Governare il vuoto?

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PETER MAIR*
Governare il vuoto?
L’esautorazione della democrazia occidentale
(novembre-dicembre 2006)
«Popolo semi-sovrano» è un’espressione coniata quasi mezzo
secolo fa per suggerire che il controllo delle decisioni politiche
potrebbe cadere al di fuori della portata dei comuni cittadini.1
La tesi di Schattschneider era un argomento di discussione familiare negli anni Sessanta, attorno al quale si sono confrontati numerosi studiosi nel cosiddetto dibattito «pluralisti-elitisti».
Mi sembra che l’espressione sia tuttora pertinente, sia pure in
* Peter Mair (1951), laureato in Scienze Politiche all’Università di Dublino, è stato per anni professore alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Leida e dal 2005 insegna Politica comparativa presso l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Firenze. Dal 2001 cura la rivista
«West European Politics» ed è stato membro del comitato di redazione
di alcune riviste specializzate sempre nel campo degli studi politici. È
autore di un vasto numero di articoli e saggi, tra i quali: Policy Competition, Spatial Distance and Electoral Instability (con Stefano Bartolini),
in «West European Politics, vol. 9, n. 4, 1990 (trad. it. Spazio politico e
mobilità elettorale, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», vol. 20, n.
2, 1990); La trasformazione del partito di massa in Europa, in Mauro
Scalise (a cura di), Come cambiano i partiti, Il Mulino, Bologna 1992;
Changing Models of Party Organization and Party Democracy: the
Emergence of the Cartel Party (con Richard Katz), in «Party Politics»,
vol. 1, n. 1, 1995 (trad. it. Cambiamenti nei modelli organizzativi e democrazia di partito. La nascita del cartel party, in Luciano Bardi (a cura
di), Partiti e sistemi di partito, Il Mulino, Bologna 2006).
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forma più vigorosa e meno equivoca. Oggi, infatti, persino la
semi-sovranità sembra essere regredita, al punto che i cittadini
sono ormai completamente non-sovrani. A emergere è una nozione di democrazia deprivata della sua componente popolare:
una democrazia senza demos. Nelle pagine che seguono, esaminerò i due processi gemelli dei ritiri della popolazione e delle
élite dalla politica elettorale di massa, ponendo particolare attenzione alla trasformazione dei partiti politici. Concluderò
con un’analisi delle conseguenze che questo processo ha sulle
democrazie liberali dell’Occidente.
Quando incominciai a occuparmi del concetto di non-sovranità, lo associavo soprattutto all’indifferenza: verso la politica e, di fatto, verso la democrazia. Questo era uno dei fattori
più trascurati nella letteratura sulla fiducia e sulla sfiducia politica della fine degli anni Novanta.2 Tuttavia, si può sostenere
che il senso di ostilità che taluni cittadini provavano verso i leader politici era meno importante dell’indifferenza con cui molti altri guardavano al mondo politico in generale. Naturalmente, non sempre la linea divisoria tra indifferenza e ostilità è pronunciata e, come ebbe a osservare Tocqueville, la perdita di
una funzione può ingenerare disprezzo verso coloro che continuano a fondare i loro privilegi sul suo esercizio. Ma è possibile che, semplicemente, molti comuni cittadini giudicassero la
politica e il ceto politico privi di interesse.
Alla fine degli anni Novanta, tuttavia, l’indifferenza popolare si affiancava a una nuova retorica degli stessi politici. Un
caso considerevole è quello di Tony Blair, che durante il primo mandato come primo ministro dichiarò: «Non sono mai
stato davvero in politica […] E neppure oggi mi considero un
politico».3 Per Blair, il ruolo della politica «progressista» consisteva non nel fornire soluzioni dall’alto, esercitando un
«ruolo direttivo», bensì nel conciliare gli interessi dei «mercati dinamici» e delle comunità forti, in modo da «offrire siner8
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gie e opportunità».4 Nel mondo ideale di Blair, la politica sarebbe divenuta alla fine ridondante. Come avrebbe osservato
in seguito uno dei suoi più prossimi colleghi di governo, «la
depoliticizzazione del processo decisionale è un fattore vitale
per portare il potere più vicino alla gente».5 Su un piano, si
trattava di una semplice strategia populistica: ricorrere alla retorica «della gente» per porre l’accento sulla radicale frattura
verificatasi rispetto agli stili di governo del passato. Su un altro piano, tuttavia, tale affermazione si accordava ai principi
di quella che allora veniva considerata la scuola emergente
della governance (e all’idea che «la società è ora sufficientemente ben organizzata grazie alle reti di auto-organizzazione
che ogni tentativo da parte del governo di intervenire sarà
inefficace e, forse, controproducente» 6). In questa prospettiva, il governo non cerca più di esercitare il potere o la propria
autorità. La sua importanza si indebolisce, mentre aumenta
quella delle istituzioni e delle pratiche non governative. Nei
termini di Ulrich Beck, la dinamica si sposta dalla politica con
la p maiuscola alla Politica con la p minuscola, o a quella che
egli chiama la «sottopolitica».7
Alla fine degli anni Novanta, i sentimenti antipolitici divenivano più evidenti anche nella letteratura sul processo decisionale. Nel 1997, apparve su «Foreign Affairs» un autorevole
articolo che esprimeva preoccupazione perché il governo degli
Stati Uniti stava divenendo «troppo politico». L’autore, Alan
Blinder, noto economista e vicedirettore della Federal Reserve,
suggeriva di estendere il modello delle Banche centrali indipendenti ad altre aree chiave della politica, di modo che le decisioni sulla salute, lo Stato sociale e così via fossero prese da
esperti esterni ai partiti.8 Il ruolo dei politici nel processo politico doveva essere confinato a quei settori in cui il giudizio
degli esperti non bastava a legittimare i risultati. Argomenti
analoghi affioravano nel contesto europeo. Nel 1996, per
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esempio, Giandomenico Majone sostenne che nel processo
politico il ruolo delle decisione prese dagli esperti sia superiore a quello delle decisioni prese dai politici perché i primi possono valutare meglio gli interessi a lungo termine. I politici
operano, per definizione, nel breve termine. Accettare che le
decisioni siano dominate dalle considerazioni del ciclo elettorale vuol dire ottenere risultati meno soddisfacenti: «La segmentazione del processo democratico in periodi relativamente
brevi ha serie conseguenze negative quando i problemi a cui si
trova di fronte la società richiedono soluzioni a lungo termine.» Ancora una volta, la soluzione consisteva nel delegare un
insieme di poteri a quelle che Majone definisce istituzioni nonmaggioritarie, «che, per costituzione, non rendono conto del
proprio operato agli elettori o ai loro rappresentanti eletti».9
Gli esperti possono affrontare meglio la complessità tecnica
del moderno processo legislativo, che spesso disorienta i politici. Poiché le tradizionali forme di controllo dello Stato sono
state sostituite da più complesse strutture regolatrici, è probabile che la conoscenza specialistica si dimostri più efficace del
giudizio politico.10 Anche qui, pertanto, la politica veniva svalutata.
Alla fine degli anni Novanta sembrava, insomma, che né i
cittadini né i politici riconoscessero molto credito al ruolo del
processo decisionale politico o partitico. Ma, mentre i dati
mostravano una diffusa indifferenza verso la politica e i politici, meno chiaramente indicavano un’indifferenza anche verso
la democrazia. Anzi, a considerare i dibattiti sulla riforma costituzionale dei tardi anni Novanta e la letteratura teorica in
proposito, si aveva l’impressione di un grande e crescente interesse per la democrazia, e che rispetto a venti o trent’anni prima si prestasse maggiore attenzione a come funzionano i sistemi democratici e che cosa essi significano in realtà. Lungi
dall’essere giudicata con indifferenza, la democrazia era un te10
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ma centrale sia nella scienza politica empirica sia nella teoria
politica. I cataloghi delle case editrici universitarie abbondavano di titoli nuovi sull’argomento. Per esempio, nel 2002, la
Oxford University Press annunciò come pubblicazione di
spicco nella sua collana di teoria politica Reflective Democracy
di Robert Goodin, seguito da Inclusion and Democracy di Iris
Young, Deliberative Democracy and Beyond di John Dryzek e
Democratic Autonomy di Henry Richardson. La democrazia
era ben più che un argomento di discussione nella quotidiana
agenda politica: in molti Paesi occidentali, si incominciò a discutere di riforma istituzionale, mentre la Banca Mondiale e
altre organizzazioni internazionali presero a parlare di «governo partecipato». Le discussioni sulla riforma dell’ordinamento
dell’Unione Europea raggiunsero un grado di importanza quasi inconcepibile dieci anni prima. Alla fine degli anni Novanta,
la democrazia (associativa, deliberativa o riflessiva; globale,
transnazionale o inclusiva; elettorale, illiberale o anche solo
cristiana) era un tema caldo.
Oltre la partecipazione di massa?
Tutto questo ci pone di fronte a un rompicapo: come vedremo,
abbiamo ora dati abbastanza consistenti dell’indifferenza popolare verso la politica tradizionale e, più probabilmente, verso la democrazia. Eppure, a livello intellettuale e a volte a livello di riforme istituzionali, si è registrato un netto ritorno di interesse per la democrazia (se non necessariamente per la politica in quanto tale). Come si conciliano questi due opposti sviluppi?
Le possibilità sono due. La prima è che essi siano effettivamente correlati fra loro e che il crescente interesse intellettuale-istituzionale per la democrazia, per il suo significato e per il
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suo rinnovamento, sia in parte una risposta volta a contrastare
la crescente ampiezza dell’indifferenza popolare. In altre parole, enfatizzare l’importanza della democrazia diventa un obiettivo politico nel momento in cui essa corre il rischio di essere
altrimenti irrilevante. Ma, se questo è ciò che suggerisce la simultaneità dei due fenomeni, il reale contenuto della discussione suggerisce tutt’altre conclusioni. Difatti, anziché incoraggiare una più vasta partecipazione o provare a rendere più
significativa la democrazia per i comuni cittadini, molti contributi alla discussione sulle riforme istituzionali o alla teoria
della democrazia sembrano avvantaggiare opzioni che in realtà
disincentivano l’impegno di massa. Lo confermano il fatto che
l’accento, più che sulla partecipazione elettorale, cada sul
coinvolgimento degli stakeholder che occorre ricercare tanto
nella «democrazia associativa» quanto nel «governo partecipato», oppure sul tipo di discussione esclusiva che si trova nella
democrazia «deliberativa» e nella democrazia «riflessiva». In
ogni caso, nessuna possibilità è lasciata ai tradizionali modi
della democrazia di massa. La «legittimità dell’output» affermata nelle discussioni sull’ordinamento della UE e l’idea a essa
collegata che la democrazia richieda «soluzioni che sono “oltre
lo Stato” e, forse, anche oltre le convenzioni della democrazia
liberale rappresentativa di tipo occidentale» sfuggono in egual
misura all’impegno di massa.11 In altre parole, se l’indifferenza
popolare può suscitare preoccupazione, nondimeno non pare
che avvicinare la democrazia alle masse sia la risposta preferita.
Per esempio, per Philip Pettit, che ha discusso il problema del
rinnovamento della democrazia nel contesto della deliberazione e della depoliticizzazione, la questione va affrontata perché
«la democrazia è troppo importante perché possa essere lasciata ai politici o anche agli elettori che votano ai referendum». Fareed Zakaria, nel suo libro più noto, afferma che il
rinnovamento è necessario perché «ciò di cui abbiamo biso12
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gno nella politica di oggi non è più democrazia bensì meno democrazia».12
Di qui la seconda possibilità: il rinnovamento dell’interesse
intellettuale e istituzionale per la democrazia non tende ad accrescere o rinvigorirne i procedimenti, bensì a ridefinire la democrazia in modo tale da non aver più bisogno di accentuare
la sovranità popolare e quindi poter più facilmente tener testa
al declino del coinvolgimento popolare. Radicalizzando, si
tratta di un tentativo di ridefinire la democrazia in assenza del
demos. In parte tale processo poggia sulla distinzione fra quella che è stata definita «democrazia costituzionale» e quella che
potremmo chiamare «democrazia popolare»: una distinzione
che si sovrappone a (e riecheggia) quella precedente di Robert
Dahl fra «democrazia madisoniana» (da James Madison, uno
dei padri fondatori del federalismo americano) e «democrazia
populista».13 La componente costituzionale sottolinea la necessità di una serie di controlli e bilanciamenti istituzionali e comporta il governo per il popolo. La componente popolare sottolinea il ruolo della partecipazione dei comuni cittadini e delle
masse e comporta il governo del popolo. I due elementi coesistono completandosi a vicenda entro un senso «unificato» di
democrazia. Ma oggi essi sono disaggregati e quindi in contraddizione tra loro, tanto nella teoria quanto nella pratica. Di
qui, l’emergere di recente dei concetti di democrazia «illiberale» o «elettorale», e del tentativo di distinguere quelle democrazie in cui le libere elezioni (democrazie popolari) si affiancano alla restrizione dei diritti e ai potenziali abusi del potere
esecutivo.14 In particolare, come sembrano indicare molti studi
sui Paesi passati alla democrazia nella «terza ondata», gli elementi popolari e costituzionali non sono più necessariamente
correlati fra loro.
Non solo le due componenti sono sempre più distinte sul
piano concettuale, ma anche nella pratica vanno incontro a una
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disparità sempre maggiore (ed è l’elemento popolare a retrocedere rispetto a quello costituzionale). Per Zakaria, per esempio,
è la componente costituzionale anziché quella popolare a essere essenziale per la sopravvivenza e il benessere della democrazia. Come egli spiega: «Per gran parte della storia moderna, ciò
che ha caratterizzato gli Stati dell’Europa e il Nord America,
differenziandoli da quelli del resto del mondo, non è stata la
democrazia ma il liberalismo costituzionale. Il “modello occidentale” è simboleggiato meglio dal giudice imparziale più che
dal plebiscito di massa».15 Secondo questo punto di vista, a favorire la democrazia non sono le elezioni in quanto tali ma
piuttosto i tribunali, insieme ad altri modi di partecipazione
non elettorale. Riguardo ai Paesi in via di sviluppo, come implica gran parte della letteratura sulla «buona governance», la formula è molto semplice: ONG + giudici = democrazia. Vale a dire, mentre si può accettare di porre l’enfasi sulla «società civile» e si deve fare affidamento sulle procedure giudiziarie, al
contrario le elezioni non sono necessarie. 16
Un ragionamento simile si trova in molti dibattiti sulla
riforma costituzionale, dove di nuovo la democrazia viene ridefinita in modi che spesso minimizzano l’importanza del sostegno popolare. Per esempio, come ha osservato Michelle Everson nella sua recensione al libro di Majone,
il pensiero non-maggioritario [...] sostiene fermamente che l’isolamento della governance del mercato dalle forze politiche è al
servizio degli obiettivi della democrazia, salvaguardando gli scopi democraticamente stabiliti dell’ordinamento politico dalle tendenze predatorie di una élite politica transitoria.17
La contrapposizione è inequivocabile: da una parte, gli
obiettivi della politica, obiettivamente definiti; dall’altra, le pretese di una transitoria (giacché eletta) e, perciò, predatoria éli14
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te. I primi sono sostenuti dalle reti della buona governance, l’altra dal puro e semplice potere e dall’ambizione politico-elettorale. Analogamente, una recente rassegna dei nuovi modi di delega politica sottolinea la crescente importanza della «legittimità procedurale», che «poggia su un processo decisionale
compiuto dalle INM [le istituzioni non-maggioritarie] molto migliore delle grette e spesso segrete deliberazioni del Consiglio
dei ministri». Qui, i vantaggi di trasparenza, legalità e di accesso agli stakeholder si stagliano contro i limiti e le distorsioni
della politica dei partiti, e sono considerati alla guida di un processo che offre «un equo e democratico sostituto alla responsabilità elettorale».18
Il ruolo dei partiti
Che impatto ha avuto questo declassamento della componente
popolare della democrazia sui partiti politici? E quale ruolo
hanno avuto questi ultimi in tale processo? Circa venti anni prima della pubblicazione di Il popolo semi-sovrano, Schattschneider ha sostenuto che, senza partiti, la democrazia è inconcepibile. L’affermazione si trova nel primo paragrafo di Party Government, e vale la pena di riportarla per intero:
L’ascesa dei partiti politici è indubbiamente uno dei principali segni distintivi della forma moderna di governo. I partiti, infatti,
hanno giocato un ruolo fondamentale come artefici della forma
di governo; più in particolare, sono stati gli artefici della forma di
governo democratica. Bisognerebbe affermare con decisione fin
dall’inizio che questo libro si ispira alla tesi che i partiti politici
hanno creato la democrazia e che la democrazia moderna è impensabile se non nei termini dei partiti. Di fatto, la condizione dei
partiti è la miglior prova possibile della natura di un regime. La
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distinzione più importante della filosofia politica moderna, quella fra democrazia e dittatura, può essere intesa meglio nei termini della politica dei partiti. I partiti pertanto non sono semplici
appendici dello Stato moderno. Essi sono al centro di esso e in
esso giocano un ruolo determinante e creativo.19
Come sempre negli scritti di questo periodo, la democrazia
era popolare e costituzionale allo stesso tempo. Era la democrazia delle elezioni, dei mandati, della responsabilità popolare, del governo rappresentativo, nonché dei controlli e dei bilanciamenti. Questa era la democrazia che Schattschneider
riteneva inconcepibile senza partiti, e la forza del suo convincimento era tale che la sua proposizione da allora viene citata
dagli studiosi dei partiti, soprattutto in loro difesa. Di solito vi
si ricorre per sostenere che, finché è garantita la sopravvivenza
della democrazia, è garantita anche quella dei partiti. Ma possiamo interpretare l’affermazione anche all’inverso, osservando che il fallimento dei partiti potrebbe comportare anche il
fallimento della democrazia o almeno del governo rappresentativo.
Senza partiti (attenendoci alla formula di Schattschneider), ci ritroveremmo quindi con qualcosa che possiamo ancora chiamare democrazia, ma ridefinita in modo tale da ridurre o addirittura escludere la componente popolare (dal
momento che essa dipende strettamente dai partiti). In altri
termini, senza partiti ci resta una versione spogliata di democrazia costituzionale o un sistema di moderna governance che
cerca di unire la «partecipazione degli stakeholder» all’«efficienza nella risoluzione dei problemi».20 Queste forme non sono inconcepibili, ma in esse la tradizionale democrazia popolare gioca un ruolo modesto o irrilevante, senza fare sconti né
alle elezioni né ai partiti. Quando la democrazia diventa inconcepibile nei termini di Schattschneider, insomma, altri mo16
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di si affacciano sulla scena. Di qui, l’attuale interesse intellettuale per la teoria del rinnovamento della democrazia e l’interesse pratico nel proporre nuove forme di politica istituzionale. Tutti questi approcci mirano a trovare o definire una
nozione di democrazia che: a) funzioni, b) sia legittima, c)
non collochi più al centro il concetto di controllo popolare o
di responsabilità elettorale.
Tendenze dell’Occidente
Ma in che senso i partiti stanno venendo meno? Anzitutto, come è stato ben dimostrato, i partiti non riescono più a coinvolgere i comuni cittadini. Non solo costoro si recano sempre meno alle urne e cambiano sempre più spesso voto, ma sono anche sempre più riluttanti a legarsi a un partito, identificandosi
in esso o entrando a farne parte. In tal senso, i cittadini si stanno ritirando dal tradizionale impegno politico. In secondo luogo, i partiti non riescono più a fare da base alle attività e al prestigio dei propri leader, che sempre più indirizzano le loro ambizioni verso le istituzioni pubbliche esterne e da esse traggono
le loro risorse. I partiti possono ancora fornire la necessaria
piattaforma ai leader politici. Ma questa assomiglia sempre più
a una sorta di trampolino di lancio dal quale spiccare il volo
verso altre posizioni. Insomma, i partiti stanno venendo meno
a seguito di una mutua ritirata: i cittadini indietreggiano nel
privato o in forme più specializzate di rappresentazione, spesso ad hoc; i capi di partito indietreggiano nelle istituzioni, ricavando i loro punti di riferimento più che mai dalle cariche di
governo o dalla responsabilità dei servizi pubblici. Il tradizionale mondo della democrazia dei partiti (come zona di impegno nella quale i cittadini interagiscono con i leader politici)
viene esautorato.
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Sul problema del disimpegno dei cittadini dalla politica tradizionale, è necessario fare due importanti osservazioni. In primo luogo, tale processo è tutt’altro che concluso: in realtà, sotto certi aspetti (ma non tutti) è solo una pallida linea di tendenza. Ci stiamo occupando perciò di qualcosa che è in atto e non
di qualcosa che è completamente realizzato. In secondo luogo,
benché per certi versi si tratti di uno sviluppo noto, già affrontato in modo particolareggiato dalla letteratura scientifica e
dalla pubblicistica politica, non sono ancora state valutate appieno tutte le caratteristiche di questo processo pervasivo e ad
ampio raggio. Qui, tenterò di fare proprio questo, mettendo in
luce l’ampiezza e la varietà dei modi del disimpegno, nonostante alcuni di essi siano meno consistenti di altri.
Di fatto, quelle che esaminiamo ora sono due caratteristiche di regola non applicabili ai cambiamenti a livello di politica
di massa comuni a più nazioni. La prima di tali caratteristiche è
che praticamente tutte le tendenze separate qui considerate
vanno nella medesima direzione. La cosa è molto inusuale. Gli
studiosi di politica di massa si aspettano quasi invariabilmente
di trovare tendenze opposte entro differenti flussi indicatori:
alcune tendono in una direzione e altre in un’altra. Di rado la
politica di massa si muove in blocco, come avviene qui. In questo caso è proprio l’uniformità delle tendenze a sorprendere.
In secondo luogo, quasi tutti questi movimenti sono ben presenti nelle diverse democrazie avanzate dell’OCSE. Anche questo è molto insolito. Nelle ricerche politiche comparate ci si
aspetta normalmente che, anche se ben marcate in alcuni Paesi, le tendenze osservate non siano quasi mai universali. È possibile che alcuni Paesi vadano incontro a una trasformazione
simultanea. Ma è molto raro che tutti (o anche solo la maggior
parte di essi) si trasformino allo stesso modo e allo stesso tempo. Eppure, quello che gli indicatori ci mostrano è proprio
una convergenza di tendenze nelle diverse realtà nazionali. In
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altri termini, non solo le linee di tendenza vanno nella medesima direzione, ma vanno nella medesima direzione quasi dappertutto. Per questo, anche se a volte molto flebili, sono nondimeno significative.
Entropia elettorale
Iniziamo dall’indice più palese e immediato: il tasso di partecipazione alle elezioni nazionali. Considerato quanto abbiamo
detto a proposito della ritirata dei cittadini, è qui che dobbiamo
attenderci di identificare alcune delle tendenze più importanti.
Ma, se è da alcuni anni che ci si aspetta un possibile calo della
percentuale di affluenza alle urne, nondimeno tali aspettative
hanno spesso pochi riscontri nei dati empirici generali. Nonostante che a un lungo periodo di stabilità della percentuale di
partecipazione abbia fatto seguito un lieve calo, di solito si osserva che questo non è sufficiente per suscitare preoccupazioni
per il corretto funzionamento della moderna vita democratica.
È una conclusione assennata? A giudicare dalle apparenze
e dalle indicazioni che emergono dai dati europei, sembra di
sì.21 In effetti, nei quattro decenni dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, la percentuale media di partecipazione nell’Europa
occidentale si è modificata di poco, crescendo lievemente
dall’84,3% degli anni Cinquanta all’84,9% degli anni Sessanta
per poi ridiscendere altrettanto lievemente all’83,9% degli anni Settanta e all’81,7% degli anni Ottanta. Questo è stato essenzialmente un periodo senza mutamenti.22 Detto ciò, dagli
anni Settanta si registra un costante, benché limitato, calo in
tutte le democrazie europee di antica data, con soltanto tre nazioni su quindici in controtendenza: Belgio, Norvegia, Olanda.
Anche se poteva essere marginale, tale calo era abbastanza generalizzato da giustificare un senso di preoccupazione.
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Ma, cosa ancora più importante, è da notare che tale cambiamento molto marginale è divenuto più rapido negli anni
Novanta, quando nell’Europa occidentale la partecipazione
media si è abbassata dall’81,7% al 77,6%. Certo, anche a questo livello, che pure è quello più basso del dopoguerra, la partecipazione rimane relativamente alta, con una media che supera di poco i tre quarti degli elettorati complessivi: una percentuale molto maggiore di quella che si registra, per esempio, nelle elezioni nazionali negli Stati Uniti. Nondimeno, pur riconoscendo che dagli anni Ottanta ai Novanta il calo è inferiore al
5%, sorprende constatare che, per la prima volta in cinque decenni, la media generale europea scende al di sotto della soglia
dell’80%. Inoltre, si nota una notevole convergenza dei diversi
Paesi: undici su quindici infatti hanno registrato la massima negativa proprio negli anni Novanta. Fanno eccezione di nuovo il
Belgio (dove la media più bassa si è avuta negli anni Sessanta),
e la Danimarca e la Svezia (dove il record negativo risale agli
anni Cinquanta). Anche in questi tre Paesi, in ogni caso, la percentuale media di partecipazione negli anni Novanta era inferiore a quella degli anni Ottanta. La quarta eccezione è costituita dal Regno Unito che, unico fra i Paesi europei, aveva fatto registrare il massimo calo di partecipazione negli anni Ottanta. Di conseguenza, la Gran Bretagna è il solo tra questi quindici Paesi europei ad aver conosciuto negli anni Novanta un
lieve incremento del tasso di partecipazione rispetto agli anni
Ottanta. Ma nel 2001 esso è crollato ad appena il 59%, segnando il record negativo assoluto.
Tale tendenza è proseguita nel nuovo millennio. Oltre al
Regno Unito, anche Italia e Norvegia nelle elezioni del 2001
registrarono il minimo storico di partecipazione. La stessa
sorte toccò nel 2002 a Portogallo, Francia e Irlanda, mentre
in Spagna la più bassa partecipazione si è registrata nel 2000.
Livelli prossimi al minimo storico si sono avuti, inoltre, in
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FIGURA 1: Tasso di partecipazione nell’Europa occidentale, dagli anni
Cinquanta agli anni Novanta (in percentuale)
100
90
80
70
60
50
anni
’50
anni
’60
anni
’70
anni
’80
anni
’90
Grecia nel 2000, in Austria nel 2002, in Finlandia e in Svizzera
nel 2003 (i dati tengono conto anche delle tornate elettorali di
quest’ultimo anno). Insomma, la tendenza a tassi di partecipazione sempre inferiori è resistente. Ed è tanto unidirezionale
quanto pervasiva da offrire un importante indice del crescente
indebolimento del processo elettorale.
Prima di accantonare queste nude cifre, vale la pena di notare un’altra significativa caratteristica. Gli indici ricordati assomigliano in qualche misura a quelli del cambiamento climatico: i mutamenti non si verificano necessariamente a grandi
balzi e non sono sempre lineari. Per queste ragioni, è possibile che si sottovaluti l’importanza di quella che spesso appare
appena una lieve o irregolare tendenza. I climatologi hanno risolto il problema concentrandosi meno sulle tendenze in quanto tali e osservando invece le misure di sincronicità e frequenza dei valori massimi dei loro indicatori. Per esempio, le prove
di riscaldamento globale derivano dalla constatazione che il de21
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cennio più caldo è stato l’ultimo, gli anni Novanta, mentre l’anno più caldo è stato il 1998, seguito dal 2001. A conferma si
può osservare che gli otto anni più caldi si sono avuti tutti a
partire dal 1990, malgrado la temperatura dell’aria registrata in
questo stesso periodo (per esempio, nel 1992, nel 1993 e nel
1994) fosse poco superiore a quella della fine degli anni Settanta.23 In altre parole, il modello appare evidente, nonostante la
tendenza non sia uniforme. Ciò è più o meno vero anche per il
tasso di partecipazione e per altri indicatori dei comportamenti politici delle masse, e per questa ragione l’ampiezza del cambiamento a tale livello è spesso sottovalutata. Benché il tasso di
partecipazione non lasci intravedere una tendenza indisturbata
verso il basso, per esempio, è significativo che si registrino minimi storici con maggiore frequenza e soprattutto in un maggior numero di nazioni.
Come mostra la tabella 1, in cui sono elencate le tre tornate elettorali in cui si è avuto il più basso tasso di partecipazione in ognuna delle 15 democrazie europee di più antica data,
oltre i tre quarti delle 45 elezioni considerate hanno avuto luogo dopo il 1990. Non solo gli anni Novanta detengono il record minimo rispetto all’intero dopoguerra nell’Europa occidentale. Ma, nella grande maggioranza delle democrazie
dell’Europa occidentale, quasi tutte le elezioni parlamentari
con il più basso tasso di partecipazione si sono avute in quegli
anni. Fanno eccezione la Danimarca e la Svezia dove, all’apparenza per ragioni contingenti, la partecipazione più bassa si è
registrata negli anni Cinquanta. A parte questi casi, si è avuto
un solo basso tasso di partecipazione negli anni Sessanta (Belgio), due negli anni Settanta (Belgio e Gran Bretagna) e due
negli anni Ottanta (Francia e Lussemburgo). I restanti 34 casi
risalgono tutti agli anni Novanta o dopo. Per quanto modesti
siano i cambiamenti generali, è significativo che essi si raggruppino in modo tanto consistente. D’altra parte, il modello
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TABELLA 1: Elezioni a bassa partecipazione
a) bassi livelli di partecipazione,
1950-2003
b) frequenza delle basse
partecipazioni
Anno di più bassa
partecipazione
Periodo
Numero
Percentuale
Austria
1994, 1999, 2002
1950-59
6
13,3
Belgio
1968, 1974, 1999
1960-69
1
2,2
1950, 1953 (i), 1953 (ii)
1970-79
2
4,4
Finlandia
1991, 1995, 1999
1980-89
2
4,4
Francia
1988, 1997, 2002
1990-2003
34
75,6
Germania
1990, 1994, 2002
Tutti
45
100
Irlanda
1992, 1997, 2002
Islanda
1995, 1999, 2003
Italia
1994, 1996, 2001
Lussemburgo
1989, 1994, 1999
Olanda
1994, 1998, 2002
Norvegia
1993, 1997, 2001
Regno Unito
1970, 1997, 2001
Svezia
1952, 1956, 1958
Svizzera
1995, 1999, 2003
Danimarca
si estende anche alle più recenti democrazie europee meridionali: nella Grecia postautoritaria si sono registrati bassi tassi di
partecipazione nel 1974 (durante le prime elezione libere), nel
1996 e nel 2000; in Portogallo, nel 1995, nel 1999 e nel 2002; e
in Spagna nel 1979, nel 1989 e nel 2000. Come nelle democrazie di più antica data, anche qui quanto più sono recenti le elezioni tanto più è probabile che registrino un calo di partecipa23
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zione. Non esistono certezze. Persino oggi, come il modello ricavato dai cambiamenti climatici, la partecipazione a volte
contraddice la tendenza generale. Nel lungo termine, tuttavia,
la direzione generale è inequivocabile e costituisce il primo
forte indice della crescente ritirata della popolazione dalla politica tradizionale.24
Volatilità degli elettori
Un secondo indicatore chiave riguarda i cittadini che partecipano al voto e misura la loro fedeltà elettorale. Coloro che continuano a votare sono chiaramente ancora impegnati nella politica tradizionale, anche se a un livello bassissimo.25 Ma, nel
momento in cui si affievolisce l’impegno popolare, possiamo
anticipare che anche questi ultimi dimostreranno una maggiore volatilità nel voto. Non solo la disponibilità al voto, anche il
senso dell’impegno partitico incomincerà ad affievolirsi. Ed è
probabile che le scelte siano più sensibili ai fattori di breve termine. In pratica, ciò significa che i risultati elettorali diverranno meno prevedibili. Nuovi partiti e candidati potranno avere
più successo, e gli schieramenti tradizionali si troveranno sotto
pressione. L’incoerenza elettorale va di pari passo con l’indifferenza.
Come i modelli di partecipazione, anche le previsioni di
una crescente volatilità si susseguono da diversi anni. Tuttavia,
pure qui la registrazione empirica a livello generale non ha
corrisposto alle attese. Se alcuni Paesi hanno conosciuto un
sostanziale incremento del flusso elettorale per tutti gli anni
Settanta e Ottanta, altri appaiono più stabili, per cui risulta un
tasso relativamente modesto di cambiamento generale in tutta
l’Europa occidentale.26 Ma, di nuovo, il quadro cambia negli
anni Novanta: il decennio di massima volatilità elettorale, con
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uno score del 12,6%, pari a quasi 4 punti in più rispetto agli
anni Settanta e Ottanta. Queste cifre non dovrebbero essere
sopravvalutate. In una scala ipotetica da 0 a 100 con medie decennali che vanno in pratica da 2,5 (nella Svizzera degli anni
Cinquanta) a 22,9 (l’Italia degli anni Novanta), un valore medio di 12,6 rispecchia ancora (nel breve termine) una situazione di stabilità più che di cambiamento. D’altra parte, per la
prima volta nei cinque decenni del dopoguerra, negli anni Novanta la media generale di instabilità oltrepassa la soglia del
10%. Questo è anche il decennio in cui per la prima volta si
registra un più grande mutamento rispetto alle medie precedenti.
La rilevanza degli anni Novanta è sottolineata dalle singole esperienze nazionali. In tutti i Paesi ad eccezione di quattro
(Danimarca, Francia, Germania e Lussemburgo), il tasso di
volatilità raggiunge il picco negli anni Novanta e, nella maggior parte dei casi, supera il 10%. Questa coincidenza non ha
precedenti e, di nuovo, indica che i modelli di fine secolo sono notevolmente diversi da quelli dei primi anni del dopoguerra.27
Come con i dati di partecipazione, non abbiamo segni di
riduzione dei picchi nel XXI secolo. Austria e Olanda hanno
conosciuto nel 2002 livelli record di instabilità generale, come
l’Italia nel 2001. Anche Francia, Norvegia e Svezia in questi
anni hanno conosciuto tassi eccezionalmente alti di volatilità,
nonostante non sia stato infranto alcun record assoluto. Più in
generale, come mostra la tabella 2, le elezioni nazionali più instabili, dal 1950 in poi, sono state in massima parte quelle successive al 1990. In tal caso, il modello non è unilaterale: i dati
sul tasso di volatilità (sensibile alle crisi politiche e ai mutamenti istituzionali e della struttura sociale) sono inevitabilmente più irregolari dei dati sul tasso di partecipazione. Nondimeno, il periodo dal 1990 in poi appare eccezionale: non
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TABELLA 2: Elezioni ad alta volatilità
a) livello massimo di volatilità,
1950-2003
b) frequenza dei massimi di alta
volatilità
Anno di più alta
volatilità
Periodo
Numero
Percentuale
Austria
1990, 1994, 2002
1950-59
5
11,1
Belgio
1965, 1981, 2003
1960-69
2
4,4
Danimarca
1973, 1975, 1977
1970-79
7
15,6
Finlandia
1970, 1991, 1995
1980-89
6
13,3
Francia
1955, 1958, 2002
1990-2003
25
55,6
Germania
1953, 1961, 1990
Tutti
45
100
Irlanda
1951, 1987, 1992
Islanda
1978, 1991, 1999
Italia
1992, 1994, 2001
Lussemburgo
1954, 1984, 1989
Olanda
1994, 1998, 2002
Norvegia
1989, 1997, 2001
Regno Unito
1974 (i), 1978, 1997
Svezia
1991, 1998, 2002
Svizzera
1987, 1991, 1999
solo oltre la metà delle massime cadono in questo periodo, ma
in nessun altro decennio si è visto a un simile raggruppamento. Fatta eccezione per Danimarca e Lussemburgo, parrebbe
che le elezioni più recenti siano anche quelle con risultati
meno prevedibili.
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Parrebbe, dunque, che dal 1990, nonostante i tassi di partecipazione rimangano ragionevolmente alti, un minor numero
di elettori sia disposto a votare. E che tra quanti votano vi è
una maggiore tendenza a premiare partiti diversi da un’elezione all’altra.28 Fanno eccezione il Lussemburgo (con una bassa
partecipazione al voto ma una modesta volatilità), la Svezia
(con un’alta volatilità associata a una partecipazione non eccezionalmente bassa) e la Danimarca (dove entrambi gli indicatori non mostrano segni estremi). A parte questi casi, i dati ricavati dagli insoliti modelli a partire dal 1990 sono tanto
sorprendenti quanto costanti. Nell’Europa occidentale, non
solo l’elettorato vota di meno, ma si sta anche indebolendo
l’impegno partitico.
L’attaccamento al partito
Questo è l’altro messaggio che si ricava dai dati dell’indagine: i
risultati dei singoli ambiti raccolti dagli studi sulle elezioni e dai
sondaggi di carattere economico, ora corrispondono agli aggregati sulla partecipazione e sulla volatilità. Per quanto riguarda
i primi, appare di particolare importanza l’esauriente Parties
without Partisans di Russell Dalton e Martin P. Wattenberg,
che conferma i dati sulla coerenza e l’ubiquità delle tendenze in
atto. Un indice chiave è quello che misura il senso di appartenenza o di impegno degli elettori rispetto a un particolare partito politico. In diciassette nazioni delle diciannove di cui disponiamo dati attendibili (le due eccezioni sono il Belgio e la
Danimarca), la percentuale degli elettori che affermano di
identificarsi in un partito è considerevolmente calata negli ultimi due decenni. Cosa ancor più importante, sono calate anche
le basse percentuali di coloro che riferiscono di provare un forte senso di appartenenza o di identificazione, e questo in tutti i
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Paesi considerati. Come osserva Dalton, non è solo l’ampiezza
del declino a essere rilevante, ma anche (anzi di più) il fatto che
tale declino si verifichi ovunque disponiamo di dati. «La similarità delle tendenze in così tante nazioni ci costringe a guardare
oltre le spiegazioni specifiche e idiosincratiche […] Se l’orientamento dell’opinione tende a essere tanto coerente in molte
nazioni, vuol dire che deve essere in atto qualcosa di più ampio
e profondo.»29
Anche il voto disgiunto, per cui gli elettori optano per un
partito in un tipo di elezione e per un altro in un diverso tipo,
è in aumento in tutti i casi dove è stato esaminato (Australia,
Canada, Germania, Svezia e Stati Uniti). Un elettore attivamente impegnato, con una forte fedeltà partitica, voterà senza dubbio per il medesimo partito indipendentemente dal tipo di elezione: per esempio, democratico nelle presidenziali e nelle elezioni congressuali USA, così come in quelle per il rinnovamento
dei parlamenti locali e delle contee. Quanto meno è forte il
coinvolgimento partitico, tanto più è probabile che l’elettore
sia incline a disgiungere il voto. D’altra parte, gli elettori sono
meno disponibili o meno capaci di dire ai sondaggisti come voteranno. Anche qui, con la sola eccezione danese, quasi tutti gli
studi confermano un incremento della percentuale di elettori
che decidono come votare nel corso della campagna elettorale
o poco prima del voto. Di nuovo, «la tendenza è chiara: è meno probabile che gli elettori entrino nella cabina elettorale con
una predisposizione partitica». Non sorprende, allora, il fatto
che sia improbabile che tali elettori si impegnino nelle attività
della campagna elettorale, per esempio intervenendo ai meeting, lavorando per un partito, persuadendo gli altri a votare un
dato candidato o a contribuire al finanziamento. In quasi tutte
le rilevazioni e in quasi tutti i Paesi in cui disponiamo dei dati,
i risultati dell’indagine indicano ancora una volta un declino:
gli elettori sono meno disposti a partecipare. Molti di essi, al28
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meno per quel che riguarda la politica tradizionale, si accontentano di essere spettatori.30
Gli elettori sono anche meno disponibili a farsi carico degli
impegni della militanza partitica. Di nuovo, è sorprendente notare non solo il considerevole declino del numero di iscritti ai
partiti ma anche la pervasività del fenomeno in tutte le democrazie di antica data. Benché il modello appaia in questo caso
più pronunciato di quanto non sia nei rilevamenti sulla partecipazione o sull’instabilità elettorale, i dati sul declino della militanza fino agli anni Ottanta erano abbastanza equivoci. Il primo importante studio, basato sui dati aggregati del 1992 (forniti in gran parte dai partiti stessi), concludeva che, nonostante la percentuale degli iscritti ai partiti fosse diminuita nella
maggior parte degli Stati importanti dell’Europa (con le sole
eccezioni del Belgio e della Germania Federale), il tasso assoluto rimava in genere alto.31 Lo studio non confortava pertanto
l’idea secondo cui tali Paesi stavano conoscendo «un diffuso
senso di disillusione verso la politica partitica». 32
Alla fine degli anni Novanta, tuttavia, i modelli ricavati dai
dati aggregati erano ormai inequivocabili. Come mostra la tabella 3, il rapporto fra militanti ed elettorato nelle democrazie dell’Europa occidentale è crollato fra il 1980 e la fine degli anni
Novanta.33 Nel 1980, gli iscritti a un partito corrispondevano in
media al 9,8% dell’elettorato. Alla fine degli anni Novanta, la
percentuale era scesa ad appena il 5,7%. Cosa ancor più considerevole, nelle dieci democrazie europee dove disponiamo di cifre attendibili sulla militanza a partire dal 1960, il rapporto medio era del 14%. Nella maggioranza dei casi esaminati (sei su
dieci), oltre un elettore eleggibile su dieci era iscritto a un partito. Alla fine degli anni Novanta, le democrazie in cui si avevano
dati attendibili sulla militanza erano diventate venti. In tutte, il
rapporto medio era sceso ad appena il 5%, con la sola eccezione dell’Austria, dove il rapporto era superiore al 10%.34
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TABELLA 3: Variazioni nel degli iscritti ai partiti, 1980-2000
Militanza partitica in
percentuale rispetto Cambiamenti Cambiamenti
nel numero in percentuale
all’elettorato
di iscritti
degli iscritti
Inizio del Fine del
ai partiti
originari
periodo
periodo
Stato
Periodo
Francia
1978-99
5,05
1,57
– 1.122.128
– 64,59
Italia
1980-98
9,66
4,05
– 2.091.887
– 51,54
Regno
Unito
1980-98
4,12
1,92
– 853.156
– 50,39
Norvegia
1980-97
15,35
7,31
– 218.891
– 47,49
Finlandia
1980-98
15,74
9,65
– 206.646
– 34,03
Olanda
1980-2000
4,29
2,51
– 136.459
– 31,67
Austria
1980-99
28,48
17,66
– 446.20
– 30,21
Svizzera
1977-97
10,66
6,38
– 118.800
– 28,85
Svezia
1980-98
8,41
5,54
– 142.533
– 28,05
Danimarca
1980-98
7,30
5,14
– 70.385
– 25,52
Irlanda
1980-98
5,00
3,14
– 27.856
– 24,47
Belgio
1980-99
8,97
6,55
– 136.382
– 22,10
Germania
1980-99
4,52
2,93
– 174.967
– 8,95
Portogallo 1980-2000
4,28
3,99
50.381
17,01
Grecia
1980-98
3,19
6,77
375.000
166,67
Spagna
1980-2000
1,20
3,42
808.705
250,73
Questo dato era confermato dal crollo della cifra assoluta
degli iscritti, in forte contrasto con il modello osservato nel
1992. In tutte le democrazie di antica data il numero dei militanti era in calo, talvolta del 50% rispetto al 1980. In nessuna
nazione si registrava un incremento. La tendenza appariva consistente sia in termini di ampiezza sia in termini di orientamen30
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to. In tutte le antiche democrazie, concludeva l’analisi, i partiti
semplicemente perdevano iscritti.35
Quali conclusioni si possono tratte da questa breve rassegna? È chiaro che essa supporta la tesi secondo cui i cittadini si
stanno disimpegnando dall’arena politica tradizionale. Anche
quando votano (e avviene sempre meno di prima o in più modeste proporzioni), compiono la loro scelta sempre più in prossimità del giorno delle elezioni e comunque tale scelta è meno
determinata dal senso di appartenenza partitica. In questo senso, l’elettorato va progressivamente destrutturandosi, con la
conseguenza che i media acquistano importanza nel dettare l’agenda politica e i partiti e i candidati sono costretti a maggiori
sforzi di persuasione nella campagna elettorale. Assistiamo insomma a un comportamento elettorale tendenzialmente sempre più contingente. Tale cambiamento, in gran parte, si mostra
in tutta la sua evidenza soltanto a partire dalla fine degli anni
Ottanta.
Certo, le prove che abbiamo a disposizione sono esigue e i
fenomeni osservati sono talvolta relativamente marginali: in alcuni casi, si tratta di modesti segnali, alquanto incerti. Ma, sommando assieme i vari dati di cui disponiamo, appare chiara l’indicazione di un marcato mutamento dei modelli prevalenti della politica di massa, confermato non solo dall’oggetto della ricerca (tutti gli indicatori indicano un orientamento comune)
ma anche dalla sua simultaneità nei diversi Stati europei. La
conclusione è chiara: in tutta l’Europa occidentale e in quasi
tutte le democrazie consolidate, i cittadini si stanno allontanando dall’arena politica nazionale.
All’inizio del 2002, Anthony Giddens mostrò che la crescente popolarità dei reality aveva creato uno spartiacque nello
spettacolo televisivo: «In precedenza, la televisione rispecchiava il mondo esterno che lo spettatore guardava. Oggi, la televisione è anzitutto un medium al quale puoi partecipare».36 In
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politica, il cambiamento è stato di segno opposto. In precedenza, e almeno fino agli anni Settanta, la politica era vista come
qualcosa che apparteneva ai cittadini e alla quale i cittadini potevano partecipare, e spesso così hanno fatto. Oggi, è diventata parte di un mondo esterno che la gente guarda da fuori: un
mondo fatto di leader politici, separati dai cittadini. È la trasformazione della democrazia dei partiti nella «democrazia dell’audience». 37 Rimane da capire se il crescente disimpegno degli elettori sia causa dell’emergere di questo nuovo modo di fare politica o se, viceversa, è questa nuova forma della politica a
incoraggiare la ritirata degli elettori. Quel che è certo è che un
fenomeno alimenta l’altro. Inevitabilmente, mentre fuoriescono dall’arena politica nazionale, i cittadini indeboliscono i principali protagonisti della vita politica: i partiti. E, a sua volta, tale indebolimento promuove la democrazia dell’audience o, secondo un’altra formulazione, la «video politica». Queste forme
di democrazia, infatti, si rafforzano man mano che i partiti si
indeboliscono. È difficile che un partito sia forte quando la politica si trasforma in spettacolo.
Dalla società civile allo Stato
Considerata l’attuale difficoltà di coinvolgere i cittadini nell’arena politica, ci si potrebbe aspettare che i capi di partito dedichino sforzi considerevoli per conservar viva la politica e restituirle importanza. Come abbiamo osservato, poche altre volte
si è discusso tanto diffusamente di riforme istituzionali. Ma,
nonostante le prese di posizione ufficiali e l’apparente tenuta
della politica di massa, si nota una chiara tendenza delle élite
politiche a reagire al disimpegno dei cittadini, ritirandosi a loro volta. Come gli elettori indietreggiano verso una sfera di interesse privata, allo stesso modo i leader politici e di partito si
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ritirano nel chiuso mondo delle istituzioni di governo. Entrambi i fronti si stanno estraniando.
Gli attuali cambiamenti della forma della politica sono riconducibili a due categorie: la collocazione dei partiti e la loro
identità politica. Per quanto riguarda la collocazione, gli ultimi
decenni testimoniano una graduale ma inesorabile ritirata delle leadership di partito dall’ambito della società civile a quello
del governo e dello Stato. Nello stesso periodo si assiste a una
regolare erosione delle identità politiche e a un offuscamento
dei confini che distinguono i partiti fra loro. Insieme, questi
sviluppi paralleli hanno condotto a una situazione in cui ciascun partito tende a distanziarsi dagli elettori che si ripropone
di rappresentare, assomigliando nello stesso tempo sempre più
agli altri partiti con cui entra in competizione. Insomma, le distanze fra elettori e partito si allungano, mentre si accorciano
quelle fra partito e partito. Entrambi i processi contribuiscono
ad alimentare la crescente indifferenza popolare e la sfiducia
verso i partiti e, più in generale, le istituzioni politiche.
Se pensiamo al ruolo e alla collocazione dei partiti entro
l’ordinamento democratico come facenti ancora parte di uno
spettro collocato tra società e Stato, allora possiamo dire che
essi si sono spostati lungo questo continuum da un punto in cui
si definivano principalmente come attori sociali (come nel modello classico del partito di massa) a un punto in cui si definiscono come attori dello Stato. Come abbiamo visto, la forza
dell’identificazione elettorale nei partiti è ora quasi universalmente in declino. Allo stesso tempo, tendono a scomparire i
precedenti privilegi dei militanti, mentre i leader di partito
guardano oltre i propri iscritti (in calo) per rivolgersi all’elettorato in generale. Per l’organizzazione del partito, l’opinione
dell’elettore comune diventa almeno tanto importante quanto
quella dell’attivista, e il punto di vista dei gruppi d’opinione
spesso conta più di quello dei delegati a un congresso. 38
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Per giunta, anche il più ampio contesto organizzativo entro
il quale nidificavano i partiti tradizionali appare caratterizzato
da un senso di dispersione e di atomizzazione. In Europa, era
raro che i partiti di massa (come i partiti dei lavoratori o quelli
religiosi) si reggessero sulle sole proprie forze. In genere, costituivano un nucleo all’interno di una più vasta e complessa rete
di organismi: sindacati, chiese, associazioni economiche, società
di mutuo soccorso, circoli sociali. Questi organismi hanno contribuito a radicare i vecchi partiti di massa nella società, stabilizzando e distinguendo i loro elettorati. Negli ultimi trent’anni,
tuttavia, tali reti organizzative sono andate disgregandosi, in
parte a causa dell’indebolimento delle stesse organizzazioni affiliate, per cui chiese, sindacati e altre tradizionali forme di associazione hanno visto diminuire sia il numero dei partecipanti sia
il senso dell’impegno. Con la crescente individualizzazione della società, le tradizionali identità collettive e le affiliazioni organizzative si sono indebolite.
I capi di partito hanno provato a ridurre i loro legami con i
gruppi associati e i privilegi un tempo accordati alle organizzazioni affiliate.39 I partiti tendono a pensare sempre più a se stessi come a organizzazioni autosufficienti e specialistiche, continuando a prestare ascolto a determinati attori sociali ma evitando ogni collegamento formalizzato con essi. Da una parte, i leader si sono distanziati dalla società civile e dalle sue istituzioni
sociali, dall’altra si sono più saldamente radicati nel mondo del
governo e dello Stato. Gli sviluppi chiave di questo processo
possono essere riassunti come segue.
In primo luogo, come viene ora ampiamente riconosciuto,
nella maggior parte delle democrazie occidentali i partiti dipendono sempre meno, per quanto riguarda la loro sopravvivenza organizzativa, dalle risorse finanziarie assicurate dai militanti, dai donatori e dalle organizzazioni affiliate, e sempre
più dai fondi pubblici e dal sostegno dello Stato. Nella maggior
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parte delle nazioni odierne, e in particolare in quasi tutte le democrazie più giovani, la fonte preferita di finanziamento dai
partiti è il denaro pubblico. 40
In secondo luogo, i partiti sono sempre più soggetti a nuove leggi e regolamentazioni, che talvolta ne determinano anche
il funzionamento organizzativo interno. Molti regolamenti sono stati introdotti sulla scia del finanziamento pubblico, dato
che la distribuzione di sovvenzioni statali richiede inevitabilmente un sistema più codificato di registrazione e controllo dei
partiti. Anche la necessità di disciplinare l’accesso dei partiti ai
mass media di proprietà pubblica ha richiesto un nuovo sistema di regolamentazione, che di nuovo finisce per codificare lo
statuto dei partiti e delle loro attività. Se un tempo erano associazioni «private» e volontarie, oggi i partiti sono sempre più
soggetti a una struttura regolamentatrice che conferisce loro
uno statuto (semi)ufficiale. Quanto più la legge interviene a regolamentare la vita interna e le attività esterne dei partiti, tanto
più questi ultimi tendono a trasformarsi in istituti di servizio
pubblico con il conseguente indebolimento della loro autonomia organizzativa.
Infine, come ovvio, i partiti cementano il loro rapporto
con lo Stato accordando priorità al proprio ruolo di istituti di
governo (anziché istituti rappresentativi). Nei termini della
scienza politica, essi sono diventati office-seeking: le cariche di
governo cioè non sono più semplicemente una normale aspettativa, ma un fine in sé. Quarant’anni fa, fu condotta un’indagine, divenuta ormai classica, sugli sviluppi politici delle democrazie occidentali attorno al tema delle «opposizioni».41
Oggi l’opposizione, quand’è strutturalmente costituita, si colloca sempre più all’esterno dei partiti tradizionali, sotto forma
di movimenti sociali, di politica spontanea o di proteste popolari. Per parte loro, i partiti governano o aspettano di andare al
governo. Contemporaneamente, è diminuito il ruolo dei «par35
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titi sul territorio», mentre il centro gravitazionale dell’organizzazione partitica si è spostato verso quei fattori utili alle necessità del partito in parlamento e al governo. In tale trasformazione è lecito vedere una manifestazione conclusiva della tesi
downsiana o schumpeteriana secondo cui i partiti non sono
che gruppi utili a disciplinare la «concorrenza fra leader».
L’organizzazione dei partiti al di fuori delle istituzioni della
politica va via via affievolendosi. Quella che rimane è una classe dirigente.
Masse passive e privatizzate
Tutto ciò ha significative ripercussioni sulle funzioni che i partiti assolvono entro la più ampia sfera politica. Tradizionalmente, i partiti sono stati visti come organismi atti a integrare e, se
necessario, mobilitare i cittadini, articolare e aggregare gli interessi traducendoli in scelte politiche, reclutare e promuovere
leader, organizzare il parlamento, il governo e le istituzioni
chiave dello Stato. Ossia, mentre provvedevano a combinare il
governo per il popolo con il governo del popolo, i partiti combinavano anche funzioni rappresentative e funzioni procedurali: sempre all’interno del medesimo organismo. Tuttavia, una
volta che i partiti si sono trasformati e si è dissolto il modello
del partito di massa, si sono trasformate anche le funzioni che
essi assolvono, concentrandosi molto di più su quelle procedurali. Questo sviluppo va di pari passo con il dislocamento dalla società allo Stato e si inserisce in quel processo per cui i partiti e i loro leader si separano dall’arena della democrazia popolare. I partiti sono diventati istituti di governo (nel più ampio significato del termine) piuttosto che istituti rappresentativi. Mettono ordine più che dare voce. In questo senso, possiamo parlare di disimpegno o di ritirata delle élite. Ma, mentre i
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cittadini che fuoriescono dalla politica si indirizzano verso
mondi privatistici, i leader politici indietreggiano verso un
mondo istituzionale: quello delle cariche pubbliche.
I due processi si rafforzano vicendevolmente.42 Mentre i cittadini da partecipi divengono spettatori, le élite guadagnano un
maggiore spazio dove perseguire i propri comuni interessi.
Com’è stato osservato,
i nostri governanti sono diventati un’élite autoconservativa che
governa – o, meglio, amministra – masse passive o privatizzate di
individui. I rappresentanti agiscono non in qualità di agenti della
popolazione ma più semplicemente in vece loro [...] Sono professionisti, attaccati alle cariche e ben inseriti nelle strutture partitiche. Immersi in una cultura a sé stante, circondati da altri specialisti e separati dalla comune realtà degli elettori, vivono non solo
fisicamente ma anche mentalmente in un «mondo tutto loro». 43
Possiamo soffermarci brevemente su due conseguenze di
questo reciproco disimpegno. In primo luogo, il divario che ne
risulta ha contribuito talvolta ad alimentare una mobilizzazione populista, di solito (ma non esclusivamente) di destra. In altre parole, in parte a seguito di questa ritirata, la stessa classe
politica è diventata in un gran numero di democrazie fonte di
tensione. In secondo luogo, come notato sopra, la crescente distanza fra cittadini e capi di partito ha incoraggiato le élite a
battersi per un processo decisionale meno «maggioritario» e a
conferire maggiore rilievo agli organismi non partitici e non
politici: giudici, organismi normativi, banche centrali e organizzazioni internazionali.
Inoltre, man mano che i partiti separavano funzioni rappresentative e funzioni procedurali trasferendosi sempre più dalla
società verso lo Stato, si è fatta più marcata la distinzione fra
democrazia popolare e democrazia costituzionale. Per mezzo
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dei partiti, la medesima istituzione interna alla democrazia di
massa dava voce ai cittadini e governava a loro beneficio. In tale contesto, democrazia popolare e democrazia costituzionale
erano più o meno inscindibili. Tale simbiosi viene meno nel
momento in cui si approfondisce il divario fra cittadini e leadership politiche. Quello che viene a crearsi è uno spazio nel
quale le caratteristiche della democrazia popolare (considerate
più o meno in sé) si stagliano contro quelle della democrazia
costituzionale. Il governo «del popolo» viene giudicato ostile al
governo «per il popolo». In questo giudizio, di solito è la democrazia popolare ad avere la peggio.
Le difficoltà corrono più in profondità. Altrove, ho sostenuto che il rilievo acquisito dalle funzioni procedurali dei partiti a scapito di quelle rappresentative si inseriva in un processo di adattamento, più o meno necessario: proprio perché non
erano più in grado di rappresentare gli elettori, i partiti hanno
cercato di compensare il gap sviluppando il proprio ruolo dentro le istituzioni. Pertanto, non erano propriamente partiti in
declino (sostenevo), bensì organismi che si adattavano a un inedito insieme di problemi, cercando di sopravvivere nel contesto del nuovo equilibrio organizzativo.44
Oggi, questa interpretazione appare troppo ottimistica.
Certo, i partiti possono compensare le diminuite capacità in
una direzione rafforzando quelle in un’altra. Ma non hanno alcuna garanzia di riuscirvi. Anzi. I partiti possono occupare le
cariche pubbliche ma, avendo perso il loro ruolo rappresentativo, potrebbero non riuscire a giustificare tale occupazione.
Detto altrimenti, se i partiti per governare hanno bisogno di
avere la fiducia degli elettori e, più in generale, se il governo dei
partiti necessita di legittimazione, allora è probabile che i partiti abbiano bisogno di essere visti ancora come rappresentativi. Non basta che un politico eletto sia un buon governante.
Senza una certa legittimazione rappresentativa, né i partiti né i
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loro leader né il processo elettorale che consente di selezionarli avranno sufficiente peso o autorità. La conseguenza è che saranno incoraggiati sfiducia e scetticismo.
Naturalmente, lo scetticismo nei confronti dei politici è
tutt’altro che un fenomeno inedito. Quasi sessanta anni fa,
Schumpeter metteva in guardia dal fare troppo affidamento in
coloro che escono dal processo elettorale e osservava che «le
qualità intellettuali e morali che fanno un buon candidato non
sono necessariamente quelle che fanno un buon amministratore, e la selezione mediante il successo elettorale può risolversi
a svantaggio di chi potrebbe riuscire nella direzione suprema
degli affari pubblici».45 Da allora, l’argomento è stato ripetuto
molte volte. Ma, se lo scetticismo non è un fenomeno nuovo,
esso acquista nondimeno un fondamento più robusto nel momento in cui si articola all’interno di un contesto nel quale la
democrazia popolare si allontana dalla democrazia costituzionale.
In realtà, quello a cui assistiamo è un processo che si autorafforza. Mentre si svuota, la competizione politico-partitica incoraggia la politica dello spettacolo e delle «corse ippiche». Ed
è probabile che ciò favorisca quei candidati e quei politici che,
come ammoniva Schumpeter, sono meno dotati delle qualità
del buon amministratore.
Quali conseguenze hanno questi processi sul futuro delle
democrazie occidentali? Ho osservato che la trasformazione
del ruolo dei partiti, mentre essi andavano abbandonando le
funzioni espressive e rappresentative per divenire sempre più
appendici dello Stato, ha giocato un ruolo fondamentale nella
scissione della componente popolare e di quella costituzionale
della democrazia. Ogni più ampia considerazione del perché
ciò sia accaduto (e del perché, a meno di un decennio del proclamato «trionfo della democrazia», si tenti di minimizzare la
componente popolare limitandone la portata) dovrà affrontare
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una gran quantità di temi che esulano dai limiti di questo saggio: l’impatto della fine della guerra fredda, il declino del «liberalismo controllato», il calo del consenso del governo dei partiti e la più generale ricaduta dei processi di globalizzazione e
di europeizzazione. Ma l’attenzione posta sui partiti impedisce
di ignorare un’ulteriore contraddizione: la vittoria della democrazia, in questa forma, pone infatti grossi problemi di legittimità rappresentativa alla nuova classe di governo.
1. Elmer Eric Schattschneider, The Semi-Sovereign People: A Realist’s View of Democracy in America, Chicago 1960 (trad. it., Il popolo semi-sovrano: un’interpretazione realistica della democrazia in
America, ECIG, Genova 1998). L’argomento era già stato affrontato, in diverso modo in Democracy Beyond Parties, Center for
the Study of Democracy, UC Irvine 2005, disponibile on line all’indirizzo web repositories.cdlib.org/csd.
2. Vedi, per esempio, Pharr e Robert Putnam (a cura di), Disaffected Democracies, Princeton 2000; e Pippa Norris (a cura di), Critical Citizens, Oxford 1999.
3. Blair’s Thousand Days, BBC 2, 30 gennaio 2000. Per un’analisi dell’approccio del nuovo Partito laburista vedi: Peter Mair Partyless
Democracy, in «New Left Review», n. 2, marzo-aprile 2000.
4. Tony Blair, Third Way, Phase Two, in «Prospect», marzo 2001.
5. Lord Falconer, citato da Matthew Flinders e Jim Buller in Democracy and Arena-Shifting, testo inedito, 2004.
6. Guy Peters, Governance: a Garbage-Can Perspective, ISA, Vienna
2002.
7. Per esempio, Ulrich Beck, Risk Society, Londra 1992, pp. 183236.
8. Is Government too Political?, in «Foreign Affairs», n. 6, vol. 76,
1997.
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9. Giandomenico Majone, Temporal Consistency and Policy Credibility, European University Institute, documento di lavoro 96/57,
1996.
10. Giandomenico Majone, «The Politics of Regulation and European Regulatory Institutions», in Jack Hayward e Anand Menon
(a cura di), Governing Europe, Oxford 2003, p. 299.
11. Jo Shaw, «Constitutional Settlements and the Citizen», in
Karlheinz Neunreither e Antje Wiener (a cura di), European Integration after Amsterdam, Oxford 2000, p. 291.
12. Philip Pettit, Deliberative Democracy and the case for Depoliticising Government, in «University of NSW Law Journal», n. 58,
2001, § 46; Fareed Zakaria, The Future of Freedom, New York
2003, p. 248 (trad. it., Democrazia senza liberta: in America e nel
resto del mondo, Rizzoli, Milano 2003).
13. Robert Dahl, A Preface to Democratic Theory, New Haven, 1956
(trad. it., Prefazione alla teoria democratica, Edizioni di Comunità, Milano 1994). Vedi anche Yves Mény e Yves Surel (a cura
di), Democracies and the Populist Challenge, Basingstoke 2002;
Robert Dahl, The Past and Future of Democracy, scritti d’occasione, nr. 5, CIRCaP, Siena 1999; Shmuel Eisenstadt, Paradoxes of
Democracy,Washington, 1999 (trad. it., Paradossi della democrazia: verso democrazie illiberali?, Il Mulino, Bologna 2002).
14. Larry Diamond, Is the Third Wave Over?, in «Journal of Democracy», n. 3, vol. 7, 1996.
15. Fareed Zakaria, The Rise of Illiberal Democracy, in «Foreign Affairs», vol. 76, n. 6, 1997, p. 27.
16. Vedi anche Amy Chua, World on Fire, New York 2003 (trad. it.,
L’età dell’odio: esportare democrazia e libero mercato genera conflitti etnici?, Carocci, Roma 2004).
17. Michelle Everson, “Beyond the Bundesverfassungsgericht”, in
Bankowski e Scott (a cura di), The European Union and its Order,
Oxford 2000, p. 106.
18. Mark Thatcher e Alec Sweet, Theory and Practice of Delegation to
Non-Majoritarian Institutions, in «West European Politics», n. 1,
vol. 25, 2002, p. 19.
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19. Elmer Eric Schattschneider, Party Government, New York 1942,
p. 1.
20. Beate Kohler-Koch, European Government and System Integration, in «European Governance Papers», n. C-05-01, 2005.
21. Per i dettagli, vedi Peter Mair, “In the Aggregate: Mass Electoral
Behaviour in Western Europe, 1950–2000”, in Hans Keman (a cura di), Comparative Democratic Politics, Londra 2002.
22. Pippa Norris, Democratic Phoenix, Cambridge 2002, pp. 54–5;
Mark Franklin, “The Dynamics of Electoral Participation”, in
Lawrence LeDuc (a cura di), Richard G. Niemi, Pippa Norris,
Comparing Democracies 2, Londra 2002.
23. P. D. Jones e A. Moberg, Hemispheric and large-scale surface air
temperature variations, in «Journal of Climate», n. 16, 2003.
24. Questa è anche la conclusione di Thomas Paterson nel suo interessante studio sul caso americano, The Vanishing Voter, New
York 2002; vedi anche Peter Mair, Voting Alone, in «European
Political Science», n. 4, vol. 4, 2005, pp. 421-429, che incorpora
parti della presente discussione.
25. Per esempio, Geraint Parry, George Moyser e Neil Day, Political
Participation and Democracy in Britain, Cambridge, 1992.
26. Stefano Bartolini e Peter Mair, Identity, Competition and Electoral Availability, Cambridge 1990.
27. L’incremento della volatilità degli anni Novanta fuori dell’Europa occidentale (per esempio, in Giappone, Messico e India), anche se degno di nota, esula dagli scopi di questo saggio.
28. Ciò contrasta con una precedente osservazione di Lance Bennett
(basata sui dati statunitensi) secondo cui, malgrado il declino della partecipazione politica, «coloro che continuano a partecipare
alla politica tradizionale si dimostrano stabili nelle scelte elettorali, nella formazione delle opinioni e nella riflessione politica».
Bennett, The Uncivic Culture, in «PS: Political Science and Politics», dicembre 1998, p. 745.
29. Russell Dalton, “The Decline of Party Identification”, in Russell
Dalton e Martin P. Wattenberg (a cura di), Parties without Partisans, Oxford 2000, p. 29.
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30. Dalton, McAllister e Wattenberg, “The Consequences of Partisan
Dealignment”, in Russell J. Dalton e Martin P. Wattenberg (a cura di), Parties without Partisans, op. cit., pp. 49, 58.
31. Vedi Katz, Mair e altri, The Membership of Political Parties in European Democracies, 1960–90, in «European Journal of Political
Research», vol. 22, n. 3, 1992, pp. 329-345.
32. Pippa Norris, Democratic Phoenix, op. cit., pp. 134, 135.
33. La tabella è ricavata dai dati presentati da Peter Mair e Ingrid van
Biezen in Party Membership in Twenty European Democracies,
1980–2000, in «Party Politics», n. 1, vol. 7, 2001, dove sono discussi in modo più particolareggiato. Vedi anche Susan Scarrow,
“Parties without Members”, in Russell J. Dalton e Martin P. Wattenberg (a cura di), Parties without Partisans, op. cit., pp. 86-95.
34. Il modello è simile a quello che emerge dalle democrazie avanzate non europee. In Australia, nel 1967, gli iscritti ai partiti erano
251.000, pari al 4,1% dell’elettorato; nel 1997, gli iscritti erano
appena 231.000, solo l’1,9% dell’elettorato. In Canada gli iscritti ai partiti da 462.000 nel 1987 sono scesi a 372.000 nel 1994: dal
2,6 all’1,9% dell’elettorato. In Nuova Zelanda, si è passati dai
272.000 del 1981, pari al 12,5% (a cui ha fatto seguito una temporanea ondata crescente), ai 133.000 del 1999, pari al 4,8%.
Paul Webb, David M. Farrell e Ian Holliday (a cura di), Political
Parties in Advanced Industrial Democracies, Oxford 2002, pp.
355, 389-390, 416-419.
35. Peter Mair e Ingrid van Biezen, Party Membership in Twenty European Democracies, op. cit.
36. Intervista a Henk Jansen in «Facta», n. 1, vol. 11, febbraio 2003,
p. 4.
37. Bernard Manin, The Principles of Representative Government,
Cambridge 1997, pp. 218-235.
38. È quello che è accaduto, per esempio, nel Partito laburista britannico quando i leader hanno minimizzato la sconfitta subita al
congresso annuale, che votò per ripristinare il collegamento fra
pensioni e redditi medi. Il voto fu di 60 a 40, e Gordon Brown rispose: «Non darò seguito alla proposta venuta fuori oggi dai rap43
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presentanti dei sindacati [...] Tocca al Paese giudicare, non è
compito dei propositori di una mozione decidere la politica del
governo e della nazione. Tocca alla comunità, e io ascolto tutta la
comunità», in «The Guardian», 28 settembre 2000.
Una tendenza già notata in nuce da Otto Kirchheimer nell’allora
preveggente analisi di «The Transformation of West European
Party Systems», in Joseph La Palombara e Myron Weiner (a cura di), Political Parties and Political Development, Princeton
1966, pp. 177-200.
Ingrid van Biezen, Financing Political Parties and Election Campaigns, Strasburgo 2003.
Robert Dahl (a cura di), Political Oppositions in Western Democracies, New Haven, 1966.
Vedi anche John Hibbing e Elizabeth Theiss-Morse, Stealth Democracy, Cambridge 2002.
Hanna Pitkin, “Representation and Democracy”, in «Scandinavian Political Studies», n. 3, vol. 27, 2004, p. 339.
Peter Mair, Political Parties and Democracy: What Sort of Future?,
in «Central European Political Science Review», vol. 4, n. 13,
2003.
Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, 2a ed.,
New York 1947, p. 288 (trad. it. Capitalismo socialismo democrazia, Milano 1964, p. 275).
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