camorre cittadine» e poi si erano trasferiti al Nord come giornalisti e rivoluzionari di professione. Michele Bianchi era un
borghese partito molto giovane dalla Calabria per studiare all’Università di Roma; la sua pratica di mondo rurale era relativa all’Emilia, visto
che egli era stato a lungo alla testa della Camera del lavoro ferrarese.
Non tutti gli studiosi e gli agitatori della questione meridionale – come
detto – erano liberisti, non tutti gli antigiolittiani si definivano sui problemi del Mezzogiorno, non lo facevano né Mussolini né la gran parte
dei nazionalisti. Qui evidentemente la questione meridionale si pone,
come già negli anni settanta del secolo precedente, quale potente metafora sullo stato della nazione. Essa poco ha a che vedere con il Mezzogiorno in quanto tale, e piuttosto definisce l’identikit di una generazione di intellettuali e politici italiani che aveva assunto a propria bandiera
il liberismo e la rivolta morale contro il giolittismo, che aveva individuato nella (presunta) contraddizione meridionale il punto debole di una
politica basata sui «favori» agli industriali e agli operai del Nord, sulla
protezione industriale e sulla detestata (per quanto poverissima, ai nostri occhi) legislazione sociale: una generazione che era la stessa di
Gramsci, che stava giungendo al fascismo, e dalla cui logica bisognava
uscire senza però ignorare la forza dell’argomento meridionalista.
Da questo punto di vista il testo del 1926 va letto come il primo
passo dell’autocritica che sarà svolta nei Quaderni dal carcere. Ma nella
gramsciana Questione meridionale, in questo testo così breve, affascinante e incompleto, c’è anche, accanto al meridionalismo, il Mezzogiorno reale, quello che non ha fatto la prevista rivoluzione del suffragio universale, quello che non esprime né cento né mille uomini d’acciaio. Gramsci passa a ragionare in termini di egemonia e a riflettere
sugli elementi collanti che al Sud tengono ben stabile il sistema, individuabili in un «blocco agrario» che lega grandi proprietari e contadini
grazie alla mediazione degli intellettuali, termine corrispondente nel
suo linguaggio alla piccola borghesia vituperata da Salvemini e Dorso.
Evidentemente solo lo spostamento di questo gruppo sociale (o di una
sua parte) potrà mutare i termini del problema9 – ma per realizzare pri-
50
Lupo, Storia del Mezzogiorno
ma o poi questo fine bisogna intanto passare dal vituperio all’analisi.
Finalmente troviamo una riflessione sui diversi modelli regionali, una
serie brillante di notazioni e distinzioni sulle differenze sociali e politiche tra la parte peninsulare, la Sicilia e la Sardegna. Certo, si descrive
qui, coerentemente allo schema meridionalista, un Mezzogiorno che
entra a far parte del sistema politico italiano più che altro attraverso il
pactum sceleris dei gruppi privilegiati: è il «blocco agrario-industriale»
su cui insisterà la storiografia gramsciana. Ma con altrettanta sicurezza
possiamo affermare che Gramsci, quando cita Croce e Fortunato come
grandi ispiratori del «blocco agrario», non pensa soltanto a un sistema
di corruzione generalizzata, a un meccanismo di dominio neofeudale –
anche se è così che il concetto verrà recepito –. Pensa a un sistema di
potere articolato, ricco di mediazioni, di idee, di storia.
6. Conclusione.
Il meridionalismo si propone come movimento di idee, di progetti
e di pratica politica, come istituzione e burocrazia, solo in età repubblicana: inserito in questo campo di forze, il Mezzogiorno diviene un
oggetto omogeneo, quand’anche non lo sia stato in precedenza. Eppure, neppure ora possiamo adottare una lettura sino in fondo unitaria.
Meridionaliste sono le politiche dell’intervento straordinario e della
riforma agraria, sostenute da una grande mobilitazione intellettuale
che vede protagonisti i tecnocrati della Svimez, gli intellettuali cattolici
e quelli terza-forzisti di «Nord e Sud». Meridionaliste sono le classi
politiche che nelle regioni meridionali richiedono questo e altri interventi pubblici per sostenere i processi di sviluppo (infrastrutturale,
agricolo, industriale), anche al fine di massimizzare la loro rendita di
mediazione tra Stato e società locale: ormai la questione meridionale –
persino nelle sue versioni più enfatiche e vittimistiche – rappresenta il
linguaggio, direi la retorica che consente alla politica del Sud di parlare
alla nazione e di mantenersi in collegamento con essa. Meridionalista è
la ricerca, da parte della cultura di sinistra (comunista e non), di un
passato nobile, di un tradizione «alta» di opposizione, riformista e critica, da contrapporre un po’ artificiosamente al vituperato liberalismo;
ricerca che viene portata avanti da intellettuali che vogliono accreditare la loro nuova ideologia riformatrice senza necessariamente appiattirla sul riformismo socialista di inizio secolo, con i suoi difetti di corporativismo ed esclusivismo regionale. Meridionalista è lo sforzo del
gruppo gramsciano di sottrarre la questione meridionale a una pro51
Luoghi e identità
spettiva «economicistica» e dunque all’ambito esclusivo della Svimez,
della Cassa per il Mezzogiorno, degli Enti di riforma agraria, delle tecnocrazie e dei concreti interventi da cui il Pci è escluso. Meridionalista
è il movimento contadino, meridionalista è il tentativo della Dc e dello
stesso Pci di dare per la prima volta nella storia d’Italia una rappresentanza politica unitaria al Nord e al Sud nei partiti «di massa», uscendo
dall’alternativa tra ribellismo, moderatismo trasformista e localismo
interclassista in cui rischia di impantanarsi il Mezzogiorno nel corso
della prima età repubblicana.
52