I segni e la storia : modelli tacitiani nella Storia d`Italia del

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I segni e la storia : modelli tacitiani nella Storia d`Italia del
INTRODUZIONE
Ipse historiae parens Guichardinus, riconobbe Bodin 1 con un’espressione
di tale fortuna da essere riutilizzata in epigrafe ancora nel secolo scorso
da un lettore del livello del De Caprariis 2; tuttavia, se l’impatto avuto dalla Storia d’Italia sul percorso evolutivo della storiografia occidentale fu
così incisivo da far postulare un nuovo inizio, una rivoluzione di impostazione, nondimeno Guicciardini si inserisce, se non come figlio certo come attento lettore, nel grande alveo della tradizione, prima classica e poi
umanistica 3.
La Storia d’Italia, prima opera storiografica del Guicciardini concepita per la pubblicazione, è infatti decisamente impostata sul principio ciceroniano dell’opus oratorium maxime e sulle sue esigenze di decorum riflesse nel profilo classicheggiante costituito dall’attenzione agli eventi militari, la scansione annalistica, il largo impiego di orazioni, suggerendo
così un impianto tipicamente, ma anche genericamente, liviano 4. Al con1
In realtà la vera formula è sed ex ipso historiae parente Guicciardino (Bodin, p.
72).
2
De Caprariis 1950, p. 87.
Sebbene distante dalla figura dell’intellettuale rinascimentale di estesissime letture greche e latine e costretto alla scrittura nelle pause concessegli, o impostegli, dalle
sue funzioni, Guicciardini era provvisto, oltre ai presto dimenticati rudimenti della lingua greca («ed oltre alle lettere latine imparai qualche cosa di greco, che poi in spazio
di qualche anno, per avere altro esercizio, dimenticai», Ricordanze, pp. 53-54), della solida cultura latina propria del suo ceto, tanto che si cimentò anche in epistole umanistiche e versi latini (cfr. Ridolfi 1960, p. 9). Al contrario, sulla complessa relazione con la
storiografia fiorentina in volgare, cfr. Phillips 1984b.
4
La teorizzazione umanistica si era condensata nell’Actius del Pontano (p. 193:
Eam [i.e. historiam] maiores nostri quandam quasi solutam poeticam putavere, recteque
ipsi quidem; pleraque enim habent inter se communia: ut rerum vetustarum ac remotarum
3
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INTRODUZIONE
trario, da un punto di vista ideologico e culturale, grazie anche alle esplicite menzioni di Guicciardini stesso nei Ricordi, sono state avvertite dai
lettori piuttosto affinità ideologiche, politiche, esistenziali, spesso persino
umorali con il pensiero di Tacito.
Se rade e incerte tracce lasciò Tacito nel Medioevo, la sua diffusione
fu limitata e travagliata fino a tutto l’Umanesimo, per quanto il manoscritto Mediceo II (l’attuale Laurenziano 68, 2, includente ann. XI-XVI e le
Historiae) 5 fosse riaffiorato presumibilmente già nel 1362 a Montecassino;
che la sua diffusione a Firenze si debba a Zanobi da Strada (come sostiene
Billanovich 6) o direttamente a Boccaccio (come ritengono Mendell 7 e
Schellhase 8), certo è che Tacito fu utilizzato per i suoi materiali nel De claris mulieribus del 1362, nelle Genealogiae deorum e, esplicitamente, nel
Commento sopra la Commedia, entrambi del 1373 9. Fino all’acquisto del
Mediceo II da parte di Niccolò Niccoli nel 1427, Tacito ricorre tuttavia
solo nelle opere di Benvenuto da Imola (nel commento sulle figure dantesche di Cleopatra e Seneca), Domenico Bandino di Arezzo (nei ritratti di
Agrippina, Messalina, Poppea e Venere contenuti nel suo Fons memorabilium universi, in cui compare anche un elogio di Tacito come scrittore),
Coluccio Salutati (in una lettera del 1395 al Bessarione, con espressioni peraltro limitative nei confronti delle qualità storiche e letterarie di Tacito) 10.
repetitiones, ut locorum, populorum, nationum, gentium descriptiones, quin etiam illorum situs, mores, leges, consuetudines, ut vitiorum insectationes, virtutum ac benefactorum laudes; utraque enim demonstrativo versatur in genere, nec minus etiam in deliberativo, quod ipsum conciones indicant ac consilia, quibus tum poetica tum historia maxime
ornatur gloriaturque ex iis locupletiorem sese bonis ab auctoribus redditam) e nei Rhetoricorum libri V del Trapezunzio (c. 82v: Cum historia sit rerum gestarum diligens expositio, qui historiam scribit, primum dabit operam, ut rerum et temporum ordinem servet,
quod erit si in rebus magnis memoratu dignis, consilia primum, deinde acta, post eventus
exequatur, hisque omnibus addet, quod cuiquam proprium est. De consiliis quid probet,
quid improbet significabit. In rebus gestis non solum quid actum, aut dictum sit, sed etiam
quomodo, et cur demonstrabit. Eventus ita declarabit, ut causae explicentur omnes vel casus, vel sapientiae, vel temeritatis. Hominum quoque ipsorum non tantum res gestas, sed
etiam qua fama ac nomine excellant, qua vita atque natura sint, breviter ostendet. Quod
non ubique, neque de omnibus faciet, sed cum de singularibus atque illustribus viris sermo
habetur). Sulle teorizzazioni umanistiche sulla storiografia si vedano almeno Cotroneo
1971; Regoliosi 1991; Monti Sabia 1992; Vasoli 1992.
5
Sulla situazione dei manoscritti si veda Tarrant 1990. Sulla marginalità del manoscritto L, si vedano Goodyear 1965 e Goodyear 1970a, che contestano Mendell 1957,
p. 328.
6
Billanovich 1953, pp. 30-33.
7
Mendell 1957, p. 237.
8
Schellhase 1976, p. 5.
9
Schellhase 1976, pp. 4-7.
10
Schellhase 1976, pp. 8, 19-21. Si veda anche Mendell 1957, pp. 225-238, 240241.
INTRODUZIONE
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Fu però con la Laudatio di Leonardo Bruni che si ebbe per la prima volta
un uso politico dello storico latino, in particolare per il tema della degenerazione dei valori civili e culturali causata dalla tirannide 11. Allorquando
nel 1441 il Mediceo II, insieme agli altri manoscritti di Niccolò Niccoli,
confluì nella neonata biblioteca pubblica di San Marco, persino più limitato ne rimase l’uso, comunque confinato alla dimensione documentaria o
linguistica: l’Alberti se ne avvalse nel De architectura, Biondo nei suoi trattati eruditi, Sicco Polenton nei suoi Scriptores illustres linguae latinae per la
biografia di Seneca. Né giovarono alla diffusione di Tacito le Elegantiae
linguae latinae del Valla, di osservanza ciceroniana per quanto incrinata
dal ricorso a esempi tratti dagli stessi Annales e Historiae nelle Recriminationes in Facium.
Anche la teorizzazione umanistica relegò Tacito a un ruolo di secondo piano, ben dietro la salda diarchia Livio-Sallustio sancita già da Quintiliano, De institutione oratoria 1, 31 e cristallizzata da Pontano 12 e Trapezunzio; il primo, infatti, asserisce l’eccellenza dei due nei rispettivi generi storiografici e stili:
Licet autem in Livio Sallustioque, historiae Romanae principibus, diversa splendescant claritate quae historia digna sunt lumina dicendique in
altero maiestas heroica pene quaedam emineat atque uterque fuerit poeticae admodum studiosus … tamen Livius in plurimis oratori similior est,
Sallustius vero historicis tantum legibus ubique videtur addictus.
Nam quanquam et Tacitus et Curtius abunde sunt laudibus ac virtutibus
ornati suis, laus tamen omnis Latinae historiae penes duos putatur existere diversoque in dicendi genere, Livium ac Sallustium. 13
Parimenti Trapezunzio pone Livio e Sallustio come imprescindibili modelli, il primo per opere di ampio respiro e il secondo per le monografie:
demum Sallustii et T. Livii, quos his diebus in historia solum imitandos
censeo, … T. Livium ergo historico per omnia imitandum putamus, nisi
quis carptim historiam conscribit; nam tum et ad demonstrationem declinabit, et ab effusa Sallustii copia nonnihil poterit assumere. 14
Similmente il Panormita, pur allargando lo spettro dei modelli, pone con
chiarezza la distanza tra Tacito e quelli che erano percepiti come i massimi rappresentanti della storiografia latina:
11
«To be sure, Tacitus had been used extensively for his theses as well as his information since the time of Bruni and Poggio», cfr. Cochrane 1981, p. 257.
12
Eppure Pontano ben conosceva Tacito, cfr. Ullman 1959.
13
Actius, pp. 194-195, 231.
14
Rhetoricorum, cc. 83r e 84r.
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Nam etsi Livio, Sallustio, Caesari, summis illis viris, magnum ac praelustre sit in historia nomen, non propterea Tacitus, Curtius, Svetonius, mediocres viri, suo honore precioque fraudantur, quin immo ipsis humilibus
ac propre infimis suo est et laus et adfectio. 15
Allo stesso modo nell’ultimo decennio del XV secolo il Calco, allorquando nella prefazione ai suoi Rerum patriae seu Mediolanensis historiae libri
XX ab origine urbis ad a. 1313 introduce Tacito in un lungo e disordinato
elenco di fonti classiche colpevolmente trascurate dal Merula, ne limita
l’uso a fonte documentaria.
Profecto pauciora quam debuit, et ex professione eius sperabatur praeceptor noster transtulit ex Tito Livio, Strabone, Ptolomaeo, Plutarcho, Suetonio, Dione, Eusebio, Claudiano, Paulo Diacono. Praeterea excerpere
aliquid potuisset ex M. Tullij Ciceronis orationibus, Asconio Pediano,
Valerio Maximo, Appiano Alexandrino, Cornelio Tacito, Ammiano Marcellino, Julio Frontino, Suida, quos intactos penitus reliquit. 16
Il numero stesso delle edizioni rivela una diffusione relativamente limitata; alla princeps veneziana del 1470 ‘per Vindelinum de Spira’ (includente
ann. XI-XVI, hist. I-V, Germania, Dialogus de oratoribus), seguirono in
Italia nel 1475-1480 l’edizione milanese di Francesco Puteolano (che aggiungeva l’Agricola) per lo Zarotto, poi ristampata nel 1497 a Venezia 17
per Filippo Pinzi, e quella veneziana del Rivius nel 1512. Una nuova stagione si aprì solo quando il Mediceo I (futuro Laurenziano 68, 1), contenente i primi sei libri 18 degli Annales, fu sottratto a Corvey da Angelo
Arcimbaldo e portato a Roma nel 1508 (o 1509), dove venne affidato da
Leone X a Filippo Beroaldo il Giovane 19 che ne curò l’edizione del 1515
per i torchi di Stefano Guilleret; a questa seguirono in breve tempo l’edizione milanese dell’Alciato nel 1517, una giuntina del 1527, una degli eredi di Aldo Manuzio nel 1534 e una di nuovo dell’Alciato nel 1535 20.
15
Panormita, pp. 66-67.
Calco, Praefatio, [p. 4].
17
Incerte tracce si hanno anche di un’ulteriore edizione veneziana nel 1494, cfr.
Ruysschart 1949, p. 24.
18
Si approfitta per ricordare che sarà solo con Giusto Lipsio nel 1574 che si arriverà alla distinzione tra Annales e Historiae (mentre precedentemente la numerazione,
sulla scorta del Mediceo II, era progressiva e per lo più sotto il titolo complessivo Ab
excessu divi Augusti) e al riconoscimento dell’esistenza del frammento di ann. 5; cfr.
Mendell 1957, pp. 345-348.
19
Cfr. Sabbadini 1905, p. 164; Mendell 1957, pp. 239-255; Reynolds - Wilson
1987, p. 145; Schellhase 1976, p. 12.
20
A queste si debbono aggiungere l’edizione del 1519 del Frobenius a Basilea e,
sempre a Basilea, l’edizione rivoluzionaria di Beatus Rhenanus del 1533. Per la storia
delle edizioni si vedano Ruysschart 1949, Valenti 1951 e Mendell 1957, pp. 349-374. Si
16
INTRODUZIONE
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Soprattutto, però, furono gli stravolgimenti politici successivi alla discesa di Carlo VIII a portare nuova rilevanza alle opere tacitiane e ad avviarne quella lettura politica che costituì parte primaria della cultura del
tardo Cinquecento e del Seicento. Se, per Machiavelli, ancora sporadiche
sono le presenze di Tacito nel Principe (ad esempio ann. XIII 19, 1 e hist.
III 86, 5), ben diversi si prospettano i Discorsi (ann. III 55, 5; ann. XV
68, 3; hist. II 86, 1; hist. IV 3, 2 e hist. IV 8, 2) di cui molti passi denunciano una marcata lettura ideologica 21, così come si ha una progressiva
assimilazione della storiografia tacitiana nella riflessione del Guicciardini.
Per quanto più che incerta resti l’identificazione dell’edizione usata da
Guicciardini, probabilmente la prima conoscenza che questi ebbe dell’opera di Tacito risale all’edizione da parte di Filippo Beroaldo il Giovane nel 1515 22, in cui comparivano anche i primi sei libri degli Annales, ai
quali è da restringere l’asserzione che figura nelle Cose fiorentine che Tacito venne alla luce «non molti anni sono» 23, probabilmente influenzata
dall’indicazione noviter inventi del frontespizio dell’edizione di Beroaldo.
Schellhase insiste, invece, sull’influenza su Guicciardini delle Annotationes in Tacitum dell’Alciato, sia per la sua identificazione di Tacito come
«great teacher of ragion di stato», sia per la larga diffusione avuta dalla
sua edizione 24.
veda anche Burke 1966, a conferma che le edizioni europee di Tacito, pur rimanendo
ampiamente inferiori per numero a quelle delle monografie sallustiane, registrarono un
notevole incremento dal periodo 1450-1499 a quello 1500-1549.
21
Sebbene Schellhase riduca sostanzialmente la dimensione tacitiana delle Istorie
fiorentine, si vedano comunque Cabrini 1985, p. 302, nota 109 e Anselmi 1979, pp. 15
ss. In particolare il passo in cui viene menzionato Tacito, a proposito delle origini della
città, si trova in II 2, p. 68: «E quello vocabolo Fluentini conviene che sia corrotto, perché Frontino e Cornelio Tacito, che scrissono quasi che ne’ tempi di Plinio […]»; più
ampiamente al riguardo si vedano Sasso 1987, pp. 479-489, e l’approfondito Martelli
1998, in cui si rintracciano le presenze tacitiane implicite ed esplicite, rilevandone tuttavia i frequenti fraintendimenti, come già fece Schellhase 1976, pp. 67, 78-79. Peraltro
Tacito, inserito in un lungo elenco di letture storiche, era citato nella lettera del 23 novembre 1513 del Vettori a Machiavelli; nella celebre risposta del 10 dicembre 1513
questi, in serrata antifrasi, menzionerebbe invece ironicamente solo letture poetiche per
rintuzzare l’esibizionismo culturale dell’amico, cfr. Sasso 1980, p. 296.
22
L’edizione utilizzata da Guicciardini è riconosciuta in quella di Beroaldo ad
esempio da La Penna 1978, p. 233. È da segnalare, peraltro, che le varianti rispetto al
testo stabilito criticamente sono minime, riconducibili soprattutto, oltre che ovviamente alla punteggiatura e a varianti grafiche, a occasionali varianti sinonimiche. Alla luce
di ciò, si è scelto di citare direttamente dalle edizioni moderne; tuttavia nei casi, comunque assai rari, di sostanziale differenza, si indica anche la lezione dell’edizione di Beroaldo, assunta qui a parametro anche perché il testo non subì variazioni fino all’edizione di Beatus Rhenanus del 1533 (cfr. Goodyear 1972, p. 6), comunque successiva alle
prime attestazioni tacitiane in Guicciardini.
23
Cose fiorentine, p. 6.
24
Schellhase 1976, pp. 84 ss.
18
INTRODUZIONE
Guicciardini, di per sé, menziona Tacito tre volte nei Ricordi 25, una
volta nell’Oratio accusatoria sulle indicazioni lasciate da Augusto a Tiberio sulle persone di cui non si dovesse fidare 26 e due volte nelle Cose fiorentine sul tema dell’origine e del nome di Firenze 27, concedendogli dunque un rilievo come fonte davvero eccezionale all’interno della sua opera.
Proprio per Tacito, che pure tanto a fondo era stato meditato da Guicciardini, scarse sembrano essere invece le tracce di un influsso anche narrativo e formale; se però la dimensione concettuale di un’opera storiografica non prescinde dalla sua rappresentazione narrativa 28, che ne è anzi
parte costitutiva, allora è ipotizzabile che l’ombra tacitiana sia riconducibile anche a elementi formali identificabili. Posto dunque che, come osserva Biondi, all’interno della Storia d’Italia «all’articolatissima diegematica dei fatti si alterna, con discrezione, l’assiomatica delle sezioni valutative: nelle forme classiche della digressione, del ritratto, del discorso» 29,
sarà allora soprattutto in quest’ultime, depositarie dell’istanza meditativa
25
Ricordi C 13, C 18 e, poi escluso dalla stesura definitiva, B 101, tutti casi inoltre
che risalgono sostanzialmente immutati già alla redazione A, e quindi anteriori al 1525;
è dunque da correggere l’asserzione di Schellhase 1976 che individua in una lettera del
23 ottobre 1526 la prima attestazione esplicita della conoscenza di Tacito da parte di
Guicciardini. Condivisibili invece le sue obiezioni a Ridolfi 1960, p. 9, che aveva asserito che lo storico fiorentino avrebbe letto Tacito prima dei sedici anni, cfr. Schellhase
1976, p. 207, nota 97.
26
C 13 e l’Oratio accusatoria sono strettamente connessi; in C 13 si cela infatti una
défaillance mnemonica, poiché Guicciardini asserisce: «Chi vuole vedere quali sieno e
pensieri de’ tiranni legga Cornelio Tacito, quando referisce gli ultimi ragionamenti che
Augusto morendo ebbe con Tiberio» mentre Tacito non fa cenno ad alcuna conversazione tra i due imperatori (vixdum ingressus Illyricum Tiberius properis matris litteris accitur; neque satis conpertum est spirantem adhuc Augustum apud urbem Nolam an exanimem reppererit, sono le uniche parole di Tacito in ann.(a) I 5, 3), che invece ritorna in
Suet. Aug. 98, 5 e Tib. 21, 1; tuttavia proprio questo passo così contestabile è stato addotto da Varotti per mostrare quanto profonda fosse la riflessione del Guicciardini sul
testo tacitiano, tanto da avere contaminato il brano della morte di Tiberio con ann. I
13, in cui Augusto espone le sue opinioni su quali fossero tra la nobiltà i più pericolosi
oppositori (Varotti 1987, pp. 191 ss.). Poiché tale indicazione si ha già in Schellhase
1976, p. 206, nota 76, sorprende che questi non accolga invece il richiamo ad ann. I 13
proprio per l’Oratio accusatoria, in cui si asserisce esplicitamente che Augusto «lasciò
per ricordo a Tiberio, successore suo, chi erano quegli di chi non doveva fidarsi». Peraltro Goodyear 1972, p. 181, considera proprio i supremi sermones di ann. I 13 come
rivolti a Tiberio.
27
«Et nondimeno Cornelio Tacito, hystorico assai vicino a quella età, et Sexto
Frontino, dove accade loro fare menzione di Firenze […]», «Et Cornelio Tacito conferma el nome medesimo di Florentia» (Cose fiorentine, pp. 4 s.).
28
«For a historian, especially one as rigorously concerned with narrative as Guicciardini, narrative is itself a major form of explanation» (Phillips 1977, p. 121). Sulle
connessioni tra storiografia e racconto di finzione si veda anche Barthes 1988.
29
Biondi 1984, p. 1087.
INTRODUZIONE
19
di Guicciardini in uno stato anfibio in cui la classicità si innerva della
nuova elaborazione, da cercare l’emersione della memoria di Historiae e
Annales.
All’interno della tessitura dell’opera, Guicciardini si cimenta infatti in
un organico recupero di elementi tacitiani che ricorrono in alcuni gangli
referenziali, come il proemio, o strutturali, come in certe battaglie, assedi,
discorsi, che scandiscono l’evolversi degli eventi, oppure nelle descrizioni
di taluni protagonisti esemplari, o ancora in certe tecniche rappresentative e investigative di azioni e pensieri utilizzate per moltissimi personaggi.
Si tratta dunque di un sistema di modelli che attribuiscono all’opera guicciardiniana un’impronta tale da permettere al lettore contemporaneo di
riconoscere, anche inconsapevolmente, il timbro del grande precursore,
in un apporto di idee, umori, concezioni molteplice e multiforme, da un
immediato parallelismo intertestuale a una più occulta strategia elaborativa di elementi topici della storiografia classica.
Se infatti a Guicciardini, ormai interamente rivolto alla gloria letteraria, la forma classica si imponeva in ossequio ai parametri del genere
ormai consolidati e alle aspettative del pubblico 30, non siamo mai però di
fronte a una inerte trasposizione di frasi o espressioni rivolte al conseguimento di un puro decorum; assistiamo invece a un’operazione di estrema complessità letteraria per la quale si può parlare di «trascendenza testuale del testo» 31 così da permettere di riconoscere, tra le opere dello
storico latino da una parte e la Storia d’Italia dall’altra, una polarizzazione ipotesto-ipertesto 32; si verifica dunque un intenso dialogo tra Tacito e
Guicciardini, con quest’ultimo impegnato in una rilettura dell’opera del
grande storico e scrittore latino reinterpretato, se non nello stile, nella
partitura.
Si può dunque parlare di scelta letteraria da parte dello storico fiorentino nel senso che la Storia d’Italia vive, oltre che della propria originalità, anche della memoria del precursore, dei suoi espedienti, delle sue
strutture, delle sue immagini 33. Inoltre, a prescindere dalle categorie e
30
In tale ottica la selezione di «sentenze frasi modi vocaboli di Livio per ornarne
l’opera sua», cfr. Ridolfi 1960, p. 324.
31
«Il fatto è che i confini di un libro non sono mai netti né rigorosamente delimitati: al di là del titolo, delle prime righe e del punto finale, al di là della sua configurazione
interna e della forma che lo rende autonomo, esso si trova preso in un sistema di rimandi ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi: il nodo di un reticolo […] la sua unicità è relativa e variabile. Perde la sua evidenza non appena la si interroga; incomincia ad indicarsi e a costruirsi soltanto a partire da un campo complesso del discorso» (Foucault
1971, p. 31).
32
Naturalmente si fa riferimento per la terminologia alla capitale opera di Genette
1997.
33
Emanuella Scarano riconosce invece la letterarietà del genere storiografico nel
20
INTRODUZIONE
dalle forme imposte dal genere, quest’opera si svincola, forse anche più
di altre opere precedenti, dal puro genere storiografico, non solo perché
in quanto testo narrativo è per ciò stesso una fabula ficta, ma anche proprio perché ben viva agisce e opera in essa la consapevolezza dei legami e
degli influssi letterari che sottostanno all’elaborazione e alla riflessione
dell’autore; come infatti osserva Roberto Bigazzi nella Prefazione a I racconti di Clio, la letterarietà del testo storiografico possiede una dimensione sua propria che, pur senza raggiungere le radicalizzazioni proprie di
Hayden White 34, apporta un significato aggiuntivo articolandosi in vari
modelli narrativi contraddistinti da un proprio spessore culturale 35. Non
poteva infatti sfuggire a Guicciardini che il portato concettuale di un’opera storica non viene veicolato solo dalle sezioni più puramente ideologiche, ma che le stesse tecniche rappresentative arricchiscono, sia pure
in forma mediata, la costellazione di idee attive all’interno dell’opera 36.
L’opzione per moduli tacitiani, nel recupero di un filone storico diverso
da quello liviano allora certo maggioritario, comporta dunque un ulteriore addensamento di significati che costituiscono il risvolto più eminentemente ‘storiografico’ dell’opera. Gli elementi tacitiani divengono allora
per il lettore più accorto e consapevole una sequenza di indizi che permette di innestare nella riflessione sulla decadenza italiana l’elaborazione
tacitiana sulla degenerazione di Roma, cogliendone affinità e divergenze,
riconoscendone premesse e anticipazioni 37.
Naturalmente, il margine di contrattualizzazione autore-lettore è amplissimo, in quanto, se pure ogni testo è sempre e comunque ipertestuale,
in questo caso nessun elemento paratestuale favorisce il lettore nell’identificazione di tale relazione così che questi ne possa trarre qualche indizio
interpretativo. Lo storico nasconde infatti i suoi maestri; sta al lettore cersuo essere un «discorso regolato da specifiche convenzioni formali, codificate dall’uso e
ben riconoscibili nei testi» (Scarano 1990, p. 69). In tale prospettiva, la selezione di tali
elementi e modelli costituisce una chiara opzione letteraria.
34
White 1973.
35
Bigazzi 1989b.
36
All’interno della contrapposizione tra ‘racconto’ e ‘discorso’ nella storiografia
fiorentina, a proposito della propensione di Guicciardini per la tecnica rappresentativa Phillips 1986, p. 59, osserva: «Behind this narrative marked by unusual intricacy
and compression stands a reticent author. His judgments are expressed impersonally
in character studies, the artful juxtaposition of speeches, or the occasional flash of
aphorism».
37
Simile operazione riconosce Momigliano in Machiavelli: «Mostravano [le citazioni di Tacito in Machiavelli] che i libri di Tacito avevano senso solo se usati per spiegare
perché anche la Roma repubblicana – con tutta la sua capacità di trasformare lotte politiche in fonti di forza politica – cadde sotto il controllo dei monarchi […]» (Momigliano 1992, p. 125).
INTRODUZIONE
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care di individuare le reminiscenze suggerite dal brano e, risalendo all’ipotesto, delineare il processo ricostruttivo operante nella mente dell’autore, arricchendo quindi in questa maniera le proprie potenzialità di interpretazione sul singolo brano alla luce dell’archetipo ricostruito.
I
«IO HO DELIBERATO»
VALORE PROGRAMMATICO
E REFERENZIALE DEL PROEMIO
Nella tradizione classico-umanistica il proemio, come noto, era il luogo
deputato alla selezione dei modelli stilistici e metodologici; in ossequio a
tale paradigma la Storia d’Italia enuncia, attraverso un’articolata trama di
rimandi ai proemi dei grandi storici latini, lungo quali linee ispirative si
muoverà l’elaborazione dell’autore, permettendo di individuare tracce riconducibili ad almeno tre opere: il De coniuratione Catilinae e il De bello
Iugurthino di Sallustio e le Historiae di Tacito.
I proemi delle due operette sallustiane presentano infatti con quello
della Storia d’Italia, al di là della evidente differenza di stile, alcune analogie strutturali suffragate da riecheggiamenti tematici e spie semantiche.
In entrambe le monografie sallustiane è riconoscibile una scansione regolare, che al proemio vero e proprio 1 – incentrato sulle idee dell’autore
sulla storia, la società e la natura umana e sulla presentazione della propria figura 2 – giustappone il ‘prologo’ o presentazione del tema dell’opera; benché solo per quest’ultimo sia possibile un puntuale raffronto con
la Storia d’Italia, nel caso della De coniuratione Catilinae già la prima se1
Sullo slittamento dei confini posti dai vari lettori per le monografie di Sallustio si
veda Giancotti 1971, pp. 16 ss. e pp. 95 ss. Al contrario, se la Storia d’Italia appare fortemente scandita in capitoli, in realtà la suddivisione in capitoli e paragrafi (nonché l’apposizione dei comodi riassuntini introduttivi e una revisione della punteggiatura) dell’opera del Guicciardini fu eseguita dal Rosini nella sua fortunatissima edizione: Istoria
d’Italia di Messer Francesco Guicciardini, alla miglior lezione ridotta dal professor Giovanni Rosini, Pisa, presso Nicolò Capurro, co’ caratteri di F. Didot, 1819-1820, cfr. Luciani 1949, p. 19.
2
Giancotti 1971, p. 181 parla di ripartizione in «considerazioni filosofiche generiche (Catil. 1-2; Iug. 1-2), e considerazioni sul proprio tempo e sulla propria persona
(Catil. 3-4; Iug. 3-4)».
24
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
zione, impostata sul tema del collasso morale dei potenti e, nella instabilità delle cose umane, il passaggio del potere a nuove più salde mani, permette di cogliere alcune affinità con la Storia d’Italia che legittimano un
più puntuale riscontro 3.
Inoltre, dopo il tema delle inclinazioni della natura umana e dei meriti del servizio allo Stato e dell’impegno storiografico, nel terzo paragrafo
Sallustio ricorda la sua giovanile passione per la politica in una società in
cui impudenza, prodigalità e avidità erano prevalsi su modestia, temperanza e virtù (pro pudore, pro abstinentia, pro virtute audacia largitio avaritia, Catil. 3, 3), delineando un quadro in cui l’ormai vecchio diplomatico
con il suo bagaglio di esperienze e amarezze doveva riconoscersi 4. Il ricordo 17 («Non crediate a coloro che fanno professione d’avere lasciato
le faccende e le grandezze volontariamente e per amore della quiete, perché quasi sempre ne è stata cagione o leggerezza o necessità» 5), peraltro,
sembra entrare in indiretta polemica proprio con un passo di questa sezione, una coincidenza accentuata da un passo affine nel proemio del De
bello Iugurthino, smentito dal ritiro forzato di Sallustio dalla vita pubblica 6:
Igitur ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi relicuam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium
socordia atque desidia bonum otium conterere, neque vero agrum colundo aut venando, servilibus officis, intentum aetatem agere. 7
Atque ego credo fore qui, quia decrevi procul a re publica aetatem agere,
tanto tamque utili labori meo nomen inertiae inponant, certe quibus maxuma industria videtur salutare plebem et conviviis gratiam quaerere.
3
Quod si regum atque imperatorum animi virtus in pace ita ut in bello valeret, aequabilius atque constantius sese res humanae haberent, neque aliud alio ferri neque mutari ac misceri omnia cerneres (Catil. 2, 3) e Verum ubi pro labore desidia, pro continentia
et aequitate lubido atque superbia invasere, fortuna simul cum moribus inmutatur. Ita imperium semper ad optumum quemque a minus bono transfertur (Catil. 2, 5-6).
4
Al riguardo dell’attività storica come compensazione delle delusioni politiche all’interno dell’intero panorama storiografico fiorentino si veda Phillips 1983, pp. 191206.
5
Lo stesso concetto ricorreva già nelle redazioni A 32 e B 57 e ritorna nella Consolatoria, p. 180.
6
Non propriamente immacolata – ma le fonti, la pseudociceroniana Invettiva contro Sallustio, una satira di Pompeo Leneo, la biografia di Asconio Pediano, gli sono violentemente avverse – fu la carriera politica di Sallustio Crispo. Espulso nel 50 a.C. dal
Senato per immoralità, vi fu riammesso nel 48 per intervento di Cesare, che l’anno seguente gli evitò un’accusa di concussione dovuta al suo abnorme arricchimento durante il proconsolato in Africa. Nel 44, infine, alla morte del suo potente protettore, non
poté che ritirarsi.
7
Catil. 4, 1.
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
25
Qui si reputaverint, et quibus ego temporibus magistratus adeptus sum
[et] quales viri idem adsequi nequiverint et postea quae genera hominum
in senatum pervenerint, profecto existumabunt me magis merito quam
ignavia iudicium animi mei mutavisse … 8
Nella seconda sezione dei proemi, più strettamente programmatica, evidente è invece il rapporto tra le due opere sallustiane e la Storia d’Italia,
rintracciabile già nella dichiarazione dell’impegno storiografico (statui …
perscribere 9, poi rafforzato da igitur … absolvam 10, nel De coniuratione
Catilinae e Bellum scripturus sum 11 nel De bello Iugurthino) che ha un immediato riscontro nella dichiarazione «Io ho deliberato di scrivere» 12.
Tale rapporto è ribadito nell’enunciazione dell’argomento e della sua localizzazione (res gestas populi romani 13, poi specificato da de Catilinae coniuratione 14 nel Catilina e bellum … quod populus Romanus cum Iugurtha
rege Numidarum gessit 15 nel Iugurtha), che richiama «le cose accadute
alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi», e infine nella motivazione di tale scelta (nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate 16 e primum quia magnum (scil. bellum) et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est 17). Il corrispondente passo guicciardiniano («materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti») evidenzia infatti coincidenze nell’attenzione alla ‘memorabilità’ del fatto e alla sua ‘eccezionalità’ e ‘grandezza’ (si osservi in particolare la compresenza di atrox - «atroce», variaque - «varietà», magnum «grandezza», memorabile - «memorabile»).
Inoltre, all’interno del De bello Iugurthino l’argomento è illustrato da
un passo in cui vengono accentuate le conseguenze e il generale sconvolgimento (quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret 18), e che trova riscontro nella Storia d’Italia («avendo patito tanti anni
Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per
l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, es8
9
10
11
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13
14
15
16
17
18
Iug. 4, 3-4.
Catil. 4, 2.
Catil. 4, 3.
Iug. 5, 1.
Storia d’Italia I 1, p. 5.
Catil. 4, 2.
Catil. 4, 3.
Iug. 5, 1.
Catil. 4, 4.
Iug. 5, 1.
Iug. 5, 2.
26
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
sere vessati»). Benché non sia possibile un raffronto puntuale, si incontra
la citazione delle due sfere, umana e divina, coinvolte nel conflitto, per
quanto siano in Guicciardini concause dello sconvolgimento e viceversa
in Sallustio lo subiscano; a ciò è poi accostabile il riferimento, nel primo
paragrafo della Storia d’Italia, all’alterazione violenta della situazione italiana (permiscuit - «perturbarla» 19).
In tutte e tre le opere il racconto vero e proprio viene rinviato, anticipato prima dalla descrizione di un personaggio e delle premesse storiche
attraverso una clausola che permette un confronto incrociato fra i tre
proemi 20.
Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo
stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali)
cominciorono con tanto maggiore dispiacere […] quanto le cose universali erano allora più liete […].
Sed prius quam huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam,
quo ad cognoscendum omnia illustria magis magisque in aperto sint. 21
De quoius hominis moribus pauca prius explananda sunt, quam initium
narrandi faciam. 22
Comuni risultano il forte senso di cesura dato dall’avversativa («Ma», Sed,
ma anche la brusca relativa De quoius hominis moribus), la negatività della
materia (implicita nel riferimento ai costumi di Catilina), la sua contestualizzazione storica («cominciorono […] quanto le cose universali erano allora più liete»), la specificazione della funzione pragmatica della digressione al fine di meglio chiarire gli eventi, con imposizione dell’Io storico
(«acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbeno l’origine tanti mali» e implicita in Sallustio nel
gerundivo explananda), l’accenno alle «calamità» e ai «tanti mali».
Il ritratto che costituisce elemento costante di tale analisi è riconoscibile nel De coniuratione Catilinae nel primo ritratto di Catilina, da cui
muove lo storico per rievocare nostalgicamente l’antica repubblica nella
‘archeologia’ di stampo tucidideo, seguendone poi il rovinoso declino
19
«Dappoi che l’armi de’ franzesi […] cominciorono con grandissimo movimento
a perturbarla», Storia d’Italia I 1, p. 5.
20
Ciò rientrava tra i precetti della storiografia umanistica, come indica l’Actius, p.
217: Quodque causis iis quae propinquae quidem sunt aliquid tamen sese quandoque
ostendit antiquius, huius quoque tanquam principii nobiliorisque originis facienda est repetitio, antiquitasque atque obliteratio ipsa in memoriam revocanda et tanquam exponenda in lucem, a cui segue proprio l’esempio sallustiano.
21
Iug. 5, 3.
22
Catil. 4, 5.
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
27
causato da primo pecuniae, deinde imperi cupido 23. Similmente, in Guicciardini ricorre, benché in ordine inverso, il medesimo accostamento di
una descrizione (dei tempi felici anteriori alla morte del Magnifico) e un
ritratto. La descrizione del Guicciardini è meno concreta di quella del De
coniuratione Catilinae; nondimeno, gli elementi addotti sono quasi i medesimi: potere autoctono, ricchezza, magnificenza dei principi, bellissime
città, maestà della religione, virtuosi amministratori, nobili ingegni, gloria
militare.
Il ritratto – quello vituperoso di Catilina 24 per Sallustio, quello virtuoso del Magnifico per Guicciardini 25 – si sviluppa secondo il medesimo schema: in primo luogo la condizione familiare (L. Catilina, nobili genere natus 26 – «cittadino tanto eminente sopra il grado privato nella città
di Firenze» il de’ Medici), poi il tratto intellettuale e morale (magna vi et
animi et corporis, sed ingenio malo pravoque 27 - «industria e virtù di Lorenzo de’ Medici […] per consiglio suo si reggevano le cose»), quindi un
brevissimo resoconto biografico huic ab adulescentia bella intestina caedes rapinae discordia civilis grata fuere 28 e hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae 29 - «congiunto con
parentado, e ridotto a prestare fede non mediocre a’ consigli suoi Innocenzo ottavo»), il comportamento quotidiano (Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum 30 e
Incitabant praeterea conrupti civitatis mores 31 - «procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino […] vegghiare
con somma diligenza»). Invece, la più approfondita descrizione morale e
caratteriale dell’uomo, inclusa per Catilina nella generale descrizione iniziale (animus audax subdolus varius, quoius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens, sui profusus, ardens in cupiditatibus 32), per il Magnifico è rinviata al momento della morte che, pur preceduto da una forte cesu- ra, è fortemente legato al proemio («per la riputazione e prudenza sua e per lo ingegno attissimo a tutte le cose onorate e eccellenti […]
era mezzo a moderare e quasi uno freno ne’ dispareri e ne’ sospetti» 33).
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
Catil. 10, 3.
Catil. 5, 1-8.
Storia d’Italia I 1, p. 6. De Caprariis 1950, p. 117, parla di «trasfigurazione».
Catil. 5, 1.
Catil. 5, 1.
Catil. 5, 2.
Catil. 5, 6.
Catil. 5, 7.
Catil. 5, 8.
Catil. 5, 4.
Storia d’Italia I 2, p. 10.
28
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
L’articolazione dei due ritratti, impostati sugli stessi elementi, così come
il loro contesto, delinea allora una stridente contrapposizione tra il seminatore di scismi e odî della res publica e il pacificatore e conservatore
della concordia italiana, suggerendo così in controluce il generale decadimento che già si profila dietro la morte del Magnifico. La medesima
intelaiatura dell’antefatto, sebbene più labilmente, ricorre anche nel De
bello Iugurthino con la contrapposizione della presentazione morale e intellettuale del protagonista (pollens viribus, decora facie, sed multo maxume ingenio validus, non se luxu neque inertiae conrumpendum dedit …
plurumum facere, [et] minumum ipse de se loqui) 34 e della descrizione degli eventi storici antecedenti, sebbene con impostazione diacronica e non
sincronica.
Più articolata, ma ancor più ricca di prospettive, si rivela la medesima
operazione eseguita sulle Historiae di Tacito, portando alla luce sovrapposizioni, trasposizioni, smontaggi. All’indicazione del termine post quem
nel consolato di Galba e Tito Vinio e a una riflessione sull’avvilimento
della storiografia nell’epoca del principato, in cui l’autore si sofferma sulla propria carriera e sulla materia dell’opera, segue, con un netto cambio
di tono e argomento, il prologo, che specialmente nella lezione delle cinquecentine presenta elementi destinati a modellare il proemio guicciardiniano 35: Opus aggredior plenum variis casibus, atrox proeliis, discors seditionibus, in ipsa etiam pace saevum 36. Ritorna nel proemio della Storia del
Guicciardini in primo luogo la dichiarazione di scrittura, sia pur con una
formula leggermente diversa, con l’attenzione concentrata sull’atto («Io
ho deliberato di scrivere le cose accadute in Italia») mentre in Tacito lo è
sull’opera. Nondimeno, proprio il sintagma opus plenum variis casibus risuona nel capolavoro rinascimentale poche righe dopo, allorché, enunciato il termine post quem nella discesa di Carlo VIII, lo storico specifica
il tema definendolo «materia, per la varietà e grandezza loro [scil. le cose
accadute], molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti» 37; espres34
Iug. 6, 1.
Pur in forma dubitativa vi fa cenno Questa: «Tracce di tacitismo sono avvertibili
già in Guicciardini (Tacito è citato nel ricordo 18) ed eco di hist. I 2-3, pur nella topicità del contesto, a me pare di vedere nelle prime righe della Storia d’Italia», cfr. Questa
1975, p. 35, nota 7.
36
Tacito 1515, c. 136r, corrispondente a hist. I 2, 1. Il testo ristabilito criticamente
recita opimum casibus e ipsa etiam pace saevom.
37
È da segnalare che proprio questa frase viene utilizzata da Canfora 1972, pp. 7881, per dimostrare, in una ricca carrellata attraverso i secoli e le opere, la topicità del riferimento alla ‘grandezza’ all’interno dei proemi delle opere storiche. Credo peraltro
che la molteplicità di elementi eminentemente tacitiani rintracciabili in così poche righe
valga comunque a dimostrare come queste pagine respirino di un continuo richiamo
proprio al proemio delle Historiae, tanto più che, se indubbiamente il principio della
35
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
29
sione che racchiude il senso di molteplicità implicito in plenum variis casibus, tanto più che l’aggettivo possessivo «loro» si riferisce a un «cose
accadute» in cui riecheggia il tacitiano casibus; così il ricorso di atrox nella menzione dell’argomento e delle motivazioni della scelta da parte dell’autore permette di ricostruire quasi una ‘tradizione’ Sallustio – Tacito –
Guicciardini.
La dichiarazione di scrittura è solo il primo dei tre momenti nei quali
è scandito il proemio tacitiano, a cui segue l’enumerazione dei casus: quattuor principes ferro interempti; trina bella civilia, plura externa ac plerumque permixta; prosperae in Oriente, adversae in Occidente res: turbatum Illyricum, Galliae nutantes 38. Questo secondo segmento che chiarisce la natura degli eventi è correlato al seguente periodo guicciardiniano: «avendo
patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri
mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli
altri uomini, essere vessati», che riveste la medesima funzione pragmatica
di anticipare e stringere in poche righe l’argomento dell’opera. Nel terzo
movimento troviamo invece nelle pagine del Guicciardini una nostalgica
rievocazione dell’Italia laurenziana in cui ritornano ribaltati tutti i temi
che contrassegnavano una cruda rappresentazione tacitiana dell’Italia
sconvolta dalla decadenza. Gli stessi moduli con i quali i due storici introducono le descrizioni presentano molte somiglianze:
grandezza dell’argomento è topico, assai diverso se ne rileva l’utilizzo nelle varie opere
menzionate da Canfora. Per limitarsi agli altri autori latini o italiani, lo studioso cita per
Livio il passo con valore proemiale alla guerra annibalica del libro 21, 1 bellum maxime
omnium memorabile, quae umquam gesta sint, me scripturum, esplicitamente ricalcato
sulla prassi di plerique … rerum scriptores (Liv. 21, 1). Tralascia invece un altro brano
proprio della praefatio: Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, aut nulla unquam res
publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit per la quale peraltro sono
evidenti le divergenze dal passo guicciardiniano in questione (Liv. I, praefatio, 11).
Estremamente asettico il corrispondente brano del Rucellai, p. 3 (rem huius aevi longe
omnium maximam, neque sine motu maximo generis humani) che effettivamente produce una sensazione di semplice topos; per Machiavelli il concetto della ‘grandezza’ è
espresso in maniera assai meno icastica ed incisiva, a favore delle ragioni per cui le divisioni di Firenze furono «notabilissime». Infine Paolo Giovio, l’unico per il quale si
possa rintracciare una qualche somiglianza – quum bellum, opinione hominum maius ac
atrocius, in Italia exarsit (vol. III, p. 7) – pur restando assai palesi le dissomiglianze.
Benché presenti alcuni dei termini caratterizzanti, ben diversa è poi la costruzione nella
traduzione valliana di Tucidide: Thucydides Atheniensis bellum Peloponnensium Atheniensiumque, quod inter se gesserunt, conscripsit, exorsus statim ab eo moto: sperans
etiam fore tum magnum, tum superioribus memorabilius, certis hinc signis, quod et utrique florebant omni ad bellum apparatu, et caetera Graecia e suis finibus ad alterutros accessit, alii quidem protinus, alii vero post consultationem (Thuc., p. 1). Proprio la «connotazione dell’argomento come notabile» rappresenta uno dei parametri di letterarietà
della storiografia, cfr. Scarano 1990, p. 75.
38
hist. I 2, 1.
30
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
Iam vero Italia novis cladibus vel
post longam saeculorum seriem repetitis adflicta.
Ma le calamità d’Italia […] cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi
degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più
felici.
Gli elementi comuni sono molteplici: le particelle disgiuntive in inizio di
frase (iam vero - «Ma»), l’ambientazione panitaliana in posizione mnemonica, il nesso semantico fortemente rilevato «Italia» - clades/«calamità»
(né è da escludere che possa avere giocato una risorgenza fonica), il richiamo adflicta - «dispiacere» (benché riferiti a termini diversi), l’accenno
alla novità delle sventure (per Guicciardini totalmente nuove, per Tacito
solo in parte) abbattutesi su un’Italia proveniente da un lungo periodo di
felicità. Guicciardini può così rimarcare il concetto di ciclicità con il successivo riferimento al parallelo implicito dell’«imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi».
Questo parallelismo si delinea meglio in una puntuale corrispondenza dei parametri presi in considerazione per esaminare due situazioni opposte:
haustae aut obrutae urbes, fecundissima Campaniae ora; et urbs incendiis vastata … 39
[…] dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città […] 40
[…] coltivata non meno ne’ luoghi più montuosi e più sterili che
nelle pianure e regioni sue più
fertili […]
… consumptis antiquissimis delubris … Pollutae caerimoniae, magna adulteria;
[…] illustrata sommamente […]
dalla sedia e maestà della religione […]
plenum exiliis mare, infecti caedibus scopuli
[…] abbondantissima d’abitatori
[…]
[…] ridotta tutta in somma pace
e tranquillità […]
nobilitas, opes, omissi gestique honores pro crimine, et ob virtutes
certissimum exitium. Nec minus
praemia delatorum invisa quam
scelera, cum alii sacerdotia et consulatus ut spolia adepti, procura39
40
hist. I 2, 2.
Storia d’Italia I 1, p. 6.
Fioriva d’uomini prestantissimi
nella amministrazione delle cose
publiche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l’uso di quel-
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
tiones alii et interiorem potentiam, agerent verterent cuncta odio et terrore. Corrupti in dominos
servi, in patronos liberti; et quibus
deerat inimicus, per amicos oppressi. 41
31
la età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e
fama chiarissima riteneva.
Proprio il senso di ciclicità che pervade il proemio guicciardiniano avvalora l’ipotesi di una libera ispirazione al proemio delle Historiae, rivolta a
produrre un’anamnesi antifrastica ben diversa dalla fedeltà osservata da
Machiavelli nella descrizione dei Discorsi I, 10, 5 42, peraltro svincolata da
un qualsivoglia impianto narrativo o funzione proemiale; l’opzione di
Guicciardini proietta dunque sull’idealizzata Italia del 1490 le ombre dell’opera di Tacito, anticipando attraverso il filtro della memoria letteraria
le sventure destinate a piagare l’Italia come già accadde per l’impero romano 43. È inoltre da osservare che l’immagine guicciardinana dell’Italia
può essere fatta corrispondere a Catil. 36, 4 in cui si insiste sull’apice della fortuna economica e militare dello Stato nel momento della congiura;
l’affinità è inoltre rafforzata dal rilievo strutturale del passo sallustiano,
poiché segue immediatamente una sorta di proemio interno presente nell’operetta sallustiana 44.
Ea tempestate mihi imperium populi Romani multo maxume miserabile
visum est. Quoi quom ad occasum ab ortu solis omnia domita armis parerent, domi otium atque divitiae, quae prima mortales putant, adfluerent,
fuere tamen cives, qui seque remque publicam obstinatis animis perditum irent.
Già si è osservato che la malinconica evocazione guicciardiniana di un’Italia ancor florida e pacificata è introdotta da un modulo che, implicitamente, dichiara di risalire addietro nel tempo a un’epoca anteriore. Di tale formula è possibile individuare l’archetipo in un passo delle Historiae:
Ceterum antequam destinata componam, repetendum videtur, qualis status urbis, quae mens exercituum, quis habitus provinciarum, quid in toto
terrarum orbe validum, quid aegrum fuerit, ut non modo casus eventu41
hist. I 2, 3.
Stackelberg 1960, p. 70.
43
Può essere interessante rammentare che proprio al termine di tale brano si ritrova una delle più celebri e accorate sententiae di Tacito (hist. I 3, 2: adprobatum est non
esse curae deis securitatem nostram, esse ultionem). Non accidentalmente, l’immagine di
Dio, sostanzialmente assente dalla Storia, compare proprio nel proemio e per di più associata al concetto della punizione («l’ira giusta di Dio»).
44
Giancotti 1971, p. 33.
42
32
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
sque rerum, qui plerumque fortuiti sunt, sed ratio etiam causaeque noscantur. 45
In particolare si noti come l’esigenza di soffermarsi sull’antefatto si articoli su un duplice piano di profondità: apprendimento della situazione e,
a un secondo livello, della causa che la modifica; una distinzione che si riflette in quella analoga del Guicciardini («acciocché io faccia noto quale
fusse allora lo stato suo, e insieme le ragioni dalle quali ebbeno l’origine
tanti mali»).
Come già si disse, il paragrafo proemiale della Storia prosegue con il
ritratto di Lorenzo de’ Medici cui si affiancano, a esso complementari e
opposti, quelli di tutti gli altri principi italiani in una rapida rassegna lungo la penisola. Allo stesso modo procedono le Historiae, in cui al ritratto
di Galba si accostano in chiave minore quelli di una costellazione di personaggi secondari turpi e spregevoli 46. Inoltre la tecnica del ragguaglio a
volo d’uccello utilizzata dal Guicciardini per le signorie italiane compare
nelle Historiae immediatamente dopo il ritratto di Galba per chiarire la
situazione delle province, soffermandosi su ciascuna di esse e fornendone
sovente un giudizio moralistico.
Si noti infine che la frase con cui comincia l’attuale secondo capitolo
della Storia d’Italia (ossia la parte più propriamente narrativa) si presenta
simile nella costruzione a quella con cui in genere si fa terminare il prologo delle Historiae; abbiamo infatti:
Hic fuit rerum Romanarum status,
cum Servius Galba iterum Titus
Vinius consules … 47
Tale era lo stato delle cose, tali
erano i fondamenti della tranquillità d’Italia […]. Quando, nel mese di aprile dell’anno mille quattrocento novantadue, sopravenne
la morte di Lorenzo de’ Medici. 48
Le due frasi si presentano entrambe ripartite in due membri: il primo che
con valenza retrograda sancisce la conclusione della ‘archeologia’ (e si
noti che la costruzione, l’utilizzazione e, per quanto possibile, la disposizione delle parole sono i medesimi, in particolare il nesso rerum status e
«stato delle cose» e che inoltre il Romanarum, ossia la localizzazione geografica, è stato, nell’opera guicciardiniana, trasposto nel «tranquillità d’I-
45
hist. I 4, 1.
Cfr. Mendell 1957, pp. 116-117, sui fini drammatici dei personaggi introdotti nel
prologo delle Historiae.
47
hist. I 11, 3.
48
Storia d’Italia I 2, p. 10.
46
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
33
talia»); il secondo membro, con una temporale, dà avvio alla narrazione
con una nota cronologica precisa.
L’evidente affinità del proemio guicciardiniano con quelli delle tre
opere classiche è dovuta a due elementi: in primo luogo, come è ampiamente assunto, il proemio tacitiano rimanda a quelli sallustiani come immediato suggerimento di interpretazione al lettore 49; in secondo luogo i
proemi di entrambi gli autori latini sono impostati su una teoresi diffusa
e affermata in ambito latino che aveva trovato la sua espressione, se non
rigorosa, certo più completa e celebre in alcune opere ciceroniane. Nell’enorme archivio cartaceo di casa Guicciardini, infatti, è stato ritrovato
un foglio su cui lo storico ha trascritto un passo del De oratore 50 che costituisce una delle poche teorizzazioni classiche sulla storiografia:
Rerum ratio ordinem temporum desiderat, regionum descriptionem; vult
etiam – quoniam in rebus magnis memoriaque dignis consilia primum,
deinde acta, postea eventus expectentur – et de consiliis significari quid
scriptor probet, et in rebus gestis declarari non solum quid actum aut dictum sit sed etiam quo modo, et cum de eventu dicatur, ut causae explicentur omnes, vel casus vel sapientiae vel temeritatis, hominumque ipsorum
non solum res gestae sed etiam, qui nomine ac fama excellant, de cuiusque vita atque natura. Verborum autem ratio et genus orationis fusum
atque tractum et cum lenitate quadam aequabili profluens, sine hac iudiciali asperitate et sine sententiarum forensium aculeis persequendum est.
Il rapporto tra questo brano e i proemi di Tacito, principalmente, e di
Sallustio è stato studiato con particolare attenzione da Woodman. Gli
aspetti consigliati da Cicerone e presenti nel proemio tacitiano sono molti e, non a caso, riemergono in quello della Storia d’Italia 51. Nell’ordine,
citando uno a uno gli elementi tacitiani e guicciardiniani secondo i parametri di Woodman, ritroviamo: eventi importanti e memorabili, grandi uomini (Tacito menziona subito quattor principes ferro interempti e
Guicciardini accentra la propria attenzione sui principi italiani), eventi
«fluctuating and suspenseful» (hist. I 2, 1 prosperae; adversae; nutantes;
perdomita Britannia et statim missa, cladibus mutuis 52 e per Guicciardini «a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti,
siano sottoposte le cose umane») 53, interesse per drammatiche scene di
49
Si veda già Fabia 1901, p. 50; più recentemente ad esempio Leeman 1973, pp.
169-208 e Woodman 1988, a cui si aggiunge Woodman 1992.
50
Cfr. Ridolfi 1939, p. 8. Il passo del De oratore corrisponde a II 15, 63-64.
51
Woodman 1988, pp. 165-166.
52
Perdomita Britannia, et statim missa cohorte in Roxolanos Sarmatarum ac Svevorum gentes, nobilitatus cladibus mutuis Dacus in Tacito 1515, p. 136r.
53
Il riferimento all’instabilità delle cose umane come elemento fondamentale della
storiografia ritorna anche nella ciceroniana lettera a Lucceio (nihil est enim aptius ad
34
VALORE PROGRAMMATICO E REFERENZIALE DEL PROEMIO
guerra, il ruolo giocato dalla sorte negli affari umani (praeter multiplices
rerum humanarum casus caelo terraque prodigia et fulminum monitus et
futurorum praesagia, laeta tristia, ambigua manifesta 54 - «non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna»), e ancora, nel caso di conseguenze, la spiegazione di tutte le ragioni (come già visto: ut non modo casus eventusque rerum, qui plerumque fortuiti sunt, sed ratio etiam causaeque noscantur 55 - «acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato
suo, e insieme le ragioni dalle quali ebbeno origine tanti mali»).
Guicciardini aveva ovviamente colto l’importanza di questa pagina
per un’opera modellata secondo i parametri classici 56. A questo riguardo è fondamentale una lettera indirizzatagli dal Corsi che lascia intravedere una viva e intensa riflessione sui principali testi teorici paradigmatici per la scrittura della storia: infatti, accennando a una discussione
sull’identità dei generi di storia, commentari e annali, si citano l’Actius di
Pontano e l’epistola a Lucceio 57. Se questi testi vengono richiamati per
disquisizioni sulle distinzioni categoriali all’interno del genere storico, si
può credere che gli stimoli classici siano tanto più operanti nel proemio,
dove più consapevole e in un certo senso obbligata si fa l’esposizione di
una metodologia e di una concettualizzazione del divenire e del fare storico.
Anche Leeman ha sostenuto che i tre proemi classici qui presi in considerazione siano fortemente connessi tra loro 58. Sulla base dei proemi di
De coniuratione Catilinae, De bello Iugurthino, Historiae e Annales, visti
in contrasto con l’approccio di Livio «manner-relaxed, balanced, modest», lo studioso elabora una diversa griglia di confronto individuando
delectationem lectoris quam temporum varietates et fortunaeque vicissitudines), Fam. V
12, 4. Tale elemento compare peraltro anche nella lettera di Coluccio Salutati sulla storia, che costituisce per certi versi la prima riflessione umanistica sulla storiografia (fortunas hominum et invictas fatorum leges, renovationes gentium vertiginesque regnorum,
Salutati, p. 293) e nell’Actius (p. 193: Ad haec repentini casus successusque, ipsi varii
atque incerti, consilia item diversa quaeque praeter hominum ipsorum opinionem plurima
contingunt in vita ac rebus gerendis).
54
hist. I 3, 2.
55
hist. I 4, 1.
56
«Non voglio dire che il Guicciardini scrisse così la storia perché vi fu indotto dai
precetti ciceroniani: dico che mai, forse, precetto letterario e natura di scrittore s’incontrarono in modo così mirabile e singolare» (Ridolfi 1939, p. 8).
57
In realtà nella lettera si menziona l’Aegidius, che però tratta altre tematiche. Ceterum quod ad historiam attinet, non est in animo in praesentia referre quid historia sit:
quid Comentaria; quid Annales, et quid inter se differant: nam memini me alias apud te
Pontani Aegidio plura loqui, ubi multa de historiae lege enarrantur, praesertimque Livii,
Salustii ac Caesaris scripta enucleantur. Nec praeter rem fuerit epistulam Ciceronis perlegere ad Lucceium in I. Epist. famil. (citata da Rostagno 1919, pp. LXXIII-IV).
58
Leeman 1973.
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cinque classi: informazioni sull’autore (il suo nome, la sua carriera, le sue
personali ambizioni), informazioni sull’argomento (sua natura e importanza), informazioni sull’approccio dell’autore al suo argomento e sua
concezione della storiografia in generale (memoria, veritas, documentum),
informazioni sulla concezione della storia da parte dell’autore; riassunto degli eventi antecedenti (ciò che è chiamato ‘archeologia’ nel caso di
Tucidide). Anche secondo questa griglia il proemio guicciardiniano appare nell’alveo dei due grandi precursori con la compresenza degli ultimi
quattro nuclei 59.
Procedendo a un’analisi a ritroso dall’ultima delle tematiche, chiaramente riconoscibile è l’‘archeologia guicciardiniana’. Più complessa ma
evidente è la trattazione per quanto riguarda la concezione della storia da
parte dell’autore; infatti sia pure senza alcuna sottolineatura tale funzione
è adempiuta dal passo:
onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte
le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma
sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano,
quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità
presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute
comune, si fanno, o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori
di nuove turbazioni.
Come osserva Scarano, «vengono fornite al lettore due coordinate ideologiche: la miseria della condizione umana e l’instabilità della fortuna, di
cui la narrazione offrirà ‘innumerabili esempli’. L’oggetto della narrazione viene quindi inserito preliminarmente entro due recinti interpretativi;
l’uno specifico e strettamente legato alla materia, l’altro universale, scaturente dai principi generali di una concezione pessimistica della realtà, rispetto alla quale il racconto ha la funzione di exemplum probante» 60. Per
quanto riguarda il tema della concezione della storiografia è emblematico
il «per sé proprio e per bene pubblico, prendere molti salutiferi documenti». Infine l’argomento, del quale si è già detto. L’unico aspetto tradizionale assente nel prologo della Storia d’Italia è dunque l’informazione
59
Ancora diversi i sei elementi identificati da Mendell 1957, p. 111: «the exposition
of the utility of history in general; insistence on the unique importance of the subject
matter of the particular history in hand; submission of the qualifications of the writer
with assurances of his conscientious accuracy and freedom from bias; a résumé of the
factual antecedents; a definition of the field to be covered; and perhaps the name of the
writer».
60
Scarano 1981, p. 181.
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fornita dall’autore su se stesso e i rapporti con i suoi predecessori 61. L’autore della Storia d’Italia dunque, distinguendosi dalla prassi, si presenta
quasi anonimo 62, benché, certo, la sua attivissima partecipazione ai grandi avvenimenti storici del primo terzo del secolo avrebbe consentito uno
spazio ben più ampio.
Un raffronto con opere contemporanee alla Storia d’Italia permette
di apprezzare appieno l’originalità e l’ampiezza della rilettura guicciardiniana dei classici. Considerando le Istorie fiorentine di Machiavelli è facile riscontrare che il proemio, tra l’altro fortemente isolato e avulso dal
computo dei libri e quindi già in ciò distinto dalle opere tacitiane, segue
un’impostazione assolutamente differente. Manca, del tutto o in parte, di
non poche delle tematiche individuate dal Leeman, quali le concezioni
dell’autore sulla storia e l’archeologia. Si incentra, piuttosto, su una lunga
analisi degli antecedenti storici di Bruni e Salutati nel loro disinteresse
per la politica interna fiorentina, causa della decisione di Machiavelli di
avviare la propria opera non dall’avvento del potere mediceo, ma dalla
caduta dell’impero romano, affrontando così nuovamente periodi già
trattati dai due precursori. L’analisi, dunque, della frammentazione interna di Firenze è ben lungi da un’archeologia, poiché concerne un’epoca
successiva alla data da cui inizia la narrazione ed è finalizzata non a illustrare gli antefatti, ma piuttosto a motivare la necessità di tale completa
riscrittura sotto il segno dell’utilità per la scienza politica sulla base dell’asserzione che «se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili,
di quella di Firenze furono notabilissime». Manca inoltre ogni accenno
specifico all’importanza dell’argomento. Al contrario, inusualmente per i
proemi classici, si riscontra un’anticipazione, peraltro inesatta, della ripartizione della materia all’interno dei libri e un non breve passaggio su
fama e grandezza, non comparabile con Tacito e che non può certo essere, per struttura, posizione, senso, finalità, collegato al tema della gloria
in Catil. 1, 1. Le Cose fiorentine di Guicciardini presentano, inoltre, forti
divergenze dalla scelta in seguito operata nella Storia d’Italia, dovute sostanzialmente alla loro natura di riscrittura delle precedenti cronache, e
in primo luogo proprio delle Istorie fiorentine; già la scelta di porre «in
luogo di prohemio» il primo libro, per di più con esplicito riferimento al
canone della brevitas, rafforza tale differenza, a cui si affianca lo svolgi-
61
La soppressione nella Storia d’Italia dell’elemento autobiografico è indubbiamente facilitata dal fatto che esso ricorre in tutte e quattro le opere classiche in primissima sede, non compromettendo con la sua esclusione l’organicità del proemio.
62
Unica eccezione è nel riferimento alla sua missione come ambasciatore presso il
re d’Aragona: «Francesco Guicciardini, quello che scrisse questa istoria, dottore di legge, ancora tanto giovane […]» (Storia d’Italia X, 8, p. 998).
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mento del «summario» per argomenti disposti cronologicamente 63.
Un altro proemio da analizzare è quello della storia di Paolo Giovio,
gli Historiarum sui temporis, ritenuta all’epoca un capolavoro, che si avvia proprio con la morte del Magnifico, costituendo quindi per ciò stesso
un termine di raffronto obbligato. Ciascuno dei due storici, peraltro divisi da forti divergenze nelle scelte politiche e strategiche in occasione degli
episodi che poi portarono alla crisi del 1527, ebbe senz’altro modo di leggere ampi stralci dell’opera dell’altro 64.
Quiescebat terrarum orbis nullis bellorum procellis agitatus ac in primis
Italia, quassata paulo ante intestinis malis, opima pace florebat quum
bellum, opinione hominum maius ac atrocius, in Italia exarsit: quod postea Europam non modo omnem verum Asiae atque Aphricae longinquas
partes, concussis ubique vel eversis clarissimarum gentium imperiis, paucorum annorum curriculo perturbavit. Quin et pervagata quoque est eadem fatalis bellorum lues quicquid terrarum Oceano alluitur; incognitosque antea populos nobis aperuit, ad quos neque romana virtus neque ullae priscorum literae penetrarant. Ita ut, his quinquaginta annis in quos
universa confertur historia, nihil reliquum, tot cladibus afflicto terrarum
orbi, Mars et Fortuna fecisse videantur: quum remotissima quaeque provinciarum, ab ortu solis ad occasum per ipsos etiam paulo ante fabulosos
Antipodas, bello tacta suo vel externo cruore maduerit. 65
Il primo paragrafo del proemio di Giovio è seguito da una formula strettamente assimilabile a quella guicciardiniana, per la quale già sono state
individuate le suggestioni classiche: Sed, priusquam tantarum rerum initia
memoriae prodantur, ut omnia ad cognoscendum clara atque illustria in
aperto sint, operae pretium erit quaenam gentium opes, quive reges nostra
tempestate floruerint, ordine recensere. Il passo presenta forti somiglianze
con quello del De bello Iugurthino (si pensi a ad cognoscendum, illustria,
in aperto che ritornano identici rispetto a 5, 3). Quello corrispondente
della Storia d’Italia, però, aderisce maggiormente alla tradizione classica
nell’esplicita dichiarazione di risalire indietro nel tempo e nella scomposizione in due membri dell’esigenza di meglio comprendere gli eventi. Segue poi nel Giovio una concisissima storia dell’Italia dalla caduta dell’impero e un’esposizione sincronica della situazione di tutti gli stati di cui allora si avesse notizia, per poi trapassare quasi insensibilmente al racconto
delle trame di Ludovico il Moro. Sono evidenti gli elementi che distin63
Cabrini 2001, pp. 295-296.
Cfr. Zimmerman 1984, p. 38; poi ampliato da Moreno 2002. La distanza tra Giovio e Guicciardini è epigraficamente stabilita già da Bodin: cuius scripta si cum Iovio
conferantur, non magis congruent, quam rotunda quadratis (Bodin, p. 72).
65
Historiarum vol. III, p. 7.
64
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guono il proemio di Giovio da quello di Guicciardini: mancano ad esempio nell’opera dello storico comasco l’enunciazione degli intenti dell’autore, il luogo e l’evento da cui prenderà l’avvio, la descrizione concreta
delle ricchezze dello Stato (che corrispondeva al quadro delle devastazioni delle Historiae), la fisicità nell’accentuazione della devastazione, un
qualunque giudizio morale e intellettuale, ogni qualsivoglia forma di ritratto. Sono al contrario presenti nell’opera di Giovio il riferimento ai popoli nuovi toccati dalla guerra, l’insistenza, anche tramite elementi mitologici, sull’universalità delle conseguenze: tutti elementi che l’allontanano
dal modello tacitiano.
Un’opera che costituisce un inevitabile termine di riferimento è il De
bello Italico commentarius di Bernardo Rucellai, che costituì una delle
fonti di Guicciardini per quanto concerne la spedizione di Carlo VIII e di
cui si ritrovano stralci nelle sue carte 66. L’incipit dell’opera del Guicciardini risente marcatamente del corrispondente passo del De bello Italico,
con evidente sovrapponibilità di termini e sintagmi. Di seguito, però, Rucellai si sofferma sugli artisti che ebbero la fortuna di poter ritrarre dèi ed
eroi, affrontando poi distesamente alcuni temi tipicamente tacitiani con
una fedeltà talora pedissequa: le leggi della storia, l’atteggiamento del lettore al riguardo delle scelte narrative dello storico 67, l’impegno all’imparzialità da parte dello studioso 68, la fortuna degli antichi che potevano raccontare eventi più nobili 69, passi che non presentano nessuna corrispondenza all’interno del maggiormente rielaborato proemio guicciardiniano.
La sezione successiva, invece, permette un concreto esame comparato con il proemio della Storia d’Italia:
Adventum Caroli regis Gallorum in Italiam (per ducentesimum annum
quam barbarus hostis: et ipse magnis copiis magnoque ad bellum appara66
Cfr. Gherardi 1919, p. LI.
Quin imo incidisse in obtrectatorum invidiam necesse est, siquid paulo accuratius
reprehenderis laudaverisque supra vires eius, qui laudem egregiam assequi nequiverit. Vitia enim per se crimini obnoxia; laus invidiae opportuna est (Rucellai, p. 2). Un passo affine a hist. I 1, 2: sed ambitionem scriptoris facile averseris, obtrectatio et livor pronis auribus accipiuntur; quippe adulationi foedum crimen servitutis, malignitati falsa species libertatis inest.
68
Nam cum prima lex sit, nequid falsi dicere, nequid veri tamen tacere audeamus
(Rucellai, p. 2) che ricorda da presso hist. I 1, 3: sed incorruptam fidem professis neque
amore quisquam et sine odio dicendus est, a cui è accostabile il sine ira et studio di ann. I
1, 3.
69
Fortunati igitur illi fuisse videntur, quibus contigit ea descripsisse tempora, unde virorum praeclara facinora magis quam insignia scelera illustrarentur (Rucellai, p. 2), strettamente riconducibile a ann.(b) IV 32, 1-2: sed nemo annales nostros cum scriptura eorum contenderit, qui veteres populi Romani res composuere. Ingentia illi bella, expugnationes urbium, fusos captosque reges … memorabant: nobis in arto et inglorius labor.
67
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tu Alpes transcendit) scribere aggredior: rem huius aevi longe omnium
maximam, neque sine motu maximo generis humani: quippe bellicola
gens atque olim pervagata armis universum prope orbem terrarum, omnium undique animos concussit. Quibus tempestatibus propterea quod
plurima bella gesta cum opulentis populis regibusque, unde strages, induciae, pax, bellum rursum exortum est, atque in extremas terras penetratum est; non alienum videbitur consilia, acta, eventusque rerum, ut quaequae memoria digna extiterunt, aperire, ac, quantum ingenio possim,
ante oculos ponere: et quoniam pleraque simultate atque ambitione principum magis quam bonis artibus acta gestaque sunt, hinc maxime sumere
narrandi initium; ut illorum solertia temeritasque veluti exemplar ad
imitandum cavendumque in aperto proponerentur. Verum prius, quis rerum status, quis animorum habitus, antequam Gallus Italiam invaderet,
paucis disserendum. 70
In questo proemio si rintracciano elementi già individuati nel Guicciardini: l’eccezionalità dell’evento (rem huius aevi longe omnium maximam,
neque sine motu maximo generis humani), le drammatiche conseguenze
(bella gesta cum opulentis populis regibusque, unde strages, induciae, pax,
bellum rursum exortum est), l’intenzione di affrontare una descrizione degli eventi prima di addentrarsi nel tema (Verum prius, quis rerum status,
quis animorum habitus, antequam Gallus Italiam invaderet, paucis disserendum). Tuttavia, i passi guicciardiniani corrispondenti rivelano, al di là
della contiguità tematica, un’assai maggiore aderenza testuale al riferimento tacitiano, trascendendo quindi la dimensione del semplice luogo
comune. Guicciardini infatti, pur recuperando il proemio del De bello
Italico in certe sue forme, contemporaneamente lo trascende alla ricerca
delle fonti primarie, seguendo con fedele ma critica attenzione i proemi
sallustiani e, soprattutto, tacitiani, in un elaborato intreccio di suggestioni
formali e richiami concettuali. Per quanto riguarda dunque il rapporto
tra Guicciardini e gli storici latini (soprattutto Tacito) si ripropone il gioco di citazioni e richiami già applicato da Tacito nelle Historiae nei confronti di De bello Iugurthino e di De coniuratione Catilinae, che permetteva al lettore contemporaneo di riconoscere fin dalle prime battute, tanto
più trattandosi di una sezione programmatica come il proemio, lungo
quale filone storiografico e ideologico si ponesse l’opera tacitiana e in
quale ottica dovessero esserne lette le vicende.
70
Rucellai, p. 3.