emilio-rita 324 - Società Italiana di Economia Pubblica

Transcript

emilio-rita 324 - Società Italiana di Economia Pubblica
WORKING PAPER
No 324
giugno 2004
BLACKOUT ELETTRICI: UNA LEZIONE UTILE?
RITA CELLERINO ED EMILIO GERELLI
JEL CLASSIFICATION: H23 – Q54
KEYWORDS: energia - ambiente
società italiana di economia pubblica
dipartimento di economia pubblica e territoriale – università di Pavia
BLACKOUT ELETTRICI: UNA LEZIONE UTILE?
di Rita Cellerino ed Emilio Gerelli1
Apprendiamo la saggezza più dall’insuccesso che dal successo
Samuel Smiles (1812-1904)
ABSTRACT. - On September 28, 2003, Italy ran without electricity supply for more
than 12 hours because of an accident. However, shortly before this accident, during the
summer, already five blackouts had taken place. This shows that beside some
occasional circumstances (which we anlayze), the causes of such too frequent system
failures are also structural and due especially to a long-term shortage in electricity
supply. We therefore investigate such causes, due in particular to the “malthusian”
policy implemented in recent years by the former electricity monopolist ENEL (still
holding considerable market power), the complicated laws regulating the siting of
electricity plants, the NIMBY sindrome, for which we propose some possible treatment
to ease negotiations among local communities and industry
. We conclude by discussing the possible introduction of capacity payment, the
legislation underway to provide an incentive to the building of new electricity
production plants. We also argue that the process of privatization of electricity
production undertaken must be completed, so that consumers may reap the advantages
of lower electricity prices. However at the same time a better regulation and definition
of the public service obligations which private firms must bear is needed to avoid
further damaging blackouts.
1. I blackout: non tutto il male, forse, viene per nuocere...!
Italia al buio e praticamente immobilizzata per oltre 12 ore: alla fine del
settembre 2003, esplode il più gigantesco blackout elettrico della storia nazionale, per
fortuna di domenica e quindi evitando almeno il danno economico derivante dall’arresto
generalizzato degli impianti produttivi. Una scarica elettrica, dovuta al contatto con un
1
Gli autori ringraziano il Prof. Alberto Cavaliere, che ha letto una prima stesura di questa nota
1
albero caduto, provoca un guasto, sul passo di Lucomanno, all’elettrodotto MettlenLavorgo (la cosiddetta linea del Lucomanno), una delle due linee di interconnessione tra
Italia e Svizzera. Ciò provoca il blocco della seconda linea svizzera e, a catena, quello
delle linee d’interconnessione Francia-Italia. A partire dalle 3,25 del 28 settembre, i
trasporti vanno in panne e scattano gli allarmi negli ospedali. L’effetto-domino si
estende a tutta l’Italia. Si stima che, al momento dell’interruzione elettrica, soltanto a
Roma circa mezzo milione di persone fossero ancora per strada e che 12.000 siano
rimaste bloccate nella metropolitana (destino analogo a quello di cui furono vittima i
new-yorkesi nel blackout del 14 agosto 2003, di cui diremo): erano infatti in corso le
numerose manifestazioni della “Notte bianca” organizzata dal Comune, che avevano
trascinato fuori casa numerosissimi abitanti della capitale, sensibili all’attrazione dei
circenses pubblici.
Le cause del blackout, ancora in fase di approfondimento nel momento in cui
scriviamo (dicembre 2003), sono probabilmente da suddividersi tra errore del fornitore
svizzero di energia elettrica e scarsa lungimiranza italiana. Per quanto riguarda l’Italia, a
“botta calda”, e quindi senza inutili giri di parole, accusa un esperto, il prof. Alberto
Clò: “L’altra notte [cioè tra il 27 ed il 28 settembre] le imprese elettriche hanno
preferito tener spenta la più parte delle centrali perché era loro conveniente farlo. In
particolare, perché era più conveniente importare che produrre, pur sapendo che sulle
importazioni non si può mai far conto con assoluta certezza. Quando si è avuta
informazione delle momentanee interruzioni, il Gestore [della rete] non è stato in grado
di riattivare con immediatezza – e qui bisognerà appurare il perché – le centrali che
erano state volutamente spente. Come si dovrà, in particolare, appurare perché la
capacità di riserva che le imprese elettriche dovrebbero aver reso disponibile al sistema
e allo stesso Gestore, proprio per prevenire i rischi di
blackout, e che peraltro i consumatori pagano lautamente, non è stata utilizzata o non è
stata dalle imprese resa disponibile. Ragioni di mera convenienza economica hanno, in
conclusione, prevalso sulle ragioni di sicurezza del Paese, o meglio, sui suoi interessi
generali” 2 .
2
Alberto Clo, Scuse maldestre, “Il Sole-24 Ore”, 30 settembre 2003, corsivo nostro
2
Riprenderemo nelle conclusioni queste osservazioni generali; per ora, limitando
rigorosamente l’analisi alla meccanica del blackout in discussione, osserviamo che
l’autorevole Union for the Coordination of Transmission of Electricity (UCTE),
operante nell’Europa continentale, sembra assolvere parzialmente il nostro Gestore della
rete di trasmissione nazionale (Grtn). Infatti, rilevato che la sequenza degli eventi fu
scatenata dalla caduta di un albero sulla linea svizzera che trasportava energia verso
l’Italia, al termine della sua analisi tecnica l’UCTE denuncia: “Lacking a sense of
urgency regarding the Sils-Soazza line overload” e questo condanna il mancato
istantaneo intervento svizzero, ma la frase continua con una botta anche all’Italia: “ and
call for inadequate measures in Italy”3 . Ma la Svizzera viene sempre più saldamente
inchiodata al banco degli imputati anche da un documento congiunto del 1° dicembre
2003 dei regolatori pubblici della rete francese e italiana. Rilevata la concordanza “sulla
principale conclusione del rapporto dell’amministrazione svizzera, secondo la quale
l’assenza di una organizzazione giuridica del settore elettrico svizzero coerente con
quella dell’Unione europea, pregiudica fortemente il funzionamento efficace del
mercato elettrico europeo in condizioni di sicurezza”, francesi e italiani prendono di
3
L’argomentazione alla base dell’affermazione citata è: “The operators were unaware of the fact that the
overload on Sils-Sozza was only sustainable for 15 minutes. A single phone call by ETRANS took place
10 minutes after the trip of the first line. Etrans asked for the import to be decreased by 300 MW. This
measure was completed by GRTN within 10 minutes. Even together with the Swiss internal
countermeasures, it was insufficient to relieve the overloads”. Cfr.
UCTE, Interim Report of the
Investigation Committee on the 28 September 2003 blackout in Italy, ottobre 2003, disponibile su
www.ucte.org
In dettaglio, la prima parte della frase citata nel testo conferma almeno in parte la puntigliosa autodifesa
del nostro Gestore che afferma: “il centro di comunicazione ETRANS, coordinatore dei 6 operatori del
settore elettrico svizzero, non ha comunicato tempestivamente lo scatto della suddetta linea, come da esso
affermato, né ha adottato le procedure d’urgenza concordate riguardanti la comunicazione di stati
d’esercizio particolari. Soltanto alle 9 e 41 di domenica 28 settembre il centro di documentazione
ETRANS ha informato, via fax, sullo stato degli impianti. La mancanza di informazioni circostanziate
degli operatori svizzeri ha influito sulla tempestiva identificazione delle cause della separazione e ha
impedito l’adozione delle necessarie contromisure, peraltro possibile stante la disponibilità di riserva nel
sistema nazionale all’ora di minimo carico” (Grtn, Blackout: gli eventi accaduti il 28 settembre 2003,
ottobre 2003, www.grtn.it). Ma gli svizzeri non si danno per vinti, e affermano (scrivendo di sé stessi in
terza persona): “Secondo ETRANS – l’organizzazione svizzera per il coordinamento delle reti di
trasmissione elettriche – il rapporto ufficiale dell’UCTE … è corretto e conferma la precedente posizione
svizzera. In base al rapporto citato vengono respinti i rimproveri sollevati contro la Svizzera; difatti questi
ultimi servivano a sviare l’attenzione in merito alle difficoltà, contenute nel rapporto dell’UCTE, del
gestore di rete di trasmissione nazionale (Grtn).” L’affermazione è però in contrasto con la citata
conclusione dell’UCTE in merito alla mancanza di una reazione urgente da parte di ETRANS dopo
l’incidente causato dalla caduta dell’albero, ed infatti l’ente svizzero è costretto a contrattaccare
polemicamente (sia pure in un italiano zoppicante): “Purtroppo lo svolgimento esatto da parte del Grtn
non è sufficientemente descritto nel rapporto dell’Ucte. Nel rapporto vengono focalizzati unilateralmente
gli eventi occorsi in Svizzera.” (ETRANS, Il Rapporto UCTE conferma la posizione della Svizzera e
svela le debolezze dell’Italia, ottobre 2003, www.etrans.ch)
3
petto la controparte svizzera: “Contrariamente agli impegni assunti all’inizio del mese
di ottobre con i regolatori italiano (Autorità per l’energia elettrica e il gas) e francese
(Commission de régulation de l’electricité), l’amministrazione svizzera attraverso il
proprio Ufficio federale dell’energia non ha fornito alcun contributo all’istruttoria
conoscitiva promossa congiuntamente il 6 ottobre 2003”4 .
Al di là di queste polemiche “a muso duro” relative ad un singolo episodio condite da accuse reciproche di mendacio, o quanto meno di colpevole understatement a noi preme soprattutto rilevare che, per quanto concerne specificamente il nostro Paese,
esse sono soltanto la punta dell’iceberg costituito da una situazione in precario
equilibrio che, se non modificata, può dar luo go ad altri blackout.
Ciò che è già sin d’ora certo, infatti, è che la struttura della fornitura elettrica
italiana scricchiolava sinistramente già da tempo. Infatti nel pieno dell’estate, in poco
più di due mesi, tra il 25 giugno ed il 28 agosto 2003, il Gestore della rete di
trasmissione dell’energia elettrica, ha dovuto imporre ben cinque distacchi d’emergenza
(blackout in gergo giornalistico, che qui adottiamo per brevità, ma in realtà distacchi di
grandi consumatori industriali detti “interrompibili”, poiché hanno contratti soggetti ad
interruzione in cambio di un prezzo elettrico più basso): precisamente il 25 e 26 giugno,
il 23 luglio, ed il 5 e 28 agosto. In media, dunque, un blackout ogni tredici giorni, e con
un distacco, quello del 25 giugno, che può sostanzialmente classificarsi già come
blackout in senso stretto, avendo coinvolto le famiglie e gli operatori senza contratti
soggetti ad interruzione, con un preavviso tanto immediato da considerarsi inefficace ad
evitare situazioni di grave difficoltà. Questi distacchi d’emergenza del servizio elettrico
sono dovute in parte a cause contingenti, ma soprattutto, secondo una diffusa
valutazione condivisa dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ad una crisi dovuta a
”carenze strutturali, la cui origine risale nel tempo. Essa indica la vulnerabilità del
sistema energetico italiano...”5 .
4
Comunicato stampa congiunto delle Autorità dell’energia di Italia e Francia, 1° dicembre 2003,
www.autorita.energia.it A conclusione del documento, i ritrovati cugini latini – sorvolando su ogni
possibile anche parziale mea culpa -, non si peritano dall’indicare ciò che gli svizzeri dovrebbero fare a
casa loro. In sintesi: introdurre una legislazione nazionale per regolare gli scambi transfrontalieri; creare
un gestore indipendente della rete di trasmissione e del sistema elettrico nazionali; adottare con urgenza
una legge di riforma del settore elettrico elvetico.
5
Autorità per l’energia elettrica e il gas, Relazione annuale sullo stato dei servizi e sull’attività svolta –
Presentazione del Presidente dell’Autorità, Presidenza del Consiglio di Ministri, Dipartimento per
l’informazione e l’editoria, Roma, 2003, p. 4
4
Tuttavia, accanto ai gravi disagi temporaneamente sperimentati, le interruzioni
richiamate hanno esercitato anche un effetto benefico, seppure pagato a caro prezzo:
focalizzare drammaticamente l’attenzione sulla necessità di adottare adeguate soluzioni
strutturali, di lungo periodo, per fronteggiare la crisi elettrica, comunque esistente anche
in assenza di fenomeni estremi. E’ necessario, però, che questo rinnovato interesse
determini azioni concrete, per evitare il ripresentarsi di emergenze. A questo scopo
analizziamo anzitutto i fatti, cominciando dagli episodi congiunturali, per poi passare ai
problemi di struttura.
In aggiunta al 28 settembre, i due giorni più “neri” sono stati il 25 e 26 giugno
2003. Infatti mercoledì 25 giugno, secondo i dati del Grtn i consumi battevano ogni
primato sino ad allora raggiunto: 52.850 megawatt 6 . Per questo, come indicato sopra,
sono stati staccati i grandi consumatori indus triali interrompibili. Tuttavia giovedì 26
giugno, nel pomeriggio, i consumi erano ancora superori: 53.200 MW, sicché sette
milioni di italiani distribuiti in tutte le regioni sono stati coinvolti a rotazione in un
blackout tardivamente annunciato e “a macchia di leopardo”. La corrente è stata tagliata
in tutte le città, con turni di un’ora e mezza dalle nove del mattino alle cinque del
pomeriggio. Ne è seguito uno scenario caotico determinato dall’impreparazione
all’emergenza: semafori spenti che hanno mandato in tilt il traffico, ascensori bloccati
con conseguenti centinaia di chiamate ai vigili del fuoco, frigoriferi spenti con danno ai
prodotti alimentari deperibili, impianti produttivi fermi con gravi danni economici.
Nel breve periodo, per far fronte a questa situazione di emergenza sono stati
adottati due provvedimenti:
-
il decreto legge n. 158 del 3 luglio 2003 consente ai soli impianti di produzione
termoelettrica di potenza superiore ai 300 MW, di aumentare fino a due gradi la
temperatura dell’acqua di scarico, per un periodo di 75 giorni. Ciò permette un
aumento della produzione elettrica di circa 2.000 MW, portando la capacità
massima da 55 a 57.000 MW, e raddoppiando quindi il margine di sicurezza da
2.000 a 4.000 MW. Una situazione, tuttavia, ancora non risolutiva, data
l’esiguità relativa delle cifre in gioco (questa norma è stata reiterata col decreto
legge n. 239 del 29 agosto 2003 - convertito in legge dal Parlamento il
6
Tuttavia, nell’escalation dei massimi, l’11 dicembre 2003 si è toccato il nuovo record storico dei
consumi nazionali di elettricità con 53.400 MW, superiore di circa 300 MW (+ 0,6%) al precedente
record del 17 luglio
5
successivo 22 ottobre -, che prolunga le misure accennate fino al 31 dic embre
2004);
-
un piano per rimettere in esercizio 8 centrali elettriche dismesse, che
riprenderebbero a produrre 1.200 MW entro 3-12 mesi, approvato il 2 luglio il
Consiglio di amministrazione dell’Enel. L’investimento è di circa 25 milioni di
euro.
Per completezza segnaliamo anche un terzo provvedimento di emergenza: il
licenziamento dei vertici del Grtn, considerato responsabile dei gravi disagi del 26
giugno; in realtà un trompe-l’oeil politico, poiché tali vertici (nominati dal precedente
Governo) erano già da tempo in scadenza, ma non erano stati sostituiti per il mancato
accordo tra i due ministeri responsabili (Economia e Attività produttive). Sicché, in
realtà, la ricerca estemporanea di un capro espiatorio ha soltanto portato a conclusione
procedure già dovute. Ricordiamo anche, di passaggio, che il nuovo presidente del Grtn
aveva baldanzosamente affermato che con la nuova gestione non si sarebbero
manifestati blackout dovuti a problemi della rete di distribuzione, del tipo di quello
americano del 14 agosto (cui ci riferiremo nel successivo paragrafo), argomentando che
negli USA, a differenza che in Italia, non esiste un gestore nazionale della rete di
trasmissione in grado di intervenire tempestivamente. Purtroppo l’episodio del 28
settembre, che coinvolge direttamente il Grtn, ha smentito questa dichiarazione.
Come la maggior parte degli interventi di emergenza - di necessità sottoposti a
particolari vincoli derivanti dalla necessità di agire rapidamente -, anche quelli indicati
presentano aspetti negativi rispetto ad iniziative non affrettate. Il decreto 158/2003
sull’aumento della temperatura delle acque di scarico, è in deroga alla legislazione sulla
qualità delle acque, e può provocare danni alla fauna ed alla flora acquatiche, soprattutto
nel periodo estivo in cui la temperatura è già elevata. Quanto al piano Enel,
l’amministratore delegato Paolo Scaroni ha dichiarato trattarsi di “nuova capacità non
efficiente e quindi molto costosa”, da utilizzarsi solo in caso di estrema necessità 7 .
Sul lato della domanda, le cause “congiunturali”, o di breve periodo, delle
emergenze (escludendo quella del 28 settembre), riguardano soprattutto l’utilizzo
notevolmente accresciuto di condizionatori che, in un periodo di afa molto elevata,
spinge la richiesta di elettricità a livelli simili a quelli dei picchi invernali. Infatti nel
7
Corriere della Sera, 28 giugno 2003
6
mese di agosto 2003, ad esempio, la temperatura media mensile, superiore di oltre tre
gradi centigradi rispetto al mese di agosto 2002, ha aumentato la domanda di energia
elettrica in Italia dell’11,7% rispetto al mese di agosto 2002 (24,6 miliardi di kWh). Sul
lato dell’offerta, le difficoltà congiunturali hanno riguardato le centrali nazionali 8 , e gli
approvvigionamenti dall’estero 9 .
Prima di esaminare le cause strutturali della situazione italiana, ricordiamo che
non siamo i soli a dover affrontare gravi problemi di fornitura elettrica. Il 14 agosto
2003 milioni di persone nella parte nord-orientale degli Stati Uniti e del Canada si
trovarono al buio, a causa del più importante blackout della storia americana. In un
attimo luce, ascensori e condizionatori si arrestarono, come in Italia il 25 giugno e il 28
settembre 10 . L’incidente non dipende da carenze di offerta, ma piuttosto dal cattivo
funzionamento della rete di trasmissione.
Due elementi sono emersi dai blackout italiani e americano: il primo è che la gestione
della domanda e offerta di elettricità su di una moderna rete distribuzione è la più
difficile attività di bilanciamento dell’ingegneria moderna: numerosi impianti di
generazione possono essere sollecitati o inutilizzati, con milioni di utilizzatori
indipendenti che accendono e spengono apparecchi. Se solo per poco la domanda supera
l’offerta, i generatori divengono rapidamente sovrasfruttati, si interrompono i circuiti e
la luce manca. Il secondo elemento, proprio alla situazione americana, è che la
deregulation ha aumentato la concorrenza e ridotto i prezzi ai consumatori, ma ha anche
rallentato la velocità di modernizzazione della rete, che, prima dell’incidente, era stata
giudicata il maggior progresso tecnologico degli ultimi cento anni dalla National
Academy of Engeneering! 11 . Dunque, non è soltanto l’Italia a dover affrontare difficili
problemi. Un sintetico raffronto tra la situazione italiana e nordamericana (che non tiene
8
Il funzionamento ridotto della grande centrale di Porto Tolle (2.400 megawatt ridotti a 850) a causa
della secca del Po, un guasto alla centrale di Montalto di Castro, difficoltà nell’impianto della Spezia, un
avaria nella centrale sarda di Fiumesano.
9
800 MW che Electricité de France ha preferito trattenere per consumi interni (tuttavia con preavviso di
48 ore rispetto alle 24 richieste dagli accordi), e sovraccarico delle connessioni con la Svizzera
10
A Cleveland, nell’Ohio si arrestarono le stazioni di pompaggio, lasciando molte persone senz’acqua. A
Manhattan, i più fortunati furono costretti a camminare per ore in strade oscure per arrivare a casa, i più
sfortunati dovettero invece dormire negli uffici, nelle stazioni ferroviarie o sui marciapiedi.
11
E poiché è facile passare da un estremo all’altro, sotto lo choc dell’incidente del 14 agosto l’ex ministro
dell’energia di Bill Clinton, Bill Richardson, ha dichiarato: “Siamo la maggior superpotenza al mondo,
ma abbiamo una rete elettrica da terzo mondo”. Un’esagerazione, ma resta il fatto che il più ricco Paese
del mondo ha bisogno di un’infrastruttura migliore (citaz. da The Economist, Electricity in America –
How to keep the lights on, agosto 2003)
7
però conto del nostro blackout del 28 settembre, dovuto alla rete internazionale di
trasmissione) è stato così espresso: “The Italian electricity stystem is in urgent need of
capacity, as shown by blackouts...Unlike the blackout in the U.S. Northeast, which was
caused by transmission system problems, the Italian blackouts occurred because there
simply isn’t enough operating capacity. Given available capacity and peak demand, the
resultant margin for Italy has proven to be insufficient to cover the system needs.”12
2. Problemi strutturali
Riguardo alle cause strutturali dei blackout italiani, partiamo dai seguenti dati di base: la
capacità installata in Italia è di 76.950 megawatt, ma in realtà ne sono disponibili
soltanto il 63%, ossia 48.700 MW. La differenza, ben 28.250 MW, è costituita da
centrali in disuso, in manutenzione o da rendere compatibili con la normativa
ambientale. Anche la capacità di importare dall’estero con le interconnessioni è
relativamente scarsa: 6.000 MW in tutto. Quindi si possono mettere a disposizione circa
55.000 megawatt in totale, sommando capacità di produzione nazionale (prescindendo
dai menzionati decreti legge 158 e 239/2003, il cui effetto è temporaneo) e
importazioni. D’altro lato, la domanda di punta si aggira sui 53.000 MW, sicché il
margine di sicurezza tra capacità (55.000 MW) e punta (53.000 MW) ammonta soltanto
a 2.000 MW: un intervallo, come dimostrato dagli episodi richiamati, largamente
insufficiente.
Sorvoliamo sull’improbabile argomento di alcuni ecologisti, secondo cui i
blackout sarebbero stati volutamente provocati per consentire al “capitale” di accrescere
l’investimento nelle centrali. Osserviamo invece che i problemi i quali travagliano il
12
Hamish Fraser e Francesco Lo Passo, Developing a Capacity Payment Mechanism in
Italy, “Electricity”, novembre 2003. Ricordiamo anche che il 23 settembre 2003, tre
milioni e mezzo di danesi e svedesi sono rimasti per molte ore senza elettricità perché
una furiosa tempesta ha fermato una centrale nucleare da 1.000 MW, ciò che ha
provocato un effetto dòmino con l’arresto di altri due reattori; questo evento ha smentito
l’opinione che il nucleare e una efficiente borsa dell’elettricità evitassero le interruzioni
del servizio. Infine il Giappone: il rischio blackout è stato elevato nell’estate 2003 per
un motivo sorprendente: il più grande produttore privato di elettricità al mondo, Tokyo
Electricity Power, ha dovuto chiudere temporaneamente 17 reattori nucleari, perché
scoperto a falsificare i documenti di sicurezza, per nascondere guasti in alcune centrali
nucleari. Come si vede, i problemi non sono solo nostri.
8
sistema dell’energia elettrica in Italia, oltre che da cause congiunturali - clima,
malfunzionamento di centrali, difficoltà di forniture dall’estero, che possono essere
ricorrenti -, dipendono dunque soprattutto da cause strutturali, di lungo periodo, che
hanno impedito la costruzione di nuove centrali in misura sufficiente. Tali cause
riguardano principalmente:
-
la debolezza di una politica dell’offerta di energia elettrica a livello nazionale,
-
l’incompleta liberalizzazione del mercato energetico,
-
l’opposizione degli enti locali all’insediamento delle centrali sul loro territorio.
Prima di esaminare ciascuno dei punti elencati, osserviamo che tali cause riguardano
sopratutto il lato dell’offerta del mercato dell’energia elettrica. Per quanto concerne il
lato della domanda, infatti, dati i prezzi elevati dell’energia tradizionalmente praticati
nel nostro Paese, anche a causa degli elevati oneri fiscali, ne è risultato che “l’intensità
energetica [chilogrammi di petrolio equivalente consumati in media per mille dollari di
p.i.l.] è la più bassa tra i Paesi Ocse”13 . In altre parole, dati gli elevati prezzi, utilizziamo
l’energia in modo relativamente efficiente, sicché non è su questo versante che si
possono ottenere risultati risolutivi.
Consideriamo, dunque, la politica dell’offerta. La legge istitutiva dell’Enel del
1962 (anno in cui fu decisa la nazionalizzazione dell’industria elettrica) stabiliva che
l’Ente garantisse al Paese una disponibilità adeguata di energia elettrica. Per soddisfare
questa esigenza l’Enel elaborò sistematicamente stime di medio-lungo periodo dalla
domanda di energia, costantemente valutata in eccesso, in modo da favorire la
costruzione di nuove centrali 14 . Ciò non creò affatto, però, un sovrappiù di offerta, a
causa dei tempi dilatati per la costruzione delle centrali, della limitazione delle risorse
finanziarie, e per l’opposizione delle amministrazioni locali - divenuta drammatica a
partire dagli anni ’70 - a insediare nuovi impianti. Tra il 1963 ed il 1995, l’Enel investì
comunque in media circa 8.000 miliardi di lire all’anno 15 . Ciò non impedì che l’Ente
fosse costretto nel 1979 a diffondere un piano di distacchi programmati, in previsione di
13
Ocse, Rapporto sulle performance ambientali – Italia, 2002, p. 123
Su questo tema vedi la pionieristica analisi di Luigi Bernardi, L’incertezza sui fabbisogni futuri di
elettricità: effetti per lo sviluppo del sistema elettrico italiano, in E. Gerelli e L. Bernardi (a cura di), E’
possibile in Italia una politica dell’energia?, Angeli, Milano, 1977, pp. 273-92
15
Luigi De Paoli, L’evoluzione delle strategie produttive dell’industria elettrica italiana dal 1962 al
1997, in: Gianni Toniolo, L’industria elettrica dai monopoli nazionali ai mercati globali, Roma, 1998
14
9
inadeguatezza dell’offerta. 16 Negli anni ’80 la politica dell’energia, venne affidata,
almeno nominalmente, a tre piani energetici nazionali (l’ultimo del 1988), in realtà
influenzati in maniera determinante, per la parte elettrica, dal monopolista Enel. La
prospettiva, maturata in tali piani, di utilizzare una combinazione di petrolio, risorse
idriche e nucleare, fu sconvolta dai referendum del 1987 sul nucleare, propiziati
dall’incidente dell’aprile 1986 all’impianto di Cernobyl. Fu così dismessa la centrale di
Caorso, mentre venne interrotta la costruzione dell’impianto nucleare di Montalto di
Castro, costato 10.000 miliardi di lire e quasi terminato. A testimonianza di una
situazione scarsamente controllata, ricordiamo che con altri 10.000 miliardi si costruì
invece, a fianco della centrale nucleare, non un impianto a ciclo combinato con
rendimento superiore al 50%, come sarebbe stato auspicabile, ma una complicata
combinazione di quattro gruppi termoelettrici a policombustibile da 600 MW ciascuno e
8 piccoli impianti a turbogas da 100 MW l’uno, per un totale di 3.200 MW con
rendimenti del 37-38%. Negli anni successivi non ci sono state realizzazioni importanti,
tanto che il ministro delle Attività produttive Marzano ha recentemente dichiarato:
“negli ultimi dieci anni non si è costruita alcuna centrale di rilevanza”.
Nel 1999, con il cosiddetto decreto Bersani, entrò in vigore la direttiva europea
(CE n. 96 del ‘92) sulla liberalizzazione del mercato elettrico. Con la cessione di
Interpower, avvenuta nel gennaio 2003, si é completato il processo di dismissione degli
impianti Enel per un totale di 15.000 MW, previsto dal decreto Bersani. Quanto per ora
realizzato in questa direzione “non è tuttavia sufficiente a ridurre il potere di mercato
dell’impresa dominante fino al livello compatibile con un regime concorrenziale”17 .
A proposito dell’utilizzo “disinvolto” di tale potere di mercato, volto a
contrastare l’aumento dell’offerta, un episodio rivelatore si trova in una informazione
assai discutibile fornita dall’Enel: il 23 gennaio 2002 l’allora amministratore delegato
Enel, Franco Tatò, dichiarava di fronte alla Commissione Attività produttive della
Camera: “Nel panorama europeo l’Italia è tra i Paesi che registrano una capacità
installata più elevata rispetto alla domanda di punta (+ 53%). Anche tenendo nella
dovuta considerazione la specificità della nostra infrastruttura, nel 2000 si è riscontrato
16
Tuttavia il 24 agosto 1994 l’Italia meridionale, da Latina alla Basilicata, restò senza
corrente per 7 ore, per una caduta della rete conseguente a un picco particolarmente
elevato della domanda.
17
Autorità per l’energia, Relazione annuale, cit. p. 9
10
un valore di riserva prossimo al 25%, un dato largamente superiore a quello di gran
parte degli altri Paesi aperti alla competizione. Riteniamo che il livello di capacità
installata sia sufficiente a garantire la sicurezza del sistema e la continuità del servizio
(sic!) e che un modesto incremento della capacità sia sufficiente a sostenere la domanda
elettrica del Paese per i prossimi anni”. Un mese dopo, il 28 febbraio 2002, questa
sorprendente dichiarazione – ispirata alla filosofia del dottor Pangloss di Voltaire: tout
va le mieux du monde dans le meilleur des mondes possibles - veniva
contraddetta
dall’allora presidente e dall’amministratore delegato del Grtn (Salvatore Machì e Pier
Luigi Parcu) in un documento presentato alla Commissione menzionata, in cui si
leggeva realisticamente che: “la capacità effettiva disponibile in esercizio risulta ridotta
a 48.700 MW. L’apporto di potenza dall’estero è quindi indispensabile. Con l’import la
capacità totale di coprire la punta della domanda è pari a 54.700 MW.” Inoltre: “la
potenza di generazione installata in Italia e disponibile per l’esercizio è insufficiente a
coprire la punta di fabbisogno”. Commenta il Senatore Franco Debenedetti: “i giochi
sono evidenti: Enel che nel 2000 contribuiva per quasi il 70% dell’energia elettrica
prodotta in Italia, aveva tutto l’interesse a far lavorare gli impianti al massimo, e a
evitare che si creasse nuova capacità produttiva: se realizzata dai concorrenti, li avrebbe
rafforzati; se realizzata dall’Enel avrebbe drenato liquidità dalle ambiziose
diversificazioni. Tatò non esitava a usare argomenti collaudati: ‘Qualora queste centrali
[per cui è stata fatta domanda di costruzione] venissero realizzate, sia pure in parte,
l’eccesso di potenza porrebbe definitivamente fuori mercato una rilevante quantità di
impianti esistenti, con evidenti riflessi occupazionali’ ” (cfr. Il Sole – 24 Ore del 4
luglio 2003). A parte ogni altra considerazione, il ragionamento è fondato sull’ipotesi
che i nuovi impianti operino senza creare occupazione, compensativa di quella persa
dagli impianti eventualmente dismessi...
La situazione è dunque ben diversa dalla descrizione di parte fornita da Tatò.
Osserva infatti anche il presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas: “La
crescita di un parco di generazione competitivo è necessaria per conseguire un
avvicinamento del prezzo medio italiano a quello europeo: lo stimolo della concorrenza
può significativamente accelerare tale avvicinamento”. Infatti, “il prezzo medio
dell’energia elettrica continua ad essere superiore alla media europea...Nella fase di
avvio della liberalizzazione i clienti che passavano al mercato libero potevano ottenere
11
sconti, rispetto al prezzo pagato sul mercato vincolato, fino al 15 per cento; oggi il
margine di convenienza si va riducendo a valori che non superano il 5 per cento. Solo
con l’avvio di meccanismi di mercato trasparenti sarà possibile liberare il potenziale di
riduzione dei prezzi e introdurre meccanismi regolatori capaci di disincentivare i
possibili comportamenti anticompetititvi da parte dei soggetti che detengono un
rilevante potere di mercato”18 . E’ dunque evidente come, in questo quadro, da un punto
di vista generale la costruzione di nuove centrali sia positiva.
La politica del Governo si è attivata per facilitare tale costruzione. In questa
direzione dovrebbe operare la legge sulle “Misure urgenti per garantire la sicurezza del
sistema elettrico nazionale” (9 aprile 2002, n. 55), di conversione del decreto legge
“sblocca-centrali” (7 febbraio 2002, n. 7). In tale legge si prevede che la costruzione e
l’esercizio degli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW siano
dichiarati – non oltre la fine del 2003 - opere di pubblica utilità, e soggetti ad
autorizzazione unica del Ministero delle attività produttive. Oltre alla durata limitata, la
norma incontra difficoltà di attuazione in particolare a causa dell’opposizione delle
amministrazioni regionali e locali, pur coinvolte nel procedimento, tanto che un
parlamentare dell’opposizione ha polemicamente denominato il provvedimento “bloccacentrali”. In realtà esso prescinde, forse troppo semplicisticamente, dalla attività di
mitigazione, compensazione e comunicazione nei riguardi delle comunità locali
coinvolte, di cui diremo successivamente.
Ha invece dimensione strutturale il disegno di legge Marzano AC 3297, di
complessivo riordino e riforma del settore energetico, che prevede un rafforzamento
della produzione elettrica nazionale, e che dovrebbe essere in grado di incrementare di
almeno 8-10.000 MW il parco di generazione nazionale entro tre o quattro anni. Tra le
molte disposizioni esso contiene infatti anche misure per l’incentivazione di nuovi
investimenti in infrastrutture, e per la semplificazione delle procedure di autorizzazione
degli impianti. Inoltre, è stato introdotto un emendamento che prevede una
compensazione di 0,2 euro a megawattora per sei anni a favore dei Comuni che
accettano sul proprio territorio le nuove centrali elettriche, e di 0,1 euro per i Comuni
che ospitano le centrali esistenti. Tuttavia il d.d.l., presentato alla Camera dei deputati il
22 ottobre 2002, attraversa un iter parlamentare piuttosto complesso.
18
Autorità per l’energia, Relazione annuale, cit, p. 11
12
Ma i problemi non sono soltanto a livello centrale, ma anche, e forse ancor più, come
ora vedremo, a livello locale.
3. La “sindrome NIMBY”, e la sua cura
L’opposizione alla localizzazione di centrali elettriche da parte delle comunità
locali è ormai generalizzata. Considerare tale opposizione come un ingiustificato atto di
egoismo è irrealistico e, soprattutto, dannoso per la ricerca di soluzioni efficaci. Il
problema è generale: esiste infatti un’ampia categoria di impianti il cui prodotto è
necessario a livello nazionale, ma che possono invece concentrare effetti esterni
negativi, veri o presunti (sopratutto ambientali), sulla comunità locale nella cui area tali
impianti vengono localizzati. Si manifesta, dunque, una distribuzione asimmetrica di
costi (concentrati localmente) e di benefici (a vantaggio di aree vaste), e quindi un
conflitto di interesse tra comunità nazionale e locale. Oltre alle centrali per la
produzione di energia elettrica, tali conflitti riguardano impianti per il trattamento dei
rifiuti, discariche, aeroporti (si pensi al caso Malpensa), dighe, stabilimenti chimici, ecc.
Data la diffusione del fenomeno, nella letteratura tecnica internazionale si discute di
impianti-NIMBY (not-in-my-backyard, non nel mio cortile): impianti, cioè, la cui
accettazione è condizionata ad una localizzazione distante. La “sindrome NIMBY” è
talmente diffusa da aver dato luogo a numerose variazioni che, se il tema non fosse
serio, potrebbero considerarsi in qualche misura spassose; ad esempio NIMTOO, not in
my term of office, non durante il mio mandato, per i politici, e, per i sostenitori dello
sviluppo zero, CAVE, citizens against virtually everything (cittadini virtualmente contro
ogni cosa).
Per concordare la localizzazione di una centrale elettrica, occorre dunque trovare
strumenti atti a rendere interni all’area locale una parte dei benefici di area va sta e/o per
ridurre i costi locali. Data la diffusione della sindrome NIMBY, questi strumenti sono
ormai ben noti. La valutazione d’impatto ambientale, anzitutto, è lo strumento per
precisare i reali effetti ambientali dell’impianto. Tale valutazione deve essere discussa,
unitamente ad un’analisi costi-benefici, con la comunità locale, per dimostrare
l’accettabilità dell’impatto ambientale. Ad esempio, nel caso di centrali a ciclo
combinato, tale impatto sembra essere generalmente accettabile. Infatti anche in in un
recente Rapporto del WWF si legge: “il metano rappresenta un metodo efficiente per
13
economizzare l’energia dei combustibili fossili nella fase di passaggio verso le energie
rinnovabili”. E il premio Nobel Carlo Rubbia: “Esistono oggi tecnologie ben provate e
rispettose dell’ambiente, come ad esempio i cicli combinati che accoppiano un’alta
efficienza a tempi tecnici di realizzazione molto brevi, ad esempio dell’ordine di due o
tre anni”.
Per rendere l’impatto ambientale accettabile localmente, sono utili anche misure
di mitigazione, volte a ridurre tale impatto con l’adozione di opportune tecnologie.
Inoltre, la parziale internalizzazione in ambito locale dei benefici di area vasta generati
da una centrale, si può realizzare mediante diverse forme di compensazione. Il metodo
più diretto é quello del pagamento di somme in moneta, come previsto ad esempio in
forma automatica dal d.d.l. Marzano (vedi sopra). I trasferimenti monetari presentano il
vantaggio di consentire alla comunità locale la massima flessibilità di destinazione:
sussidi diretti ai cittadini, o alle fasce deboli, investimenti, ecc. Lo svantaggio può
essere di natura psicologica: la compensazione puramente monetaria può essere
considerata, a torto, una forma di corruzione; essa deve dunque essere accompagnata da
un’adeguata opera esplicativa. Altre forme di compensazione si possono realizzare
mediante l’utilizzo del calore della centrale per il settore produttivo (serre, ad esempio)
e per il riscaldamento domestico (teleriscaldamento) a prezzi contenuti, oppure per
incentivi diretti o indiretti alla realizzazione di zone ecologicamente pregiate, o di
impianti produttivi a basso impatto ambientale atti a sostenere il livello di benessere e
del reddito locale. Tra gli incentivi indiretti vi è, in particolare, la possibilità di fornire
localmente l’energia elettrica a prezzi particolarmente favorevoli, prevista anche
dall’art. 4 del d.d.l. AC 3297 “Marzano” di riordino del settore energetico.
Per concludere su questo punto, descriviamo sinteticamente un metodo, forse
non realistico, ma concettualmente interessante, recentemente proposto per determinare
la compensazione efficiente atta a favorire l’accettazione locale della localizzazione di
un impianto soggetto al NIMBY, supponiamo appunto una centrale elettrica. Punto di
partenza obbligato è quello già menzionato: redazione di complete e obiettive analisi
costi benefici e valutazioni di impatto ambientale da discutere in modo esaustivo e
convincente con le comunità locali residenti nei siti alternativi ritenuti idonei. Su questa
base, occorre poi invitare i Comuni coinvolti a partecipare ad un’asta a busta chiusa –
considerata dai proponenti “una transazione veloce e onesta” rispetto alle normali
14
procedure non formalizzate di transazione politica -, contenente la richiesta della somma
che ciascuno di essi stima necessaria quale compensazione per accogliere l’impianto
sgradito. Esso verrà localizzato nel Comune la cui richiesta di indennizzo è più bassa. Si
pone però un problema: i Comuni avversi alla centrale, ricorrerebbero ad un
comportamento strategico, richiedendo somme proibitive. Ma c’é un rimedio
ingegnoso: ognuno dei Comuni non prescelti dovrà pagare una somma proporzionale
alla propria richiesta di compensazione. Si crea così un disincentivo alle pretese
eccessive. Inoltre, con una semplice formula si può far sì che queste somme coprano il
pagamento alla località che accoglie l’impianto. Così ottiene così il duplice obiettivo di
finanziare l’asta, e di scoraggiare i comportamenti strategici19 .
La gestione tecnica delle misure di mitigazione e di compensazione é senza
dubbio importante, ma gli studi sul NIMBY sottolineano in particolare la rilevanza degli
aspetti politici: buone relazioni con le comunità ospiti, coinvolgimento degli
stakeholders - i rappresentanti degli interessi locali - e dei cittadini, anche attraverso a
hearings. Questa situazione è stata così sintetizzata: “Conflitti di interesse a carattere
territoriale fra autorità di livello superiore, a tutela di interessi vasti, ma spesso
insensibili alle necessità locali, e di livello inferiore a tutela di interessi locali, spesso
egoistici od interessati ad “alzare la posta”, sono la regola nei processi decisionali
pubblici. Essi chiamano a nuove modalità di impostazione e risoluzione dei conflitti
stessi, basate su:
-
comunicazione: una partecipazione più estesa ed informata da parte dei cittadini;
-
ascolto: una maggiore attenzione alle esigenze delle comunità;
-
professionalità: metodologie di valutazione più solide e trasparenti;
-
trasparenza: un miglioramento delle tecniche di compensazione finanziaria;
-
universalità: prevalenza di ultima istanza degli interessi generali”. 20
Le conseguenze negative della mancata osservanza di queste regole sono state
rese evidenti, nel dicembre 2003, dall’episodio della tentata localizzazione a Scanzano
Jonico di un deposito nazionale di scorie nucleari: la popolazione si è rivoltata per la
mancata realizzazione delle politiche accennate: infatti è mancata la comunicazione
19
Cfr. Euston Quah, K. C. Tan, Siting Environmentally Unwanted Facilities – Risks, Trade-Offs and
Choices, Elgar, Cheltenham, 2002
20
Roberto Camagni, La crescita degli egoismi locali nelle decisioni sulla collocazione di grandi
infrastrutture territoriali (sindrome Nimby) richiede una sussidiarietà responsabile, Relazione alla II
Conferenza nazionale del territorio, Caserta, 2003
15
sulla valutazione di impatto ambientale, non sono state chiarite le misure di mitigazione,
né è stata impostata una credibile strategia di compensazione per una località
considerato un polo turistico, e quindi legato ad elementi anche simbolici di prestigio
ambientale, evidentemente messi a rischio dalla localizzazione prevista. Tenendo
presente questo istruttivo esempio, risulta palese la necessità di utilizzare con molta
cautela la norma (contenuta nella legge di conversione del decreto anti-blackout
menzionato sopra) che semplifica le procedure per la localizzazione degli impianti,
affidando l’autorizzazione alla Conferenza Stato-Regioni, nei cui confronti gli enti
locali non potranno più opporsi. L’esperienza di Scanzano - e di altri casi meno
“teatrali”, ma altrettanto efficaci – insegna che togliere all’ente locale, che riceverebbe
la localizzazione, la formale possibilità di opposizione, se non si ha cura di propiziare
una accettazione sostanziale da parte dei cittadini è come togliere il tappo ad una
bottiglia di champagne maldestramente agitata: il contenuto prorompe anche se il collo
del recipiente è stretto.
Per contribuire alla soluzione di questi problemi, un’utile contributo potrebbe
essere offerto dall’Osservatorio per l’energia proposto dal ministero delle Attività
produttive. Questi dovrebbero essere i dell’Osservatorio: anzitutto l’informazione. E’
necessario un “catasto” delle misure di compensazione già assegnate ai Comuni che
hanno accolto centrali in Italia ed in Europa (il mercato dell’elettricità è internazionale).
Ciò consentirà a enti locali e imprese elettriche di fare riferimento a dati reali per
trattare. In secondo luogo, si utilizzerà questa base informativa per stimare, se possibile,
un prezzo medio indicativo pagato ai Comuni per megawatt installato, traducendo in
moneta anche le compensazioni fisiche. L’Osservatorio potrebbe realizzare anche, in
accordo con l’Associazione dei Comuni, una Commissione di esperti indipendenti, che
fornirebbero proposte di soluzioni pro veritate riferite a singoli progetti di centrale, in
modo da attenuare, fornendo una base negoziale obiettiva, la contrapposizione tra
ecologisti e produttori. Deve trattarsi di attività non coercitiva, da “buon padre di
famiglia”, assunta dal Governo centrale, per facilitare a quelli locali e ai produttori il
raggiungimento di un compromesso indipendente, in contesti spesso surriscaldati per
mancanza di riferimenti concreti.
4. Conclusione: i primi passi dopo le sconfitte del sistema elettrico
16
Il fatidico albero svizzero all’origine del blackout di fine settembre 2003, se cadesse
oggi su una linea di trasmissione quasi certamente non provocherebbe lo sconquasso di
quel giorno. Infatti, dopo l’amara esperienza dei blackout, il Gestore della rete ha deciso
di “sgombrare” alcune linee di interconnessione internazionale dall’import dedicato ai
contratti “interrompibili” dei grandi consumatori, per riservare tali linee come “corsie di
emergenza”. Inoltre, la Borsa elettrica funzionerà dall’8 gennaio 2004 in forma
sperimentale, diventando completamente operativa dalla primavera. Si introduce così
un’utile strumento di flessibilità e per accertare la “verità dei prezzi”, che dovrebbero
diminuire grazie all’efficienza del mercato, ma al tempo stesso reagire con un aumento
nelle fasi di pronunciato aumento della domanda, trasmettendo così un impulso al
risparmio energetico, e perciò riducendo il rischio blackout (anche se, come si è visto
sopra nel caso del blackout scandinavo (nota 12), la borsa non è sufficiente ad evitare
questo tipo di incidenti). Con l’occasione, inoltre, il Grtn ha modificato la disciplina dei
rapporti contrattuali per garantire il servizio elettrico in regime di sicurezza. Si tratta di
low cost improvements, strumenti tattici certamente utili, ma insufficienti ad affrontare
le carenze di base del sistema elettrico.
Abbiamo infatti argomentato che occorre curare le cause strutturali, con
particolare riferimento ad un ampliamento dell’offerta, sulla cui necessità concorda
anche l’Autorità per l’energia elettrica, che ad esempio, con specifico riferimento al
blackout del 26 giugno osserva che esso “va attribuito a cause strutturali (quali
l’insufficiente capacità di generazione, l’elevato grado di dipendenza del sistema
elettrico nazionale dalle importazioni di energia elettrica e la riduzione, tipica del
periodo estivo, della capacità di interconnessione disponibile) a cui si sono aggiunti
eventi congiunturali” 21 . In proposito abbiamo osservato che per costruire nuove centrali
non bastano le disponibilità finanziarie e le tecnologie appropriate. Occorre anche saper
curare un malessere sociale: la “sindrome Nimby”, per la quale è necessario utilizzare
gli strumenti della valutazione di impatto ambientale e dell’analisi costi-benefici, da
adottare per una corretta informazione-discussione con l’opinione pubblica, unitamente
agli strumenti della mitigazione dell’impatto ambientale, e della compensazione
economica (vedi sopra § 3).
21
Autorità per l’energia elettrica e il gas, Relazione finale dell’istruttoria conoscitiva avviata sulle
interruzioni del servizio elettrico dello scorso 26 giugno 2003, dicembre 2003, www.autorita.energia.it
17
Allargando l’orizzonte dell’analisi, si è giustamente osservato - in particolare da
parte dell’Autorità per l’energia - che la riforma elettrica ha lasciato irrisolta la
questione centrale del passaggio dal monopolio dell’Enel alla concorrenza. Oggi non
esiste un quadro di riferimento programmatorio di un settore il quale, per la sua
caratteristica, necessita tempi lunghi di sviluppo che – come ha osservato anche
l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - non possono essere
affidati totalmente al più breve orizzonte temporale dei privati. Ricordiamo soltanto che,
anche secondo osservatori non allarmisti22 , il petrolio sarà fisicamente scarso attorno al
2050: un orizzonte ormai vicino, che occorre affrontare anche con decisioni pubbliche
di eventuali incentivi temporanei allo sviluppo di fonti alternative, o, se necessario, di
razionamento della domanda che risultasse eccessiva rispetto alle ridotte disponibilità.
Tuttavia, manca per ora un sufficiente coordinamento delle decisioni assunte dalla
molteplicità dei soggetti che operano nel sistema elettrico, anche se occorre dare atto al
Governo di avere temporaneamente avviato tale politica, anzitutto con l’istituzione di un
“tavolo di coordinamento” attivato dopo le interruzioni del servizio elettrico.
Rilevante per incentivare la riduzione del al gap strutturale di offerta di
elettricità, potrebbe risultare anche il capacity payment, la disciplina della
remunerazione della capacità di produzione. Inizialmente previsto nel citato ddl
Marzano, sotto la spinta dei ripetuti blackout, questo istituto è stato inserito nel
provvedimento n. 290/2003 di conversione del decreto- legge anti-blackout, sotto forma
di legge delegante a sottoporre entro due mesi al Parlamento un decreto legislativo. Il
capacity payment è un sistema di sussidi ai produttori di energia, volto a garantire un
adeguato margine di riserva al Paese. Esso quantifica il finanziamento che lo Stato
potrebbe elargire ai produttori in relazione alla potenza degli impianti disponibili, sulla
base dei costi fissi; tale pagamento verrebbe considerato separatamente dal corrispettivo
per l’energia prodotta, parametrato essenzialmente sui costi variabili. Si estenderebbe
così, in aumento, il pagamento già oggi corrisposto ai produttori per il mantenimento
della capacità di riserva, che tuttavia non ha evitato il blackout del 28 settembre.
Il capacity payment può venir strutturato in due modalità alternative. Infatti, per
garantire una certa quantità di prodotto – nel caso nostro una adeguata capacità di
produzione di energia -, o si prefissa tale quantità, lasciando al mercato la
22
Cfr. ad es. Ferdinando Amman, The Energy System Evolution and the Possibile Contribution of
Research, in: Accademia dei Lincei, Energia e ambiente, Roma, 2000, spec. pp. 220-23
18
determinazione del prezzo richiesto per remunerarla, o, in alternativa, si fissa un prezzo
atto a garantire la convenienza a produrre la quantità che si vuole garantire. Le due
maggiori esperienze straniere disponibili si ispirano appunto ad una delle due alternative
teoriche disponibili:
-
il sistema applicato in Spagna prevede un obbligo di prezzo. Tradotto “in
italiano”, tale sistema affiderebbe al Gestore della rete, assistito dall’Autorità per
l’energia, il compito di individuare – con opportuna base di modelli previsiona li
- il prezzo amministrato della capacità desiderata per un periodo pluriennale. Il
Gestore acquisterebbe poi la capacità dai produttori, ed a questo scopo si
finanzierebbe con una tariffa pagata dai consumatori finali;
-
negli Stati Uniti si prevede invece un obbligo di quantità. Applicando questo
metodo al caso italiano, il Gestore acquisterebbe la capacità programmata dai
produttori mediante un’asta, realizzata per conto di chi compera tale capacità
all’ingrosso. Il costo di acquisto verrebbe poi traslato sugli acquirenti di tale
capacità. Attualmente negli USA si suggerisce l’introduzione di contratti di
acquisto pluriennali, e aventi ad oggetto anche capacità di cui si prevede
l’entrata in esercizio a breve termine 23 .
Si tratta di schemi interessanti, che occorre anzitutto considerare con il necessario
coraggio di ogni politica basata su inevitabilmente fallibili previsioni future. Ma proprio
perché, come insegnava Groucho Marx, “è difficile azzeccare previsioni, soprattutto se
si pretende di indovinare il futuro”, occorre garantire al consumatore italiano almeno un
trattamento corretto e trasparente. Ciò tenendo conto che egli è già gravato, in aggiunti
ai costi specifici di produzione, da quelli derivanti dalla chiusura degli impianti nucleari,
e da quelli per prevenire i rischi di blackout. Riguardo a questi ultimi occorre chiarire il
legittimo sospetto che essi siano stati intascati dai produttori senza corrispettivo
servizio, visto il grave episodio del 28 settembre. In proposito (come richiamato sopra)
a quanto ci risulta esiste soltanto una affermazione di parte, quella del Gestore, secondo
cui se gli svizzeri avessero svolto correttamente il proprio compito di tempestivo
avvertimento dell’incidente, la capacità di riserva sarebbe stata disponibile (nota 3).
Francamente, troppo poco, vista anche la durata del blackout. Ci si attende, dunque, una
valutazione super partes, prima di gravare l’utente finale del finanziamento di nuovi, e
23
Cfr. Hamish Fraser e Francesco Lo Passo, op cit. in loc. cit., inoltre: Due proposte per introdurre in
Italia il capacity payment, “Staffetta quotidiana”, 28 novembre 2003
19
probabilmente gravosi sussidi. Si dovrà comunque tenere presente l’esperienza della
California, che applica la clausola No-Pay, per rescindere i pagamenti ai produttori,
quando tali pagamenti non ottengano l’effetto desiderato.
Per concludere su questo punto, osserviamo che le numerose domande
presentate per la realizzazioni di nuove centrali, e le concrete iniziative sul territorio da
parte di imprese che intendono realizzare centrali elettriche, stanno a testimoniare che,
ai prezzi attuali dell’elettricità, non sembra esservi una urgente necessità di incentivi da
trasferire al settore industriale a carico della collettività. Infatti al luglio 2003 erano in
attesa di autorizzazione presso il ministero delle Attività produttive ben 73 progetti di
impianti di centrali ad alta efficienza e basso inquinamento, per un totale di 39.494 MW
(in testa la Lombardia con richieste per 5.830 MW, seguita dal Lazio con per 5.596 MW
e dal Piemonte con 4.620 MW). Sarebbe sufficiente realizzare la metà di queste
richieste per allontanare il rischio blackout e fare scendere a livello europeo il nostro
prezzo del kilowattora. Dunque i problemi riguardano soprattutto le politiche e gli
strumenti per rendere interni alle collettività locali candidate alla localizzazione degli
impianti, una parte dei benefici sociali derivanti alla nazione da tali nuove
localizzazioni, in modo da renderle accette alle collettività direttamente coinvolte (vedi
sopra § 3).
Ci attendiamo perciò che la strada intrapresa non significhi spremere con
urgenza l’utente del servizio elettrico, ma delinei uno strumento da tenere in riserva per
rispondere responsabilmente e al minimo costo sociale, anche da parte del sistema
produttivo, all’ammonimento del già citato Clò (§ 1), quando, senza auspicare ulteriori
incentivi finanziari, puntualizzava il fatto che l’interesse primario del Paese – troppo
spesso violato recentemente - “è quello di disporre, sempre e comunque, di una piena
continuità delle forniture elettriche. Se non sapremo ricreare questa convergenza di
interessi, attraverso una più puntuale definizione degli obblighi di servizio pubblico che
gravano sulle imprese, e attraverso una più adeguata regolazione, la situazione non potrà
che restare critica se non peggiorare. Come, malauguratamente, accaduto tra il 26
giugno, quando si ebbero i primi segni premonitori dell’attuale crisi, e il 28 settembre
2003. Una data che il Paese non dimenticherà facilmente. E che, forse, è opportuno che
non dimentichi affatto”24 .
24
In loc. cit.
20