PANORAMA ANTICO TESTAMENTO - modulo 4

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PANORAMA ANTICO TESTAMENTO - modulo 4
Panorama dell’Antico Testamento
Modulo 4
Anno accademico: 2011/2012
Docente: Ernesto D. Bretscher
4. I LIBRI POETICI E SAPIENZIALI
4.1 IL LIBRO DI GIOBBE
(a cura di Ernesto D. Bretscher)
4.1.1 INTRODUZIONE
L’autore del libro è sconosciuto. Quello che è certo è che si trattasse di un Giudeo fedele
che
rifiutava
di
lasciarsi
imprigionare
dal
credo
popolare,
e
in
particolare
nell’associazione che questo stabiliva tra sofferenza e peccato.
Anche per la data di composizione non si hanno molti elementi. L’atmosfera è patriarcale.
La conoscenza di paesi lontani esclude, secondo molti studiosi, che possa essere stato
scritto in periodi antecedenti a Salomone. Ma vi sono pochi poemi in tutta la letteratura la
cui data e il cui contesto storico abbiano così poca importanza. È un poema universale ed
è questo il tratto che gli conferisce tutto il suo valore e interesse per noi oggi.
Il libro di Giobbe è contemporaneamente poesia e prosa: il prologo e l’epilogo sono in
prosa, mentre la parte principale comprende tre cicli di dialoghi poetici. Non è, come
molti lo definiscono, “il libro della sofferenza”, ma dell’amore, l’amore gratuito. È il libro
in cui si evidenzia la lotta tra Dio e Satana per il possesso del cuore dell’uomo, il cui esito
dipende unicamente dall’autenticità o meno dell’amore dell’uomo per Dio.
4.1.2 PROLOGO (capitoli 1 – 2:10)
vv. 1-8: Dio ama Giobbe e si rallegra del suo amore, e sente il bisogno di sentire lodare
colui che Egli ama.
vv. 9-11: Satana non condivide il suo entusiasmo e mette in dubbio l’autenticità della
fedeltà e dell’amore di Giobbe, accusandolo di motivazioni dubbie: “È per nulla che
Giobbe ti serve? È veramente te che ama, o sono le tue benedizioni, il tuo aiuto, la tua
protezione? Se tutto ciò che gli hai dato scomparisse e tu lo abbandonassi alla povertà, al
dolore, all’ingiustizia, alla solitudine, alla malattia, se tu non fossi più niente altro per lui
che un Dio povero, impotente e incapace, dove saranno allora la sua fedeltà, la sua pietà
e fiducia?”. “Per nulla” è la parola chiave di questo libro, e non solo, ma di tutta la vita
cristiana. Con altre parole: per amore, per null’altro che amore.
Qual è la ragione per cui noi serviamo Dio? Satana mette in discussione le nostre vere
motivazioni: è per convenienza personale, familiare, economica o sociale, o ancora per
soddisfare la coscienza, per qualche forma di ricompensa terrena o celeste… per
cos’altro, secondo lui, potremmo servire e amare Dio? E per molti, queste insinuazioni
potrebbero essere fondate… possiamo noi dimostrare a Dio che è per nulla, solo per
amore? Satana scommette con Dio che sulla terra non esista uomo che Lo ami per nulla.
Dio, secondo Satana, è circondato solo da cortigiani, non da amici. E tali “cortigiani”
fanno il gioco di Satana, per cui sono suoi sudditi.
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v.12: Una sfida che Dio rileva. “Ebbene, agisci come se fossi tu il suo signore e vedremo
se lo sei veramente!” Come mai Dio accetta la sfida da Satana? Non era sufficiente dirgli:
“I fatti stanno come dico io” e sbatterlo alla porta? Satana non si lascia convincere da Uno
più potente di lui. Può essere vinto solo da uno più debole di lui, e quindi da Giobbe nella
sua debolezza e non da Dio nella sua potenza. Come dirà d’altronde l’Apocalisse: “Essi lo
hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello, e con la parola della loro testimonianza; e
non hanno amato la loro vita, anzi l’hanno esposta alla morte” (12:11). Dio lascia dunque
agire Satana. E le operazioni di Satana contro Giobbe sono segnate dall’atrocità: azioni di
guerra che massacrano uomini e bestie (1:14,15,17), il fulmine che consuma uomini e
bestie (1:16), la tempesta che provoca il crollo della casa dove sono riuniti tutti i suoi
figli, uccidendoli (18-19). E infine una forma di lebbra fa del suo corpo una spoglia
purulente e nauseabonda. Gli rimarrà solo la voce per interrogarsi dell’assurdità di questi
eventi cadutigli addosso tutti in una volta.
4.1.3 PRIMO CICLO DI DISCORSI (capitolo 2:11 – 14)
Intanto arrivano da paesi lontani i “consolatori”, amici di Giobbe che, saputo dell’amico
caduto in disgrazia, affrontano il lungo viaggio per esprimergli il loro cordoglio e la loro
partecipazione al suo dolore. Riescono a rimanere vicino a lui mesti e silenziosi, al suo
fianco, per ben sette giorni senza proferire verbo. Uomini di cuore, pieni di amore e di
rispetto per il dolore di Giobbe! Nessuno avrebbe saputo essere più sensibile e mostrare
più amore. Ma, per quanto sconcertanti potranno essere le conclusioni alle quali dovremo
arrivare riguardo a loro, questi avvocati di Dio non faranno altro che il gioco del diavolo!
Satana non manda solo le disgrazie ma anche gli amici, ed è in quest’ultima azione che si
presenta il maggior pericolo per Giobbe. Le disgrazie di Giobbe non sono che una
preparazione all’azione vera e propria che, in maniera subdola, doveva convincere
Giobbe a rinnegare il suo amore e il suo servizio gratuito nei confronti di Dio, a
convincerlo che egli era quello che era per interesse. Il nemico ora usa quanto di meglio è
a sua disposizione per porre fine alla fedeltà di Giobbe: l’amicizia, la simpatia,
l’esortazione fraterna e la Parola di Dio. Ecco la grande minaccia per Giobbe, non meno
pericolosa dell’apostrofo della moglie: “Lascia stare Dio e muori!” (2:9).
Capitolo 3: Lamento di Giobbe
Per sette giorni ancora, alla presenza dei suoi amici Giobbe rimane nel silenzio in mesta
riflessione, interrogandosi sull’assurdità della sua esperienza. Infine inizia una serie di
lamenti in cui esterna tutta la sua sofferenza e perplessità. “Sarebbe stato meglio non
nascere mai o morire appena nato: il dolore è troppo grande per essere sopportato e
trovare spiegazione”.
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Capitoli 4 e 5: Primo discorso di Elifaz
“L’uomo non può essere giusto neppure davanti a Dio (4:17-19) ed è perciò che è
continuamente esposto a guai e calamità, frutto del suo peccato e della necessaria
punizione di Dio. Solo gli umili, coloro che sanno accettare la correzione divina potranno
essere soccorsi e rialzare il capo. Ma se uno è insensato, viene atterrato e distrutto
definitivamente”.
Capitoli 6 e 7: Risposta di Giobbe
Giobbe percepisce subito dove Elifaz vuole arrivare. “No, la mia sofferenza non è dovuta
al mio peccato”. Giobbe conosce Dio, sa che è misericordioso (1:5) e che non tratta
l’uomo secondo i suoi peccati e per questo può dire: “La mia giustizia sussiste, il mio
cuore è per Dio (6:29-30). Se mi ritrovo in queste condizioni è perché sono messo alla
prova dal ‘guardiano’ degli uomini (7:17-20) e non perché vi sia un particolare motivo”.
Capitolo 8: Primo discorso di Bildad
“Se i tuoi figli sono morti, è perché portano la pena del loro peccato. Se tu sei giusto
verrai ristabilito. Dio premia la rettitudine dei giusti e punisce l’iniquità dei malvagi”.
“Potrebbe Dio pervertire il giudizio? Potrebbe l’Onnipotente pervertire la giustizia?” (8:3).
Capitoli 9 e 10: Risposta di Giobbe
“Si, certo, io so che è così: come potrebbe il mortale essere giusto davanti a Dio?” (9:2).
Giobbe sa bene che, di fronte alla grandezza e alla giustizia di Dio, l’uomo non può
reggere. Ma sa pure che il proprio cuore è per Dio ed è integro, e che Dio può
distruggere sia l’integro che il malvagio. Quello che non capisce è il modo con cui Dio
distrugge lui dopo averlo fatto con le sue mani. Perché non lo fa morire subito?
Capitolo 11: Primo discorso di Zofar
Si erge a difesa di Dio, definendo l’amico Giobbe insensato e beffardo e le sue parole
ciance quando sostiene di essere puro davanti a Dio. “Se allontani il male che è nelle tue
mani, e non alberghi l’iniquità nelle tue tende, allora alzerai la fronte senza macchia…”
(vv. 14-15).
Capitoli 12, 13 e 14: Risposta di Giobbe
Per lui gli amici hanno deciso di difendere Dio e fargli da avvocati per provare che quanto
accade è colpa dei suoi peccati e della sua malvagità. “Siete inventori di menzogne, siete
tutti quanti medici da nulla” (13:4). Ma non capite che l’uomo è meno che niente? Dio non
si cura se gli uomini salgono in onore o se cadono nel disprezzo (14:21). “Chi può trarre
una cosa pura da una impura? Nessuno!” (14:4). “Le mie trasgressioni sono sigillate in un
sacco, e alle mie iniquità, altre ne aggiungi” (14:17).
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Di una cosa sola Giobbe può rispondere: la propria condotta (13:15). Per Giobbe il
successo o la caduta in disgrazia non hanno nulla da fare con i comportamenti dell’uomo,
visto che agli occhi di Dio è comunque peccatore. Quello che per lui conta è la sua
condotta integra e disinteressata nei confronti di Dio.
Commento:
Inizialmente Elifaz e Bildad cercano amabilmente di consolare Giobbe e si sorprendono
del suo profondo scoraggiamento. Cercano di rassicurarlo e di incitarlo al pentimento
perché possa tornare nelle grazie di Dio. Ma Giobbe si fa ancora più pesante e, per
colmare la misura, sostiene di essere integro nella sua condotta, puro agli occhi di Dio.
Zofar è scandalizzato. Dopo il suo intervento e la risposta di Giobbe il tono della
discussione si fa duro ed aspro.
Ciò che dicono gli amici di Giobbe è pieno di verità bibliche, ma in maniera subdola si
prestano alla tentazione dell’avversario. Per capire dov’è il pericolo, riassumiamo la loro
mentalità. Essa si riduce al pensiero che Dio ricompensa i buoni e castiga i cattivi, per cui
Giobbe è castigato nella misura in cui ha peccato e risparmiato nella misura in cui ha
ubbidito. Si deve ravvedere, e allora tutto si volgerà per il meglio e Dio lo guarirà.
Supponiamo che Giobbe entri nella mentalità di Elifaz, si ravveda perché schiacciato dai
suoi guai. Ciò significherebbe che ha servito Dio per essere felice e che riconosce di
averlo servito male dal fatto che ora è infelice. Ciò significherebbe che non lo ha servito
“per nulla” ma per dei vantaggi di natura materiale o spirituale. Il suo pentimento
darebbe così ragione all’Accusatore.
Il miracolo è che Giobbe non cerca di giustificare Dio né di cambiare l’ordine dei fatti per
trarli a suo vantaggio: non vuole aggiustare le contraddizioni del mondo per difendere la
giustizia di Dio. Afferma piuttosto che “la vita dell’uomo sulla terra è come quella di un
soldato; i suoi giorni sono simili ai giorni di un mercenario. Come lo schiavo anela
l’ombra, come l’operaio aspetta il suo salario, così a me toccano mesi di sciagura… i miei
giorni… si consumano senza speranza” (7:1-3,6).
No, non ha servito Dio per essere premiato, né in questa terra né dopo la risurrezione,
ma fa sua quella che sarà l’esortazione di Gesù: “Quando avrete fatto tutto ciò che vi è
comandato, dite: “Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di
fare”” (Lc. 17:10).
4.1.3 SECONDO CICLO DI DISCORSI (capitoli 15–21)
Capitolo 15: Secondo discorso di Elifaz
“Vuoi metterti a contendere con Dio? Vuoi distruggere il timore di Dio e il rispetto che gli
si deve con le tue chiacchiere inutili? Come osi contestare Dio?” “Chi è mai l’uomo per
essere puro, il nato di donna per essere giusto?” (vv. 2-4,13-14). Sono gli empi ed i
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prepotenti ad essere tormentati durante la loro vita. Questa è la conclusione alla quale i
saggi sono arrivati (vv. 17-20).
Capitoli 16 e 17: Risposta di Giobbe
Giobbe tiene duro: “Voi non capite, le vostre parole sono moleste e vane. È Dio ad avermi
dato in mano agli aguzzini perché Lui ha voluto così. Io sono distrutto dal dolore e dal
pianto ma le mie mani non commisero mai violenza, la mia preghiera fu sempre pura.
Comunque il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi. Il giusto
rimane saldo nella sua via (17:9) e chi ha le mani pure vieppiù si fortifica. Sia Dio a
giustificarmi (17:3), altrimenti non mi aspetto altro che il soggiorno dei morti” (17:11-16).
Capitolo 18: Secondo discorso di Bildad
“A cosa serve parlare ancora? Non vedete che non serve a nulla? La sua condizione (di
Giobbe) parla da sola. La luce dell’empio si spegne (v. 5)… è cacciato dalla luce nelle
tenebre, è bandito dal mondo, non lascia tra il popolo né figli, né nipoti, nessun
superstite… Certo sono tali le dimore dei perversi e tale è il luogo di chi non conosce
Dio!” (18-21).
Capitolo 19: Risposta di Giobbe
Basta! “Sono già dieci volte che m’insultate e non vi vergognate di malmenarmi” (v.3). Se
volete per forza trovare in me la causa primaria dei miei mali, sarete giudicati pure voi
come giudicate me! (vv. 28-29).
“Se volete sapere chi m’ha fatto torto e mi ha avvolto nelle sue reti, è Dio!” (v. 6). Ma io so
che il mio Vindice (Difensore) vive, e che alla fine si alzerà sulla mia polvere. “Quando,
dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne [o, “nella mia carne”
(Nuova Diodati) – il testo ebraico è ambiguo], vedrò Dio. Io lo vedrò a me favorevole… il
cuore, dal desiderio, mi si consuma!” (25-27).
In altre parole: anche se tutti – voi inclusi – mi si sono rivoltati contro, e se Dio mi ha
fatto violenza, Lui rimane mio amico, a differenza di voi tutti!
Capitolo 20: Secondo discorso di Zofar
“Ho udito rimproveri che mi fanno oltraggio… non lo sai tu che in ogni tempo, da che
l’uomo è stato posto sulla terra, il trionfo dei malvagi è breve; la gioia degli empi non
dura che un istante?… L’empio perirà per sempre come lo sterco suo…” (vv. 3-7). “Il cielo
rivelerà la sua iniquità, la terra insorgerà contro di lui… Tale la parte che Dio riserva
all’empio, tale l’eredità che Dio gli destina” (vv. 27,29).
Capitolo 21: Risposta di Giobbe
Se volete consolarmi, ascoltatemi piuttosto! Ma non avete notato che quanto dite non è
che falsità? Guardate i ricchi, i potenti, gli empi… quelli mangiano, bevono, e a loro va
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sempre tutto bene. Di Dio non se ne importano proprio (14-15), eppure passano felici i
loro giorni, sfuggono alle calamità, e concludono i loro giorni in onore con un gran
funerale!
“L’uno muore in mezzo al suo benessere, quand’è pienamente tranquillo e felice… L’altro
muore con l’amarezza nel cuore, senz’aver mai gustato il bene. Entrambi giacciono
ugualmente nella polvere…” (vv. 23-25). Che discorsi sono mai i vostri? Non capite che la
fedeltà nei confronti di Dio non c’entra con il successo o l’insuccesso terreno e che alla
fine tutti ugualmente muoiono?
Commento :
Continua la discussione sul tema delle cause della sofferenza di Giobbe. Gli amici
difendono
la
religione,
l’universalità
del
peccato,
la
corruzione
dell’uomo,
e
l’interpretazione che danno ai guai dell’uomo è che è il castigo dei suoi peccati. Se sei in
queste condizioni, è solo perché ti sei comportato male, ripetono al patriarca sofferente.
Questi, dal canto suo, tiene loro testa: Dio deve forse rendere conto delle sue azioni? È
Lui l’Autore dei miei mali, ma non perché mi sono comportato male. I miei peccati non
hanno nulla da fare con i miei guai. Conosco il mio cuore. Non mi spiego il perché di
tutto ciò, non so perché Dio si sia convertito in mio nemico, ma una cosa so, che di Lui
posso avere fiducia. Egli rimane mio amico!
Questa fuga da Dio per andare a Dio è da considerarsi l’espressione suprema della fede.
4.1.4 TERZO CICLO DI DISCORSI (capitoli 22-31)
Capitolo 22: Terzo discorso di Elifaz
Si scoprono le carte: “Può l’uomo recare qualche vantaggio a Dio? No; il saggio non reca
vantaggio che a sé stesso” (v. 2). Per sostenere la propria posizione, Elifaz inizia ad
accusare Giobbe di avere approfittato dei più deboli (vv. 5-12) e lo esorta a pentirsi per
tornare nelle grazie di Dio: “Riconciliati dunque con Dio: avrai pace, ti sarà resa la
prosperità… sarai ristabilito… lo pregherai ed Egli t’esaudirà… quello che intraprenderai
ti riuscirà…” (vv. 21-28).
Capitoli 23-24: Risposta di Giobbe
Giobbe riconosce di essere in rivolta contro Dio (v.2) e, piuttosto che discutere la sua
causa con gli amici che si ostinano nella loro pietà religiosa, preferirebbe discuterla con
Dio, che non solo gli presterebbe attenzione, ma lo assolverebbe (v.7). Egli sa che il suo
piede ha seguito fedelmente le Sue orme, ha riposto nel suo seno le parole della Sua
bocca (vv. 11-12). Invece bisognerebbe prendersela con i mali che possiedono la società
in cui uno vive, dove i malvagi e i forti la fanno da padroni, dove regnano gli
approfittatori e dove gli ingiusti fanno i comodi loro. E Dio li lascia fare: “non si cura di
queste infamie!” (24:12). Anche da questo Giobbe è rivoltato: “Perché non sono
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dall’Onnipotente fissati dei tempi in cui renda la giustizia? Perché quelli che lo conoscono
non vedono quei giorni?” (24:1).
Capitolo 25: Terzo discorso di Bildad
“Chi siamo noi da poter chiedere ragione a Dio? Siamo solo dei vermi davanti alla sua
grandezza!” (vv. 1-6).
Capitoli 26-27: Risposta di Giobbe
“Ma, a chi ti credi di aver parlato? E di chi è lo spirito che parla per mezzo tuo?” (26:4).
“Lungi da me l’idea di darvi ragione! Fino all’ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia
integrità” (27:5). Giobbe rimane saldo nella rivelazione e nella fede della sua giustizia,
non come giustizia propria ma come giustizia che gli viene da Dio, grazie alla quale può
dire: “Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò: il cuore non mi rimprovera uno
solo dei miei giorni” (27:6).
Capitolo 28
Uno splendido poema viene inserito tra il dibattito, inneggiante alla sapienza divina, che
non trova la sua origine tra i misteri e i tesori della terra. “Da dove viene dunque la
sapienza? Dov’è il luogo dell’intelligenza?” (v. 20). “Dio solo conosce la via… e la rivelò, la
stabilì e anche l’investigò… E disse all’uomo: Ecco, temere il Signore, questa è saggezza,
fuggire il male è intelligenza” (vv. 23-28).
Capitoli 29-31: Discorso di Giobbe
Inizia una sequenza di ricordi e di riflessioni sul proprio comportamento e sulla propria
etica, dai quali emerge con maggior chiarezza la personalità e l’etica di Giobbe. “In effetti
mi spaventava il castigo di Dio, ero trattenuto dalla maestà di Lui”, afferma (31:23) per
spiegare il perché nella sua vita ha sempre evitato il male, e: “Chi fece me nel grembo di
mia madre non fece anche lui (il servo)? Non ci ha formati nel grembo materno uno
stesso Dio?” (31:15) per spiegare il suo comportamento giusto e corretto nei confronti del
prossimo.
Ricorda come la gente lo stimava, l’onorava, l’apprezzava e ricorreva a lui e come si
aspettava che le cose continuassero così: “Dicevo: “Morrò nel mio nido, moltiplicherò i
miei giorni come la sabbia; le mie radici si stenderanno… la mia gloria sempre si
rinnoverà”” (29:18-20).
E invece, “Dio m’ha gettato nel fango, e rassomiglio alla polvere e alla cenere. Io grido a
te, ma tu non mi rispondi: ti sto davanti, ma tu non mi consideri! Ti sei mutato in nemico
crudele verso di me; mi perseguiti con la potenza della tua mano” (30:19-21). “Oh, avessi
pure chi m’ascoltasse!… L’Onnipotente mi risponda! Scriva l’avversario mio la sua
querela, e io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema! Gli
renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!” (31:35-37).
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Commento:
Gli amici di Giobbe sono pieni di “zelo senza conoscenza” (Rom. 10:2) e vedono
l’osservanza della legge, il buon comportamento, non come frutto della giustizia di Dio in
noi, espressione della gratitudine e dell’amore, ma piuttosto come mezzo per la salvezza
per tirarsi fuori dai guai e guadagnarsi l’approvazione divina.
Giobbe e i suoi amici appartengono a due mondi nettamente opposti. Giobbe dice: “Sono
quello che sono perché Dio mi ha reso giusto; ho fatto mia la sapienza di Dio: temere Dio
e fuggire il male”. Gli amici invece: “Tu non sei giusto. Nessun uomo è giusto. E i guai che
ti sono caduti addosso sono la prova che hai agito male. Ma se ti ravvedi, tornerai nelle
grazie di Dio e verrai ristabilito”.
Per i suoi amici, Giobbe diventa profondamente blasfemo quando pare abbia osato
affermare che “non giova nulla all’uomo riporre il proprio diletto in Dio” (34:9). Diventa
pericoloso per la morale, per la religione e per l’umanità. La posizione e le convinzioni di
Giobbe non possono essere vere, altrimenti avrebbe servito Dio per nulla, visto che il
premio per la sua presunta “giustizia, correttezza e onestà” sono tutti i guai cadutogli
addosso. No, non è possibile per la pietà umana accettare una simile tesi. Dio non può
non ricompensare le buone azioni dei giusti!
Eppure emerge con forza nei capp. 24, 29 e 31 il cuore di Giobbe nei confronti del
prossimo. Quando parla della sua obbedienza o quando gli amici l’accusano di aver
disubbidito, non si parla mai di pratiche religiose, di riti, di sabati non rispettati o cose
simili, ma solo dei suoi rapporti con la gente. In questo libro l’amore per Dio si realizza
pienamente nell’amore per il prossimo. È liberando l’oppresso (29:12), esaminando con
imparzialità la causa dello straniero (29:16), sorridendo allo scoraggiato (29: 24),
piangendo per chi era nell’avversità (30:25), spezzando la ganascia all’iniquo (29:17) che
Giobbe amava e serviva Dio. Si comporta da “buon samaritano” semplicemente perché
conosce, teme e ama Dio. A questo punto gli amici tacciono. Questo discorso per loro
non ha senso “perché egli si credeva giusto” (32:1).
4.1.5 I DISCORSI DI ELIHU (capitoli 32-37)
Seguono sei capitoli che contengono i discorsi di un nuovo personaggio apparso
improvvisamente. Inizialmente gli amici erano tre; ora invece viene presentato Elihu come
se avesse assistito a tutto il dibattito: “Allora l’ira di Elihu… s’accese contro Giobbe… e
contro i tre amici di lui perché non avevano trovato che rispondere…” (32:2-3).
Parecchi studiosi sostengono che la sezione di Elihu sia un’interpolazione di un altro
autore perché:
1. Elihu non è menzionato né nel prologo né nell’epilogo;
2. vi sono differenze stilistiche e linguistiche con il resto del libro.
3. i discorsi di Elihu non aggiungono praticamente niente a quanto già detto.
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I discorsi di Elihu sono tuttavia caratterizzati da un’atmosfera di profondo rispetto per
Dio e una concezione del peccato più approfondita da quella degli altri amici. Dio appare
come un maestro che istruisce, deciso a guidare l’uomo, tramite la disciplina della
sofferenza, verso una condotta più saggia.
Capitolo 32: Elihu proclama di essere ancora giovane e di aver aspettato per parlare,
ascoltando con attenzione i discorsi dei più anziani. Ma è sorpreso che non solo non
rispondono alle obiezioni di Giobbe, ma che alla fine rimangono senza parole. Non è
dunque
la
vecchiaia
che
rende
l’uomo
intelligente,
ma
“lo
spirito,
il
soffio
dell’Onnipotente” (vv. 7-8). Non è l’uomo che potrà convincere Giobbe: “Dio soltanto lo
farà cedere!” (v. 13).
Capitolo 33: Come gli altri, Elihu inizia cercando di convincere Giobbe di avere torto:
“Davanti a me tu dunque hai detto…: “Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non
c’è iniquità in me; ma Dio trova contro di me degli appigli ostili…” Io ti rispondo: “In
questo non hai ragione”, poiché Dio è più grande dell’uomo. Perché contendi con Lui? Egli
non rende conto dei suoi atti” (vv. 8-13). Interessanti i versetti 14-30 in cui Elihu descrive
come Dio si serva di sogni, di visioni e infine anche della malattia e della sofferenza per
ammonire l’uomo e cercare di distoglierlo dai suoi peccati.
Capitolo 34: Elihu continua a riferirsi ad affermazioni di Giobbe: “Giobbe ha detto: “Sono
giusto, ma Dio mi nega giustizia, ho ragione e passo da bugiardo.. Sono senza peccato””
(v.5), e ancora: ““Non giova nulla all’uomo riporre il proprio diletto in Dio”” (v. 9, NDiod).
Anche Elihu è del parere che Dio “rende all’uomo secondo le sue opere, fa trovare a
ognuno il salario della sua condotta… non ha bisogno di osservare a lungo un uomo per
portarlo davanti a lui in giudizio; egli fiacca i potenti senza inchiesta… li colpisce come
dei malvagi… perché si sono sviati da lui” (vv. 11, 23-24, 26-27). E conclude: “Giobbe
parla senza giudizio, le sue parole sono irragionevoli. Ebbene, sia Giobbe provato sino
alla fine, poiché le sue risposte sono quelle dei malvagi, poiché al suo peccato aggiunge la
ribellione” (vv. 35-37).
Capitolo 35: Le parole di Elihu lasciano perplessi in quanto mette in bocca a Giobbe
discorsi che i precedenti capitoli non ricordano, quali: “Che mi giova? Che guadagno io di
più a non peccare?” (v.3). Al contrario, parole simili a queste erano state messe da Giobbe
in bocca agli iniqui: “Perché mai vivono gli empi?… Dicevano a Dio: “…Che cos’è
l’Onnipotente perché lo serviamo? Che guadagneremo a pregarlo?”” (21:7,14-15). Ed è
sempre Elihu a mettere in bocca a Giobbe l’affermazione: “Non giova nulla all’uomo
riporre il proprio diletto in Dio” (34:9).
Comunque la sua affermazione: “Se pecchi, quale inconveniente gli procuri? Se moltiplichi
i tuoi misfatti, che danno gli arrechi? Se sei giusto, che gli dai? Che riceve egli dalla tua
mano? La tua malvagità non nuoce che al tuo simile, e la tua giustizia non giova che ai
figli degli uomini” (vv. 6-8), contiene una verità profonda.
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Capitoli 36-37: Pur parlando con grande convinzione, cercando di difendere la grandezza
e la potenza di Dio e così dimostrare la stoltezza di Giobbe nel credere nella sua
integrità, Elihu non manca di presunzione: “Per certo, le mie parole non sono bugiarde; ti
sta davanti un uomo dotato di perfetta scienza” (36:4). E continuando la sua arringa,
prima di descrivere la grandezza di Dio, riafferma quanto Giobbe già aveva contestato:
“Egli non lascia vivere l’empio e fa giustizia agli afflitti. Non allontana il suo sguardo dai
giusti…” (36:6-7). Alla fine conclude: “L’Onnipotente noi non lo possiamo scoprire. Egli è
grande in forza, in equità, in perfetta giustizia; egli non opprime nessuno” (37:23).
Commento:
Le affermazioni di Elihu mettono Giobbe in una luce un po’ diversa di quanto non appaia
dai suoi discorsi. Non sembra proprio che Giobbe abbia mai affermato: “Io sono puro,
senza peccato; sono innocente, non c’è iniquità in me” (33:8).
Quello che invece viene fuori dai resoconti dei discorsi di Giobbe è che egli afferma che:
1. “Come potrebbe il mortale essere giusto davanti a Dio? Se all’uomo piacesse
disputare con Dio, non potrebbe rispondergli su un punto fra mille” (9:2-3).
2. “Chi può trarre una cosa pura da una impura? Nessuno!” (14:4).
3. “Ma io so che il mio Redentore [ebr. go’el, colui che mi riscatta, garante] vive e che
alla fine si alzerà sulla polvere” (19:25).
4. “Lungi da me l’idea di darvi ragione! Fino all’ultimo respiro non mi lascerò togliere
la mia integrità” (27:5).
Sembra quasi che Giobbe veda la sua integrità come un dono di Dio che gli amici
vogliono a tutti i costi togliergli. Se una parte di ragione può essere concessa agli amici di
Giobbe, è unicamente per il fatto che contestano a Giobbe le sue lamentazioni e la sua
ribellione perle sue disgrazie, niente di più.
4.1.6 RISPOSTA DI DIO A GIOBBE (capitoli 38-41)
“Allora il SIGNORE rispose a Giobbe…”
Finalmente! Ma la risposta di Dio, tanto attesa, è forse la parte più sconcertante del libro.
Invece di illuminare, mette in imbarazzo. Pone più quesiti di quanti ne risolva: Dio si
mette a spiegare le meraviglie del creato, facendo passare Giobbe per un vero e proprio
esame di storia naturale.
“Dov’eri tu quando io fondavo la terra?… Chi ne fissò le dimensioni?… Su che furono
poggiate le sue fondamenta?… Hai tu mai, in vita tua, comandato al mattino…?” (vv.
4,5,6,12). Tutte domande intese a ridurre Giobbe al silenzio.
Capitolo 39: Dalla natura cosmica e dalle leggi dell’universo, Dio scende in quella
animale. “Sai quando figliano le camozze? … Chi manda libero l’onagro? … Il bufalo vorrà
forse servirti?… Ti fiderai di lui perché la sua forza è grande? Lascerai a lui il tuo lavoro?
… Lo struzzo batte allegramente le ali… abbandona sulla terra le proprie uova, le lascia
scaldare sopra la sabbia… Dimentica che un piede le potrà schiacciare… tratta
Panorama dell’Antico Testamento
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duramente i suoi piccini, quasi non fossero suoi; la sua fatica sarà vana, ma ciò non lo
turba, perché Dio l’ha privato di saggezza, non gli ha impartito intelligenza. Ma quando
si leva e prende lo slancio, si beffa del cavallo… È la tua intelligenza che allo sparviere fa
spiccare il volo… è forse al tuo comando che l’aquila si alza in alto?” (vv. 1, 5, 9-11, 1318, 26-27). Non è forse Dio ad aver creato e a controllare tutto il mondo naturale con le
sue meraviglie e i suoi misteri?
Capitolo 40: Giobbe a queste domande non può che rispondere: “Ecco, io sono troppo
meschino; che ti potrei rispondere? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una
volta, ma non riprenderò la parola, due volte, ma non lo farò più”. E Dio prosegue, quasi
si divertisse a far riflettere sul suo operato: “Guarda l’ippopotamo che ho fatto al pari di
te… esso è il capolavoro di Dio… potrebbe qualcuno impadronirsene assalendolo di
fronte, o prenderlo con le reti per forargli il naso?… Prenderai forse il coccodrillo
all’amo?… Ti dirà delle parole dolci?… Scherzerai con lui come fosse un uccello?
L’attaccherai a un filo per divertire le tue ragazze?” (vv. 15-24, 25-29).
Capitolo 41: “Chi mi ha anticipato qualcosa perché io glielo debba rendere? Sotto tutti i
cieli, ogni cosa è mia” (v.3). Inizia qui la descrizione di un mostro marino, noto nella
Bibbia con il nome di Leviathan, in cui viene esaltata la sua potenza e la sua grandezza,
contro le quali l’uomo è impotente.
Commento:
Ma quale rapporto hanno la descrizione dell’ippopotamo, del rinoceronte, del coccodrillo
e del mostro marino con le sofferenze di Giobbe? Dio si sta prendendo forse gioco di
Giobbe? Riflettiamo un istante. Gli amici si erano sforzati di dimostrare a Giobbe che, in
un mondo pieno di cose utili, il servizio a Dio fosse il più utile di tutti. Ma a cosa possono
servire lo struzzo, l’ippopotamo e il coccodrillo? Il mondo è pieno di cose fatte per nulla,
gratuite, create per nessun’altra ragione che quella di dare, nella loro inutilità, gloria a
Dio.
In modo indiretto e pieno di amore, quanto meno “morale” e “religioso” possibile, senza
nulla giustificare né spiegare, Dio si limita a situare Giobbe in questo mondo della
gratuità assoluta, impensabile per i suoi amici. Egli gli ricorda che il suo servizio fa parte
di questo mondo, e che è sempre stato un servo inutile, che non ha più ragion d’essere
del Leviathan e che, precedente ad ogni obbedienza e prova, vi è la libera volontà e bontà
di Dio, la grazia più che sufficiente. “Egli è buono verso gli ingrati e i malvagi” (Lc. 6:35).
“Vedi tu di mal occhio che io sia buono?” (Mt. 20:15).
Quello che gli amici non capiscono è che il servizio e l’integrità di Giobbe erano il
risultato del favore e della giustificazione di Dio, e non il contrario. Era la giustizia di Dio
ad aver condotto Giobbe alle sue buone opere, opere che erano solo espressione di lode
e di gratitudine verso Dio. Come gli animali più imponenti non hanno una precisa ragion
d’essere, per cui oltre ad accettare la loro presenza non c’è più nulla da dire, così è per
Panorama dell’Antico Testamento
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Giobbe. Gli animali sono quello che sono perché Dio li ha voluti così. E il servizio di
Giobbe è quello che è per la stessa ragione. L’unica ragione è la grazia, la bontà, la
benignità di Dio.
“In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo perché fossimo santi e irreprensibili
dinanzi a lui, avendoci predestinati nel suo amore a essere adottati per mezzo di Gesù
Cristo come suoi figli, secondo il disegno benevolo della sua volontà, a lode della gloria
della sua grazia” (Ef. 1:4-6). Ai due antipodi della creazione troviamo il mostro marino e il
volto del servo di Dio. Il mostro esiste solo per far risaltare la gratuità del servizio di
Giobbe, o meglio, la gratuità dell’amore di Dio per Giobbe e dell’amore di Giobbe per
Dio. Siamo quello che siamo per volontà e grazia di Dio. Punto!
4.1.7 EPILOGO (capitolo 42)
Giobbe ha capito e non aggiunge più nulla. Ha capito ciò che ora anche noi abbiamo
compreso: “Io riconosco che tu puoi tutto e che nulla può impedirti di eseguire un tuo
disegno” (v.2). E si pente. Non però del pentimento che gli amici gli chiedevano, ma solo
per non aver compreso la grandezza di questo mistero: “Sì, ne ho parlato; ma non lo
capivo: sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco” (v.3). E conclude: “Il
mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto” (v.5). Ora, in altre
parole, so come sei fatto, Signore. Attraverso la prova e il discorso di Dio, ha di Lui una
visione nuova. Nella sua rivolta e resistenza alle pressioni degli amici, ha provato la
potenza della grazia che l’ha sostenuto e ha fatto sì che il suo fondamento non cedesse.
Vv. 7-17: L’epilogo della storia è che Dio condanna i propri “difensori” religiosi per non
aver parlato di lui secondo verità, come invece ha fatto il suo servo Giobbe (!). Ora è
Giobbe, l’uomo che – secondo loro – era sicuramente lontano da Dio, blasfemo e
irrecuperabile, che deve intercedere per salvarli dall’ira di Dio! E dopo aver pregato per
loro, Dio lo ristabilisce nella condizione di prima, rendendogli il doppio di quanto avesse
prima. Lo ristabilisce non solo agli occhi della moglie e degli amici, ma di tutta la gente
(v.11).
Questa fine può anche lasciare sconcertati, ma stabilisce il diritto e il potere di Dio di
ricompensare quando e come vuole coloro che l’amano e lo servono gratuitamente. La
fede e la resistenza di Giobbe hanno sconfitto le accuse di Satana. Giobbe è giusto perché
serve Dio per nulla! E il ristabilimento di Giobbe è la testimonianza di Dio all’umanità che
lo considera tale.
4.2 IL LIBRO DEI SALMI
(a cura di Emilio Ursomando)
4.2.1 INTRODUZIONE
• Il libro dei Salmi è stato scritto più per i credenti che per i non credenti.
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•
•
•
•
Furono scritti per esprimere la lode, sia con gli strumenti che per mezzo della voce.
La maggior parte della poesia ebraica è di tipo “lirico” perché accompagnata dalla lira.
I musicisti d’Israele non erano pagati, contribuivano gratis per l’adorazione del popolo.
Gli Ebrei si servivano di molti strumenti. Veniva usato ogni strumento conosciuto per
l’adorazione nel Tempio. Nel grande coro dell’Alleluia che troviamo nel Salmo 150
vengono menzionati otto strumenti diversi.
Sembra che questi strumenti fossero di tre tipi:
1. Strumenti a fiato
Lo “shofar” o corno di montone è chiamato “tromba” nel
Salmo 150:3. Questo non è il corno, che invece è uno
strumento
diverso,
come
vediamo
nel
Salmo
98:6.
Altro strumento a fiato è il “flauto” (Salmo 150:4). La Diodati
traduce “organo”, ma l’organo fu inventato molti secoli
dopo.
2. Strumenti a corda
La cetra o arpa era lo strumento più menzionato e ce
n’erano di vari tipi. La lira era un’arpa triangolare a 4 fili.
3. Strumenti a percussione
Il timpano era una specie di piccolo tamburo che veniva
percosso con le dita. I cembali venivano usati per tenere il
ritmo (1° Cron. 15:19).
4.2.2 IL NOME: “SALMI”
Il titolo ebraico per questo libro è “Tehillim” o “canti di lode”. La traduzione greca,
“psalmoi”, significa letteralmente canti da accompagnarsi con strumenti a corda.
N.B.
I Salmi non cominciano con Davide; l’Antico Testamento è pieno di poesia e di
canti:
• Mosè celebrò l’esodo con un canto (Esodo 15).
• Debora e Barak cantarono la sconfitta di Sisera (Giudici 5).
• L’anonima Anna (1° Sam. 2), nonché re e profeti cantarono con un salmo le
loro esperienze più importanti.
L’Israele (spirituale!) di Dio è sempre stata e sarà sempre un popolo che canta.
Non meravigliamoci dunque di trovare nel libro di Dio una raccolta di Salmi.
4.2..3 CONSIDERAZIONI
I Salmi per noi oggi (loro utilità per il cristiano di oggi):
• Il libro dei Salmi costituisce un legame tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
• In essi vengono espressi i grandi scopi e le grandi lezioni della legge
mosaica.
• Nei Salmi viene insegnato agli Ebrei che una forma della Legge senza lo
spirito non è altro che vanità e che un Dio spirituale richiede un’adorazione
spirituale (Salmo 51:16-17).
I Salmi: Una sorgente inesauribile d’esperienze
I salmi hanno il loro valore principale nel nutrimento spirituale che danno.
Gli altri libri (es. Pentateuco e Profeti) possono fornire molto materiale per la dottrina
Panorama dell’Antico Testamento
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teologica e per i giusti principi di adorazione, ma questo libro è una sorgente inesauribile
d’esperienze religiose.
Lutero l’ha chiamato la “piccola Bibbia” e ha dichiarato che non esiste altro libro così
prezioso e così ricco d’esperienze fatte dai santi come nel salterio.
Citazione: Qui non troviamo solo ciò che hanno fatto un paio d’uomini di Dio, ma
troviamo ciò che il Capo Supremo di tutti i santi ha fatto e quello che i santificati fanno
ancora – come si comportano in relazione a Dio, in relazione agli amici ed ai nemici;
come si comportano nel pericolo e come si sostengono nelle sofferenze.
Il libro dei SALMI è un piccolo libro per tutti i santi, ma ogni uomo, in qualunque
situazione, potrà trovare dei sentimenti che possono applicarsi al suo caso.
I Salmi sono dei modelli di culto
Altre parti della Bibbia ci mostrano Dio che parla agli uomini, qui è l’uomo che parla a
Dio.
Per mezzo di questo libro possiamo valutare le nostre attitudini, i sentimenti e le parole
che escono dai nostri cuori (Rom.12:1) e possiamo sapere se la nostra preghiera e la
nostra adorazione vengono espresse in un modo accettevole a Dio.
I Salmi ci rivelano i particolari intimi della vita di Gesù
Questi sono contenuti nei Salmi profetici che riguardano il Messia. Contengono predizioni
della vita di Cristo e descrivono con straordinaria accuratezza la sua sofferenza e la sua
gloria. Gesù richiama l’attenzione su questo fatto! (Luca 24:44).
La prova più grande dell’ispirazione della Scrittura è il dramma della crocifissione del
nostro Signore come è descritta nei Salmi, ben mille anni prima!
N.B. I Vangeli ci raccontano quello che Cristo disse e fece e quello che fu detto e fatto a
Lui.
I Salmi rivelano la sua vita interiore, come si sentiva, come viveva nella presenza di
Dio, suo Padre.
4.2.4 DIVISIONE DEL SALTERIO (5 libri)
Da tempi antichi sembra che il Salterio sia stato suddiviso in 5 libri, forse per farlo
corrispondere ai 5 libri della Legge (Pentateuco).
Ecco le suddivisioni:
LIBRO I
Salmi 1-41 (Salmi del regno di Davide)
LIBRO II
Salmi 42-72 (Salmi di devozione)
LIBRO III
Salmi 73-89 (Salmi liturgici)
LIBRO IV
Salmi 90-106 (Salmi anonimi, tranne il 90, 101 e 103)
LIBRO V
Salmi 107-150 (Salmi post-esilici)
La maggior parte dei Salmi si riferiscono a tre periodi della storia ebraica:
a) il regno di Davide
b) il regno di Ezechia
Panorama dell’Antico Testamento
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c) il periodo dell’esilio.
È probabile che il Libro I sia stato compilato da Salomone, il II e il III dagli uomini di
Ezechia (Prov. 25:1; 2° Cron. 29:30) e il IV e il V da Esdra.
Alla fine del Salmo 72 (tra l’altro attribuito a Salomone) troviamo scritto: “Qui finiscono le
preghiere di Davide, figlio di Isai” (v. 20). Alcuni pensano sia un’aggiunta editoriale alla
collezione originale dei salmi davidici, della quale il Salmo 72 è l’ultima unità e che molti
credono comprendesse i Salmi 3-41 e 51-72.
4.2.5 DATA DI COMPOSIZIONE DEI SALMI (1400 – 444 a.C.)
I Salmi non sono stati scritti in un solo periodo storico o da una sola persona. Essi sono
una collezione scritta durante un arco di tempo di circa 1000 anni e da più di 12 persone.
Il periodo della loro composizione si estende dall’anno 1400 a.C. circa, quando Mosè
scrisse il Salmo 90, fino al 444 a.C., quando Esdra completò il canone e, secondo la
versione dei Settanta, aggiunse anche i Salmi 1 e 119.
Nonostante il periodo così esteso e la differenza di ambiente degli autori dei Salmi, esiste
una meravigliosa unità nel pensiero e nello spirito. Questo può essere spiegato solo
tenendo conto del fatto che l’autore è in realtà uno: lo Spirito Santo di Dio (2° Pietro 1:2021).
Il salmo più antico: Salmo 90, di Mosè (circa 1405 a.C.).
Seguono i Salmi di Davide (composti tra il 1020 e il 975 a. C.).
• i Salmi di Asaf (risalenti più o meno allo stesso periodo).
Poi
• I Salmi dei discendenti di Core.
• I Salmi di Eman e di Etan (di epoca difficile da stabilire, forse preesilici).
4.2.6 AUTORI DEI SALMI
I Salmi che indicano il nome dell’autore ci danno le seguenti informazioni:
•
•
•
•
•
•
•
•
1 salmo di Mosè
73 salmi di Davide (contenuti soprattutto nei Libri I e II)
12 salmi di Asaf1 (50, 73-83)
10 salmi dei figli (discendenti) di Core (42, 44-49, 84, 87, 88)
1 o 2 salmi di Salomone (127, 72)
Un salmo di Eman, lo Ezrahita2 (88)
Un salmo di Etan, lo Ezrahita2 (89)
48 salmi sono anonimi (del periodo dell’esilio?)
NOTA: Atti 4:25 ed Ebrei 4:7 attribuiscono a Davide il Salmo 2 e il Salmo 95.
Autenticità dei salmi davidici
La critica razionalista è scettica riguardo ai titoli che introducono i Salmi e li considera
1
2
Asaf: era un valente musicista, direttore levitico della corale di Davide.
Ezrahita: probabilmente un discendente di Zerach, della tribù di Giuda, alla cui famiglia si unì una famiglia di leviti.
Panorama dell’Antico Testamento
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come tardive, o meglio posteriori, speculazioni rabbiniche. Essi rifiutano la paternità di
Davide su alcuni Salmi. Per esempio, Eissfeldt è disposto a riconoscergli la paternità di
appena uno o due Salmi.
Argomenti contro:
1) Alcuni dei Salmi attribuiti a Davide parlano del re in terza persona, anziché in prima o
seconda (20, 21, 61, 63, 72, 110) e ci si aspetterebbe – essi dicono – che un autore
parli di se stesso col pronome “io” o “tu’“ e non con “egli”.
Difesa: vi sono abbondanti prove che gli autori antichi parlavano di se stessi usando
spesso la terza persona.
•
Senofonte, autore indiscusso dell’Anabasi, parla sempre di sé in terza
persona.
•
•
Giulio Cesare, nel De bello Gallico, fa lo stesso.
Dio spesso nell’Antico Testamento parla di sé in terza persona (Es.
20:2,5-6 parla in prima persona, ma al v. 7 passa ad usare la terza).
Quindi, l’uso della terza persona non è sufficiente a negare la paternità di uno
scritto.
2) Alcuni Salmi attribuiti a Davide parlano del santuario come se fosse un tempio già
esistente (5, 27, 28, 63, 68, 69, 101, 138) mentre invece tale edificio fu costruito dal
re Salomone, figlio di Davide, dopo la sua morte.
Difesa: questo argomento si basa su una errata interpretazione delle espressioni:
“casa di Javé” – “il santuario” – “il tempio”.
Noi troviamo simili espressioni già nella letteratura pre-davidica, così troviamo
la parola “santuario” (qōdesh) già usata per il tabernacolo (Es. 28:43); le parole
“casa del SIGNORE” (bēyt Yahweh) in Giosuè 6:24; l’espressione “casa di Dio”
(bēyt Elohim) in Giudici 18:31 e persino “tempio” (heykāl) in 1° Sam. 1:9.
Inoltre va ricordato che il santuario nominato nei Salmi attribuiti a Davide,
spesso viene indicato con espressioni tipo “tabernacolo” e “tenda” che non si
potrebbero mai usare per indicare il maestoso tempio fatto erigere da
Salomone.
Ancora, talvolta gli Ebrei si riferivano alla tenda o al tabernacolo come se fosse
un “santuario”.
3) Presenza di aramaismi (espressioni aramaiche) che sposterebbero la datazione di
questi Salmi a dopo l’esilio, cosa che escluderebbe la paternità davidica.
Difesa: il re Davide ebbe contatti assai intensi con i principi di lingua aramaica, a Nord
di Israele.
Anche se il Salmo 139 (che contiene aramaismi) non fosse di Davide (e non
possiamo affermarlo con sicurezza perché i titoli non possono ritenersi ispirati
e perciò inerranti), c’è bisogno, per negare la paternità davidica, di prove
certamente più estese che non la semplice presenza di aramaismi.
Panorama dell’Antico Testamento
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4) Davide fu talmente impegnato a governare il paese che non avrebbe mai potuto
trovare il tempo libero per comporre delle poesie.
Difesa: Oltre ai titoli dei Salmi, molte altre testimonianze bibliche documentano
l’importanza che la musica e la poesia ebbero nella vita di Davide:
•
1° Sam. 16 lo presenta come un arpista eccellente che stette alla corte
di Saul.
•
2° Sam. 22 (“Canto di riconoscenza di Davide”) ci presenta, solo con
leggere differenze, il Salmo 18 che, nei Salmi, viene attribuito a Davide.
•
2° Sam. 1:19-27 contiene una lamentazione poetica composta da
Davide in occasione della morte di Saul e Gionatan alla battaglia di Ghilboa.
•
1° Sam. 16:18 testimonia che era possibile conciliare assieme la
professione della guerra con quella musicale: “Ho visto un figlio di Isai… che
sa suonare; è un uomo forte, valoroso, un guerriero, parla bene, è di bello
aspetto e il SIGNORE è con lui”.
CONSIDERAZIONE: non abbiamo scuse. Chiunque ama Dio ‘trova’ il tempo!
2° Sam. 23:1: dopo un completo racconto della grandezza di Davide
come guerriero e della sua abilità amministrativa nel governo, si parla di lui
come del “dolce salmista d’Israele”.
•
Amos 6:5 parla di lui come di un suonatore ed anche inventore di
nuovi strumenti musicali.
•
2° Sam. 6:5,15 ci mostra che, oltre ad essere noto come solista, era
anche organizzatore di cori e schiere di cantori (1° Cron. 16:4-5 e 2° Cron.
7:6 e 29:25 parlano dell’attività di Davide nell’organizzare le schiere dei
leviti cantori che dovevano svolgere un ruolo preminente nella liturgia del
tempio di Gerusalemme).
•
Le testimonianze portate dal N.T.
I Salmi citati da Cristo e dagli apostoli vengono attribuiti senza alcuna esitazione a
Davide.
Mai un Salmo, che il titolo ebraico attribuiva a Davide, è stato riferito a qualcun altro.
4.2.7 I TITOLI DEI SALMI
116 salmi hanno dei titoli. Essi non fanno parte dei testi originali, ma ci danno molte
indicazioni su:
• le circostanze che hanno portato alla loro composizione (es. Salmo 38: per far
ricordare!);
• il nome dell’autore;
• le istruzioni date ai musicisti (22, 67);
• l’occasione storica (30: per la dedicazione della Casa);
• gli strumenti di accompagnamento (46) e il ritmo (53: mestamente).
A volte troviamo queste indicazioni tutte insieme (Salmo 60).
“Le-”
Ma i titoli non risolvono la questione relativa agli Autori dei Salmi.
Cosa significa ad esempio la preposizione ebraica “le-” (tradotta generalmente “di” in
italiano, ma che alla lettera significa piuttosto “a”) nella espressione “ledawid”?
Panorama dell’Antico Testamento
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È vero che può riferirsi all’autore (come dimostra Hab. 3:1), ma più letteralmente significa
“appartenente a”.
Nel caso di Salmi che trattano esperienze personali (ad es. il 3) è più facile vedere in
“appartenente a” un riferimento all’autore del salmo.
Ma quando un salmo “appartiene ai figli di Core” non è più semplice pensare che esso
facesse parte del loro repertorio e che fosse contenuto nell’innario che essi stessi
avevano compilato per se stessi?
WEISER, uno studioso dei salmi, solleva l’ipotesi che “ledawid” non significhi “di Davide”
ma “ad uso di Davide”, un salmo che il re doveva recitare durante il culto pubblico. Questa
opinione, più o meno giusta o sbagliata che sia, dimostra però quanto sia complicato
spiegare il significato dei titoli.
ESPRESSIONI TECNICHE più o meno dubbie contenute nei titoli dei Salmi:
Neghinah:
(plur. neghinoth) “strumento a corda” (Salmo 4)
Nehilot:
“strumenti a fiato” (Salmo 5)
Alamoth:
“voce di fanciulle o soprani” (46)
Ghitthit:
termine dubbio: da “torchio” – probabile canto di vendemmia – o “melodia
di arpe” se Ghittea = arpa di Gath (Salmo 8)
termine dubbio. Secondo alcuni “nenia”, per altri “canto di lode” (3 e Hab.
Shiggaion::
3:1).
Miktam:
da alcuni è messo in relazione con l’oro = “Salmo d’oro”, forse
particolarmente stimato; da altri è messo in relazione con un verbo che
significa “coprire” e quindi con la copertura o espiazione del peccato.
Forse venivano cantati nel rito del sacrificio per il peccato.
Comunque una cosa è vera: tutti i salmi chiamati “MIKTAM” trattano della
protezione contro i nemici e forse in questo senso possono essere
chiamati “Salmi di copertura” o “di protezione” (16, 56-60).
Selah:
ricorre molto spesso nei Salmi (71 volte in tutto. Sal. 3, 2, 4, 8, ecc.).
Sembra un termine tecnico, ma non si sa ancora se si riferisce alla
musica, alla voce del dicitore o al coro dei fedeli.
Potrebbe significare “alzare la voce” – un crescendo o passaggio a un
tono più alto (dal verbo “far crescere”) – oppure potrebbe derivare da una
parola che significa “pausa” e quindi significare “periodo di meditazione”,
oppure potrebbe essere un acrostico di tre lettere “s-l-h” col significato di
“cambio di voci” o “si ripete”.
4.2.8 IDEE PRINCIPALI ESPRESSE NEI SALMI
Prima caratteristica dei Salmi è che, sebbene il mezzo d’espressione sia la testimonianza
Panorama dell’Antico Testamento
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personale, l’accento non è posto sulla persona che scrive, ma su Dio.
Sotto questo aspetto i Salmi sono un Antico Testamento in miniatura.
Essi infatti affermano che:
•
Dio è il Creatore (8,104), ma questo potrebbe restare un concetto astratto, relativo
solo all’origine del mondo; i salmi affermano che
•
Dio governa anche oggi (29, 96, 99). Egli esercita oggi il Suo controllo attivo e potente
su tutte le cose quale Re.
• Mettono in rilievo le rettitudini del suo governo (11, 75).
• Nel Salmo 145 di Davide, una rapsodia della Signoria divina, vediamo che la rettitudine
si intreccia con la grandezza e la benevolenza (146)
• La bontà di Dio è inseparabile dalla Sua santità (103), di cui l’altra faccia è
rappresentata dalla chiara verità della sua ira (38).
• Sia per il Suo popolo in generale che per ciascun individuo, Dio è il Pastore (23, 80).
Ma questo, se da una parte
salvatore (16, 25, 31) e come
57, 90, 91), dall’altra parte
affrontare le stesse avversità
80).
costituisce una base per la fiducia in Dio come unico
Colui che viene incontro alle necessità di ognuno (3, 27,
fa sorgere problemi quando i credenti si trovano ad
dei non credenti. (Salmo 73,10,12, 37, 77, 88, 44, 74,
• Il popolo di Dio ha fatto e fa spesso l’esperienza della sofferenza e dell’ostilità (54, 55,
56).
• Dobbiamo comprendere che la relazione rettitudine-prosperità è solo apparentemente
automatica (Salmo 1:1-3). Non è la testimonianza di un’esperienza costante, ma una
dichiarazione di fede: poiché il nostro Dio ci ama e si prende cura di noi, noi crediamo
che ai giusti anche il male accade per far loro del bene (vedi Rom. 8:28; Deut. 8:1516).
I SALMI IMPRECATORI (3, 5, 7, 10, 35, 36, 52, 58, 64, 109)
Sono Salmi che esprimono i conflitti interiori provocati dall’impatto con la realtà del male.
I “Salmi imprecatori” hanno sempre lasciato perplessi i credenti sinceri, specialmente
rispetto all’insegnamento del Nuovo Testamento che esalta l’amore per i nostri nemici
(Matteo 5:44).
Alcuni critici della Bibbia citano spesso dei brani (vedi Salmo 58:6; 109:10; 137:9), come
invocazioni di una persona vendicatrice, e affermano che non è possibile pensare che
questi fossero Salmi scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo.
Molti credono di vedere in questi Salmi di condanna la grande distanza che separa
perfino gli uomini migliori dell’Antico Testamento dalla rivelazione di Cristo.
Ed anche noi siamo portati a chiederci: “Come possono i cristiani far proprio il desiderio,
espresso in questi Salmi, di vedere distrutti immediatamente tutti i loro nemici (35:8-9),
che muoiono tutti (109:9; 55:15), che i loro denti siano spezzati (58:6) e che i loro figli
siano maledetti e massacrati (109:10; 137:9)?”
Panorama dell’Antico Testamento
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“Moralità da Antico Testamento”?
È un’affermazione arbitraria, perché:
a) questo modo di pregare (maledizioni) si trova anche nel Nuovo Testamento (Gal.1:8-9,
anatema = “maledetto”; Apoc. 6:10; 18:20; 19:1-3);
b) anche l’Antico Testamento, come il Nuovo Testamento, insegna il dovere dell’amore
(Lev. 19:17-18), l’odio di Dio per le violenze (Salmo 5:6), le virtù di ricambiare il male
col bene (Salmo 35:12-14);
c) negli stessi Salmi che contengono imprecazioni troviamo anche sentimenti che
dovrebbero far invidia ai cristiani:
Salmo 71: cfr. il “duro” v.13 coi vv.5-7 (esperienza di Dio), 19 (adorazione), 15,16
(desiderio di testimonianze).
Salmo 137: cfr. lo “scandaloso” v.9 coi vv.5-6 (chi è pronto a fare una simile preghiera?)
Possiamo giustificare un’espressione d’indignazione contro la malvagità?
Ricordiamo che gli uomini dell’Antico Testamento non avevano tutta la luce che noi
abbiamo nell’Evangelo (cfr. Matteo 5:38,39,43,44) e per essi il giudizio sembrava doversi
esercitare soprattutto quaggiù.
Ricordiamo che questi Salmi sono delle “preghiere”, sfoghi dell’anima a Dio. Nulla indica
che i nemici fossero direttamente respinti con violenza o sdegno, né con parole né con
azioni.
I perseguitati si rifugiavano in Dio e, nonostante le loro “imprecazioni”, dimostrano la
volontà di lasciare tutto a Dio, rifiutando vendette personali, un atteggiamento che i
cristiani sono esortati ad assumere (Rom. 12:19).
J.R.W. Stott giustamente osserva: “Non mi è difficile immaginare situazioni in cui uomini
di Dio possono e debbono invocare la vendetta divina affermando la propria rettitudine,
perché Dio giudicherà i peccatori impenitenti. Una persona pia deve desiderare che Egli lo
faccia, pur senza dimostrare alcun risentimento personale” (The Canticles and Selected
Psalms, 1966, pag. 11-12, 154).
Consideriamo il SALMO 52 - (leggere il titolo!)
Contiene delle espressioni di indignazione di Davide per il terribile crimine di Doeg:
quando gli uomini di Saul si rifiutarono di uccidere 85 sacerdoti d’Israele accusati
ingiustamente, Doeg, capo dei pastori di Saul, acconsentì a farlo ed uccise Ahimelec e i
sacerdoti innocenti (1° Sam. 21 e 22).
Quando Davide pregava Dio di vendicarsi dei malvagi, si muoveva nel pieno rispetto dello
spirito della legge e del Nuovo Testamento (Deut. 32:35, Rom.12:19).
Invece di farsi vendette con le proprie mani, Davide chiedeva ad un Dio giusto di
giudicare l’iniquità.
Del resto, Davide nella sua vita si comportò sempre generosamente con i suoi nemici.
• 1° Samuele 26:5-9
Davide non solo si rifiutò di uccidere il suo accanito nemico,
ma impedì anche agli altri di farlo, e anche se nel…
Panorama dell’Antico Testamento
Modulo 4
21
• Salmo 109:10
… pregò: “i suoi figli siano vagabondi e mendicanti”, egli cercò
premurosamente il nipote del suo nemico Saul e lo invitò a sedersi
alla sua tavola come uno dei suoi figli.
Riassumendo:
I motivi che stanno alla base di queste “imprecazioni” sono tre:
1) Lo zelo morale di un uomo santo (139:21-22) che a volte può spingerci a parole ed
azioni apparentemente ingiuste (v. Giov. 2:15 – Gesù nel tempio).
2) I salmisti erano spinti dallo zelo per l’amore di Dio, non da motivi personali (9:16-20).
3) Erano spinti dall’intenzione di essere realistici.
È giusto che Dio vendichi i suoi che sono perseguitati?
Forse riusciamo a pregare secondo il Salmo 143:11, ma esitiamo quando dobbiamo
rivolgere a Dio le parole del v.12.
Allo stesso modo preghiamo gioiosamente per la seconda venuta del Signore, forse senza
riflettere che stiamo pregando perché si realizzino gli eventi di cui parla 2° Tess. 1:7-9.
Hubert Richards: “Dio non può vincere, senza che il male sia annientato. È un assurdo
sentimentalismo volere l’uno senza l’altro” (The Psalms in Latin and English, 1964).
Il linguaggio del popolo ebraico è un linguaggio concreto, non astratto. Mentre noi
parliamo di un crimine, essi parlano di un criminale.
Del resto anche al cristiano viene insegnato di avere compassione del peccatore ma di
odiare il peccato.
La lingua originale non fa nessuna distinzione fra il peccato e il peccatore.
SALMI STORICI
Circa 21 Salmi parlano in modo chiaro della storia d’Israele, tra il periodo di Mosè e il
periodo della restaurazione.
Questi riferimenti storici possono essere divisi in tre periodi:
1. Il periodo della teocrazia (governo di Dio)
Confrontate come l’Esodo, il cammino nel deserto, l’entrata in Canaan e il periodo dei
Giudici vengono menzionati nei Salmi 78:12-66; 105:23-45; 106:7-33; 114; 135:10-11.
2. Il periodo del regno
Molti salmi di Davide sono il frutto di qualche crisi o esperienze personali.
• Durante il regno di Saul, la sua vita era sempre in pericolo. In questo periodo
scrisse i Salmi 7, 11, 34 e 54.
• Quando venne insediato sul trono e ristabilì il culto a Gerusalemme scrisse il Salmo
24.
• I Salmi 32 e 51 nascono dalla vergogna di Davide per il suo grande peccato e dal
pentimento sincero che seguì ad esso.
• Le conseguenze terribili del suo peccato che portano alla ribellione di Absalom, lo
spinsero a comporre i Salmi 3, 4 e 55.
• Il Salmo 72, di Salomone, è un cantico di gloria, ed anche una profezia messianica.
3. Il periodo dell’esilio
Panorama dell’Antico Testamento
Modulo 4
22
• I Salmi 78 e 79 prendono spunto da: la caduta di Gerusalemme, la profanazione e
l’incendio del Tempio per mano di Nebucadnetsar.
• I Salmi 80 e 137 ci mostra la triste condizione degli esiliati in Babilonia.
• I Salmi 85 e 126 esprime la grande gioia del ritorno in Palestina.
• I Salmi 146, 147 e 150 furono quasi certamente composti dai profeti Aggeo e
Zaccaria durante la costruzione e la consacrazione del secondo Tempio.
SALMI PROFETICI
È uno studio entusiasmante. Essi ci collegano con il Nuovo Testamento.
In questi Salmi vengono rivelati gran parte della storia futura d’Israele e molti dettagli sul
destino delle nazioni pagane.
•
Il Salmo 40:6-10 contiene riferimenti specifici alla venuta e all’opera di Gesù Cristo
(cfr. Ebrei 10:15-10).
•
I Salmi 41 e 109 ci presentano il tradimento di Cristo.
Scrivendo il Salmo 41 Davide aveva in mente Ahitophel, ma nella mente dello Spirito
Santo c’era un altro nome: Giuda Iscariota. Questo è dimostrato dalla citazione di
Cristo la sera che fu tradito (Giov.13:18).
Il fatto che il Salmo 109 parlasse proprio di Giuda è rivelato da Pietro quando elessero
Mattia (Atti 1:20).
•
I Salmi 22 e 69 profetizzano la crocifissione di Cristo.
Il Salmo 22 ci dà un quadro grafico della morte per mezzo della crocifissione e
descrive minuziosamente gli avvenimenti che si adempirono al Calvario (22:16-18).
NOTA:la pena di morte conosciuta dagli Ebrei era la lapidazione e al tempo di Davide
la crocifissione era un mezzo di punizione sconosciuto. Questa descrizione
costituisce perciò una prova inconfutabile dell’ispirazione.
•
Il Salmo 22 contiene le parole esatte che Cristo pronunciò sulla croce 1000 anni più
tardi (v.1).
•
Il Salmo 69 dà ulteriori dettagli del tormentoso conflitto vissuto dal Signore sulla
croce (v. 9,20-21).
•
Il Salmo 16 contiene un annuncio della Pasqua cristiana. Ci fa vedere la tomba vuota
della resurrezione (v.10) e Gesù alla destra del Padre (v.11).
Pietro, il giorno della Pentecoste (Atti 2:25-32) dimostra che questo parla di Cristo
risorto.
•
I Salmi 89 e 132 profetizzano che il Messia verrà dalla linea di Davide.
Pietro (Atti 2:30) disse che questi brani si riferivano a Cristo e non a Salomone.
•
Il Salmo 118 Gesù stesso richiama l’attenzione su questo Salmo dove viene presentato
come “la pietra angolare” (v 22).
•
I Salmi 22, 23 e 24 possono essere visti insieme e presentano il passato, il presente e
il futuro dell’opera del nostro Signore.
Essi rappresentano rispettivamente il ministero di Cristo come Salvatore, come Pastore
e come Sovrano.
Altri Salmi parlano d’Israele, di Gerusalemme e della sua gloria futura.
******
Panorama dell’Antico Testamento
Modulo 4
23
Una proposta di lettura per temi del libro dei Salmi:
1. FIDUCIA:
11, 16, 23, 27, 34, 56, 57, 62, 71, 139
2. CONSOLAZIONE:
37, 42, 43, 46, 77, 91, 94, 97, 116
3. STORIA:
78, 83, 105, 106, 114, 135, 136, 137
4. IMPRECAZIONE:
3, 5, 7, 10, 35, 36, 52, 58, 64, 109
5. VITA:
39, 49, 90, 102, 103, 144
6. MISSIONI:
2, 50, 72, 96, 97, 98, 115
7. NATURA:
8, 29, 65, 104, 147, 148
8. RINGRAZIAMENTO: 75, 92, 100, 118, 136, 146
9. PELLEGRINAGGIO:
120-134
10. PATRIOTTISMO:
33, 68, 74, 76, 87, 144
11. PENITENZA:
6, 32, 38, 51, 88, 130
12. PETIZIONE:
4, 13, 17, 25, 28, 54, 55, 61, 86
13. LODE:
9, 18, 30, 40, 47, 66, 95, 107, 138, 149, 150
14. PRECETTI:
1, 12, 19, 33, 119
15. PROFEZIE:
A. Cristo
1. Umiliazione:
22, 31, 41, 69
2. Coronazione:
8, 16., 24, 45, 46, 47, 110
3. Regno:
9, 67, 72, 89, 93, 132, 145
B. Israele
14, 44, 60, 85
C. Gerusalemme:
48, 79, 87, 102, 122, 126.
4.3 IL LIBRO DEI PROVERBI
(a cura di Ernesto D. Bretscher)
4.3.1 INTRODUZIONE
Il libro dei Proverbi è una raccolta di massime e di considerazioni intesa a guidare e
formare il credente riguardo alla vita terrena. Le sue riflessioni trovano origine nella
sapienza di Dio e nell’esperienza umana. Nel leggerlo, sembra quasi di udire i discorsi e
le raccomandazioni che i genitori sono soliti fare ai figli. E infatti il libro inizia proprio con
le raccomandazioni di un padre al proprio figlio (capp. 1:8; 7:27).
Al libro dei Proverbi Gesù si ispira spesso nei suoi insegnamenti. La Bibbia fa spesso
allusione alla sapienza e ai saggi dei vicini di Israele quali l’Egitto (Atti 7:22; 1° Re 4:30;
Esodo 19:11,12); Edom e l’Arabia (Geremia 49:7; Abdia 8; Giobbe 1:3; 1° Re 5:10);
Babilonia (Isaia 47:10; Daniele 1:4,20) e la Fenicia (Ezechiele 28:3; Zaccaria 9:2). Mentre
disprezza la magia e la superstizione dei pagani, parla con rispetto della loro sapienza e
dei loro saggi. È noto, sia dalle testimonianze della Scrittura che dai documenti storici e
archeologici, che nei due millenni che precedettero la venuta del Signore vi fu nelle
nazioni di cui sopra, e anche (non ultima) nella Grecia, una vera ricerca della sapienza.
Panorama dell’Antico Testamento
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Il libro dei Proverbi non è dunque l’unico nel suo genere, né raccoglie massime e principi
di vita la cui sapienza trova radice solo nella sensibilità israelitica. Anche se la paternità
del libro viene attribuita a Salomone (1:1), solo una parte dei proverbi contenuti in esso
sono suoi. Il libro contiene piuttosto una raccolta di affermazioni, principi, direttive,
massime, consigli e rivelazioni che vogliono essere un vero corso di formazione alla vita,
i cui autori sono diversi e non tutti necessariamente israeliti.
Solo tre dei diversi autori sono nominati: Salomone, Agur (30:1), Lemuel (31:1). Per il
resto i proverbi sono contenuti in due collezioni di massime “dei saggi”. È dunque
evidente che il libro è una raccolta di massime di più autori e perfezionata in tempi più o
meno lunghi. Si ritiene per la similitudine, a volte impressionante, con altre raccolte di
massime scoperte in altre nazioni quali l’Egitto (gli insegnamenti di Amenemope), la
Babilonia o la letteratura fenicia (Ras Shamra) che la maggior parte della raccolta possa
essere stata messa insieme già nell’epoca primitiva della vita d’Israele.
Il libro si può suddividere in più parti:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Titolo, introduzione e contenuto (cap. 1:1-7).
Elogio alla sapienza (1:8 – 9:18)
Proverbi di Salomone (10:1 – 22:16)
Prima collezione di massime dei saggi (22:17 – 24:22)
Seconda collezione di massime dei saggi (24:23-34)
Seconda raccolta di Proverbi di Salomone (capp. 25 – 29)
Parole di Agur (30:1-33)
Parole del re Lemuel (31:1-9)
Elogio della donna forte e virtuosa (31:10-31)
La prima impressione che si potrebbe avere, aprendo il libro dei Proverbi, è che si tratti di
un’ammucchiata di sentenze di vario genere senza alcun filo logico e con scarsi contenuti
spirituali. Invece la raccolta è strutturata – o costruita – in modo da raggiungere un
obiettivo ben specifico: fare di ogni “discepolo” un uomo saggio e realmente dipendente
da Dio nel quotidiano. E benché tante vicende umane siano argomento di qualche
proverbio, vengono trattate ampiamente alcune tematiche ben specifiche, tra le quali
spiccano argomenti quali: Dio e l’uomo, la sapienza, l’insensato, il pigro, l’amico, la
Parola, la famiglia, la vita e la morte.
Per non perderci lungo la via, seguiremo il filo di queste tematiche per esplorare le
ricchezze del libro dei Proverbi.
4.3.2 DIO E L’UOMO
Dio viene nominato un centinaio di volte nel libro dei Proverbi, di cui in soli dodici casi
non è chiamato con il nome di Yahvè, cioè il Dio del patto. Per quel che concerne la
terminologia, il libro appartiene dunque al popolo del patto. Non solo, ma da quanto
viene affermato nelle massime che Lo nominano, scopriremo le chiavi di una relazione
stabile tra Dio e l’uomo: fedeltà e rivelazione dal lato divino, lealtà filiale da quello
umano.
Panorama dell’Antico Testamento
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Ma iniziamo dalla base: “Il timore del SIGNORE è il principio della scienza” (1:7).
“Comprenderai il timore del SIGNORE e troverai la scienza di Dio” (2:5). “Il principio della
saggezza è il timore del SIGNORE, e conoscere il Santo è l’intelligenza” (9:10). In questi
versetti il “timore del SIGNORE” è sinonimo di conoscenza di Dio e riveste un carattere di
notevole intimità.
E questa conoscenza è data per rivelazione: “Il SIGNORE infatti dà la saggezza; dalla sua
bocca provengono la scienza e l’intelligenza” (2:6). “Riconoscilo” (lett. “sappilo conoscere”)
in tutte le tue vie” (3:6) “poiché la sua amicizia (il suo “sod”: cerchio intimo) è per gli
uomini retti” (3:32). Una tale relazione di intimità “in tutte le tue vie”, oltre che la
riverenza e l’obbedienza, implica pure la fiducia. Oltre ad esaltare il buon senso, il libro
esalta ancor di più la fiducia in Dio: “Confida nel SIGNORE con tutto il cuore e non ti
appoggiare sul tuo discernimento… Non ti stimare saggio da te stesso” (3:5,7).
Benché sia ripetuta l’esortazione alla saggezza in tutto il libro, il messaggio che prevale
è: “non ti stimare saggio da te stesso”. “Ci sono molti disegni nel cuore dell’uomo, ma il
piano del SIGNORE è quello che sussiste”. (19:21). “Il cavallo è pronto per il giorno della
battaglia, ma la vittoria appartiene al SIGNORE” (21:31).
In altre parole, la sapienza, i piani e i ragionamenti umani non sono di alcuna affidabilità.
Quello che conta è la fiducia nell’Eterno: “La paura degli uomini è una trappola, ma chi
confida nel SIGNORE è al sicuro” (29:25). “Ho voluto istruirti oggi, sì, proprio te, perché la
tua fiducia sia posta nel SIGNORE” (22:19).
Quanto al rapporto tra l’uomo e Dio, si allude al pericolo di allontanarsi da Dio e
dimenticare il patto con Lui. Parlando della “donna infedele che ha abbandonato il
compagno della sua giovinezza”, si sottolinea la gravità del suo misfatto perché “ha
dimenticato il patto del suo Dio” (2:17). E Agur chiede a Dio di non arricchirlo “perché io,
una volta sazio, non ti rinneghi… e profani il nome del mio Dio” (30:9). Suo Dio, mio Dio
indicano la relazione di “patto” e di intimità che si è instaurata tra Dio e l’uomo.
È l’essenza stessa del patto che vuole una relazione profondamente personale come
quella di un padre con il figlio: “Il SIGNORE riprende colui che egli ama, come un padre il
figlio che gradisce” (3:12).
Il libro dei Proverbi non fa spesso riferimento alla religione ebraica, ai suoi simboli e ai
suoi riti: non è un libro che porta il discepolo alla Chiesa, salvo qualche raro caso;
piuttosto si indirizza alla Chiesa perché metta la pietà al lavoro, mostrando che gli affari
e la società sono sfere dove siamo chiamati a onorare il Signore, lasciandosi istruire e
guidare da Lui. Per cui spesso combatte contro una religiosità esteriore, come quando
afferma che “praticare la giustizia e l’equità è cosa che il SIGNORE preferisce ai sacrifici”
(21:3), sottolineando spesso l’irrinunciabile necessità di mettere in pratica nella condotta
quotidiana gli insegnamenti e la legge di Dio:
“Quelli che abbandonano la legge lodano gli empi…” (28:4) “Se uno volge altrove gli
orecchi per non udire la legge, la sua stessa preghiera è un abominio” (28:9). “Chi osserva
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la legge è un figlio intelligente” (28:7). “Lo sviato di cuore avrà la sua ricompensa del suo
modo di vivere, e l’uomo dabbene, quella delle opere sue” (14:14). “Una dura correzione
spetta a chi lascia la retta via; chi odia la riprensione morirà” (15:10).
Si sofferma anche sul problema del peccato, origine del cattivo comportamento di molti
credenti, ma anche sul come vivere concretamente il ravvedimento e ricevere la grazia di
Dio per non peccare più: “C’è una via che all’uomo sembra diritta, ma essa conduce alla
morte” (14:12). “Chi può dire: “Ho purificato il mio cuore, sono puro dal mio peccato?””
(20:9). “Le vie dell’uomo stanno davanti agli occhi del SIGNORE, egli osserva tutti i suoi
sentieri. L’empio sarà preso nelle proprie iniquità, tenuto stretto dalle funi del suo
peccato” (5:21-22).
“Chi mi trova [la sapienza] trova la vita e ottiene il favore del SIGNORE. Ma chi pecca
contro di me, fa torto a sé stesso; tutti quelli che mi odiano amano la morte” (8:35-36).
“Chi copre le sue colpe non prospererà, ma chi le confessa e le abbandona otterrà
misericordia” (28:13). “…troverai così grazia e buon senso agli occhi di Dio e degli
uomini” (3:4). “[Dio] fa grazia agli umili” (3:34).
4.3.3 LA SAPIENZA
Il libro dei Proverbi, nella sua introduzione, definisce l’obiettivo: “far conoscere all’uomo
la saggezza” (1:2), descrivendone poi le diverse sfaccettature: “perché l’uomo conosca…
comprenda… riceva insegnamento sul buon senso, la giustizia, l’equità, la rettitudine; per
dare accorgimento ai semplici e conoscenza e riflessione al giovane. Il saggio ascolterà e
accrescerà il suo sapere; l’uomo intelligente ne otterrà buone direttive …” (1:2-5).
Come i colori dell’arcobaleno fusi l’uno nell’altro formano un’unica entità, pur
conservando i propri colori, così è della sapienza formata dalla conoscenza, la
comprensione, l’insegnamento, la rettitudine, l’accorgimento, la riflessione, l’ascolto, il
sapere e le buone direttive.
Dopo questa sintetica ma ricca descrizione della sapienza, già al v.7 del primo capitolo ci
si preoccupa di definirne la fonte: “Il timore del SIGNORE è il principio della scienza”.
Yahvè è l’Autore e il Dispensatore della sapienza: “Il SIGNORE infatti dà la saggezza;
dalla sua bocca provengono la scienza e l’intelligenza” (2:6).
Ma è responsabilità dell’uomo cercarla, desiderarla e riceverla: “Ascolta, figlio mio,
l’istruzione di tuo padre…” (1:8). “Volgetevi ad ascoltare la mia riprensione; ecco, io farò
sgorgare su di voi il mio spirito, vi farò conoscere le mie parole…” (1:23). “…se ricevi le
mie parole e serbi con cura i miei comandamenti, prestando orecchio alla saggezza e
inclinando il cuore all’intelligenza; sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce
all’intelligenza, se la cerchi come l’argento e ti dai a scavarla come un tesoro, allora
comprenderai il timore del SIGNORE e troverai la scienza di Dio” (2:1-6). “Beato l’uomo
che mi ascolta, che veglia ogni giorno alle mie porte, che vigila alla soglia della mia casa!
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Chi mi trova infatti trova la vita e ottiene il favore del SIGNORE” (8:34-35). “Io amo quelli
che mi amano, e quelli che mi cercano mi trovano” (8:17).
L’importanza della sapienza è tale che Dio la mette al di sopra di ogni sua opera: “Il
SIGNORE mi ebbe con sé [qanah: avere, possedere3) al principio dei suoi atti, prima di
fare alcuna delle sue opere più antiche. Fui stabilita fin dall’eternità, dal principio, prima
che la terra fosse” (8:22-23).
La sapienza è qui personificata per rendere più viva l’espressione poetica e per mettere in
evidenza la sua importanza. Infatti, nel cap. 8 viene illustrata l’azione della sapienza in
relazione all’uomo: “sta in piedi in cima ai luoghi più elevati, sulla strada, agli incroci;
grida presso le porte della città, all’ingresso, negli androni…” (vv. 2-3) e in relazione a
Dio: “Io ero presso di Lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia… mi
rallegravo in ogni tempo in sua presenza…” (v.30); nel cap. 9 essa viene paragonata a
una nobildonna (vv. 1-5), messa in contrasto con un’altra donna (vv. 13-18), la follia. È
ovvio che sia la sapienza che la follia non sono esseri umani o celesti, e che la loro
personificazione è una semplice tecnica letteraria per renderle più comprensibili alla
riflessione umana.
Ambedue rivolgono un messaggio – in parte identico – alle stesse persone. La sapienza
“chiama: “Chi è sciocco venga qua!” A quelli che sono privi di senno dice: “Venite,
mangiate il mio pane e bevete il vino che ho preparato!” (vv. 4-5), e così pure la follia
grida: “Chi è sciocco venga qua!” (v.16). Ma nei versetti centrali del capitolo (7-12) la
sapienza torna a essere ciò che veramente è: correzione, riprensione, istruzione,
insegnamento, timore di Dio, conoscenza (intima) del Santo, il cui frutto ritorna al bene a
chi la pratica: “Se sei saggio, sei saggio per te stesso; se sei beffardo, tu solo ne porterai
la pena” (v.12).
Cosa dunque deve fare l’uomo che desidera la sapienza? Deve:
1. Esporsi a Dio e alla sua azione: “Quelli che cercano il SIGNORE comprendono ogni cosa”
(28:5).
2. Esporsi del continuo alla Parola di Dio: “Ogni parola di Dio è affinata con il fuoco”
(30:5) “Figlio mio, custodisci le mie parole, fa’ tesoro dei miei precetti. Osserva i miei
precetti e vivrai; custodisci il mio insegnamento come la pupilla degli occhi” (7:1-2).
3. Essere umile e ammaestrabile. “Non ti stimare saggio da te stesso” (3:7). “Chi tiene
conto della correzione segue il cammino della vita; ma chi non fa caso della
riprensione si smarrisce” (10:17), “è uno stupido” (12:1). “Il principio della saggezza è:
Acquista la saggezza; sì, a costo di quanto possiedi, acquista l’intelligenza; esaltala, ed
essa ti innalzerà; essa ti coprirà di gloria quando l’avrai abbracciata; essa ti metterà
sul capo una corona di grazia, ti farà dono di un magnifico diadema” (4:7-9).
4. Essere prudente. La sapienza non è solo bagaglio di conoscenze teoriche, ma azione
pratica. “L’uomo prudente fa attenzione ai suoi passi (14:15)… cammina diritto per la
sua via (15:21)… ha lo spirito calmo” (17:27). “La casa si costruisce con la saggezza e
si rende stabile con la prudenza” (24:3).
3
Nota: gli Ariani ed oggi i Testimoni di Geova, riferendosi al v. 30: “io ero presso di lui come un artefice”, vedono
personificata nella sapienza la figura di Gesù, per cui si riferiscono ai vv. 22: “Il SIGNORE mi ebbe con sé” e 24,25: “fui
generata” per sostenere che Gesù fu creato, per cui non può essere Dio
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4.3.4 L’INSENSATO
Vi sono diversi termini ebraici, tutti simili, per descrivere l’insensato, con sfumature
leggermente diverse. Ma descrivono tutti un’attitudine di chiusura nei confronti di Dio e
di qualsiasi forma d’istruzione o di correzione. La radice del suo male è spirituale, non
mentale.
La parola ebraica “pethi” significa: privo di senno, sciocco, ingenuo, semplice. “…crede a
tutto quel che si dice…” (14:15), si lascia facilmente trascinare (1:10). Mentre “l’uomo
accorto vede venire il male e si nasconde, gli ingenui tirano avanti e ne subiscono le
conseguenze” (22:3). È una persona sprovveduta a causa della sua pigrizia mentale: non
sa riflettere o ragionare. È un grande irresponsabile. L’unico modo per indurlo a pensare
un po’ è la disciplina: “Percuoti il beffardo, e l’ingenuo (pethi) diventerà prudente;
riprendi l’intelligente, e imparerà la scienza” (19:25). Viene descritto la sua debolezza e
mancanza di princìpi nel cap. 7: “Vidi, tra gli sciocchi… un ragazzo privo di senno… Lei
[la donna dai costumi facili] lo sedusse con le sue molte lusinghe, lo trascinò… egli le
andò dietro subito, come un bue va al macello…” (vv. 7,21-22). In effetti il suo problema è
che nella sua superficialità e instabilità, rifiuta la disciplina della scuola della sapienza
descritta nel cap. 1:22-32.
Ebr. “kesil”: stolto e “‘ewil”: insensato (spesso insolente e immorale). Anche qui non si
tratta di una deficienza mentale quanto di una scelta di vita. È un personaggio che non si
mette mai in discussione (12:15), non accetta consigli (10:8) né istruzione (1:7), non
riconosce gli errori commessi (14:9), se ha un’idea per la testa niente lo fermerà (17:12),
se commette dei delitti non se ne fa scrupolo (10:23), provoca le liti (18:6), non trattiene i
propri sfoghi d’ira (29:11) ed è irragionevole (29:9). Meglio stare alla larga da simili
individui (13:20), in quanto sono irrecuperabili (27:22, 17:10, 26:11). È un essere che fa
soffrire, in particolar modo i propri genitori (10:1, 17:21, 25).
Ebr. “nabal”: uomo da nulla (grossolanamente orgoglioso, empio, stupido e autoritario).
“La terra trema e non può sopportare la ricchezza dell’uomo da nulla” (cfr. 30:21-22).
Questo termine non è molto diverso dal precedente, ma notiamo la luce gettata su di
esso da 1° Sam. 25: “Quest’uomo si chiamava Nabal… si comportava con durezza e con
malvagità… è un uomo così malvagio che non gli si può parlare” (vv. 3,17), e da Salmo
14:1: “Lo stolto [ebr. nabal] ha detto in cuor suo: “Non c’è Dio””.
Ebr. “luts”: beffardo. In questo caso è ancora più chiaro che l’uomo è giudicato dalla sua
attitudine mentale, più che dalle sue capacità. Condivide con i suoi simili l’avversione per
la disciplina (9:7-8, 13:1, 15:12) e più che l’assenza dell’intelligenza, è questo
atteggiamento che gli sbarra la strada alla sapienza: “Il beffardo cerca la saggezza e non
la trova” (14:6). Il male che commette non è “accidentale” – come può essere il caso
dell’insensato, che non si accorge delle sue follie – ma deliberato: “Il nome del superbo
insolente è: beffardo; egli fa ogni cosa con furore di superbia” (21:24). È autore di
contese, di liti, di oltraggi (22:10) e di discordie (29:8). È comunque un individuo che
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s’attira l’ostilità delle persone e finisce per essere un emarginato: “il beffardo è
l’abominio degli uomini” (24:9), e prima o poi si ritrova in mezzo ai guai: “I giudici sono
stabiliti per i beffardi, e le percosse per il dorso degli stolti” (19:29); inoltre si scontra con
l’ostilità di Dio stesso, che “detesta l’uomo perverso” e “schernisce gli schernitori”
(3:32,34).
4.3.5 IL PIGRO
Il presente tema dovrebbe essere uno stimolo per tutti noi a riflettere su un tema di
importanza vitale per la nostra esistenza terrena.
Dio infatti ha deciso che l’uomo potrà avere accesso ai frutti della terra solo con l’affanno
e il sudore. Ma non mancano le persone, anche tra i credenti, che sottovalutano questa
volontà divina. Non è un caso che Paolo deve scrivere ai credenti di Tessalonica di aver
sentito che “alcuni tra di voi si comportano disordinatamente, non lavorando affatto, ma
affaccendandosi in cose futili”, e deve ricordare loro quanto aveva già comandato: “Se
qualcuno non vuole lavorare, neppure deve mangiare” (2 Tess. 3:11,10).
Il libro dei Proverbi tratta dunque questo tema in modo tale che il lettore non solo
comprenda di essere responsabile per la propria sussistenza, ma anche di che è lui a
determinare il proprio successo, la tranquillità economica e anche l’eventuale agiatezza.
La riflessione verte su un “personaggio” particolare, presente in misura maggiore o
minore in molti individui: il pigro. Il pigro dei Proverbi è un personaggio tragi-comico per
la sua svogliatezza quasi animale – si veda il suo attaccamento al letto (26:14) e le sue
inverosimili scuse (26:13, 22:13).
1. Anzitutto non vuole intraprendere nulla. “Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato?
Quando ti sveglierai dal tuo sonno? Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un
po’ le mani per riposare…” (6:9-10). Un po’… un po’… un po’… e si lascia sfuggire a
poco a poco le occasioni che aveva di agire.
2. È incapace di concludere qualsiasi cosa. È andato a caccia, ma si scoccia di preparare e
arrostire la cacciagione e la lascia imputridire (12:27); si prepara pure da mangiare ma
poi se lo lascia raffreddare (19:24, 26:15).
3. Rifiuta di guardare in faccia la realtà, in quanto “si crede più saggio di sette uomini che
danno risposte sensate” (26:16); si convince che le sue scuse per la difficoltà che
prevede siano giustificate (vedi il leone sulla strada, 22:13!), e poi se fa freddo non
può lavorare (20:4) perché rischia una bronchite. La sua via “è come una siepe di spine”
(15:19), sempre piena di pesanti difficoltà.
4. È in fin dei conti un individuo inquieto e agitato: ha tante idee per la testa che
puntualmente non realizza per le difficoltà che di volta in volta prevede. “Il pigro
desidera, e non ha nulla…” (13:4). “I desideri del pigro lo uccidono, perché le sue mani
rifiutano di lavorare. C’è chi da mattina a sera desidera avidamente…” (21:25-26).
Quale insegnamento ci offre il pigro?
Il brano classico che lo riguarda è Proverbi 6:6-11: “Va’, pigro, alla formica; considera il
suo fare e diventa saggio! Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone; prepara il
suo nutrimento nell’estate e immagazzina il suo cibo al tempo della mietitura…”. Se non
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diventi saggio, se non impari a lavorare oggi per raccogliere domani, se non pensi al tuo
futuro e ti adagi su quello che hai oggi, “la tua povertà verrà come un ladro, la tua
miseria, come un uomo armato”. Il pigro è destinato ad essere “tributario” (12:24), a
dover fare un duro servizio per poco e ritrovarsi soffocato dai debiti.
“Considerai la cosa e mi posi a riflettere; e da quel che vidi trassi una lezione” (24:32).
Uno raccoglie quello che ha seminato. Se non raccoglie, è perché non ha seminato: tutt’al
più raccoglierà spine, rovi e rovine per tutto il corso della sua vita (24:30-31).
4.3.6 L’AMICO
“I rapporti”, e come costruirli e difenderli, sono un altro grande tema del libro dei
Proverbi. Il termine ebraico usato è reà, che sta ad indicare vari aspetti e forme di
rapporti, a secondo del contesto, quali “l’amico”, “il prossimo”, “l’altro” o “colui che ama
in ogni tempo”; può pure significare “l’avversario”. Il reà è comunque una persona che
sono chiamato ad amare, rispettare e trattare bene (3:29-30).
La riflessione può iniziare dalle relazioni con le persone difficili: “Non ti affrettare a
intentare processi…” (25:8). “Non t’irritare a motivo di chi fa il male…” (24:19). “Quando
il tuo nemico cade, non ti rallegrare; quand’è rovesciato, il tuo cuore non ne gioisca…”
(24:17). “Se il tuo nemico ha fame, dagli del pane da mangiare; se ha sete, dagli
dell’acqua da bere; perché, così, radunerai dei carboni accesi sul suo capo, e il SIGNORE ti
ricompenserà” (25:21-22 – consiglio ripetuto nel Nuovo Testamento, Rm. 12 :20). “Chi
disprezza il prossimo è privo di senno, ma l’uomo prudente tace” (11:12).
Ma, mentre siamo esortati ad avere atteggiamenti corretti anche con chi non lo merita,
l’altro lato della medaglia non viene sottovalutato! “L’empio desidera fare il male; il suo
amico stesso non trova pietà ai suoi occhi” (21:10). “Non fare amicizia con l’uomo
collerico, non andare con l’uomo violento, perché tu non impari le sue vie ed esponga te
stesso a un’insidia” (22:24-25). “Se ti sei reso garante per il tuo prossimo, se ti sei
impegnato per un estraneo, sei colto allora nel laccio… Fa’ questo: disimpegnati, perché
sei caduto in mano del tuo prossimo. Va’, gettati ai suoi piedi, insisti…” (6:1-5).
In altre parole, attitudini corrette verso chiunque, ma prima di decidere con chi sviluppare
rapporti di amicizia, conviene pensarci bene ed essere prudenti. Dopo di che i rapporti
vanno costruiti su una serie di presupposti:
1. La fedeltà. Gli “amici” dei bei giorni sono tanti (14:20, 19:4,6,7) e chi ha molti di questi
amici li ha per sua disgrazia; “ma c’è un amico che è più affezionato di un fratello”
(18:24). Il vero amico “ama in ogni tempo; è nato per essere un fratello nella sventura”
(17:17). Quando si parla di rapporti, si parla di fedeltà e di impegno, anche e
soprattutto quando sorgono le difficoltà, dove i Proverbi con forza gridano: “Non
abbandonare il tuo amico!” (27:10).
2. La franchezza. “Chi ama ferisce, ma rimane fedele; chi odia dà abbondanza di baci”
(27:6). Infatti non bisogna fidarsi di chi lusinga: “L’uomo che lusinga il prossimo gli
tende una rete davanti i piedi” (29:5). “L’uomo che corregge sarà, alla fine, più accetto
di chi lusinga con la sua lingua” (28:23).
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3. La comunicazione. “L’olio e il profumo rallegrano il cuore; così fa la dolcezza di un
amico con i suoi consigli cordiali” (27:9). “Il ferro forbisce il ferro; così un uomo ne
forbisce un altro” (27:17).
4. Il tatto. “Chi è lento all’ira piega un principe, e la lingua dolce spezza le ossa” (25:15).
“Metti di rado il piede in casa del prossimo, perché egli, stufandosi di te, non abbia a
odiarti” (25:17).
Ma, anche se costruiti bene, i rapporti rimangono vulnerabili: vanno protetti appunto
dalla fedeltà e dall’amore: “Chi copre gli sbagli si procura amore, ma chi sempre vi torna
su, disunisce gli amici migliori” (17:9). L’uomo è molto sensibile, per cui è facile
provocare in lui sia la gioia di sentirsi amato, rispettato, sostenuto e protetto che il dolore
di sentirsi ferito, umiliato, tradito e disprezzato.
E se l’amico non è fedele ma tiene più ai propri interessi che ai rapporti, diventa prima o
poi strumento di delusione e divisione: “L’uomo cattivo va scavando il male ad altri; sulle
sue labbra c’è come un fuoco consumante. L’uomo perverso semina contese, il maldicente
disunisce gli amici migliori” (16:27-28). E “un fratello offeso è più inespugnabile di una
fortezza; e le liti tra fratelli sono come le sbarre d’un castello” (18:19). Ecco perché “il
SIGNORE odia…chi semina discordie tra fratelli” (6:19). La via di Dio per colmare le
deficienze, gli errori e le ferite nella sfera dei rapporti rimane una sola: l’amore. “L’amore
copre ogni colpa” (10:12).
4.3.7 LA PAROLA
Se le attitudini svolgono un ruolo importante nei rapporti, la parola non è da meno.
Pertanto il libro dei Proverbi non poteva non trattare un tema così importante! Delle sette
“abominazioni” enumerate in Prov. 6:16-19, tre sono dovute a un cattivo uso della parola:
questo per indicare l’importanza che Dio attribuisce al tema!
4.3.7.1 La potenza della parola
“Morte e vita sono in potere della lingua; chi l’ama ne mangerà i frutti” (18:21). Emerge in
questa affermazione l’ampiezza del potere della parola:
1. Potere di penetrazione: non è tanto importante quello che si fa a un uomo, quanto
l’effetto che provoca dentro di lui, in bene o in male. “C’è chi, parlando senza
riflettere, trafigge come spada, ma la lingua dei saggi procura guarigione” (12:18). “La
sofferenza del cuore abbatte l’uomo, ma la parola buona lo rallegra” (12:25). “Le
parole gentili sono un favo di miele: dolcezza all’anima, salute alle ossa” (16:24). “Le
parole del maldicente sono come ghiottonerie e penetrano fino all’intimo delle viscere”
(18:8). “Le labbra del giusto nutrono molti” (10:21).
2. Potere di diffusione: “La bocca del giusto è una fonte di vita” (10:11). “Le parole della
bocca di un uomo sono acque profonde; la fonte di saggezza è un ruscello che scorre
perenne” (18:4). “La lingua che calma è un albero di vita” (15:4).
4.3.7.2 La debolezza della parola
1. Non può sostituirsi all’azione: “In ogni fatica vi è profitto, ma il chiacchierare procura
la miseria” (14:23).
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2. Non può cambiare o alterare i fatti: “Labbra ardenti e un cuor malvagio sono come
schiuma d’argento spalmata sopra un vaso di terra. Chi odia parla con dissimulazione;
ma, dentro, medita l’inganno; quando parla con voce graziosa, non fidarti, perché ha
sette abominazioni nel cuore. Il suo odio si nasconde sotto la finzione, ma la sua
malvagità si rivelerà nell’assemblea. La lingua bugiarda odia quelli che ha ferito, e la
bocca adulatrice produce rovina” (26:23-26, 28). “Se dici: “Ma noi non ne sapevamo
nulla!…” …Colui che veglia su di te non lo sa forse? E non renderà egli a ciascuno
secondo le sue opere?” (24:12).
4.3.7.3 Il buon uso della parola
1. Prima di tutto, è onesta: “Le labbra giuste sono gradite ai re; essi amano chi parla
rettamente” (16:13). “Dà un bacio sulle labbra chi dà una risposta giusta” (lett.
“diritta”) (24:26).
2. È di poche parole: “Chi sorveglia la sua bocca e la sua lingua preserva sé stesso
dall’angoscia” (21:23). “Nella moltitudine delle parole non manca la colpa, ma chi
frena le sue labbra è prudente” (10:19). “I saggi tengono in serbo la scienza…” (10:14).
3. Autocontrollo: “Chi modera le sue parole possiede la scienza, e chi ha lo spirito calmo è
un uomo prudente” (17:27). “Chi risponde prima di avere ascoltato mostra la sua follia
e rimane confuso” (18:13). “La risposta dolce calma il furore, ma la parola dura eccita
l’ira” (15:1).
4. A proposito e a tempo: “Uno prova gioia quando risponde bene; è buona la parola
detta a suo tempo!” (15:23). “La lingua del giusto è argento scelto” (10:20). “Le parole
dette a tempo sono come frutti d’oro in vasi d’argento cesellato. Per un orecchio
docile, chi riprende con saggezza è un anello d’oro, un ornamento d’oro fino” (25:1112). “Chi ama la purezza del cuore e ha la grazia sulle labbra, ha il re per amico”
(22:11).
5. Meditata: “Il cuore del giusto medita la sua risposta” (15:28). “Il cuore del saggio gli
rende assennata la bocca, e aumenta il sapere sulle sue labbra” (16:23).
4.3.7.4 Conclusione
A quanto appare, dietro le parole viene fuori quello che uno è veramente. Solo chi tace
può apparire diverso da quello che è dentro: “Anche lo stolto, quando tace, passa per
saggio” (17:28). Gesù sintetizzerà il tutto in Matteo 12:34: “Dall’abbondanza del cuore la
bocca parla”. Da qui l’importanza di lavorare sull’essere nascosto e interiore. E a questo
ci pensano i Proverbi dal capitolo 1 a 9.
4.3.8 LA COPPIA
Mentre i re si permettevano il lusso della poligamia, l’Israelita medio raramente vi faceva
ricorso. Nei Proverbi, appare chiaro che la norma è l’unione di un solo uomo con una sola
donna: il legame molto personale che deve esistere tra marito e moglie viene infatti
evocato con insistenza. Ambedue partecipano, per esempio, in maniera unita,
all’educazione dei figli: “Ascolta figlio mio, l’istruzione di tuo padre e non rifiutare
l’insegnamento di tua madre” (1:8, cfr. 6:20).
All’uomo viene raccomandata la fedeltà e l’ardore nei confronti della propria moglie: “…
vivi lieto con la sposa della tua gioventù… le sue carezze t’inebrino in ogni tempo, e sii
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sempre rapito nell’affetto suo. Perché, figlio mio, ti innamoreresti di un’estranea…?”
(5:18-20). Il piacere sessuale è visto infatti come uno degli scopi e dei compensi del
vincolo matrimoniale e una barriera contro la tentazione dell’infedeltà (cfr. 1° Cor. 7:2-5).
Parlando della donna, i Proverbi sono ben lontani dall’idea – diffusa nell’antichità – della
“donna-oggetto”, fattrice di bambini più che compagna. Lungi dall’avere un ruolo
trascurabile, la donna può determinare la riuscita o il fallimento di un uomo: “La donna
saggia costruisce la sua casa, ma la stolta l’abbatte con le proprie mani” (14:1). “La
donna virtuosa è la corona del marito, ma quella che fa vergogna gli è un tarlo nelle
ossa” (12:4). “Una moglie giudiziosa è un dono del SIGNORE” (19:14). “…e le risse d’una
moglie sono il gocciolare continuo di un tetto” (19:13). La sua influenza e la sua azione
quale amministratrice, commerciante, artigiana, filantropa e guida (31:10-31) va ben al di
là dei muri di casa, anche se questa è il suo “regno”. Ma, come d’altronde è suo desiderio,
è apprezzata per il contributo che dà al successo e al buon nome del marito: “Il cuore di
suo marito confida in lei… Suo marito è rispettato alle porte della città, quando si siede
tra gli anziani del paese” (31:11,23).
Davanti a una concezione così elevata del matrimonio, il peccato sessuale viene dipinto
con i colori più cupi (5:3-23): l’infedeltà al vincolo matrimoniale è considerata come un
peccato mortale. Della donna infedele è detto infatti che “ha dimenticato il patto del suo
Dio… la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti” (2:16-18).
Oltre a calpestare i presupposti per una famiglia unita, serena e felice, peccare di
infedeltà coniugale è abbandonare il proprio onore (5:9, 6:33) e la propria libertà (23:2728), è sprecare gli anni migliori della vita (5:9,11) insieme con i propri beni (29:3): “Per
una donna corrotta uno si riduce a un pezzo di pane” (6:26). È un peccato che segna in
maniera indelebile la vita: “Uno si metterà forse del fuoco in petto senza che i suoi abiti si
brucino? … Così è di chi va dalla moglie del prossimo… la sua vergogna non sarà mai
cancellata” (6:27-33).
Per il marito, dunque, il consiglio implicito è quello di trovarsi una moglie giudiziosa,
senza lasciarsi trascinare troppo dall’aspetto esteriore: “Una donna bella, ma senza
giudizio, è un anello d’oro nel grifo di un porco” (11 :22), di rimanerle fedele, di lasciarsi
“rapire” dal suo affetto e dal suo amore fisico e di vivere insieme a lei la formazione dei
figli. La risposta di una moglie giudiziosa è automatica: “Lei gli fa del bene, e non del
male, tutti i giorni della sua vita” (31:12). Per le mogli stolte, insensate, pettegole vale
invece l’esortazione della Sapienza: “Chi è sciocco venga qua! A quelli che sono fuori di
senno dice: Venite!” (9:4).
4.3.9 RAPPORTI TRA GENITORI E FIGLI
È noto l’elogio che fa il libro dei Proverbi delle virtù della verga: “Chi risparmia la verga
odia suo figlio” (13:24). Se la saggezza è la vita stessa (8:35), è da preferirsi una via ardua
ad una facile il cui sbocco è solo la morte: “Non risparmiare la correzione al bambino; se
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lo batti con la verga, non ne morrà; lo batterai con la verga, ma lo salverai dal soggiorno
dei morti” (23:13-14).
Questa via è raccomandata per due ragioni:
1. “La follia è legata al cuore del bambino”, per cui ci vorranno più che semplici parole
per liberarlo da essa; “ma la verga della correzione l’allontanerà da lui” (22:15).
2. “… chi lo ama, lo corregge per tempo” (13:24b). Fin quando l’albero è verde, lo si può
piegare e dirigere come si vuole; e così è anche per l’uomo.
“Insegna al ragazzo la condotta che deve tenere; anche quando sarà vecchio non se ne
allontanerà” (22:6). In altre parole, la sapienza può essere radicata nell’uomo se si inizia
quando è ancora fanciullo. È responsabilità dunque dei genitori non sottovalutare
l’importanza dell’insegnamento, della correzione e della guida nella vita dei propri figli.
“Il ragazzo lasciato a se stesso fa vergogna a sua madre” (29:15b). Pur affermando che
“la verga e la riprensione danno saggezza” (29:15a), il libro dei Proverbi non è sadico.
Piuttosto guarda ai giovani con affetto e tenerezza, come dimostrano i primi capitoli. Le
esortazioni e le raccomandazioni sono fatte in maniera molto affabile! E parlando di
correzione, sottolinea che è il metodo di Dio quello di correggere, ma con una grande
motivazione: l’amore.
“Non disprezzare la correzione del SIGNORE, non ti ripugni la sua riprensione; perché il
SIGNORE riprende colui che egli ama, come un padre il figlio che gradisce” (3:11-12).
Abbinato alla correzione, deve essere evidente l’amore: “Castiga tuo figlio, mentre c’è
ancora speranza, ma non lasciarti andare sino a farlo morire” (19:18).
Mentre viene sottolineata l’importanza che hanno la correzione e l’istruzione dei genitori
nei confronti dei figli, viene tuttavia rilevata la responsabilità dei figli verso l’istruzione
dei genitori: “Da’ retta a tuo padre che t’ha generato, e non disprezzare tua madre
quando sarà vecchia” (23:22). “Il padre del giusto esulta grandemente… Possano tuo
padre e tua madre rallegrarsi, e possa gioire chi ti ha partorito!” (23:24-25). “Il figlio
stolto è una tribolazione per il padre e un’amarezza per colei che l’ha partorito” (17:25).
“Figlio mio, osserva i precetti di tuo padre, e non trascurare gli insegnamenti di tua
madre; tienili sempre legati al cuore…” (6:20-21). “Se sei saggio, sei saggio per te stesso;
se sei beffardo, tu solo ne porterai la pena” (9:12).
In conclusione, ogni uomo – che è sempre figlio a qualcuno – è personalmente
responsabile delle sue scelte. La correzione dei genitori può aiutarlo – ma non obbligarlo!
– a rimanere ammaestrabile, umile e prudente per tutto il corso della sua vita; ma la
responsabilità, la disponibilità, l’attitudine all’ascolto, rimangono di ogni singolo
individuo.
4.3.10 LA VITA
I Proverbi contengono numerose promesse di vita o minacce di morte, alcune delle quali
da prendersi nel senso più letterale. Insegnano che una condotta sana associata alla
benedizione che l’accompagna tende a prolungare la vita terrena, mentre il male tende
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ad accorciarla: “Ascolta, figlio mio, ricevi le mie parole, e anni di vita ti saranno
moltiplicati” (4:10). “… il tuo cuore osservi i miei comandamenti, perché ti procureranno
lunghi giorni, anni di vita e di prosperità” (3:1-2). “…per mio mezzo [cioè, della sapienza]
ti saranno moltiplicati i giorni, ti saranno aumentati anni di vita” (9:11).
Spesso tuttavia questi termini – la vita, la morte – sono da intendersi più in senso
qualitativo che letterale.
a) Materiale e sociale: “La serenità del volto del re dà la vita, e il suo favore è come
nuvola di pioggia primaverile” (16:15). “La vita” qui è da intendersi come prosperità.
“Chi è avido di lucro turba la sua casa, ma chi odia i regali vivrà” (15:27). Il termine
“vivrà” qui parla di rapporti familiari armoniosi.
b) Personale e psicologico: Saggezza e riflessione sono considerati in 3:22 “vita per te e
un ornamento al tuo collo”. Analogo è il significato in 14:30: “un cuore calmo è la vita
del corpo”. “Vita” qui ha il senso di benessere interiore, di forza e sicurezza
psicologica.
c) Morale e spirituale: In più casi significa: camminare con Dio. “Chi mi trova infatti trova
la vita e ottiene il favore del SIGNORE” (8:35). “Chi ricerca la giustizia e la bontà
troverà vita, giustizia e gloria” (21:21). “Il timore del SIGNORE conduce alla vita”
(19:23).
In questi casi è evidente che si parla della vita spirituale. Infatti, altrove nei Proverbi si
riprende la terminologia dell’“albero della vita” di Genesi 2 e 3 per significare le risorse
di Dio per rinnovarci e comunicarci la propria vita e natura, per spiegare gli effetti di
una parola d’incoraggiamento, di un desiderio realizzato, di una vita giusta. Dio ci
comunica la Sua vita attraverso la sapienza, un altro uomo, o una Sua azione diretta:
“La lingua che calma è un albero di vita” (15:4). “Il desiderio realizzato è un albero di
vita” (13:12). “Il frutto del giusto è un albero di vita” (11:30). La sapienza “è un albero
di vita per quelli che l’afferrano, e quelli che la possiedono sono beati” (3:18). “La
bocca del giusto è una fonte di vita” (10:11).
Ritroviamo quest’ultima espressione, “fonte di vita” – di cui si parla anche in Genesi
2:10, nella visione escatologica di Ezech. 47:1-2, e in Apoc. 22:1-2 – anche in 13:14,
14:27, 16:22.
Infine si parla del “sentiero della vita” o che conduce alla vita: “Per l’uomo sagace la via
della vita conduce in alto, gli fa evitare il soggiorno dei morti, situato in basso” (15:24). “Il
precetto è infatti una lampada, l’insegnamento una luce, le correzioni e la disciplina sono
la via della vita” (6:23). “Il sentiero dei giusti è come la luce che spunta e va sempre più
risplendendo, finché sia giorno pieno” (4:18). “Nel sentiero della giustizia sta la vita, e
nella via che essa traccia non c’è morte” (12:28).
4.3.11 LA MORTE
I termini collegati con la morte sono menzionati alcune decine di volte ai quali si
aggiungono “il soggiorno dei morti” (ebr. sceol, 1:12, 5:5, 9:18, 15:11,24, 28:14, 27:20,
30:16), “l’abisso” (distruzione: 15:11, 27:20), “la fossa” (1:12, 28:17) e “i defunti” (2:18,
9:18, 21:16).
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Ma in mezzo a tutte queste allusioni, stranamente, solo poche hanno il significato della
morte fisica. Nell’Antico Testamento la morte appare più come una sfera opposta alla vita
che come un evento ineluttabile e fisico. È un fatto che proietta la sua ombra sui viventi
sotto forme diverse, quali la malattia (Salmo 116:3), le calamità (Deut. 30:15) e
soprattutto il peccato (Gen. 2:17).
“Nell’assoluto del meno, la vita è vita nella sua pienezza e nell’inverso, ogni
indebolimento della vita è già una forma di morte” (A.R. Johnson).
È così che viene spesso intesa la morte nei Proverbi, per cui leggiamo: “L’empio sarà
preso nelle proprie iniquità, tenuto stretto dalle funi del suo peccato. Egli morirà per
mancanza di correzione, andrà vacillando per la grandezza della sua follia” (5:22-23).
“Vacillare” può essere considerato l’effetto della morte. È della stesso genere di “morte”
che parla l’esortazione sulla correzione dei propri figli: “Lo batterai con la verga, ma lo
salverai dal soggiorno dei morti” (23:14), o l’avvertimento della Saggezza: “tutti quelli che
mi odiano, amano la morte” (8:36), o ancora, la sentenza che riguarda lo stolto ingannato
dall’invito della Follia: “Egli non sa che là sono i defunti, che i suoi convitati giacciono in
fondo al soggiorno dei morti” (9:18).
La vita dopo la morte non è argomento che interessi il libro dei Proverbi, che vuole,
ricorderemo, “mettere in tuta da lavoro” il popolo di Dio. Ci sono comunque due sentenze
a proposito della morte naturale che parlano di una speranza che il malvagio perde e che
invece il giusto conserva:
“Quando un empio muore, la sua speranza perisce, e l’attesa degli empi è annientata”
(11:7); “il giusto spera anche nella morte” (14:32). In altre parole, l’uomo ha l’opportunità
di afferrare la vita solo nel corso della sua esistenza terrena, se avrà l’umiltà di cercare e
acquistare con tutti i mezzi possibili la sapienza. Lo stolto invece, che non si cura di
essere ammaestrato e vive solo per sé, con la sua morte perderà ogni speranza di
afferrarla.
Le ultime parole del libro, dedicate alla donna virtuosa (la cui figura potrebbe anche
essere intesa come una personificazione della Chiesa, la sposa desiderata del Signore),
possono rappresentare in chiave profetica le parole che chiunque avrà vissuto la vita
terrena nel timore di Dio si sentirà dire dal Signore:
“Molte donne si sono comportate da virtuose, ma tu le superi tutte! La grazia è
ingannevole e la bellezza è cosa vana; ma la donna che teme il SIGNORE è quella che sarà
lodata. Datele del frutto delle sue mani, e le opere sue la lodino alle porte della città!”
(31:29-31).
4.4 IL LIBRO DELL’ECCLESIASTE
(a cura di Geoffrey Allen)
Panorama dell’Antico Testamento
Modulo 4
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4.4.1 Introduzione: Autore e data
Il libro è noto anche con il titolo ebraico di “Qoelet” (il termine greco ekklesiastes ne è
una traduzione), solitamente tradotto “Predicatore” o “Insegnante”, titolo con cui si
presenta l’Autore (1:1) che si identifica chiaramente come il re Salomone. Alcuni studiosi
sostengono che il linguaggio e lo stile ebraico appartengano a un periodo posteriore
(infatti molte parole si ritrovano altrove nella Bibbia solo nei libri postesilici, fortemente
influenzati dall’aramaico), e che sia stato composto da un “saggio” di quell’epoca il quale,
come artificio letterario, abbia messo le sue riflessioni in bocca a Salomone, “il Saggio”
per eccellenza. Ma è anche possibile che il libro abbia subìto una revisione letteraria in
epoca successiva alla sua composizione originale. Anche la frase di 1:16, “tutti quelli che
hanno regnato prima di me a Gerusalemme”, non esclude che Salomone ne sia l’autore:
infatti Gerusalemme era una città antica dove avevano regnato i re Gebusei (e perfino
Melchisedec), prima della sua conquista da parte di Davide.
4.4.2 Schema del contenuto
L’Ecclesiaste rientra nel filone della “letteratura della sapienza” biblica, ma si differenzia
da Proverbi per la sua caratteristica nota di pessimismo (per non dire di depressione!).
Tuttavia è possibile distinguere nel libro due filoni diversi:
a) La vita è vana: non si trova nessun senso nelle cose che l’uomo insegue.
b) L’unica risposta si trova nel timore di Dio.
Nello schema seguente, i brani appartenenti al filone (a) sono indicati in corsivo, il filone
(b) in grassetto.
1:1-11
1:12-18
2:1-11
2:12-23
2:24-26
3:1-15
3:16-17
3:18-22
4:1-3
4:4-8
4:9-12
4:13-16
5:1-9
5:10-6:12
7:1-8:8
8:9-9:12
9:13-10:20
11:1-12:10
12:11-16
Non si trova nessun senso nella vita e nel mondo naturale
Lo studio e la filosofia non dànno risposte
Il piacere e l’edonismo non soddisfano il cuore
La saggezza consente di capire la vita, ma la morte rende vana anche
questa
La vita acquista un senso solo quando è vissuta alla luce di Dio
Dio è sovrano: solo Lui conosce tutto della vita e dei propri disegni
Anche se gli uomini commettono ingiustizie, Dio vede e giudicherà
La morte viene a tutti allo stesso modo, quindi conviene godersi la vita
L’ingiustizia e l’oppressione sono un peso insopportabile
Il materialismo non dà soddisfazione
Il valore dell’amicizia
La vanità del potere
Il timore di Dio
Stoltezza dell’amore per il denaro e vanità del sapere
Massime di saggezza pratica
La vita è un mistero davanti ai problemi del male e della morte
Il valore della saggezza per affrontare la vita
La vita è breve, conviene sfruttarla al massimo
Da’ ascolto alla saggezza, perché Dio giudicherà tutto.
Panorama dell’Antico Testamento
Modulo 4
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Il libro è dunque una riflessione “provocatoria” sul senso della vita, che non si trova (voce
dell’esperienza!) né nello studio e nel sapere, né nel denaro, né nei piaceri, né nella
ricerca del potere, e neanche nelle pratiche religiose. Non è sempre possibile
comprendere le vie di Dio, il quale rimane al di sopra della nostra comprensione. Sembra
che in questa vita non c’è giustizia: spesso l’ingiusto prospera e il giusto soffre. (Bisogna
ricordare che la chiara rivelazione della vita e del giudizio eterno viene data solo con la
venuta di Cristo, e soltanto negli ultimi libri dell’Antico Testamento viene appena
adombrata). Conviene dunque vivere la propria vita accontentandosi della sufficienza,
temendo Dio e confidando che Egli giudicherà giustamente.
4.4.3 La vita “sotto il sole” non ha senso: capp. 1 – 4:8
Il famoso brano di apertura (1:1-11) rappresenta le conclusioni di un vecchio amareggiato
e deluso; Paolo vi fa allusione in Rom. 8:20-22, dove però viene rivelata la chiave del
mistero: la vanità dei cicli naturali apparentemente senza fine è conseguenza del peccato,
e sarà risolta con la redenzione finale. Non bisogna dunque prendere come assoluta
l’affermazione del v.4 che “la terra sussiste per sempre”: è così solo fino al momento
dell’intervento decisivo di Dio. Anche il Suo intervento nella storia in Cristo ha spezzato il
ciclo della vanità (v.9) con una novità determinante.
Né il sapere e la filosofia umana (1:12-18), né i piaceri, le conquiste e la ricchezza (2:111) possono soddisfare il cuore umano, e tutti, saggi e stolti, devono affrontare la morte
allo stesso modo (2:12-23).
Anche i tentativi dell’uomo di costruire qualcosa di permanente sono destinati al
fallimento (3:1-10). Ma Dio ha messo nel cuore dell’uomo l’intuizione che ci debba essere
qualcosa al di là dei confini di questa vita (3:11). L’ingiustizia che esiste nel mondo esige
che ci sia un giudizio futuro (3:16-17), anche se questo non è stato ancora rivelato
all’uomo. Altrimenti, se la vita termina con la morte, non c’è differenza tra il giusto e
l’ingiusto, tra l’uomo e la bestia (3:18-22). Infatti l’ingiustizia è insopportabile (4:1-3) e la
ricerca del benessere è una cosa vana (4:4-8).
4.4.4 I veri valori della vita: 4:9 – 10:20
Rimangono i valori dell’amicizia e della solidarietà umana (4:9-12) – questo brano viene
spesso applicato anche al matrimonio – della saggezza (4:13-16: è possibile vedere in
questi versetti un riferimento al re Davide); e soprattutto del timore di Dio (5:1-7, un bel
brano che offre buoni consigli sulla preghiera e sulle promesse fatte a Dio).
Invece le ricchezze (5:10 – 6:6) e il sapere (6:7-12) non soddisfano i desideri più profondi
dell’essere umano. Bisogna riflettere bene sulla propria mortalità (7:1-10) e ricercare una
saggezza pratica per poter vivere bene (7:11-14).
I “consigli di prudenza” di 7:15-21 suscitano una certa perplessità: sembrano
assomigliare più all’ideale filosofico della “moderazione in tutto” che non a quello biblico
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della giustizia rigida e assoluta. Probabilmente il senso del “non essere troppo giusto” è:
“non ti gonfiare di orgoglio, credendoti più giusto degli altri”; cfr. v.20 e Lc. 18:9-14.
Le massime di 7:26 – 8:8 somigliano piuttosto a quelli del libro dei Proverbi. In 8:9 – 9:12
si presenta di nuovo il problema del male e del mancato giudizio di Dio in questa vita. In
assenza di risposte, conviene godersi la vita per quanto possibile (8:15, 9:7-10).
Comunque la saggezza dà dei vantaggi per vivere bene e avere successo già in questa
vita (9:13 - 10:20).
4.4.5 Cerca Dio e fa’ del bene finché c’è ancora tempo: capp. 11 - 12
Il breve cap. 11 – nella linea delle esortazioni di Proverbi contro la pigrizia – è
giustamente famoso in ambiente cristiano come esortazione alla “semina” spirituale, e
non solo materiale.
Infine c’è la ironica esortazione di 12:1-10, con la famosa serie di metafore sulla triste
condizione della vecchiaia (vv. 4-8), quando la vista si annebbia (v.4), i “guardiani della
casa” (le mani) tremano, gli “uomini forti” (le spalle o le gambe) si curvano, ecc. “Le
macinatrici” sono i denti, “quelli che guardano dalle finestre” gli occhi, “i due battenti
della porta” le labbra. Vengono meno il sonno e l’udito (v.6) e si ha paura di tutto. Il
“mandorlo fiorito” sono i capelli bianchi (il mandorlo fiorisce infatti sull’albero ancora
spoglio), “la locusta” (insetto che si trascina) la deambulazione, e “il cappero” è nominato
per l’effetto afrodisiaco. Il v.8 contiene una serie di immagini di morte e di decadimento.
Il paragrafo conclusivo (12:11-16) riassume il messaggio del libro: la vera saggezza si
differenzia dalla filosofia e lo studio umanistico (v.14) perché insegna il timore di Dio (vv.
15-16).
4.5 IL CANTICO DEI CANTICI
(a cura di Geoffrey Allen)
4.5.1 Introduzione: Titolo, autore e data
Il titolo del libro è una traduzione letterale dall’ebraico, cioè, secondo la forma
d’espressione tipica di quella lingua, “il cantico per eccellenza tra tutti i cantici” (cfr. Eccl.
1:2, “vanità delle vanità”). È attestato infatti di Salomone in 1° Re 4:32 che “i suoi inni
furono millecinque”.
Come per l’Ecclesiaste, gli studiosi hanno avanzato gli stessi dubbi sulla paternità
salomonica, e per le stesse ragioni: un linguaggio che sembra risentire dell’influenza
aramaica e che quindi viene attribuito al periodo post-esilico. Anche in questo caso, però,
è possibile che ci sia stato un aggiornamento linguistico successivo. Ci sono poi
numerosi riferimenti geografici alla parte settentrionale del territorio d’Israele (Saron,
Libano, Ermon, Tirza, Carmel, ecc.) che quindi argomentano contro un’origine nel regno
di Giuda.
Panorama dell’Antico Testamento
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L’inclusione del libro nel Canone ebraico fu contestata da alcuni rabbini a motivo del suo
linguaggio esplicitamente erotico (e, secondo Origene e Girolamo, ne fu comunque
vietata la lettura a chi non avesse compiuto i 30 anni di età). Ma fra i rabbini, come
successivamente anche nella Chiesa cristiana, prevalse il parere che, al di là del
significato sensuale che esalta l’amore fisico, il libro ammette di interpretazioni
allegoriche, che ne hanno determinato l’inclusione nel canone della Scrittura.
Il “Cantico” è un poema, o una serie di poemi, che esprimono la bellezza della passione
amorosa tra un uomo (generalmente considerato il re stesso) e una donna, la sua sposa
(o concubina?), in alcuni brani rappresentata come una pastorella. I personaggi che
parlano sono tre: lui, lei e il “coro” delle “figlie di Gerusalemme”, compagne della corte
reale (un’interpretazione minoritaria e poco convincente distingue invece due rivali per
l’amore della donna). Non sempre si può determinare con esattezza chi parla (anche se in
alcuni punti, il genere dei pronomi ebraici lo rendono chiaro là dove non lo è in
traduzione). È utile confrontarlo con il Sal. 45, un cantico nuziale che ammette la stessa
gamma di interpretazioni.
È da notare, infine, che Dio non viene mai nominato o menzionato in questo libro.
4.5.2 L’interpretazione del libro
Il libro ha dato luogo a diverse chiavi di lettura da parte dei commentatori, sia ebrei che
cristiani:
1. È una celebrazione dell’amore sessuale, dono di Dio all’umanità. Questo è l’evidente
significato primario del libro (cioè l’intenzione originale dell’autore nel contesto
originale). È importante non perdere di vista questo aspetto, dal momento che per la
maggior parte della storia il cristianesimo (diversamente dal giudaismo) ha
considerato la sessualità lontana dalla fede e dalla spiritualità, utile solo ai fini della
procreazione, e spesso addirittura qualcosa di sporco e di vergognoso, da
nascondere. (Sempre su questa linea, esistono delle polemiche da parte islamica che
attaccano il cristianesimo per il fatto di usare questo libro biblico per illustrare il
rapporto tra l’uomo e Dio.) Un commentatore cristiano ha domandato provocatoriamente: “Se Salomone ha composto delle poesie erotiche di questo genere [e, si può
aggiungere, sono state incluse nel canone della Scrittura], come mai i cristiani di oggi
non scrivono della letteratura erotica?”
2a.Secondo i commentatori rabbinici, illustra comunque simbolicamente l’amore di Dio
per la Sua sposa, Israele: cfr. i brani in Osea ed Ezechiele che raffigurano Israele come
una moglie infedele e adultera.
2b.
Allo stesso modo, molti commentatori cristiani interpretano il Cantico come
immagine dell’amore tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef. 5:22-33), già “fidanzata” a Lui (2°
Cor. 11:2) e attualmente in attesa di consumare la loro unione al Suo ritorno, “il
giorno delle nozze dell’Agnello” (Ap. 19:7-9, 20:2).
3. Con un approccio leggermente diverso, altri esegeti lo leggono come un’illustrazione
della relazione di amore e di intimità tra il singolo credente e il suo Signore/Sposo.
Dio infatti “creò l'uomo a sua immagine… li creò maschio e femmina” (Gen. 1:26) per
riflettere diversi aspetti del Suo essere. Il credente, uomo o donna che sia, in relazione
a Lui è dunque “femminile”, chiamato a sottomettersi e a rispondere alle Sue iniziative
Panorama dell’Antico Testamento
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(cfr. Rom. 7:1-4), mentre in relazione al mondo è “maschile”, chiamato a governare e a
prendere l’iniziativa.
In questa chiave sono stati pubblicati diversi commentari o meditazioni devozionali:
fra i più noti sono quelli di Jeanne Guyon, J. Hudson Taylor e Watchman Nee.
4. Infine alcuni l’hanno letto come un’allegoria: a differenza dagli approcci di cui sopra,
qui si cerca di attribuire un significato simbolico a ogni singola frase o espressione.
Questo approccio può essere certamente “edificante”, ma è ovvio che apre le porte alla
fantasia per far dire al libro tutto quello che si vuole.
Queste interpretazioni non si escludono a vicenda, e almeno quelle dal punto 1 al 3 sono
sicuramente legittime e valide.
4.5.3 Il primo canto di amore: capp. 1 – 2
La sposa, innamoratissima dello sposo e accompagnata dalle “figlie di Gerusalemme” (che
parlano, ad es., in 1:4,8), esprime il proprio desiderio (1:2-3) verso di lui. È caratteristico
dell’amore dare per scontato che l’Amato è irresistibile anche per le altre (v.4). Nei vv. 5-6
la sposa riconosce le proprie origini umili (l’abbronzatura non era ammirata fino al secolo
XX d.C., essendo caratteristica di chi doveva lavorare i campi). Il v. 6b è spesso citato
come figura del credente che, distratto dal servizio alla chiesa e da responsabilità
affidategli dagli altri, trascura la propria vita interiore.
Segue un “duetto” di espressioni di ammirazione dello sposo (il re), vv. 9-10, 15 e della
sposa (vv. 12-14, 16), con il v.17 forse di entrambi insieme. Prosegue nel cap. 2, dove i
vv. 1,3-7 sono della sposa e il v.2 dello sposo. La “rosa di Saron” (v.1) è un giglio dei
campi, fiore che ha la sua bellezza ma è comune e insignificante; ma lo sposo gira la
frase per esaltare la bellezza di lei (v.2).
In 2:8-17 la sposa esulta per l’amore e il desiderio dello sposo nei suoi confronti.
4.5.4 Il dolore della separazione e la gioia di essere di nuovo uniti: capp. 3 – 5:1
Questa esperienza (3:1-5) raffigura senz’altro anche i sentimenti sia della separazione tra
lo Sposo della Chiesa durante la sua assenza (cfr. Apoc. 22:17, Rom. 8:23), sia
l’esperienza della “notte oscura” del singolo credente quando il Signore ritira la sua
presenza manifesta, stimolandoci così a una più intensa ricerca della Sua faccia.
Anche le immagini militari di 3:6-8 richiamano la Chiesa, “esercito” oltre che “Sposa”.
Tutto il cap. 4, poi, è un canto di amore dello sposo rivolto alla sposa. Le figure
adoperate (vv. 1-5) possono sembrare strane per i nostri gusti, ma probabilmente non più
di quelle della nostra cultura a quella orientale…!
4.5.5 L’amato perduto e ritrovato: 5:2 – 7:14
In questo brano la sposa manca di rispondere agli inviti amorosi dello sposo, e quando
finalmente cambia idea trova che è troppo tardi (5:2-6). Oltre che nei giochi amorosi,
questa è anche un’esperienza frequente in campo spirituale: il credente che manca di
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rispondere agli inviti del Signore alla comunione con Lui rischia di trovare che Egli si
“ritira” quando finalmente decide di rispondere.
La perdita temporanea dell’Amato spinge la sposa a decantare le lodi di lui presso le
“figlie di Gerusalemme” (5:9-16), le quali poi l’aiutano a ritrovarlo (6:1-3), dopo di che è
lui che canta le lodi di lei (6:4-10, 7:2-10).
4.5.6 L’amore consumato: cap. 8
In quest’ultimo capitolo lo sposo e la sposa si alternano nel cantare le lodi l’uno
dell’altra: ormai l’amore ha raggiunto un equilibrio e una pace. Anche per la “piccola
sorella” (v.8) si prevede una stagione dell’amore che non è ancora venuta.
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