Cielo e stelle e silenzio

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Cielo e stelle e silenzio
Siedo in poltrona. E’ comoda, in autentico stile impero, e mi congiunge a tanta storia della mia
famiglia, in gran parte incerta o sconosciuta. Delle sue origini piemontesi, a cui mio padre ancora si
sentiva legato, nonostante fosse nato a Roma nel gennaio del 1905. Fin dal tempo di Napoleone. Un
mio antenato, credo fosse il padre di mio nonno, partì con la Grande Armée, giovane tamburino,
verso la steppa russa. Erano oltre trentamila gli italiani provenienti dal Regno d’Italia e da quello di
Napoli. Nel IV corpo d’armata vennero inquadrati i primi al comando del principe Eugenio de
Beauharnais, figlio di Giuseppina, dopo che il marito aveva lasciato la testa sotto la ghigliottina,
divenuta l’amante e poi la moglie ripudiata di Napoleone. Tornò in Piemonte, questo mio lontano
parente, con una gamba sola, per ferita in battaglia, probabilmente a Ostrovno, il 25 e 26 luglio
1812, in territorio ora della Bielorussia, dove appunto si scontrarono i soldati del IV corpo e i russi
nel tentativo di arginarne l’avanzata. O forse per congelamento durante la disastrosa ritirata nel
terribile inverno di quel medesimo anno, quando nel mese di novembre le truppe francesi
attraversarono la Beresina. Non so; forse non lo sapevano neppure i miei.
Sono rivolto verso la porta-finestra. Solo cielo e stelle. E il silenzio delle ore in cui il vecchio giorno,
ormai stanco, si attarda in compagnia di quel fratello più giovane, impaziente a prendere possesso
dell’ordine naturale delle cose. Ed ecco tornarmi a mente una riflessione di Giulio Cesare, forse
scritta durante una delle straordinarie campagne nelle Gallie. Non abbisogna attendere il mattino
successivo per stabilire se ben s’è condotta la propria esistenza ma, chiusi nella tenda, in mano lo
stilo nell’altra la tavoletta annotare come s’è trascorso il proprio tempo… Ed ecco il vecchio Platone,
prossimo alla morte eppur mai domo. in Le Leggi quando ci suggerisce come le luci sfumate della
sera suscitino e destano pensieri alti e nobili. E così Martin Heidegger in cerca di un riparo per la
notte, distingue il tramontare, ove l’alba futura si ripone, dal mero perire, portando negli occhi le
macerie della Germania devastata e invasa da cui si levano immense nubi di fiamme fumo polvere e
urla di corpi straziati, ma preservando la certezza in quella terra della sera, das Abendsland, e nel
suo popolo pastore dell’Essere.
Ilse, la moglie di Guido, mi ha portato da un negozio di Militaria a Wilhelmshaven, base storica della
flotta germanica, una enorme bandiera della marina da guerra della Prussia, bianca con la croce
nera dei Cavalieri teutonici. Strana vicenda. Era appesa alla parete del negozio, sporca e polverosa,
arredo inutile di una memoria strappata, con cinquanta euri se l’è presa e me ne ha fatto dono. Lei
stessa, figlia di un alto ufficiale, fra quei pochi comandanti di U-boote sopravvissuti alle bare
d’acciaio in fondo all’Atlantico, agli ordini dell’Ammiraglio Karl Doenitz, nulla sa degli avvenimenti
della Seconda Guerra Mondiale e nulla se ne cura. La damnatio memoriae di cui già Roma era
consapevole s’è abbattuta sulla Germania in particolare, sulla storia d’Europa. Ora fa bella mostra di
sé a lato della finestra, sula brandina che mi accoglie nelle poche disordinate ore di sonno. Una
stampigliatura ne certifica l’autenticità, appartenendo alla II Squadra navale. Durante la Grande
Guerra e facente parte della flotta imperiale, la Hochseeflotte, che prese il largo nella notte del 30
maggio 1916 per ‘una missione di controllo del traffico’.
La più grande battaglia di corrazzate s’apprestava nelle acque del Mare del Nord, grigie come il
cielo, ignare le due flotte, quella tedesca e quella inglese, di navigare l’una incontro all’altra. Tutto si
svolse nell’arco del pomeriggio. Lungo la penisola danese dello Jutland, si svolse dunque l’unica vera
battaglia, poi le grandi navi, che erano state causa di rivalità fra le due nazioni, si ritirarono nei
rispettivi porti, a Wilhelmshaven i tedeschi a Scapa Flow gli inglesi. In mare rimasero i sommergibili,
alcune navi corsare e scontri tra unità leggere. Quando, poi, nell’ottobre del 1918 gli ammiragli
Hipper e Scheer riuscirono a convincere l’alto comando germanico di portare nuovamente in mare la
flotta, era ormai troppo tardi. I marinai in rivolta, sulla spinta della Rivoluzione del ’17, avevano
innalzato le bandiere rosse e processato gli ufficiali. Ultimo atto fu l’autoaffondamento delle 74 navi,
internate dagli inglesi nella loro base di Scapa Flow nelle isole Orcadi, il 21 giugno del ’19 nel
timore, fondato, d’essere spartite tra i vincitori.
Mario Michele Merlino
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Sull’altro lato della finestra, dove si dipartono gli scaffali con i libri, la fotografia di Filippo Corridoni
con la firma tremolante e incerta della madre Enrichetta e la data 24 ottobre 1936 (il figlio è caduto
alla Trincea delle Frasche il 23 0ttobre 1915, il suo corpo mai identificato). E’ la data di
inaugurazione del monumento a lui dedicato a Corridonia (Pausula, in provincia di Macerata, cambiò
il nome in omaggio al suo concittadino) e presente il Duce. ‘Filippo Corridoni, tribuno
dell’intervento, apostolo ardente di quella più alta giustizia sociale che è il Vangelo del Fascismo,
soldato della Patria, eroe della Vittoria, il tuo sacrificio rappresenta la sintesi perfetta di questi due
elementi che, quando si ritrovano, sono invincibili: Popolo e Patria’. Oggi si preferisce usare il
termine ‘paese’, privo d’ogni eco affettiva, incapacitante a suscitare sentimenti, e del popolo, dopo
l’ubriacatura del ’68 e dintorni, non resta che n magma informe, la plebe… Un bel viso serio,
adombrato da un lieve accenno di sorriso, i capelli pettinati all’indietro e il fiocco libertario al posto
della cravatta.
Accanto in piccola cornice rimediata, due fotografie d’epoca. Autentiche. Sono antecedenti il 28
ottobre, la data della Marcia su Roma, immagini dello squadrismo. Ci si mette in posa, in una, dopo
aver devastato una sede del Partito comunista, volti belli e radiosi di chi ha partecipato ‘alla festa
della rivoluzione’, la camicia nera con decorazioni della Prima Guerra Mondiale, un ritratto di Lenin
dei manifesti con la falce e martello, copie di giornali ove si legge la parola ‘comunista’. Nell’altra
squadristi, anche qui la camicia nera l’elmetto il fez il manganello il nerbo di bue, sfilano per una
stradina acciottolata fra misere case balconi a ringhiera, da dove gente li osserva. Forse si tratta di
Napoli. Al raduno del 24 ottobre, prova generale prima di dare il via all’insurrezione. Al centro, una
giovane donna, anch’essa in camicia nera, stivaloni e randello in mano, i capelli lunghi chiari e ricci,
una sorta di papalina a raccoglierli. Il viso affilato severo, il passo energico sicuro. A sfatare uno dei
tanti luoghi comuni, delle menzogne su un preteso Fascismo maschilista…
E, ancora, la chiesetta S. Antonio, Pratolungo, nei pressi di Alfonsine, Ravenna. Quasi una stalla, un
fienile di mattoni sberciati, la porta di assi in legno, una mano anonima con vernice scura ha vergato
il simbolo della Decima, in verticale il nome del btg. Lupo, ‘fosse anche la mia purchè l’Italia viva’ di
cui alcune parole sono scomparse per l’inclemenza del tempo trascorso. Qui vennero sepolti i primi
caduti del Lupo sul fronte del Senio, ultima sottile linea di difesa prima che tutto avesse fine. Penso
al Comandante Mario Sannucci che, in questi luoghi, nella notte del 6 gennaio ’45, venne colpito da
raffica di mitra mentre s’era spinto oltre l’argine per snidare i cecchini canadesi, trascinato nel
fango fino ad un ospedale da campo tedesco, con la amputazione del braccio destro. Un signore alto,
la folta chioma bianca, diritto come il tronco di vecchia quercia, gli occhi azzurri, con cui prendevo il
cappuccino la mattina del martedì, mio giorno libero al liceo. Uomini di una stagione altra ed alta,
estrema e nobile memoria delle macerie di una Italia ‘proletaria e fascista’ e di un’Europa ormai
muta.
E altro ancora, a firma di Adriano Bolzoni, già ufficiale degli alpini corrispondente di guerra RSI alle
dirette dipendenze del Maresciallo Rodolfo Graziani scrittore di libri fra cui La guerra dei neri, fra i
primi e fra i più belli sulla guerra civile dalla parte dei ‘vinti’, autore di film, uno su Che Guevara:
‘Purchè alla fine di mia vita intera, abbia per croce, sulla tomba, un sasso. Su cui sia scritto: non
cambiò bandiera’. E il testo autografo dell’architetto Alessandro Tognoloni, medaglia d’oro alla
memoria, dato caduto in combattimento con i ragazzi del suo plotone, btg. Barbarigo, nei pressi di
Cisterna nel vano tentativo di rallentare l’avanzata degli alleati verso Roma, primi di maggio del ’44.
Egli mi ringrazia, con parole commosse e commoventi, per aver portato in visita al Campo della
Memoria, di cui fece il progetto, i miei alunni, anno 1996. Egli definisce se stesso e i suoi camerati
quali ‘Involontari sopravvissuti’, a dimostrazione della tensione ideale, della scelta di vita di allora e
di sempre…
Le mani sono appoggiate ai braccioli della poltrona, mani solcate da vene e rugose, mani da vecchio.
Lo so. Il chiarore della luna, l’aria fredda della notte trasmettono il senso dell’esistenza, comunque e
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nonostante tutto. Rimorsi rancori rivalse, no, forse solo qualche rimpianto. I partigiani dell’ANPI si
sono rivolti con tono mielato deferente infame al prefetto di Arezzo chiedendo di vietare il convegno
sul futuro dei giovani, un diritto o una illusione, in quanto annunciata la mia presenza. Potrei
riempire queste ore d’insonnia con un libro, annotando un pensiero, una ideuzza per qualche
racconto, una presentazione futura. Eppure anche così è vita il mio cuore pulsa il sangue si svela
lungo le vene cinquant’anni di militanza, vorrà dire qualcosa? Cielo e stelle e silenzio…
Di altre notti di altre stanze di una cella ho memoria ma anche di piazze concitate braccia levate i
bastoni rotoli di manifesti il secchio della colla l’urlo delle sirene il calpestio della rivolta i sogni che
ci rendono liberi e gli ideali che ci preservano giovani e di libri, tanti, e del corpo di donne, quanto
basta. Due poliziotti, forse tre, in borghese a proteggere il convegno a verificare numero dei presenti
nomi e targhe. Banale lavoro di routine. Quando arrivo mi rivolgono un mezzo sorriso, io li ricambio
con un sonoro ‘buona sera’. Marcare il territorio, affermare le differenze. In sala mi sussurrano
esservi due ‘antagonisti’ (ma non siamo noi quelli ad essere contro?), due giovanottelli con il
cappuccio della felpa a coprire parte del viso. Poverini, ignorano che la festa la sinistra la fa nei
palazzi del governo e non più in piazza o gridando ‘uccidere un fascista non è reato!’. Mi applaudono
quando ricordo il mio ‘spiritaccio’ libertario e irriverente. Non hanno capito niente di cosa sia
l’anarco-fascismo. Non è colpa loro; poi se ne vanno in punta di piedi quando esplicito là dove la
mente il cuore la mia stessa esistenza hanno scelto d’esserci.
Ho speso bene il mio tempo?
Mario Michele Merlino
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