VISIONE ASTRONAUTICA DELLA TERRA

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VISIONE ASTRONAUTICA DELLA TERRA
Guido Borghi, III A
VISIONE ASTRONAUTICA DELLA TERRA
20 luglio 1969, per la prima volta nella storia un uomo appoggia il suo piede sulla superficie lunare.
«That's one small step for [a] man, one giant leap for mankind. » (« Questo è un piccolo passo per un
uomo, ma un grande balzo per l'umanità »): queste furono le sue prime parole.
L’umanità, da sempre affascinata da quell’enorme punto luminoso nel cielo, la Luna, che sempre ha potuto
vedere ma mai raggiungere, ha ottenuto qui uno dei suoi più grandi successi, ha realizzato un suo antico
sogno. Tutto ciò che l’uomo, in mancanza delle macchine necessarie, aveva immaginato, sognato e
riversato nella sterminata produzione letteraria attraverso l’ammirabile macchina della mente umana,
diveniva realtà.
Se l’allunaggio, e quindi la visione da parte dell’uomo della Terra dalla Luna, ha suscitato così grandi
emozioni nel XX secolo, è facile comprendere l’enorme fascino e attrazione che l’argomento ha sempre
avuto nell’uomo dei secoli antichi. Tali sentimenti non hanno potuto che lasciare un’indelebile traccia nella
letteratura, da quella arcaica a quella contemporanea, ma anche in altri campi, quali per esempio la
filosofia.
Gli uomini hanno tentato per secoli di immaginare come fosse fatto lo spazio, cosa ci fosse sulla Luna, ma
soprattutto come si presentasse la Terra vista dall’alto: si immaginarono appunto una visione astronautica
della terra. Questo tentativo da parte dell’uomo ben presto si associò a un atteggiamento di stampo
sicuramente più filosofico, ovvero il cercare di unire alla visione della Terra una considerazione della
condizione degli uomini sul loro pianeta.
La nostra analisi può partire dal filosofo greco Platone (Atene, 427 a.C. – Atene, 347 a.C.), dal suo dialogo
socratico del Fedone: in esso, nel punto in cui Socrate dialoga con Simmia poco prima della sua morte, è
riportata un’immagine della Terra particolare (come se qualcuno la guardasse
dall’alto:
“Prima di tutto dunque, o amico, egli riprese, si dice che la vera terra a chi la guardi
dall’alto si presenti come le nostre palle di cuoio a dodici pezzi,
variopinta, distinta nelle sue parti da colori” (trad.Capone Braga)
Da notare come sia già presente l’idea di una terra sferica (, non piatta; un’idea
di sfericità che verrà poi ripresa, come vedremo successivamente, da Cicerone con il termine glubum;
inoltre la Terra viene già vista come un qualcosa di estremamente vario e differente nelle sue varie parti
che la compongono. Il filosofo prosegue affermando:
“Inoltre, seguitò, mi sono persuaso che la terra sia
qualcosa di grandissimo, e che noi, dal Fasi alle Colonne d’Ercole,
ne abitiamo una piccola parte” (trad.Capone Braga)
La Terra in Platone ha dimensioni grandi, troppo grandi per l’uomo, che quindi non la riesce ad esplorare ed
abitare completamente, ma si limita ad abitare attorno al bacino del Mediterraneo, che rappresentava la
maggior parte del mondo allora conosciuto (il cosiddetto , il territorio abitato). Inoltre qui entra
in gioco la visione filosofica dell’uomo: Che cosa è l’uomo in confronto alla grandezza della Terra? Platone
risponde così:
“...stando intorno al mare come formiche o rane intorno a una palude,
mentre molti altri abitano in molti altri luoghi simili a questo” (trad.Capone Braga)
Ecco che cosa è l’uomo in relazione alla Terra: una formica (o una rana (, ovvero esseri
piccoli e quasi insignificanti. L’uomo che, abitando tutt’intorno al Mar Mediterraneo pensa di avere
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civilizzato gran parte della Terra, in realtà non è che un minuscolo essere disperso nell’infinito spazio, e
proprio a causa di questa sua piccolezza non è in grado di comprendere tale fatto.
In questo passo Platone fonda un topos (il paragone fra uomo e formica) destinato ad avere un enorme
successo nel campo della letteratura antica fino ai nostri giorni, lo ritroveremo infatti in diversi e svariati
autori, come per esempio Seneca.
Seneca (Cordoba, 4 a.C. – Roma, 65), nella sua opera Naturales quaestiones composta di sette libri in cui
vengono formulate considerazioni più di tipo platonico che stoico, riprende appieno ed espande questo
topos:
“Si quis formicis det intellectum hominis, nonne et illae
unam aream in multas provincias divident?”
[Se qualcuno desse alle formiche l’intelligenza dell’uomo, non è forse vero che anche quelle divideranno
una singola area in molte provincie?]
Degna di nota è il termine tematico area, da cui deriva il termine areola, che significa cortile, aiuola, che
verrà ripreso in un celebre verso di Dante nel XXII canto del Paradiso (sotto riportato).
Viene ripresentata inoltre l’immagine della formica. L’uomo può facilmente osservare l’intensa attività di un
formicaio, e gli sembrerebbe giustamente ridicolo che degli esseri così piccoli si affaccendassero a spartirsi
in zone il loro minuscolo territorio. Ma il saggio ammonisce: questo non è altro ciò che fanno anche gli
uomini, che scatenano guerre, battaglie cruente e sanguinose solo per creare i loro imperi, che quindi in
realtà si rivelano essere come le provincie delle formiche.
In questo passo si può anche ravvisare la critica, da parte del Seneca stoico, per l’inutilmente cruenta
politica di espansione e dominio dell’Impero Romano, che anche se il più grande e importante del suo
tempo, è da considerarsi alla strenua di una misera porzione di terra.
Afferma infatti:
“...quotiens videbis exercitus subrectis ire vexillis et,
Quasi magnum aliquid agatur…”
“Hoc est illud punctum quod tot gentes ferro et igne dividitur?
O quam ridiculi sunt mortalium termini!”
[Quante volte vedrai gli eserciti arrivare con i vessilli alzati, e come se fosse una cosa importante...]
[È tutto qui quel punto che viene diviso col ferro e col fuoco fra tante popolazioni? Oh quanto ridicoli sono i
confini posti dagli uomini!]
Sempre facendo riferimento alla similitudine uomini-formiche, Seneca prosegue così:
“it nigrum campis agmen”
[Va per i campi la nera fila]
Questo è un verso ripreso direttamente da Virgilio nell’Eneide (VI libro, v.404): Didone, ormai sconsolata e
affranta per la decisione di partire presa dal suo amato Enea, guarda dall’alto della torre del palazzo regale i
Troiani affaccendarsi nella preparazione delle loro navi, e proprio il loro muoversi e prepararsi viene
paragonato alle azioni delle formiche.
Il termine nigrum verrà poi ripreso da Dante nel XXVI canto del Purgatorio, assieme all’immagine ormai
topica delle formiche, per descrivere la condizione delle anime che espiano la loro colpa:
“Così perentro loro schiera bruna
S’ammusa l’una con l’altra formica”
Continua nel testo delle Naturales Quaestiones il riferimento al piccolo mondo delle formiche:
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“Formicarum iste discursus est in angusto laborantium.
Quid illis et nobis interest nisi exigui mensura corpuscoli?”
*Questo è l’andirivieni delle formiche in uno spazio piccolo. Cosa c’è di differenza tra quelle e noi se non la
piccola misura del corpo?]
Qui Seneca ricorda ancora una volta, per rafforzare ulteriormente la sua precedente similitudine, la
vicinanza che intercorre fra le formiche e gli uomini, differenziati da una banale diversa misura del corpo.
Infine al termine del passo abbiamo la visione astronautica della terra secondo la concezione del filosofo:
“Punctum est istud in quo navigatis, in quo bellatis, in quo rega disponitis:
minima, etiam cum illis utrimque oceanus occorri.
Sursum ingentia spatia sunt, in quorum possessionem animus admittitur”
[Questo è un punto nel quale navigate, nel quale combattete, nel quale formate i regni: piccolissima, anche
se l’oceano la bagna da entrambi i lati. In alto esistono spazi immensi, nei quali è ammessa l’anima a
possederli]
La terra, nonostante agli uomini appaia assai grande, non è altro che un punctum (parola tematica che
viene ripresa frequentemente all’interno del topos, che porta con sé l’idea di totale svalutazione e
disprezzo per la realtà terrestre) nei confronti degli ingentia spatia dell’universo, e quindi di conseguenza le
azioni (notare l’uso del tricolon per elencarle: in quo...in quo...in quo...) degli uomini appaiono come inutili,
effimere e vane perché materiali e non legate all’anima vera. Tale concezione si avvicina molto al pensiero
cristiano che proprio durante il periodo della vita di Seneca stava prendendo forma: in comune vi è l’idea
dell’insensatezza delle opere ed azioni umane che non contribuiscono, ma anzi allontanano dalla
purificazione e dalla salvezza dell’anima. Questa vicinanza non ci deve sorprendere, già a partire dal
Medioevo infatti la figura di Seneca fu avvicinata, fino a quasi farla coincidere, con quella del credente
cristiano (motivo principale per cui le sue opere furono copiate nei monasteri e sopravvissero al tempo, a
differenza di molte altre opere pagane di altri autori ritenute incompatibili con la visione cristiana e quindi
dimenticate, sopravvissute per puro caso o attraverso fonti indirette).
Lasciato Seneca, procediamo con l’analisi del topos attraverso la figura di Cicerone (Arpinum 106 a.C. –
Formia 43 a.C.), in particolare con la sua opera Somnium Scipionis (in realtà sarebbe la parte conclusiva del
De Republica, ma a causa del suo particolare contenuto, basato sulla narrazione di un sogno che Scipione
Emiliano fece riguardo a Scipione Africano, iniziò ben presto a separarsi dall’opera principale e ottenere
grande fortuna per la sua ricchezza di elementi mistici platonico - pitagorici).
In vari paragrafi possiamo rintracciare la visione della terra da parte dell’autore, per esempio nel paragrafo
numero venti, capitolo VI:
“Haec ego admirans, referebam tamen oculos ad terram identidem.
Tum Africanus: <<Sentio>>, inquit, <<te sedem etiam nunc hominum ad domum
Contemplari; quae si tibi parva, ut est, ita videtur, haec celestia simper spectator,
illa humana contemnito.”
[Benché io ammirassi queste, tuttavia rivolgevo continuamente gli occhi verso la terra. Allora l’Africano
disse: <<Mi accorgo che contempli la sede e la dimora; e se ti appare così piccola, come effettivamente è,
guarda sempre queste cose celesti e invece disprezza quelle cose umane.]
Anche Cicerone riprende l’idea della piccolezza della terra nei confronti degli elementi terrestri, e come nel
caso di Seneca, questa osservazione fa scaturire nell’autore una reazione ostile nei confronti delle azioni e
ricchezze materiali umane, ritenute vane ed effimere: la gloria umana è soltanto una vana aspirazione a cui
l’uomo saggio non deve tendere.
Altro brano interessante è quello del paragrafo ventuno, capitolo VI:
“Omnis enim terra quae colitur a vobis, angustata verticibus,lateribus latior,
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parva quaedam insula est circomfusa illo mari quod Atlanticum, quod
magnum, quem Oceanus appellatis in terris, qui tamen tanto nomine quam sit
parvus vides.”
[Infatti la terra nel suo complesso è da voi abitata, schiacciata ai vertici e più larga ai lati, è una piccola isola
circondata da quel mare che Atlantico, che grande, che Oceano chiamate sulla terra, che tuttavia vedi
quanto sia piccolo con tanto nome.]
Questo paragrafo offre una visione terrestre che per certi aspetti stupisce: si può notare infatti come sia
accurata e precisa la sua descrizione, si migliora il concetto di sfericità della terra, già in sé ammirevole,
aggiungendo il particolare dei vertici schiacciati e quindi la maggiore larghezza dei lati (tale conformazione
è dovuta al moto di rotazione che la Terra compie sul suo asse). Degno di nota inoltre è il termine insula,
usato per rafforzare il concetto della terra vista come un punctum (quindi questi due termini appaiono
fortemente legati fra di loro).
“Homines enim sunt hac lege generati,
qui tuerentur illum globum, quem in hoc templo vides,
quae terra dicitur, iisque animus datus est ex illis sempiternis
ignibus, quae sidera et stellas vocatis, quae globosae
et rotundae, divinis animatae mentibus, circulos suos orbesque conficiunt celeritate mirabili. ”
[Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che
tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l'anima dai fuochi sempiterni cui voi date
nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro
circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente.]
Da rilevare la presenza del termine tematico glubum e del relativo aggettivo globosae) che continua a
riprendere quell’idea di sfericità della terra già più volte evidenziata.
Autore successivo a Cicerone che si iscrive a questa tematica è l’imperatore romano Marco Aurelio (Roma,
26 aprile 121 – Sirmio, 17 marzo 180) , con la sua opera , di chiaro stampo stoico. È un autore
romano che però scrive in greco, lingua conosciuta bene perché imparata fino dall’infanzia e più adatta ad
esprimere concetti filosofici, rispetto al concreto e materiale latino (ricordiamo che con lui si realizzò il
sogno platonico del filosofo che giunge al potere).
Più che in ogni altro autore fin’ora considerato (si potrebbe al limite escludere Seneca) la sua visione della
terra è connotata fortemente in senso filosofico; vengono da lui ripresi vari elementi che abbiamo già
riscontrato in autori come Cicerone e Seneca.
Si può citare per esempio dal libro XII:
“Terza considerazione: se tu, improvvisamente librato in cielo, osservassi
Dall’alto la realtà umana e la sua varietà, la disprezzeresti scorgendo
Nello stesso tempo quanto sia vasto lo spazio che la avvolge, popolato di esseri aerei
Ed eterei; e ogniqualvolta ti librassi in alto, vedresti sempre le medesime cose,
il loro aspetto sempre uguale, la brevità della loro esistenza.
E sono queste cose l’oggetto della vanità umana!” (trad. Enrico Maltese)
Altro esempio è ricavabile dal libro VI

“L’Asia, l’Europa sono cantucci del cosmo, ogni mare è una goccia del cosmo;
l’Athos è una piccola zolla del cosmo; l’intero tempo presente
è un punto nell’eternità: tutto è piccolo, instabile, in atto di scomparire.” (trad. Enrico Maltese)
O ancora dal libro VII:
“Futilità di un corteo trionfale, drammi in scena, greggi, mandrie,
combattimenti con la lancia, un osso gettato a dei botoli,
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un boccone di pane nelle vasche dei pesci, affannarsi di formiche sotto il
carico, topolini impauriti che corrono qua e là, marionette mosse con i fili.” (trad. Enrico Maltese)

I più grandi continenti europei sono solo dei cantucci ( rispetto alla vastità del cosmo, i
vasti oceani una sola goccia, il filosofo-imperatore allora si chiede: perché affannarsi continuamente per
cercare di guadagnare, durante la vita umana beni materiali, effimeri e vani?
Viene ripresa da Platone l’immagine delle formiche, che si affannano (il verbo riprende il discursus di
Seneca) sotto il loro carico; si sottolinea l’idea del muoversi e preoccuparsi inutilmente degli uomini con
l’immagine dei topolini impauriti che corrono in tutte le direzioni. Ritroviamo anche qui termini tematici
come (goccia in greco), che riprende i termini tematici punctum di Seneca e insula di Cicerone.
Le visioni astronautiche della terra, e quindi le riflessioni sulla condizione umana, che si erano formate
prima di Marco Aurelio ben si inseriscono nella filosofia stoica, di cui era seguace anche Seneca, che predica
il distacco delle cose terrene, la virtù dell’autocontrollo portata all’estremo nell’atarassia, come mezzi per
raggiungere l’integrità morale ed intellettuale. Il filosofo stoico arriva così a disprezzare e a rifiutare la
realtà umana e la sua varietà.
Una rivisitazione in chiave cristiana del topos, all’epoca delle persecuzioni romane contro i cristiani, la offre
Cipriano (Cartagine, 210 – Sesti, 14 settembre 258), con la sua opera Ad Donatum:
“Paulisper te crede subduci in montis ardui verticem celsiorem,
speculare inde rerum infra te iacentium facies et oculis in diversa
porrectis ipse a terrenis contactibus liber fluctuantis mundi turbines intuere”
*Per un po’ immaginati di essere condotto sulla sommità piuttosto alta di un monte elevato, contempla da lì
l’aspetto delle cose che si trovano sotto di te, portati gli occhi su diverse zone, tu stesso libero da contatti
terreni, osserva gli sconvolgimenti del mondo instabile]
Dalla sommità del monte, che nell’ottica cristiana simboleggia il distacco dalle cose terrene (l’uomo quindi
è svincolato dai beni materiali, dai contatti terreni; questa è un’ottica che abbiamo già trovato, seppur in
chiave pagana, in Cicerone, Pitagora, Platone, che descrivono come l’anima possa elevarsi solo se sciolta da
ogni altro legame corporeo), l’uomo osserva il tumulto, l’instabilità (qui forte è il legame con Marco
Aurelio) e si compiace della propria posizione che lo sottrae a questi turbamenti.
Un veloce accenno merita anche Lucano (Cordova, 3 novembre 39 – Roma, 30 aprile 65), anch’esso stoico,
che nel libro IX della Farsaglia o La Guerra Civile descrive come l’anima di Pompeo, una volta staccatosi dal
corpo decapitato, si libri nel cielo giungendo a vedere i resti del suo corpo e contemplando gli astri; si
ritrova quindi una visione dall’alto:
“Illic postquam se lumine vero implevit,
stellasque vagas miratus et astra fixapolis, vidit quanta sub nocte iaceret
nostra dies, risitque sui ludibria trunci.”
[Là, pervaso da viva luce, Pompeo contemplò gli astri vaganti e le stelle fisse nel cielo e vide quanta oscurità
opprimesse il nostro giorno, e sorrise all’oltraggio fatto al suo corpo decapitato.+ (trad. Luca Canali)
Uscendo ora dall’ambito dell’Impero Romano d’Occidente, ponendoci negli anni immediatamente
successivi alla sua caduta, passiamo ad analizzare Boezio (Roma, 476 – Pavia, 25 ottobre 525), in particolare
con la sua opera De consolatione philosophiae, poiché proprio in questo suo lavoro è possibile trovare una
frase che fa riferimento al tema topico trattato:
“Vix angustissima inhabitandi ominibus area”
*A malapena un’area piccolissima lasciata da abitare agli uomini+
Ritroviamo il concetto della piccolezza della Terra, qui ribadito ulteriormente dall’uso del superlativo
angustissima; inoltre si nota il termine area ripreso da Seneca, da cui deriva il termine aiuola di Dante.
Il topos della visione della terra dall’alto compare anche in S. Girolamo, nella sua Epistola 60, 18:
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“O si possemus in talem ascendere speculam de qua
universam terram sub nostris pedibus cerneremus.”
[O se potessimo alzarci a una tale altezza dalla quale potremmo guardare sotto i nostri piedi tutta la terra].
Da notare l’utilizzo del verbo ascendere, che indica movimento verso l’alto, e l’utilizzo dell’espressione sub
nostris pedibus, che ritroviamo per esempio in Virgilio.
Per ritrovare una significativa e forte ripresa ed espansione di questo topos è necessario spostarsi nel XIIIXIV secolo, e prendere in considerazione la figura del sommo poeta del volgare italiano Dante Alighieri
(Firenze, 1265 – Ravenna, 13 settembre 1321), nella sua massima opera, la Divina Commedia.
Paragoneremo qui, ai versi di Dante che riprendono le produzioni di Cicerone e di Seneca, alcune Egloghe di
Virgilio, autore che prima non è stato inserito (si è preferito inserirlo in questa ultima parte a causa del suo
forte legame con i versi di Dante, del resto la stessa produzione virgiliana è stata fonte di auctoritas per il
poeta toscano).
I versi 128, 129 del XXII canto del Paradiso:
“Rimira in giù, e vedi quanto mondo
Sotto li piedi già esser ti fei”
Sono in fortissima relazione con L’Egloga V, verso 56 e ss.:
“Candidus insuetum miratur limen Olympi
Sub pedibusque videt nube set sidera Daphnis”
*Dafni splendente ammira l’inconsueta soglia dell’Olimpo e vede sotto i piedi le nubi e le stelle]
In entrambe è presente la visione topica della Terra dall’alto, da sotto i piedi (sub pedibusque - sotto li
piedi); inoltre Virgilio viene ripreso da Dante nel verbo (miratur - rimira), comune quindi è la visione
dell’orizzonte cosmico.
Inoltre questi stessi versi di Dante sono riferibili anche a un’altra Egloga (IV, 50):
“Aspice convexo nutantem pondere mundum,
terraqueo tractusque maris caelumque profundum”
[Guarda il mondo, trabballante per il peso convesso, e la terra e i tratti di mare e il cielo profondo]
Da cui è ripreso l’imperativo auspice presente anche nei versi danteschi.
Altri versi di Dante, sempre appartenenti al XXII canto del Paradiso, sono inseribili nel topos della visione
astronautica; versi 133-135
“Col viso ritornai per tutte quante
Le sette spere, e vidi questo globo
Tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante”
Versi 151-153:
“L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli alle foci”
Paradiso, Canto XXVII, versi 85-86:
“E più fora discoverto il sito
Di questa aiuola; ma ‘l sol procedea”
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In questi pochi versi Dante prende in esame quasi tutti i termini tematici fino ad ora analizzati, in
particolare il globo richiama il glubum ciceroniano, il termine aiuola come già precedentemente detto
proviene dal termine areola che a sua volta ha le origini dal termine area; Dante, sempre nella Divina
Commedia, denomina la terra come “gran secca”, facendo riferimento al significato etimologico della
parola area, che in origine significava ampia distesa arida, desertica.
Come nel caso di Seneca, qui si può scorgere anche un giudizio dal punto di vista politico, in particolare nel
verso 151: Dante critica fortemente il suo secolo e in particolare la situazione anomala italiana, dilaniata da
sanguinose guerre intestine che non permisero il formarsi di uno stato unitario ed egemone nella penisola
italiana, arriva a dipingere un’umanità ridotta allo stato bestiale (feroci) dal continuo succedersi di scontri.
Dante struttura la visione della Terra in tre momenti principali, corrispondenti a quelli del Somnium
Scipionis e di Boezio. Si può procedere a una tale schematizzazione:
 Visione della terra e constatazione della sua piccolezza in confronto con le cose celesti, contrasto
che porta al sorriso del poeta
 Pausa nella contemplazione, inizio della riflessione suscitata da tale visione
 Visione della Luna
Altra tappa fondamentale dello svilupparsi del topos della visione dall’alto all’interno della letteratura
rinascimentale è la figura di Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533), nella sua
opera di maggior rilievo: l’Orlando Furioso.
Canto XXXIV, ottave 70-71:
“*...+ e lo trovano uguale, o minor poco
Di ciò ch’in questo globo si raguna
In questo ultimo globo della terra,
mettendo il mar che la circonda e serra”
“*...+ il quale a un picciol tondo rassimiglia
A noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ‘l mar ch’intorno spande
discerner vuole, che non avendo luce,
l’immagin lor poco alta si conduce.”
I versi sono tratti dall’episodio celeberrimo di Astolfo sulla Luna: il paladino è inviato sulla superficie lunare
per recuperare il senno di Orlando; una volta giunto a destinazione, grazie all’ippogrifo, si accorge della
lontananza e piccolezza della terra, tantoché per guardarla deve aguzzar gli occhi (notare qui il realismo e la
vivacità narrativa dell’Ariosto, che riprende un gesto comune dell’uomo ma in questo caso molto
significativo e comunicativo, impiegato anche da Dante in Inferno XV, 20-21, i sodomiti “sì ver noi
aguzzavan le ciglia/come ‘l vecchio sartor fa nella cruna).
Per giungere a tempi a noi più vicini, rimanendo sempre nell’ambito del topos della visione, possiamo citare
il poeta Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 – Napoli, 14 giugno 1837) nella sua canzone La
Ginestra del 1845: fu un uomo-poeta con molteplici interessi, fra cui sicuramente quelli di tipo
astronomico, basti pensare che nel 1813 pubblicò un’operetta dal titolo Storia dell'astronomia.
All’interno della strofa numero cinque (versi 202-207) c’è una elaborata similitudine che vede gli uomini
posti a fianco delle formiche, secondo lo schema platonico.
“Come d’arbor cadendo un picciol pomo
Cui là nel tardi autunno
Maturità senz’altra forza atterra
D’un popol di formiche i dolci alberghi
Cavati in molle gleba
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Con gran lavoro”
Anche in questo caso le formiche vengono colte nella loro operosità, in atto di ricostruire il loro formicaio
distrutto dalla caduta di un pomo maturo.
Inoltre si possono individuare altri versi significativi nella strofa quattro:
“veggo dall’alto fiammeggiar le stelle” (verso 163)
“ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo ove l’uomo è nulla” (versi 168-173)
“o così paion come
Essi alla terra, un punto” (versi 181-182)
“...e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome” (versi 189-191)
In questi versi il concetto del punctum viene ripreso e ampliato attraverso un’immagine di stampo biblico
(cfr. Genesi, 22, 15-18: “perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti
benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e
come i granelli di sabbia che sono sul lido del mare”): il punto, che rappresenta la Terra, viene identificato
infatti con un misero granellino di sabbia.
Ulteriore verso degno di nota è:
“Non so se il riso o la pietà prevale” (verso 201)
Si ha la ripresa da parte di Leopardi dei termini tematici punto, globo e riso, i primi di derivazione
ciceroniana, l’ultimo ripreso in particolare da Dante: il riso è provocato dal contrasto fra la piccolezza della
Terra e la grandezza degli spazi celesti (cfr. Paradiso, XXII canto, versi 133-135).
Accennando anche la figura di Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912),
che si inserisce in questa tradizione grazie all’opera Il Ciocco , in cui il microcosmo delle formiche che
fuggono dalla loro tana, il ciocco, che sta bruciando nel camino, viene contrapposto al macrocosmo del
mondo degli uomini, qui rappresentati dai contadini che stanno attorno al fuoco, si arriva fino alla figura di
Tolstoj (Jasnaja Poljana, 28 agosto 1828 – Astapovo, 7 novembre 1910): in una stupenda pagina del suo
Guerra e pace, paragona i Russi che ritornano nella capitale Mosca, distrutta da loro stessi durante la
guerra, e che lavorano fervidamente per costruirla, alle formiche; delle formiche infatti ammira la loro
tenacia, la loro energia nel ricostruire il formicaio, malgrado completamente distrutto, e vede questo stesso
spirito di intraprendenza nella popolazione Russa.
Infine si può prendere in considerazione la figura di Giovanni Verga (Catania, 2 settembre 1840 – Catania,
27 gennaio 1922), nella sua novella Fantasticheria (Vita dei Campi): definisce infatti la popolazione del
paesino siciliano di Aci Trezza (futuro protagonista della sua opera maggiore, I malavoglia) un brulicame,
facendo chiaramente riferimento all’immagini del mondo animale legate al topos fin qui riportate; inoltre
prosegue così:
“Vi siete mai trovata dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche
Tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale?
Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro
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Ombrellino torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di panico e di viavai,
saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno”
Viene recuperata l’immagine delle formiche colte nella loro caparbietà di non abbandonare il loro formicaio
nonostante l’intervento umano (un aspetto simile a quello che si trova anche in Tolstoj); si può notare un
lontano eco dantesco in quell’aggettivo bruno (Purgatorio, canto XXVI), un richiamo al discursus di Seneca
nel termine viavai.
È facilmente intuibile dunque, al termine di questa sintetica trattazione, che il topos letterario della visione
della Terra dall’alto (dallo spazio o dalla luna a differenza dei vari casi) e dell’argomento strettamente
connesso della visione della condizione dell’uomo, è stato e continua ad essere un terreno assai fecondo di
immagini da cui attingere, destinato a durare e svilupparsi nel tempo.
Del resto la sua fortuna poteva essere facilmente prevista già dall’esempio di Platone: un argomento così
misterioso (al giorno d’oggi abbiamo si le immagini della Terra che provengono dai satelliti, ma d’altronde si
sono ancora più allargati gli orizzonti dello spazio, l’uomo grazie alla sua tecnologia ha capito ancora meglio
quanto sia un misero punctum all’interno dell’universo), legato all’orizzonti dei limiti della conoscenza
umana, non poteva che sollecitare la mente, quella straordinaria macchina all’interno dell’uomo, stimolarla
a produrre sempre nuove immagini.
Gli uomini antichi, che siano Greci o Romani, non ci devono quindi apparire troppo lontani da noi e dalla
nostra mentalità: una sorta di “cordone ombelicale” mai tagliato, composto dall’immaginazione riguardo
all’ignoto, dalla tendenza a superare i propri limiti della ragione, dal desiderio di conoscere, ci unisce e
continuerà ad unirci nel tempo.
Non è strano, dunque, che la letteratura antica sia, nonostante i secoli trascorsi, così viva e moderna anche
al giorno d’oggi, e che continui a svolgere un ruolo di guida all’interno della letteratura contemporanea.
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