Intervento FIOM all`assemblea aperta di STm Catania del 17/12/2004

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Intervento FIOM all`assemblea aperta di STm Catania del 17/12/2004
Intervento FIOM all’assemblea aperta
di STm Catania del 17/12/2004
1. Perché questo evento
Credo che innanzitutto sia doveroso spiegare ai nostri ospiti il motivo di
quest’invito. Circa due settimane fa, a conclusione di un’assemblea di fabbrica, i
lavoratori di STm di Catania hanno approvato all’unanimità un documento in cui la
RSU esprime forti preoccupazioni sugli sviluppi del sito catanese di STm. Nel
corso della stessa assemblea, le RSU hanno chiesto alle OOSS il coinvolgimento
di tutte le istituzioni politiche locali affinché nascesse un incontro tra i
lavoratori di STm, le OOSS e le istituzioni politiche.
STm è un’azienda multinazionale che pensa, progetta, produce e vende dispositivi
elettronici ad alta tecnologia. È quindi abituata, oltre che costretta, a misurarsi
in un contesto in cui la contingenza del mercato, la forza di penetrazione (qualità
dei prodotti, presenza sul territorio) e costi rappresentano tre aspetti chiave.
Proprio dall’analisi di questi tre aspetti, traiamo le premesse di quest’intervento.
Dopo il boom della new economy, il mercato dei semiconduttori ha conosciuto,
soprattutto in occidente, una fase involutiva: è calata la domanda e le aziende si
sono ritrovate a dover affrontare con urgenza un problema di contenimento dei
costi. Ciò ha creato un’impennata di una tendenza già manifesta da qualche anno:
sfruttare la sete di sviluppo di alcuni paesi, che improvvisamente, da che erano
ignorati dal capitalismo internazionale e dall’attenzione dei più, sono diventati
centro di attrazione degli investimenti. Questa categoria di paesi,
indipendentemente dalla loro cultura, dalle problematiche sociali e civili interne e
dalle effettive esigenze di sviluppo economico, e’ stata raggruppata sotto un
unico cappello ed è stato dato loro pure un nome: paesi a basso costo.
Quando parliamo di paesi a basso costo, siamo immediatamente portati a pensare
a paesi molto poveri: l’Africa, il Sud America, alcuni paesi dell’estremo oriente
come la Thailandia, ad esempio. Poi però ci accorgiamo che alcuni di questi paesi
sono delle potenze mondiali. Altri, fanno parte della comunità europea! Ma allora,
cosa intendiamo con “paesi a basso costo”? Cosa vuol dire che la Cina, ricca di
risorse energetiche e umane, è un paese a basso costo? E perché non lo è il
Giappone? Come fa la Cina a conciliare questa sua caratterizzazione con trend di
crescita che fanno impallidire chiunque? E poi la Cina è sempre stata là dove è
ora; perché è improvvisamente diventata polo di attrazione per gli investimenti
internazionali? A queste domande proveremo a rispondere dopo.
Torniamo piuttosto al fenomeno in sé: le imprese hanno cominciato a trasferire i
loro stabilimenti nei “paesi a basso costo”. Dopo un po’, pero’ con una politica
fiscale ad hoc i governi di alcuni di questi paesi hanno detto: mia cara
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multinazionale, tu vuoi vendere nel mio paese? Va bene, però io ti impongo delle
tasse di importazione altissime, per cui se vuoi vendere un telefonino nel mio
territorio, ti conviene produrlo qua. La multinazionale, che nel frattempo ha
intravisto sconfinate praterie per far salire i volumi di vendita, si è buttata con
entusiasmo in questa avventura, al punto che si è venuto a creare un effetto a
catena; per intenderci, se la Nokia va in Cina ad assemblare chip e coperchietti di
plastica che altri costruiscono per lei, i suoi stessi fornitori, per non pagare
esose tasse di importazione sui materiali di assemblaggio dei telefonini, decidono
di fabbricare i chip e i coperchietti in Cina. E l’azienda comincia a penetrare nel
nuovo territorio; la forza di penetrazione viene alimentata non tanto dalla qualità
del prodotto, ma dalla presenza sul territorio; inoltre, non ci sono dubbi che dal
punto di vista del marketing, se vuoi vendere in un paese, prima è bene che ti
costruisca un’immagine positiva di te, in quel paese; e la presenza fisica della
fabbrica è uno dei tanti buoni sistemi per farlo. Ma l’appetito vien mangiando, si
dice. E così, dopo qualche tempo il governo del paese ti dice che non si
accontenta più degli stabilimenti di produzione, ma vuole anche la progettazione.
E l’azienda, che intravede molti vantaggi in quest’operazione, comincia a
trasferire lì alcuni reparti di progettazione (ovviamente quelli meno strategici,
quelli meno all’avanguardia); ma l’effetto è a catena! Da questo secondo passo
nasceranno i centri di progettazione avanzata. E poi anche quelli di ricerca e
sviluppo. Praticamente tutta l’azienda. Anzi una parte resta: è quella finanziaria,
cioè i profitti. Quelli restano nelle mani delle stesse persone. E quando l’azienda
originaria viene spezzettata in rami e ne viene venduto un pezzo, un reparto, poi
può anche succedere che dopo averla acquistata, il nuovo padrone scopre che le
condizioni di mercato e i costi non sono convenienti e allora è meglio chiudere e
trasferire i macchinari in uno di questi paesi a basso costo. Lo sappiamo che
l’industria tessile toscana, una volta vanto del nostro paese, è stata smantellata
per essere ricostruita in Cina e Romania? Che c’è anche chi ha prima acquisito il
know how, o le competenze, se vogliamo chiamarle in italiano, ha poi acquistato i
macchinari, dopodiché ha chiuso tutto e se n’è andato a produrre dove gli costa
un decimo rispetto alla Toscana? Ma questa cosa non succede solo in Toscana e
non solo nell’industria tessile. L’industria automobilistica tedesca sta
attraversando la sua bella crisi e per chi lavora da quelle parti non sono tempi
facili. E in Sicilia, Termini Imerese ci dice qualcosa, no? Ma di esempi ce n’è tanti
e se parecchie aziende trasferiscono la produzione nell’est europeo, non è perché
improvvisamente da quelle parti abbiano iniziato a fare shopping! No, è perché lì
produrre costa meno; poi, con un buon sistema stradale e ferroviario, dal cuore
dell’Europa è facile trasportare qualunque merce in Russia, Germania, Francia e
Italia.
Qui in STm c’è una manodopera giovane e con un alto tasso di scolarizzazione: ma
non per questo siamo invulnerabili! Forse un ingegnere di processo o un operatore
indiano o cinese sono meno capaci di noi? Pare di no: i programmatori indiani, ad
esempio, dopo aver fatto la fortuna della silicon valley, se ne sono tornati a casa
e adesso programmano lì, facendo a modo loro la fortuna loro e del loro paese,
attraendo gli investimenti delle aziende del SW. IBM, HP, hanno delocalizzato i
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loro stabilimenti di produzione del SW in India come a Singapore. E poi Noida,
giusto per restare nel SW, qui in STm la conosciamo tutti, no?
Piuttosto che parlare in maniera retorica di cosa significhi delocalizzazione per
un lavoratore occidentale, cioè la perdita del lavoro, vorrei soffermarmi su cosa
significa delocalizzazione per un’altra categoria di lavoratori: quelli dei paesi a
basso costo, dove i diritti sindacali, l’organizzazione del lavoro, la sicurezza, i
salari, sono molto diversi che da noi. Noi abbiamo lottato per generazioni in un
ambito democratico e di generale rispetto dei diritti civili, non dimentichiamolo
solo perché le grandi battaglie le hanno fatte i nostri padri. Noi abbiamo un
CCNL, che ci dà garanzia di diritto sulle ferie e le malattie, sul salario, la
maternità, la sicurezza sul lavoro. Da quelle parti, questi diritti non sanno
neanche cosa siano. Lì i morti per il lavoro in miniera non si contano. La maggiore
competitività in termini di costo del lavoro, non dipende da un’organizzazione
scientifica per massimizzare l’intensità produttiva. I paesi in via di sviluppo
assumono dall’oggi al domani lo status di paesi a basso costo solo perché la banca
Mondiale e il WTO decidono che è lì che bisogna investire; la competitività del
costo del lavoro dipende dal fatto che il governo locale apre deliberatamente al
capitalismo internazionale mandando al macello la sua gente e indipendentemente
dalle reali necessità della popolazione; questi governi, anziché promuovere realtà
e culture locali, costringono decine di migliaia di artigiani e contadini a strappare
le loro radici per andare a lavorare in fabbrica in vista del miraggio del
benessere! E com’è la vita in fabbrica? In Cina esiste per legge un tetto massimo
dell’orario di lavoro, fissato a 53 ore settimanali, straordinario compreso.
Organizzazioni di Hong Kong vicine alle problematiche sindacali denunciano invece
che l’orario di lavoro abituale è di 70 ore settimanali, con punte di 16 giornaliere.
Non solo: in Cina fare sindacato significa andare in galera; per migliaia di
lavoratrici opporsi alle continue molestie sessuali significa licenziamento
immediato. Quasi sistematicamente le donne trovano facilmente lavoro da
giovani, per la loro docilità e per le miti pretese. Ma prima ancora del matrimonio,
sono già disoccupate, perché in fabbrica nessuno vuol sentire parlare di
maternità. E non parliamo delle assenze per malattia! È anche così che da quelle
parti produrre costa meno!
E la nostra Europa? Abbiamo sentito parlare anche di investimenti nell’est
europeo, no? Ebbene, nell’est europeo non c’è nulla che somigli a un CCNL; lì vige
un’organizzazione del lavoro di tipo statunitense e spesso non ci sono neanche i
minimi salariali e la garanzia dei più elementari diritti. Stiamo parlando dei paesi
neo arrivati nell’UE, per capirci. Mentre in Germania, le ultime battaglie sindacali
sono state strumentalizzate come lotte in difesa dell’orario di lavoro; ma agli
operai non è stato chiesto di produrre di più. A chi dovrebbe servire avere più
materiale in magazzino, con un’economia stagnante come quella europea? Lo scopo
delle imprese tedesche non è l'incremento degli orari globali di lavoro per avere
maggiore produttività, ma è la riduzione dei costi unitari di produzione. Le
imprese tedesche non chiedono più ore di straordinario; semplicemente non
vogliono retribuire quelle che già vengono fatte.
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Come la domenica notte a Catania, se vogliamo parlare delle cose di casa nostra.
In questo contesto, va fatta adesso una riflessione: premesso che la FIOM sogna
e crede in un mondo migliore; che rifiuta questo sistema capitalistico e propone
in alternativa, assieme a tante altre organizzazioni e movimenti, un mondo
diverso, in cui crede con convinzione, e in cui, oltre alle imprese e ai capitali,
l’Europa esporti diritti, legalità, rispetto della dignità umana. Fatta questa
premessa, diciamo che: se, per quanto poco digeribile, è comprensibile che la
nostra azienda che non riesca più a far quadrare i conti a causa della concorrenza
e dell’abbassamento degli utili; se, in questo caso è comprensibile un
trasferimento delle sue attività produttive altrove, dove i costi sono più bassi, ci
sembra del tutto irragionevole e inaccettabile, che un’azienda in salute
trasferisca le sue attività altrove solo perché è alla ricerca del massimo profitto.
Per noi è del tutto inaccettabile che un gruppo di azionisti, incuranti del sudore e
dei sacrifici di chi la mattina (e la notte) si alza per andare a lavorare e che con
le proprie tasse finanzia anche le aziende di questi azionisti, semplicemente per
guadagnare di più, questo gruppo di azionisti decida di compromettere l’esistenza
di migliaia e migliaia di persone!. Questo non lo accettiamo! A maggior ragione se
non viene detta la verità e se avvengono strumentalizzazioni!
Allora lasciamo gli altri paesi, il basso costo, l’est europeo e la silicon valley e
concentriamoci sulla nostra, di valley.
2. Segnali allarmanti
STm ha spesso e volentieri dichiarato di preferire una strategia euro-centrica,
rivolta anche al sociale e alla promozione delle risorse locali piuttosto che la
rincorsa al massimo profitto ad ogni costo. Tutti, credo, abbiamo udito i massimi
vertici dell’azienda rilasciare questo genere di dichiarazioni. D’altronde, questa
scelta le fa onore, secondo noi. Su queste dichiarazioni, STm ha costruito
un’immagine molto positiva di sé. STm per tanti concittadini è l’azienda
“benefattrice” che è attenta al sociale, che a Catania dà posti di lavoro e
permette a buona parte dell’economia siciliana di sentirsi meno agonizzante.
Ora, ai più è parso che STm questa strategia l’abbia effettivamente messa in
atto per lungo tempo; tuttavia, negli ultimi anni abbiamo assistito ad una lenta,
ma progressiva opera di allontanamento di STm dall’Europa e dai paesi occidentali
in genere: la chiusura nel 2004 dello stabilimento di Rennes (in Francia), con la
perdita secca di oltre 400 posti di lavoro, è un trauma che molti lavoratori (e
famiglie) transalpini non hanno ancora superato; e non sono bastati i blocchi delle
strade e gli scontri con la polizia che i nostri ex colleghi hanno sostenuto per far
desistere l’azienda dai suoi programmi: ormai era troppo tardi, perché i
lavoratori e il governo francese si sono mossi in ritardo rispetto all’azione
repentina di STm! È difficile fermare una multinazionale con i blocchi per le
strade: quella è un impresa disperata, è l’ultima carta: quando non hai più nulla da
perdere, metti te stesso, fisicamente, sul campo di battaglia. Gli echi della
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chiusura e delle lotte dei nostri ex colleghi sono arrivati anche a Catania, dove
per la prima volta noi lavoratori abbiamo cominciato ad avvertire la presenza di
queste ombre minacciose. E in Francia, dove i lavoratori sono stati battezzati,
STm non è più l’azienda benefattrice; è un’azienda come tante altre, che ha
prodotto in aree depresse fin quando le è convenuto; ma quando non è stato più
conveniente per i suoi profitti, STm ha chiuso lo stabilimento, creando
disoccupazione e disperazione. Ma Rennes, senza che molti ne fossero a
conoscenza, era stata preceduta da Ottawa, dove STm aveva acquistato un
intero stabilimento Nortel per acquisire know-how secondo un piano di
investimenti che poi è stato ridotto; alla fine STm si è tenuta la parte di ricerca
e progettazione e ha chiuso la fabbrica di fette di silicio. A Malta, pare che i
nostri colleghi abbiano dovuto accettare un abbassamento collettivo di stipendio.
E poi Bristol, in Inghilterra; Phoenix, Rancho Bernardo negli Stati Uniti.
Ora, se come noi temiamo, questi segnali indicano che ST è pronta ad eseguire
licenziamenti di massa ogni volta che i bilanci lo richiederanno, allora è il caso di
analizzare più in dettaglio cosa succede a Catania.
Premesso che anche ad Agrate e Castelletto (altre sedi storiche italiane di STm)
hanno le loro gatte da pelare, la situazione del sito di Catania appare al momento
molto preoccupante.
i. Innanzi tutto c’è una difficoltà interna, riteniamo di ordine culturale: il
management catanese di STm ha quasi sempre rifiutato un confronto schietto
e costruttivo con le RRSS dei lavoratori. Questa del non dialogo è stata la sua
strategia di comunicazione. E questo non è un bene, perché poi a volte si
rischia di perdere di vista il vero problema.
ii. E il vero problema, e qui siamo al secondo punto, oggi come già da parecchi
mesi, è il futuro del sito di Catania: quali strategie industriali STm sta
pensando per il nostro sito? Quale mission, il top management di STm intende
affidare al sito catanese? Quali tecnologie intende sviluppare? Quali prodotti?
Quale organizzazione del lavoro? Quali investimenti? Noi rsu queste domande
le poniamo già da parecchio tempo, ma a Catania non abbiamo mai ricevuto una
risposta che possa definirsi tale. C’è un’istituzione nazionale che si chiama
comitato strategico, cui interviene periodicamente il management di STm
Italia, alcuni rsu e i coordinatori nazionali confederali per STm; quella è la
sede naturale per discutere e comunicare le strategie e le visioni nazionali
dell’azienda: ebbene, neanche in quella sede viene data una risposta su Catania.
Risposte, peraltro non esaustive, sul futuro di Agrate; garanzie su Castelletto,
quelle sì che vengono date! Ma Catania, no! Nessun commento, “ne parliamo in
altra sede”, ci viene detto. Ma quale sia la sede non lo sa ancora nessuno! Sono
atteggiamenti preoccupanti, questi. Non si rifiuta il dialogo se le intenzioni
sono buone: il dialogo lo si rifiuta quando c’e’ da nascondersi e quando non ci
sono argomentazioni!! Allora, se non abbiamo risposte sul futuro di Catania,
nella speranza di trovarle noi, le risposte, facciamo la nostra analisi della
situazione:
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a. A Catania, c’è una parte consistente di lavoratori che si occupano di
tecnologia a 6” (6” indica la dimensione delle fette di silicio prodotte: in
generale e compatibilmente con le destinazioni, maggiore è la dimensione
della fetta, quindi più alto è questo numero, più spinta è l’evoluzione, la
tecnologia). Ebbene, oggi la produttività e la redditività, rapportate ai costi
di Catania, delle tecnologie a 6” sono ancora accettabili; ma nel giro di
qualche anno, quando i margini di guadagno si abbasseranno, l’azienda
comunicherà che non le resta altro che trasferire questa produzione in
estremo oriente. Questo è chiaro, lampante. Ora, c’è qualcuno qui che ha
idea di cosa faranno i circa 1000 lavoratori che oggi a Catania lavorano sui
6”? Le rsu lo chiedono da tempo, ma secondo l’azienda “non c’è alcun
problema”. Noi non crediamo nel modo più assoluto che il management di
STm sia tanto sprovveduto da non porsi questa domanda. Un’azienda il suo
futuro, lo decide e lo programma! E se i programmi non li rende noti, un
motivo ce l’ha. Azienda! Come intendi rimpiazzare i 6” in vista del loro
ineluttabile trasferimento? Come intendi mantenere inalterato il livello
occupazionale a Catania in vista di un inevitabile ridimensionamento della
produzione a 6”?
b. Fino a qualche mese fa, almeno sulla carta, il piano c’era e si chiamava M6:
un accordo altisonante, con tanti soldi pubblici entrati nelle casse di STm.
L’accordo prevedeva finanziamenti per la costruzione di una grossa
struttura, l’acquisto di macchinari costosissimi e all’avanguardia, la prevista
assunzione di 1500 lavoratori in aggiunta a quelli già esistenti, la
produzione di fette a 12” con un livello di automazione industriale tra i più
spinti nel mondo! Badiamo bene che 12” non significa solo tecnologia
all’avanguardia, ma anche abbattimento dei costi: le fette sono più grosse,
quindi da una fetta più grande vengono fuori più dispositivi, ma i costi di
processo, tanto quello si deve fare comunque, variano di poco. Questo è uno
dei motivi per cui è importante qui da noi una produzione a 12”. Il 13 Luglio
2000 le confederali provinciali, FIM/FIOM/UILM e UGL provinciali
incontrano l’azienda. Nel corso della riunione la Direzione Aziendale ha
consegnato alle Organizzazioni Sindacali un documento contenente il
relativo piano industriale di cui ha evidenziato i seguenti punti: .. necessità
di realizzare un nuovo stabilimento produttivo..; tale stabilimento si
caratterizza per la enorme dimensione degli investimenti .. pari a oltre 3K
MLD di lire; ..condizione irrinunciabile per la scelta della localizzazione –
oltre alla presenza di sufficienti competenze ingegneristiche, di personale
operativo specializzato, di fonti di energia affidabili, di flessibilità di
impiego e di costo del lavoro, come pure di agevolazioni governative – sia un
utilizzo degli impianti a ciclo continuo, 24 ore al giorno, per 365 giorni.. Le
OOSS hanno preso atto.. L’allegato Piano Industriale, parla di tre fasi
successive, di un edificio di 8000 mq di area pulita classe 1, di produzione a
8” e 12”, di 1500 nuovi addetti, nonché delle cospicue ricadute sul
territorio grazie alla presenza di STm: attrazione in sede locale di
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fornitori internazionali.., contributo alla creazione di nuove industrie
locali.., spinoff di nuova imprenditorialità.., testimonial con altre imprese
high tech e sostegno ad un loro insediamento locale... Tutto questo là, a
neanche mezzo chilometro da questa sala! Sembrava un sogno, non la realtà!
Ed effettivamente è andata così, è rimasto un sogno, perché l’edificio c’è, è
stato costruito e c’è anche del personale, là dentro. Ma da qualche parte
dovevano essere sistemati i lavoratori dopo lo sfratto dalla WL; i fornitori
che producono il SW ci sono pure, anche se vengono da fuori (dall’India, da
Singapore..) ma il SW è facile installarlo da un’altra parte; il SW non ha
bisogno di sapere se viene adoperato in provincia di Catania, in Lombardia o
in Cina; si limita a farsi installare su un macchinario e a funzionare ogni
qualvolta viene pigiato il tasto giusto; ma i macchinari, che incidono
sull’investimento più di ogni altra cosa e che danno la certezza che i
processi di produzione si faranno, quelli a Catania non li ha visti nessuno!
Sui 2K MLN di euro di investimento previsti, ne sono stati spesi solo 50 per
costruire l’edificio. Tra le varie carte e comunicazioni sull’avanzamento del
progetto M6: l’investimento complessivo per la realizzazione della fabbrica
M6 è di 2.066 MLN di euro.. C’è poi una tabella che evidenzia che
l’investimento fin qui effettuato dal 28 Marzo 2001 è di 54.8 MLN di euro,
mentre la spesa da realizzare per il periodo 2003 – 2006 riguarda la
restante somma. Poi, STm spiega che un rallentamento dovuto
prevalentemente alla crisi di mercato.., ma anche alla situazione di
incertezza normativa relativa all’effettivo utilizzo del credito d’imposta e
alla disponibilità di adeguate risorse finanziarie.. L’azienda, ha tra l’altro
dichiarato di non avere ancora ricevuto i soldi del credito d’imposta, ma
pare che ci siano state delle smentite. Ora, il controllo sull’erogazione dei
finanziamenti i lavoratori preferiscono lasciarlo in carico a chi ha gli
strumenti per farlo; noi ci concentriamo sul risultato, che in questo
momento è il nulla di fatto. È vero, sono subentrate contingenze di
mercato, la crisi di settore ha fatto rallentare tutto! Ma non ci sarebbe
stato niente di male a dire: abbiamo sbagliato - come tanti altri - e
dobbiamo modificare i nostri piani. Ma non è ammissibile che dopo mesi e
mesi di gioco a nascondino, dopo tanto tergiversare, dopo aver rimandato
l’apertura del nuovo stabilimento dal 2004 al 2005 al 2006 di semestre in
semestre, dopo tante voci di possibili joint venture a Catania tra STm e
altre aziende del settore, mentre il management di STm Catania negava
l’evidente stato di crisi del progetto M6 al cospetto dei segretari
provinciali di FIM/FIOM/UILM, contemporaneamente da Ginevra balzava
la notizia dell’accordo con Hynix, con avvio dei lavori a inizio 2005! Tra 15
giorni, signori! Hynix, per chi non conoscesse i termini dell’accordo,
pubblicati come flash info interna in STm e sul Sole24Ore, è un’azienda
coreana con la quale STm dividerà le spese per la costruzione di uno
stabilimento identico al nostro M6, con lo stesso impatto occupazionale (ma
in Cina), con la medesima tecnologia a 12”! Dal comunicato stampa di STm
del 16 Novembre 2004, leggiamo che .. la STm e la Hynix Semiconductor,
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due fra i maggiori produttori mondiali di semiconduttori, hanno annunciato
oggi la firma di un accordo di joint venture per la fabbricazione di uno
stabilimento di diffusione di chip di memoria nella città di Wuxi, provincia
di Jangsu, in Cina. ..lo stabilimento, di tipo avanzatissimo, comprenderà
linee di lavorazione per fette di silicio da 200 a 300 mm.. e ancora ..si
prevede che la costruzione della fabbrica di diffusione, dotata di una
camera pulita di oltre 18000mq (a Catania ne erano previsti 8000:
evidentemente ci ingrandiamo!), verrà avviata agli inizi del 2005. Una volta
completato, lo stabilimento impiegherà circa 1500 persone.. Lo stesso
progetto! Signori qui non vogliamo fare falsi allarmismi, ma: come evolverà
Catania? E i nostri manager non sapevano nulla? Beh, comunque siano
andate le cose, da questa storia una cosa l’abbiamo compresa: dal
management di Catania non possiamo aspettarci più risposte attendibili. Le
risposte dobbiamo andarle a cercare altrove.
c. A Catania oggi ci sono reparti produttivi che rappresentano dei fiori
all’occhiello in termini di produttività e qualità: qui ci sono lavoratori
specializzati che continuano a farsi il mazzo tra turni notturni festivi e
basso salario. E se in alcuni reparti la redditività, vale a dire quanto
l’azienda guadagna sull’unita’ di prodotto, è bassa rispetto alle attese, le
cause non sono da addebitare al cattivo lavoro degli operatori di sala o
degli ingegneri di processo: le cause, quelle vere, sono a monte e si
chiamano errori di strategia, visione errata del mercato! Le memorie non si
vendono più al prezzo previsto! È fuorviante parlare di bassa produttività o
di errori umani, che sono nella media degli altri stabilimenti.
d. Il fatto è che quanto sta succedendo per M6 rientra in un quadro di
riorganizzazione mondiale di STm in cui i nuovi vertici si stanno facendo
interpreti di una linea diversa da quella precedente, euro-centrica e
sensibile al sociale. Vale la pena sottolineare che non stiamo parlando di
un’azienda in crisi, ma di un’azienda che ha un margine operativo lordo del
37.9%. In una Flash Info sui risultati finanziari al terzo trimestre 2004,
STm dichiara un utile netto pari a 414 MLN di $; gli stessi utili l’anno
precedente sono stati di 109 MLN di $. Se per guadagnare un paio di punti
percentuali lo scotto da pagare deve essere la perdita di migliaia di posti di
lavoro, noi di Catania non ci stiamo! E non ci stanno neanche i colleghi di
Agrate e Castelletto, come non ci stanno neanche i colleghi francesi, con i
quali i contatti, la visione e le preoccupazioni sono pienamente condivisi!
e. E che Catania, tra le sedi europee e italiane sia quella messa peggio, ce lo
dice anche la penosa situazione delle attività di R&D. Un sito che non
cresce, dopo qualche anno di stabilità è un sito destinato a morire. Man
mano che le tecnologie diventano obsolete, il futuro di un sito si poggia
sempre più sulle nuove tecnologie: all’inizio, le nuove tecnologie sono
oggetto di ricerca e sviluppo, poi di produzione all’avanguardia; quindi
produzione ordinaria e poi produzione obsoleta e poco redditizia, da
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trasferire nei paesi a basso costo, secondo una certa logica. Un po’ come un
circolo, no? O come una catena alimentare: l’acqua fa crescere le piante,
che danno cibo agli erbivori; questi vengono mangiati dai carnivori, che dopo
la morte diventano fertilizzanti perché il terreno, alle prossime pioggie,
produca le piante; ma se non piove, se non c’è l’acqua, le piante non
nasceranno; e se non potranno mangiare gli erbivori, dopo un po’ non
potranno farlo neanche i carnivori; e quando se ne accorgeranno, sarà ormai
troppo tardi. È un po’ come la chiusura del cerchio, no? Per rimpiazzare ciò
che man mano perde di redditività, è quindi necessario che parallelamente
ci sia, oltre alla produzione ordinaria, un’attività di R&D che rimpiazzi le
tecnologie già esistenti. Ma se l’R&D viene fatto a Praga, ad Agrate o a
Shanghai, le competenze sulle nuove tecnologie saranno a Praga, ad Agrate
o a Shanghai, non a Catania. Questo è quanto sta succedendo: la nuova
organizzazione STm non prevede attività di R&D a Catania, se non rare
eccezioni. Nella stessa flash info, STm dichiara di aver investito nei primi
tre trimestri del 2004, 1131 MLN di $, contro gli 883 MLN di $
dell’analogo periodo del 2003. STm non è in una fase involutiva: aumenta
pure gli investimenti in R&D; semplicemente: non investe a Catania.
Questa è un po’ l’analisi della situazione del sito di Catania. Quindi, per
riassumere: 6”, M6, R&D. il primo punto è rivolto al passato, il secondo e il terzo
punto sono rivolti al futuro. E il futuro di tutti, anche quello dei lavoratori sui 6”,
dipende dall’M6 e dall’R&D.
3. Infrastrutture, finanziamenti, diritti..
Catania non è l’unico stabilimento di STm in Italia o in Europa. Il rapporto e la
solidarietà con i lavoratori di Agrate e Castelletto e con quelli francesi, saranno
ancora più saldi e più forti di prima, perché l’unione fa la forza. STm proverà a
metterci l’uno contro l’altro.
Conosciamo il metodo: un’azienda lancia un programma di sviluppo e poi chiede agli
stabilimenti distribuiti sul territorio di guadagnarselo con la riduzione dei costi.
Chi vince questa infame asta al ribasso riceve la commessa e una garanzia a
tempo per il futuro. Questa non è una strategia di delocalizzazione; questo è
mettere in competitività i lavoratori e le aree territoriali, in una guerra sociale
dei poveri. Quello che avviene non è un processo legato all'andamento dei
mercati; né é un progetto che mira a far sopravvivere le aziende; è uno
strumento per abbassare continuamente il costo del lavoro: cioè i nostri stipendi!
Viene anche il dubbio se l'impresa abbia davvero intenzione di delocalizzare.
Siamo sicuri che i costi globali che la nostra azienda sostiene dipendono così
tanto dal costo del lavoro?
Indubbiamente mettere su uno stabilimento come M6 e investire in R&D costa.
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Che il credito d’imposta, piuttosto che altri strumenti finanziari che ai presenti
non sfuggiranno di certo, siano oggi incentivi imprescindibili per un’azienda che
investe, non ci sono dubbi. Per chi manovra certe cifre, si tratta di rendere
questa o quell’area più o meno appetibile. D’altronde, non di soli strumenti
finanziari si tratta: l’assenza di adeguate infrastrutture, che a dispetto dei sogni
in questa Etna Valley tardano a decollare, è sicuramente un problema in più. Dal
comunicato stampa del 16 Novembre 2004 leggiamo che ..La città di Wuxi, scelta
per la vicinanza a Shanghai,offre un bacino di manodopera specializzata, unita ad
una florida ed efficace infrastruttura.. E a Catania la manodopera specializzata
ce l’abbiamo già. Sono le floride ed efficaci infrastrutture, quelle che hanno
fatto la differenza. A Singapore come in altri paesi di quell’area, le aziende
usufruiscono di “progetti chiavi in mano”: il governo locale realizza
infrastrutture, collegamenti, supporti di ogni genere, nonché l’edificio e li
consegna chiavi in mano all’azienda, che non ha altro da fare se non entrare e
cominciare a produrre.
Qualche minuto fa ho usato la parola strumentalizzazione, riferendomi ai costi
che l’azienda deve sostenere in un luogo o nell’altro. Se ad esempio la differenza
del costo complessivo di produzione tra una fetta prodotta a Singapore e una
prodotta a Catania è 50$, l’incidenza in questi 50$, del costo del lavoro non è poi
così alta: siamo nell’ordine del 10%, forse 15%. Quindi 10$ su 50$! Allora, se il
costo di una fetta dipende dalla facilità nel reperire un pezzo di ricambio
(perché lì ci sono altre aziende che producono i macchinari o comunque ce n’è
tante, per cui è più semplice reperire un pezzo) e dalle minori spese per
infrastrutture e servizi, come i trasporti, per esempio, allora no, non devono
venirci a dire che dobbiamo abbassare gli stipendi; non devono venirci a dire che
il problema è che un nostro collega cinese guadagna molto di meno e che per
sopravvivere dobbiamo abbassare il nostro stipendio! Non è questo il fattore
determinante!
Ciò che è determinante sono le infrastrutture e i finanziamenti. Quando parlavo
di strumentalizzazione mi riferivo a questo: la balla degli stipendi troppo alti e
dello stringere la cinghia se la possono tenere. Noi non ci crediamo più.
Infrastrutture, finanziamenti. Questo, serve.
È la realtà dei fatti, questa: se il mondo non vogliamo proprio cambiarlo,
dobbiamo adeguarci ad offrire alle aziende multinazionali quello che esse trovano
lontano da qui: infrastrutture, finanziamenti; noi i diritti e il salario che ci siamo
guadagnati ce li teniamo stretti, perché quelli fanno parte della nostra cultura,
della nostra civiltà, della nostra costituzione; è questo che dovremmo esportare,
non le imprese! La concorrenza sul costo del lavoro, che FIOM non accetta in
linea di principio, va comunque fatta a parità di condizioni e di diritti!
A Wuxi, la località in cui STm costruirà l’M6, il costo d’investimento per metro
quadro è semplicemente di 18$, meno di un decimo di quello di Shanghai, perché
quelle sono zone ancora a bassa concentrazione industriale, ma già supportate da
servizi. Su quell’investimento, pesano come un macigno le infrastrutture e i
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servizi offerti, a partire dal collegamento ferroviario tra Wuxi e Shanghai.
Infrastrutture, appunto. Quanto costa per metro quadro investire a Catania?
Non mi riferisco al prezzo del terreno, ma ai costi per sopperire alla mancanza di
servizi e infrastrutture: sono quelli che incidono, non uno stipendio, che ci basta
a coprire solo le prime tre settimane del mese!
Ma le infrastrutture non possiamo farle noi lavoratori. Noi stiamo là dentro: ci
alziamo la mattina presto, stiamo in sala con la luce artificiale e col camice per
tutta la giornata o davanti al computer a fare simulazioni per far funzionare ‘sti
apparecchietti. Queste cose le chiediamo a voi che siete venuti ad ascoltarci e di
questo vi ringraziamo. Ma, poiché è in nostro dovere e facoltà, vi chiediamo di
mettere in campo quanto ritenete opportuno e possibile; per garantire non solo la
continuità, ma piuttosto lo sviluppo di uno stabilimento, di una città e di un’area
già oltremodo depressa. In STm CT lavorano 4.500 persone. Se aggiungiamo
l’indotto, siamo molti di più. E la Sicilia non può permettersi la crisi di altre 8K
famiglie.
A nome dei lavoratori, chiediamo alle istituzioni politiche e alle OOSS di
attivarsi affinché non succeda quello che oggi è prevedibile e che ancora può
essere evitato. La storia, e Rennes ne è un banale esempio, ci ha insegnato che
per mantenere in vita uno stabilimento a rischio, ci si deve muovere in anticipo:
affidarsi alla semplice reazione, quando ormai è troppo tardi, è pratica che non
ripaga.
Per questo chiediamo che le OOSS e le istituzioni politiche locali, a fianco dei
lavoratori, chiedano un tavolo ministeriale di confronto, per discutere il futuro di
STm a Catania.
M6, R&D.
Infrastrutture, finanziamenti.
Diritti e dignità per i lavoratori.
Sono questi, i punti di riferimento.
Vorrei chiudere con un contributo di tenore diverso: c’è un settore, nell’industria
moderna, che è di grande attualità ed importanza: è quello energetico. A Catania,
tra le poche attività di R&D che facciamo, una delle più promettenti è quella sul
foto-voltaico. Vorrei dire che in Germania questo settore ha creato 50.000 posti
di lavoro; e vorrei dire anche che il leader mondiale nella produzione di pannelli
foto-voltaici si chiama Sharp; sì, è proprio quella che conosciamo: un’azienda di
semiconduttori, come STm. Chissà che non si riesca a trarre interessanti sviluppi
da questo settore e che in questo modo l’edificio M6 non finisca per diventare
l’n-esima incompiuta.
Catania, 17 Dicembre 2004
Giuseppe Sessa
RSU FIOM STMicroelecronics Catania
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