La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali
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La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali
La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali RAPPORTO CNEL - 13 DICEMBRE 2011 Il Rapporto “La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali” è stato elaborato per il CNEL dall’Istituto Affari Internazionali, a cura di Maria Cristina Paciello. 2 INDICE Introduzione 1. Quadro socio-economico e politico della primavera araba Introduzione 1.1 Mercato del lavoro 1.1.1 Deterioramento del mercato del lavoro 1.1.2 Debolezze dei modelli di crescita e impatto sul mercato del lavoro 1.1.3 Inefficacia delle politiche attive del mercato del lavoro 1.2 Sistema di welfare e condizioni di vita 1.2.1 Crisi del sistema di welfare 1.2.2 Erosione del potere d’acquisto 1.3. Quadro politico 1.3.1 Contesti autoritari 1.3.2 Dinamiche politiche e problemi economici 2. Sfide socio-economiche dopo la primavera araba Introduzione 2.1 Incertezze del cambiamento politico 2.2 Ripercussioni socio-economiche della primavera araba 2.3 Risposte dei governi 3. Ruolo della società civile 3.1 La società civile alla vigilia della primavera araba tra repressione e cooptazione 3.2 Crescente contestazione nell’ultimo decennio 3.3 La primavera araba 3.4 Società civile tra sfide e opportunità 3.4.1 Quadro d’insieme 3.4.2 Sindacati dei lavoratori 3.4.3 Organizzazioni rappresentative degli imprenditori 3.4.4 Attivismo giovanile 3.4.5 Attivismo femminile Conclusioni Bibliografia 3 INTRODUZIONE Nei primi mesi del 2011, il mondo arabo, e particolarmente il Nord Africa, sono stati investiti da un’ondata di proteste e agitazioni che hanno sconvolto profondamente la regione. In Tunisia, Egitto e Libia, le sollevazioni popolari si sono concluse con il rovesciamento dei rispettivi dittatori, mentre, in Algeria e in Marocco, i regimi in carica hanno risposto alle proteste con una serie di riforme politiche e misure economiche calate dall’alto, nella speranza di non incorrere nello stesso destino. I fattori che hanno generato questa ondata di proteste nel Nord Africa sono profondamente radicati nel contesto socio-economico e politico di questi paesi: da una parte, un progressivo e drammatico peggioramento del quadro socio-economico, soprattutto nell’ultimo decennio; e dall’altra, un quadro politico diventato ugualmente insostenibile, a causa del rafforzamento dell’autoritarismo e dell’indurimento della repressione, anche se con modalità ed intensità diverse da paese a paese. La primavera araba ha avuto un profondo impatto sulla regione, ed in particolare sul Nord Africa. Nel breve termine, ha contribuito ad aumentare i fattori di instabilità e ad acutizzare, in molti casi, i problemi socio-economici all’origine delle proteste, mentre resta incerta la futura evoluzione politica di questi paesi. Nel lungo termine, tuttavia, potrebbe offrire opportunità per un reale cambiamento politico ed economico nella regione. Tra i principali effetti positivi della primavera araba va sottolineato, in particolare, il riemergere della società civile, che, benché sia ancora debole, poco organizzata e, per alcuni aspetti, in una fase ancora embrionale, testimonia, in queste prime fasi, di un grande dinamismo. Alla luce di tali premesse e focalizzando l’attenzione su tre paesi del Nord Africa - Algeria, Egitto e Tunisia - il presente rapporto analizza i seguenti temi: le principali dinamiche socio-economiche e politiche che hanno portato al crollo dei regimi in Tunisia ed Egitto e che hanno suscitato le ondate di proteste in Algeria; le sfide socio-economiche dopo la primavera araba, alla luce delle forti incertezze che gravano sulle prospettive di cambiamento politico, delle ripercussioni socioeconomiche delle proteste e delle risposte messe in atto dai governi in carica nei tre paesi; il ruolo che può svolgere la società civile nel promuovere e influenzare il cambiamento politico ed economico in tali paesi, con particolare riguardo ai sindacati dei lavoratori, alle organizzazioni degli imprenditori e alle diverse forme di attivismo sociale dei giovani e delle donne. 1. QUADRO SOCIO-ECONOMICO PRIMAVERA ARABA E POLITICO DELLA Introduzione Nel corso dell’ultimo ventennio, l’Algeria, l’Egitto e la Tunisia hanno proceduto ad una progressiva liberalizzazione delle loro economie, seppur con tempi e modalità diverse. Alla metà degli anni ottanta, infatti, terminato il boom petrolifero (1973-1981) e in seguito ai deludenti risultati delle politiche economiche stataliste e protezionistiche attuate fino ad allora, i tre paesi, come il resto del mondo arabo, furono colpiti da una grave crisi economica, segnata da deficit di vaste proporzioni, debiti insostenibili e livelli di inflazione mai raggiunti prima di allora (vedi Alexander, 2010; Richards e Waterbury, 1998; Paciello, 2010). Per uscire dalla crisi socio-economica degli anni ottanta, prima la Tunisia (1986), poi l’Egitto (1991) ed infine l’Algeria (1994)1 furono costretti a ricorrere all’aiuto della Banca Mondiale (BM) e del Fondo Monetario Internazionale (FMI), L’autrice ringrazia Andrea Dessì, assistente alla ricerca IAI, per la preziosa collaborazione, e Silvia Colombo, ricercatrice IAI, per i commenti al rapporto. 1 In Algeria, il primo programma di aggiustamento strutturale fu firmato nel 1991, ma l’inizio della guerra civile, seguita all’annullamento del primo turno elettorale vinto dal partito islamista Fronte Islamico di Salvezza, posticipò la sua attuazione al 1994. 4 adottando un pacchetto di misure volto a liberalizzare l’economia, noto con il nome di Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS).2 Da allora, anche se con differenze, i tre paesi hanno proseguito sulla strada delle riforme strutturali finalizzate a ridurre il peso dello stato nell’economia, promuovere il settore privato e favorire l’integrazione nei mercati internazionali. A partire dai primi anni novanta, la Tunisia e l’Egitto sono riusciti a rimettere in moto, seppur lentamente, la crescita economica, e a riportare sotto controllo il deficit pubblico e l’inflazione (ElGhonemy 1998; Pfeifer 1998). Nell’ultimo decennio, la crescita economica nei due paesi ha proceduto a ritmi più rapidi. In Tunisia, durante il periodo 2000-2007, il Pil reale è cresciuto a una media del 5% (International Monetary Fund, 2010). In Egitto, si osserva lo stesso tasso medio di crescita economica dal 2002 al 2006, anno in cui il Pil reale tocca il picco massimo del 7,1% (Imf, 2007). Anche in Algeria, dove negli anni novanta la guerra civile aveva portato al collasso economico (Belkacem, 2001), a partire dal 2000 gli indicatori macro-economici hanno cominciato a migliorare (Talahite e Hammadache, 2011; International Monetary Fund, 2011). Durante il periodo 2001-2007, il Pil reale è cresciuto ad una media del 4,2% (IMF, 2008; IMF, 2009). Inoltre, approfittando degli ampi ricavi derivanti dall’elevato prezzo del petrolio, tra il 2005 ed il 2010, l’Algeria è riuscita a ridurre significativamente il suo debito estero, che è passato dal 17% del Pil allo 0,5% (Zoubir e Darbouche, 2011). Benché, nell’ultimo ventennio, nei tre paesi oggetto di studio, si siano registrati progressi sul fronte della stabilizzazione macroeconomica, come vedremo a breve la situazione del mercato del lavoro e le condizioni di vita di ampi strati della popolazione hanno subito un progressivo peggioramento. Nell’ultimo decennio, a fronte di una rapida crescita economica, i problemi socio-economici nei tre paesi si sono persino aggravati. Infine, l’analisi dei fattori che hanno generato l’ondata di proteste in Egitto, Tunisia e Algeria sarebbe incompleta senza considerare anche il quadro politico da cui sono emerse. Il drammatico peggioramento del quadro socio-economico osservato nei tre paesi, soprattutto nell’ultimo decennio, è stato infatti accompagnato da una situazione politica ugualmente insostenibile, contraddistinta da un progressivo rafforzamento dell’autoritarismo, dall’indurimento della repressione e della chiusura degli spazi di espressione politica, anche se con modalità ed intensità diverse da paese a paese. 1.1. Mercato del lavoro 1.1.1 Deterioramento del mercato del lavoro A partire dalla crisi economica della metà degli anni ottanta, si comincia ad assistere in tutto il mondo arabo, ed in particolare in Algeria, Egitto e Tunisia, ad un peggioramento della situazione del mercato del lavoro: crescente informalizzazione, significativa diminuzione dei salari reali e, soprattutto, aumento vertiginoso della disoccupazione (Paciello, 2007). In Algeria, per esempio, il tasso di disoccupazione a livello nazionale passò dal 16,9% nel 1989 al 29,9% nel 2000.3 Nell’ultimo decennio, nonostante la buona crescita economica, i problemi del mercato del lavoro nei paesi oggetto di studio si sono acutizzati, soprattutto tra i giovani e le donne. Anche se, a livello nazionale, il tasso di disoccupazione in tutti e tre i paesi considerati è diminuito,4 tuttavia, tra i giovani laureati non ha smesso di aumentare. In Algeria, nonostante il tasso di disoccupazione totale sia sceso drammaticamente, tra i giovani laureati addirittura è raddoppiato, passando dal 10% nel 2001 a circa il 20% nel 2008 (Achy, 2011).5 Anche in Egitto, in contro tendenza con l’andamento nazionale, la disoccupazione tra i laureati è salita, dal 9,7% nel 1998 al 14,4% nel 2 Occorre precisare, comunque, che già negli anni settanta, prima la Tunisia (nel 1969), poi l’Egitto (nel 1974) e l’Algeria (nel 197879) avevano avviato un timido processo di liberalizzazione economica. Tuttavia, tali misure non avevano alterato il ruolo dello stato nell’economia (Richards e Waterbury, 1998). 3 Organizzazione Internazionale del Lavoro, Banca Dati Laborsta Internet (http://laborsta.ilo.org/). 4 In Tunisia, il tasso di disoccupazione passa dal 16,0% nel 1999 a 14,1% nel 2007 (Observatoire National de l’Emploi et des Qualifications, 2008); in Egitto scende da 11,7% nel 1998 a 8,3% nel 2006 (Asaad, 2007), mentre, in Algeria, dal 29,9% nel 2000 all’11,3% nel 2009 (Bouklia-Hassane e Talahite, 2010). 5 Secondo fonti non ufficiali, il tasso di disoccupazione tra i giovani laureati toccherebbe il 40% (Layachi, 2011). 5 2006 (Assaad, 2007). In Tunisia, nell’ultimo decennio, l’aumento del tasso di disoccupazione tra i giovani (25-34) e soprattutto tra i laureati ha subito una forte accelerazione. Tra i laureati, il tasso di disoccupazione è arrivato al 19,6% nel 2007, rispetto all’8,6% nel 1999 (Observatoire National de l’Emploi et des Qualifications, 2008). Secondo stime tenute nascoste sotto il regime di Ben Ali e rivelate dopo la sua fuga, il tasso di disoccupazione tra i laureati sarebbe ancora più ampio e sarebbe aumentato dal 22,1% nel 1999 al 44,9% nel 2009.6 Infine, sempre in Tunisia, i tassi di disoccupazione sono particolarmente elevati nelle regioni più povere da cui ha avuto origine l’ondata di proteste (le regioni sud occidentali e centro-occidentali): nel 2007, a fronte di un tasso medio nazionale del 14%, la disoccupazione sfiorava il 40% a Sidi Bouzid, il 30% nel governatorato di Gafsa, il 24,1% a Jandouba ed il 25,1% a Tozeur (Mahjoub, 2010; Amnesty International, 2009). Come per i giovani, anche per le donne, l’evoluzione dei tassi di disoccupazione è stata sfavorevole (Paciello e Pepicelli, 2011). In Tunisia, per esempio, contrariamente alla tendenza osservata per i maschi nell’ultimo decennio, la disoccupazione femminile ha continuato ad aumentare (dal 17,2% nel 1999 al 18,6% nel 2008) (Observatoire National de l’Emploi et des Qualifications, 2008).7 Ad oggi, quindi, nei tre paesi la proporzione di donne disoccupate, soprattutto tra le laureate, risulta essere di gran lunga più elevata rispetto a quella degli uomini (per l’Egitto, UNICEF, 2010). In Algeria, per esempio, nel 2010, il tasso di disoccupazione tra le giovani laureate toccava il 33,6% rispetto all’11,1% per i giovani con lo stesso livello di istruzione (Ons, 2010). In Tunisia, nel 2009, il 34,9% delle ragazze laureate erano disoccupate contro il 14,6% dei ragazzi laureati (Romdhane, 2011). Nell’ultimo decennio, inoltre, il processo di informalizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro ha subito un’accelerazione. Nei tre paesi oggetto di studio, l’economia informale e le attività a debole valore aggiunto hanno giocato un ruolo centrale nella creazione di posti di lavoro. In Algeria, la spettacolare riduzione della disoccupazione osservata nel periodo che va dal 2000 al 2007 si è prodotta al costo di un deterioramento della qualità dei posti di lavoro creati, che tendono ad essere precari, mal pagati e senza copertura sociale (Achy, 2011; Bouklia-Hassane e Talahite, 2007). Il contributo dell’economia informale alla creazione di lavoro nel settore privato urbano è infatti passato dal 34,9% nel 2000 al 42,6% nel 2007 (Achy, 2011). In Egitto, dove le prospettive di impiego nel settore pubblico sono diminuite significativamente, la maggior parte dei posti di lavoro creati durante il 1998-2006 ha avuto luogo nell’economia informale, tanto che la proporzione di lavori non coperti da contratto legale è aumentata di quattro punti percentuali, arrivando a toccare il 61% nel 2006 (Assaad, 2007). Anche per quanto riguarda la Tunisia, si osserva una tendenza simile. La proporzione di lavori a contratto determinato ha subito un rapido innalzamento a partire dalla metà degli anni novanta, dopo l’approvazione della riforma del codice del lavoro (1994) che ha istituzionalizzato questa tipologia di impiego (contrats à durée déterminée/CDD) (Hibou et al. 2011). Nei tre paesi oggetto di studio, la maggior parte di coloro che accettano di lavorare con contratti temporanei, sotto pagati e senza alcuna protezione sociale o come microimprenditori nell’economia informale sono tendenzialmente giovani con un’istruzione intermedia o universitaria (Unicef, 2010; Wahba, 2010; Assad, 2007; Romdhane, 2011). Per esempio, i call center in Tunisia hanno rappresentato negli ultimi anni un’opportunità di lavoro per molti giovani laureati tunisini, bilingue e spesso trilingue, che, non riuscendo a trovare un posto di lavoro corrispondente ai loro studi, hanno accettato di lavorare anche senza un contratto in condizioni di lavoro difficili (Meddeb, 6 Haouari, I. “Ces chiffres qu'on ne nous a jamais révélés”, La presse de Tunisie, 6 febbraio 2011, http://www.lapresse.tn/06022011/21973/ces-chiffres-qu-on-ne-nous-a-jamais-reveles.html 7 In Algeria, negli anni duemila, il tasso di disoccupazione femminile è diminuito molto più lentamente rispetto a quello maschile. Per le donne, il tasso di disoccupazione è passato da 26,4% nel 2000 a 17,4% nel 2008, mentre, per gli uomini, da 29,2% a 10,1% durante lo stesso periodo (Ons, 2010). In Egitto, il fatto che la disoccupazione tra le donne egiziane nel periodo 1998-2006 sia diminuita non riflette un miglioramento, quanto piuttosto il cosiddetto “effetto di scoraggiamento”. Un numero crescente di giovani donne istruite, scoraggiate dalle persistenti discriminazioni di genere nel mercato del lavoro e le scarse opportunità di impiego, preferisce uscire dal mercato del lavoro e rinunciare alla ricerca di un posto di lavoro (Assaad, 2007). 6 2010). La recente crisi finanziaria ed economica mondiale scoppiata nel 2007 è intervenuta nei tre paesi arabi ad esacerbare il quadro del mercato del lavoro su descritto, rallentando la creazione di posti di lavoro e causando numerosi licenziamenti nei settori più colpiti come l’industria tessile/abbigliamento ed il turismo (Paciello, 2010, 2011, Klau 2010, Gana-Oueslati e Moisseron, 2011; Center for Trade Union and Workers Services, 2009; Romdhane, 2011). Negli ultimi anni quindi la crisi mondiale ha acuito il problema della disoccupazione e della precarietà, soprattutto per i giovani e le donne (Paciello, 2010). 1.1.2 Debolezze del modello di crescita e impatto sul mercato del lavoro L’andamento negativo del mercato del lavoro su descritto è da ricondurre al fallimento dei modelli di crescita e delle politiche economiche seguite nei paesi oggetto di studio. Tali modelli, con le loro fragilità e debolezze, che differiscono da paese a paese, non sono riusciti a generare sufficienti posti di lavoro per una forza lavoro giovane ed istruita in rapida espansione. Di seguito, vengono discussi separatamente i tre casi di studio. Algeria La guerra civile degli anni novanta fece piombare il paese in una crisi socio-economica drammatica (El-Ghonemy 1998; ICG 2004). Verso la fine degli anni novanta, ma soprattutto a partire dai primi anni del duemila, l’economia algerina ha cominciato a mostrare segnali di ripresa, come indica il netto miglioramento nei principali indicatori macroeconomici (Belkacem 2001; Darbouche 2011). Comunque, al di là di tali dati, l’economia algerina ha continuato a soffrire di debolezze strutturali che mettono a rischio la sostenibilità del suo modello di crescita. Le politiche economiche messe in atto in Algeria nell’ultimo ventennio si sono rivelate fallimentari nella misura in cui non sono riuscite a ridurre la totale dipendenza del paese dalla produzione ed esportazione di idrocarburi. E’ mancata infatti da parte delle autorità algerine una strategia globale, coerente e di lungo termine. Nella seconda metà degli anni novanta, con l’adozione del programma di aggiustamento strutturale, il governo algerino perseguì in maniera drastica l’obiettivo dell’austerità fiscale previsto da tali accordi, procedendo ad una profonda ristrutturazione delle imprese pubbliche per preparare il paese alle privatizzazioni. Nonostante tali misure causarono numerosi licenziamenti,8 aggravando il problema della disoccupazione, un reale e trasparente processo di privatizzazioni non ebbe mai inizio (ICG, 2004). Laddove alcune imprese pubbliche nel settore turistico agro-alimentare e farmaceutico vennero privatizzate, ciò avvantaggiò un ristretto gruppo di imprenditori vicini ai militari e ai funzionari di governo (ibid). Successivamente, le riforme strutturali ed istituzionali sono state gestite in maniera arbitraria, caotica e selettiva. Dopo aver rilanciato le riforme di mercato nei primi anni del duemila puntando sulla promozione del settore privato, negli ultimi anni, a partire dal 2006, il presidente Bouteflika sembra aver invertito rotta, optando per un protezionismo esagerato e l’accrescimento dell’interventismo dello stato (Zoubir e Darbouche, 2011). Come vedremo successivamente, le ragioni di queste inefficienze ed incertezze sono essenzialmente di natura politica e riflettono quella complessa rete di interessi che lega l’elite politica, i militari ed un gruppo ristretto di imprenditori. Benché, sotto la presidenza di Bouteflika, le autorità algerine abbiano ripetutamente manifestato l’intenzione di diversificare l’economia (Darbouche, 2011), l’intera economia algerina ha continuato a dipendere dalla produzione ed esportazione di idrocarburi. La ripresa della crescita economica nell’ultimo decennio infatti è stata trainata dal settore degli idrocarburi, che ad oggi contribuisce per il 98% alle esportazioni totali, per il 40-45% al Pil e per i 2/3 alle entrate statali (International Monetary Fund, 2011). Grazie ai ricavi degli idrocarburi che hanno generato un aumento significativo delle riserve in valuta straniera, l’Algeria è riuscita a ridurre drasticamente il 8 Si stima che, tra il 1994 ed 1998, ben 76 grandi imprese pubbliche vennero chiuse, portando al licenziamento di 450000 persone (Martin, 2003). 7 debito estero e a risolvere il problema del deficit di bilancio.9 Anche il notevole incremento del settore dei servizi ed in particolare del settore edilizio osservato nell’ultimo decennio si deve unicamente ai ricavi provenienti dal petrolio e dal gas (Darbouche e Zoubir, 2011). Approfittando infatti dell’aumento degli introiti fiscali derivanti dagli idrocarburi e delle giacenze accumulate nel fondo di stabilizzazione (Fonds de Regulation de Recettes), a partire dal 2005, il governo algerino si è impegnato in un ambizioso programma di investimenti pubblici nelle infrastrutture. A fronte di questa completa dipendenza dalla produzione di un solo bene responsabile del fenomeno della “sindrome olandese”,10 l’economia algerina ha assistito nell’ultimo ventennio ad un processo di progressiva deindustrializzazione (Dillman 1998; Talahite e Hammadache, 2011). Il terzo boom petrolifero ha contribuito ad accelerare tale processo a vantaggio di una progressiva terziarizzazione dell’economia. Durante il periodo 2001-2006, il contributo dell’industria manifatturiera alla crescita economica è infatti fortemente diminuito (Talahite e Hammadache, 2011). In mancanza di un tessuto produttivo industriale locale e nel contesto del rilancio degli investimenti pubblici, il paese è stato costretto a ricorrere in maniera crescente alle importazioni di beni e servizi per soddisfare la domanda interna. A questo si aggiunga anche l’incapacità dell’economia algerina di rispondere alla domanda interna di generi alimentari, che obbliga il paese ad importare la maggior parte del suo fabbisogno alimentare. Nell’ultimo decennio, le importazioni sono quindi aumentate in maniera preoccupante arrivando a toccare il 23% del Pil nel 2008 (World Bank, 2010).11 Infine, il livello di investimenti privati locali, necessari per avviare il paese verso una reale diversificazione della struttura produttiva, è rimasto del tutto marginale. Al di fuori di alcuni grandi gruppi che hanno tratto vantaggio dalle sporadiche privatizzazioni condotte dal governo, la quasi totalità del settore privato è infatti composta da piccole e medie imprese che tendono ad operare nel mercato parallelo dell’economia informale, che ad oggi contribuirebbe per il 40% al reddito nazionale lordo (Darbouche, 2011). Tali imprese, piuttosto che essere impegnate nelle attività di produzione ed esportazioni di beni manufatti, preferiscono operare nei settori che presentano meno rischi come le attività connesse al commercio dei beni importati (Talahite e Hammadache, 2011). E’ indicativo a tal proposito il fatto che il numero di imprese algerine attive nell’esportazione di beni al di fuori degli idrocarburi sia crollato nell’ultimo ventennio, passando da 280 negli anni ottanta a 40 nel 2011.12 Il settore privato ha fatto fatica ad emergere perché il clima d’affari è rimasto fortemente ostile agli investimenti a causa della lentezza con cui sono state condotte le riforme istituzionali e strutturali. L’iniziativa privata è poi stata scoraggiata dalle enormi difficoltà incontrate nell’accesso al credito bancario, dall’incertezza politica e dalla rete di rapporti mafiosi che legano la politica all’economia. Tutto ciò ha reso imprevedibile ed incerto il clima d’affari (Talahite 2007; World Bank, 2010, 2011; Lahouhari, 2011; Achy, 2011). Anche gli investimenti diretti esteri sono rimasti limitati e continuano ad essere concentrati nel settore degli idrocarburi (Talahite e Hammadache, 2011). In presenza di una struttura produttiva così rigida, la capacità dell’economia algerina di creare posti di lavoro è dunque rimasta ridotta. Ad oggi, il settore energetico, che è a forte concentrazione di capitale, contribuisce a creare poco meno del 5% dell’occupazione totale nel paese (Achy, 2011), mentre, parallelamente al processo di deindustrializzazione nell’ultimo ventennio, il contributo del settore industriale all’occupazione è sceso (Bouklia-Hassane e Talahite, 2010). I programmi di investimento finanziati dallo stato durante il terzo boom petrolifero hanno contribuito a creare la quasi totalità dei posti di lavoro, ma si tratta di impieghi temporanei, mal remunerati e non adatti a 9 Il debito estero, che nel 1994 rappresentava il 70% del Pil, scende allo 0,5% nel 2010 (Darbouche, 2011). In base alla teoria della “malattia olandese”, il boom nel settore petrolifero determina una crescita del settore terziario attraverso l’aumento degli investimenti pubblici e una diminuzione delle esportazioni dei prodotti manifatturieri per effetto dell’apprezzamento del tasso di cambio reale. 11 Le importazioni di beni passano da 20 miliardi di dollari nel 2006 a 37,5 miliardi di dollari nel 2008 (Talahite e Hammadache, 2011) 12 Dati riportati dal ministro dell’industria Mohamed Benmeradi al quotidiano Magharebia (“Algeria finances strained by strife”, Magharebia, 7/07/2011, http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/07/07/feature-02). 10 8 manodopera qualificata (Achy, 2011). Infine, laddove le imprese straniere si sono impegnate in settori al di fuori degli idrocarburi, come la realizzazione di grandi infrastrutture, sembra abbiano preferito utilizzare manodopera straniera a basso costo piuttosto che manodopera locale (Lahouari, 2011). A causa della totale dipendenza dalla produzione di un solo bene, l’economia algerina non è riuscita quindi a rispondere alla crescente offerta di forza lavoro proveniente dai giovani ed è rimasta fortemente vulnerabile alla domanda e alle fluttuazioni dei prezzi delle risorse energetiche. La crisi finanziaria mondiale ha evidenziato i rischi legati alla caduta dei prezzi del petrolio. Con la conseguente contrazione della domanda internazionale e la caduta dei prezzi del petrolio tra la fine del 2008 ed il 2009, le entrate derivanti dall’esportazione di idrocarburi sono crollate del 42,5% (nel 2009). Nel 2009, la crescita economica ha rallentato, scendendo al 2,4% contro le previsioni del 4% (Talahite e Hammadache, 2011).13 Per la prima volta dopo dieci anni, nel 2009, l’Algeria ha registrato un deficit di bilancio, oltre a una riduzione del surplus del conto corrente della bilancia dei pagamenti, che è passato dal 14% del Pil nel 2006 allo 0,3% nel 2009 (Darbouche, 2011). Al fine di controbilanciare la caduta delle esportazioni di idrocarburi, nel 2009, il governo algerino si è visto costretto a prendere una serie di misure di carattere protezionistico volte a contenere le importazioni di beni e servizi, combattere l’economia informale e aumentare le entrate statali, tra cui imporre tasse aggiuntive sui beni importati, inclusi i generi alimentari, e l’obbligo di emettere assegni per pagamenti al di sopra di 500 dinar algerini. Tali misure, comunque, si sono rivelate inefficaci e controproducenti: non hanno ridotto le importazioni, che hanno continuato a crescere ad un ritmo sostenuto e, a partire dal 2010, hanno contribuito ad accelerare l’aumento dell’inflazione dei beni alimentari, uno dei fattori che ha innescato le proteste del gennaio 2011 (Talahite e Hammadache, 2011; vedi § 1.2.2 nel presente rapporto). In parte grazie alla rapida ripresa della crescita economica nei paesi asiatici, che si è tradotta in una veloce rimonta dei prezzi del petrolio, l’Algeria è riuscita a contenere l’impatto negativo della crisi finanziaria. Tuttavia, una riduzione del prezzo e della domanda di idrocarburi, a fronte di un elevato livello di importazioni e nel contesto di una politica pubblica fortemente espansionistica, potrebbe avere effetti disastrosi sugli equilibri esterni e le finanze pubbliche dell’Algeria e portare ad una crisi socio-economica dalle dimensioni simili a quella del 1988 (Darbouche, 2011). Inoltre, anche se l’Algeria ha accumulato larghe riserve di divise straniere a partire dai primi anni del 2000, la sostenibilità del suo modello di crescita nel medio e lungo termine è a rischio. Si calcola che le riserve di idrocarburi sulla base dei livelli correnti di produzione si esauriranno nei prossimi 40 anni. Ad aumentare la vulnerabilità dell’economia algerina, quasi la metà delle sue esportazioni di gas naturale sono dirette verso un unico mercato, quello europeo (Ibid.). Egitto A partire dai primi anni novanta, l’Egitto ha proceduto sulla strada delle riforme di liberalizzazione economica ispirate dal FMI e dalla BM. Fino al 2004, pur avanzando gradualmente, il governo ha messo in atto una serie di riforme volte a promuovere il settore privato e a favorire una maggiore integrazione sui mercati internazionali, attraverso una parziale privatizzazione delle imprese pubbliche (circa un terzo alla fine degli anni novanta), l’introduzione di misure intese a migliorare il clima degli investimenti (tra cui la legge sui diritti di proprietà intellettuale, la creazione di zone economiche speciali, l’unificazione del sistema bancario ecc), l’adesione alla World Trade Organisation (nel 1995) e la firma di diversi accordi commerciali (tra cui quello con gli Stati Uniti nel 1999, con l’Unione Europea nel 2001; l’Accordo di Agadir con Giordania, Marocco e Tunisia nel 2004 ecc). Negli ultimi anni, dopo il 2004 con la nomina del primo ministro Ahmed Nazif, le riforme strutturali hanno subito un’accelerazione. Oltre all’approvazione della legge antimonopolio, il governo egiziano ha intensificato le privatizzazioni, che si sono estese al settore bancario, alla telefonia mobile e a diversi complessi industriali, e ha ridotto significativamente le 13 La crescita media annuale al di fuori degli idrocarburi è rimasta sostenuta al 9,3% grazie ad un’annata eccezionalmente positiva per il raccolto di cereali. 9 barriere tariffarie (Wurzel, 2009; Alissa 2007). Nonostante i numerosi provvedimenti presi nell’ultimo ventennio e l’accelerazione delle riforme dopo il 2004, la struttura dell’economia egiziana è rimasta pressoché immutata, continuando ad essere “un’economia di rendita” vulnerabile agli shocks esterni (Gana-Oueslati e Moisseron, 2011). Ancora oggi, l’andamento dell’economia egiziana dipende in modo significativo da entrate di natura esogena, quali quelle derivanti dal turismo, il traffico nel canale di Suez, le rimesse, gli aiuti americani e l’esportazione di petrolio (Ibid.). Nel periodo 2003-2007, la rapida crescita economica dell’Egitto non è stata quindi il risultato di politiche economiche efficaci ma piuttosto è stata trainata da un aumento significativo delle rendite esterne a seguito della congiuntura internazionale favorevole innescata dall’impennata dei prezzi del petrolio proprio durante quegli anni. In Egitto, il terzo boom petrolifero ha dato rinnovato impulso ai flussi di turisti provenienti dai paesi del Golfo, principali beneficiari dell’andamento favorevole dei prezzi del petrolio, alle rimesse degli egiziani che lavoravano nei paesi produttori di petrolio, alle entrate del canale di Suez e alle esportazioni di idrocarburi, che sono quadruplicate (AFDB, 2009; Gana-Oueslati e Moisseron, 2011). Alle rendite tradizionali, si è aggiunto l’aumento esponenziale degli investimenti diretti esteri, che, fino al 2003, erano rimasti pressoché insignificanti.14 Anche tale aumento, comunque, riflette una combinazione di fattori di natura temporanea poiché è associato sia all’afflusso di capitali provenienti dai paesi del Golfo in coincidenza con il boom petrolifero sia soprattutto all’intensificarsi dei programmi di privatizzazione tra il 2004 ed il 2006 (Alissa, 2007; El-Megharbel, 2007; ENCC, 2008; Naguib, 2009). Con l’arrivo della crisi finanziaria globale ed il rallentamento delle economie dei paesi del Golfo, i principali motori della crescita economica egiziana – esportazioni di petrolio, investimenti diretti esteri, rimesse e entrate derivanti dal turismo – hanno perso vigore e l’economia egiziana ha, di conseguenza, subito un repentino rallentamento (Paciello, 2010; Radwan, 2009; Abu Hatab, 2009; Gana-Oueslati e Moisseron, 2011). Dopo il 2006, anche i programmi di privatizzazione hanno subito una decelerazione, causando una diminuzione degli investimenti diretti esteri. Se nel 2007 il numero di imprese vendute ammontava a sessantacinque, nel 2009 scendeva a quattro. Contemporaneamente, l’afflusso di investimenti diretti esteri si dimezzava, passando da 13 miliardi di dollari americani nel 2007 a 6,7 miliardi nel 2009 (Gana-Oueslati e Moisseron, 2011). Tale modello di crescita non soltanto poggia su basi fragili e instabili, ma ha avuto un impatto molto limitato in termini di creazione di posti di lavoro. In primo luogo, benché gli investimenti diretti esteri siano aumentati, non hanno generato nuove opportunità di lavoro perché sono cresciuti in coincidenza con l’accelerazione delle privatizzazioni. In secondo luogo, il settore petrolifero, che ha alimentato la crescita delle esportazioni durante il 2003-2007, è per sua natura intensivo di capitale, mentre la crescita delle esportazioni al di fuori degli idrocarburi ha riguardato per lo più prodotti agricoli, fertilizzanti, e beni manufatti di basso contenuto tecnologico (come i prodotti tessili), che hanno offerto opportunità di lavoro limitate e per una manodopera generalmente non qualificata (Alissa, 2007; El-Megharbel, 2007; ENCC, 2008). A tal proposito, si ricorda che i prodotti di alto contenuto tecnologico costituiscono solo il 2% delle esportazioni egiziane (GanaOueslati e Moisseron, 2011). Il settore privato si è mostrato poco ricettivo alle riforme economiche su descritte nella misura in cui gli investimenti privati come percentuale del Pil sono diminuiti durante il periodo 1990-2006 (World Bank, 2010: 86). Infatti, in Egitto, la maggioranza del tessuto imprenditoriale (circa il 90%) è composto di piccole e medie imprese, scarsamente competitive e dinamiche, che tendono per lo più ad operare nell’economia informale. Queste piccole e medie imprese lamentano innanzitutto enormi difficoltà di accesso al credito bancario poiché le banche preferiscono prestare denaro alle grandi imprese. Ma soprattutto il clima d’affari è rimasto imprevedibile ed incerto a causa della corruzione e del clientelismo che pervadono tutti i livelli della società egiziana, dall’amministrazione pubblica fino alle elite al potere, scoraggiando gli investimenti privati 14 Gli investimenti diretti esteri sono aumentati da 400 milioni di dollari americani nel 2000 a 13,2 miliardi di dollari americani nel 2007 (Radwan, 2009). 10 (Lahouhari, 2011; World Bank, 2010; Achy, 2011). Le opportunità di lavoro nel settore privato formale sono rimaste dunque limitate (UNDP, 2010). Infine, occorre tenere presente che, mentre il settore privato non è stato in grado rispondere alla crescente offerta di lavoro, le prospettive di impiego nel settore pubblico si sono drammaticamente ridotte a seguito delle riforme neo-liberiste che hanno imposto tagli alla spesa pubblica e promosso le privatizzazioni (UNDP, 2010; Wahba, 2010). Tunisia La Tunisia è stato tra i primi paesi arabi ad aver firmato un programma di aggiustamento strutturale e dunque a dar il via alle riforme di liberalizzazione economica ispirate al FMI e alla BM. La Tunisia di Ben Ali ha proceduto gradualmente sulla strada delle riforme strutturali al fine di ridurre gli effetti sociali negativi generalmente ad esse associati, e dunque evitare il rischio di instabilità politica (Paciello, 2007; Richards e Waterbury, 1998; Alexander, 2011). Per esempio, i programmi di privatizzazione durante gli anni novanta furono attuati con estrema lentezza e riguardarono settori non strategici al fine di dilazionare il numero di licenziamenti nel tempo (Issaoui, 2009). Pur avanzando gradualmente, il governo di Ben Ali ha comunque seguito senza indugi e ripensamenti la via dell’apertura dei mercati. Sin dal 1990, con l’adesione al General Agreement on Trade in Services (GATS), la Tunisia si è impegnata a sottoscrivere una moltitudine di accordi commerciali per favorire una maggiore integrazione sui mercati internazionali. Nel 1995, è stato il primo paese della riva sud del Mediterraneo a firmare l’accordo di associazione con l’Ue. L’anno successivo, con il supporto dell’UE, il governo tunisino ha lanciato un programma di rafforzamento della competitività delle imprese tunisine, che va sotto il nome di Mise à Niveau, della durata di dieci anni, con l’obiettivo di prepararle al processo di liberalizzazione commerciale. Sin dal 1987, con l’approvazione del codice degli investimenti e successivamente con molteplici dispositivi, la Tunisia ha offerto agli investitori stranieri un sistema di generosi incentivi fiscali. Negli ultimi cinque anni, la Tunisia ha proceduto più speditamente sulla strada delle riforme strutturali,15 accelerando le privatizzazioni (nel settore bancario e della telefonia mobile) e completando lo smantellamento delle barriere tariffarie sui prodotti industriali provenienti dall’UE con due anni di anticipo.16 In tal modo, la Tunisia diventava nel 2008 il primo paese del sud del mediterraneo a conseguire l’obiettivo di creare una zona di libero scambio con l’UE. Anche in materia di riforme tese a migliorare il clima d’affari, negli ultimi anni, secondo Doing Business 2011, la Tunisia ha fatto numerosi progressi (World Bank, 2011). In virtù della sua stabilità macroeconomica e dell’avanzamento delle riforme strutturali, alla vigilia della rivoluzione dei gelsomini, la Tunisia era considerata dalle agenzie internazionali e dall’UE un modello di successo nella regione araba, quello che è stato definito “un bon élève” (vedi Hibou et al 2011). Nonostante la Tunisia abbia intrapreso un processo di generale liberalizzazione dell’economia e abbia notevolmente migliorato la sua posizione macro-economica, il suo modello di crescita non è riuscito a garantire uno sviluppo equilibrato e sostenibile, come vedremo nei prossimi paragrafi. Anche se l’economia tunisina è riuscita a ridurre significativamente la sua dipendenza dall’esportazione di petrolio, e appare quindi relativamente più diversificata rispetto all’Algeria e all’Egitto, essa è rimasta concentrata su un numero ristretto di attività economiche che sono a basso valore aggiunto: l’industria tessile e dell’abbigliamento, che costituisce il 29% delle esportazioni; il turismo, che rappresenta l’80% delle esportazioni di servizi ed il 16% delle esportazioni totali, e l’agricoltura (Haddar, 2011). L’industria tessile/abbigliamento, integrata sui mercati internazionali attraverso il sistema del subappalto, ha infatti basato la sua competitività unicamente sul basso costo 15 Per un quadro delle riforme, vedi World Bank (2008, 2009, 2010, 2011); “Politique Européenne de Voisinage – Tunisie’’, Europa Press Releases RAPID”, MEMO/09/178, 23 April 2009, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=MEMO/09/178&format=HTML&aged= 0&language=EN&guiLanguage=en). 16 Le tariffe sui beni industriali provenienti dall’Ue sono scese dal 100% nel 1996 a circa il 4% nel 2007 (World Bank, 2008). 11 della manodopera (Romdhane, 2011). L’integrazione della Tunisia sui mercati internazionali, e più specificatamente dell’UE, è dunque avvenuta sulla base dell’aumento della flessibilità e della riduzione dei salari. Inoltre, dato il basso contenuto tecnologico delle esportazioni, il settore dell’industria tessile/abbigliamento è stato incapace di assorbire il crescente numero di laureati in cerca di lavoro (Bouoiyour, 2010; Lachcy, 2011). Infine, pur impiegando la maggioranza dei lavoratori nell’industria manifatturiera, il settore tessile è da diversi anni in crisi avendo perso progressivamente di competitività di fronte all’avanzata dei paesi dell’Estremo Oriente e dell’Europa dell’Est (Mohammed Hedi Bchir et al., 2009). Anche l’industria turistica, nonostante l’ampio patrimonio artistico della Tunisia, ha puntato principalmente sul turismo balneare e, sotto la pressione dei tour operator, sul ribasso dei prezzi a discapito della qualità (Hibou et al., 2011). Di conseguenza, anche nel settore turistico, le opportunità di lavoro sono state di natura precaria e mal pagate. L’industria turistica ha inoltre cominciato, negli ultimi anni, a mostrare segnali di crisi, in controtendenza con quanto osservato in altri paesi arabi (Fitch Ratings, 2007). Ciò ha avuto ripercussioni negative sull’occupazione, causando una perdita di posti di lavoro ed un’ulteriore contrazione dei salari (Hibou et al., 2011; Fitch Ratings, 2007). A completare il quadro, l’economia tunisina deve la sua fragilità alla quasi totale dipendenza da un solo mercato, quello dell’UE, per quanto riguarda le esportazioni, le rimesse, gli investimenti diretti esteri ed il turismo. 17 Per contro, l’integrazione della Tunisia con altri mercati, quali quello asiatico e americano, è rimasta marginale (World Bank, 2008). Data la sua quasi totale dipendenza dal mercato europeo, l’economia tunisina risulta fortemente vulnerabile agli shocks provenienti dall’esterno. Non sorprende il fatto che la Tunisia sia stato il paese nordafricano ad aver risentito maggiormente della crisi finanziaria globale proprio attraverso il canale della recessione economica dell’UE. Tra il 2007 ed il 2009, il tasso di crescita economica della Tunisia si è quasi dimezzato, passando da una media annua del 6,3% nel 2007 al 3,3% nel 2009 (Paciello, 2010). La crisi finanziaria mondiale si è tradotta in Tunisia in una forte riduzione delle esportazioni e degli investimenti diretti esteri, e, anche se in misura minore, delle rimesse e delle entrate derivanti dal turismo (ibid). Infine, pur presentando un sistema di incentivi fiscali relativamente più generoso rispetto all’Egitto e all’Algeria, anche la Tunisia soffre di un deficit di investimenti privati, locali e stranieri, che, paradossalmente, sembra essere ancora più marcato che in Egitto. Per quanto riguarda il tasso di investimenti privati domestici, non soltanto esso rimane modesto, e ben al di sotto di altri paesi nordafricani come il Marocco e l’Egitto, ma ha persino subito una diminuzione continua, passando da un tasso medio di crescita di circa il 13% nei primi anni novanta a circa il 10% nel 2007 (Romdhane, 2011; Casero e Varoudakis, 2006; World Bank, 2007). Come mostrano diversi studi sulla Tunisia, gli investimenti privati locali sono rimasti mediocri e concentrati nelle regioni costiere per ragioni simili a quelle riscontrate per Egitto e Algeria: l’esistenza di un’economia parallela, relativamente più competitiva a causa di pratiche scorrette (evasione delle tasse, non pagamento dei contributi della previdenza sociale ecc); difficoltà di accesso al credito formale e tassi di interesse particolarmente elevati; una corruzione endemica, usata per aggirare un problema, ottenere un favore, evadere le imposte o eliminare un concorrente scomodo; e l’avidità del clan dell’ex presidente Ben Ali e di sua moglie Leila Trabelsi, che ha bloccato l’emergere di un elite imprenditoriale (Romdhane, 2011; Haddar, 2011). Oltre a questi problemi, la mediocrità delle infrastrutture e la mancanza di incentivi fiscali, che riflettono il disinteresse delle autorità per le zone più svantaggiate del paese, sembrano aver scoraggiato gli investimenti privati nelle regioni del sud (Ben Slama, 2011). Afflitto quindi da un problema di sotto-investimento, il tessuto economico della Tunisia è composto principalmente di piccole e medie imprese che contribuiscono a creare opportunità di lavoro mal pagate, precarie e adatte a manodopera poco qualificata (Haddar, 2011). 17 Le esportazioni verso l’Ue rappresentano il 77% del totale delle esportazioni; le entrate derivanti dal turismo europeo costituiscono l’85% delle entrate turistiche totali; l’88% delle rimesse provengono da lavoratori tunisini che risiedono nell’Ue, mentre gli investimenti diretti esteri provenienti dall’Ue rappresentano il 58% del totale (International Monetary Fund, 2010). 12 Per questo, il settore pubblico continua ad essere il primo creatore di occupazione per i giovani diplomati (55% sul totale dei diplomati occupati), mentre per il resto dei diplomati che lavorano nel settore privato, le condizioni di lavoro sono peggiori: salari più bassi e maggiore instabilità (World Bank, 2009). Anche la performance degli investimenti diretti esteri è stata deludente. Benché, nell’ultimo decennio, gli investimenti diretti esteri siano cresciuti,18 l’incremento è stato più lento rispetto agli altri paesi nordafricani (World Bank, 2008). Ma soprattutto, come nel caso dell’Egitto, gli investimenti diretti esteri non hanno portato i benefici attesi in termini occupazionali poiché hanno creato poche opportunità di lavoro. Questo per due ragioni: si sono rivolti tendenzialmente verso il settore degli idrocarburi, che come già detto è ad alta intensità di capitali e, nell’ultimo decennio, sono cresciuti in coincidenza con l’accelerazione delle privatizzazioni, che, invece di creare nuovi posti di lavoro, hanno spesso causato licenziamenti del personale (Meddeb, 2010; Dillman 2001; Hedi Bchir et al., 2009). Al di fuori del settore energetico, infine, gli investimenti diretti esteri si sono concentrati in industrie a debole contenuto tecnologico, come l’industria tessile e dell’abbigliamento, oppure in alcuni comparti del settore dei servizi (come ad esempio i call centers), che hanno generato opportunità di lavoro precarie, temporanee e sottopagate (Haddar, 2011; Meddeb, 2010). 1.1.3 Inefficacia delle politiche attive del mercato del lavoro Anche le politiche attive del mercato del lavoro messe in atto dai governi dei tre paesi si sono rivelate inadeguate per risolvere i problemi del mercato del lavoro su descritti. Nonostante le ingenti risorse stanziate dai governi dei tre paesi e la messa a punto di molteplici dispositivi, che vanno dai programmi di formazione professionale a quelli di microcredito,19 il bilancio di tali politiche è deludente (Hibou et al., 2011; Destreamau, 2009; Bouklia-Hassane e Talahite 2010). In particolare, a fronte delle notevoli risorse investite, tali misure hanno avuto un debole impatto in termini di riduzione della disoccupazione tra i giovani istruiti (Lahcen, 2011; intervista dell’autore con un rappresentante dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, Cairo, novembre 2010). Un primo problema riguarda il fatto che le opportunità di lavoro generate da tali dispositivi si sono rivelate spesso di natura precaria e temporanea, come dimostrano diversi studi sulla Tunisia e l’Algeria, e dunque inefficaci ad affrontare il problema della disoccupazione nel lungo termine (Hibou et al., 2011; Achy, 2011; Abbaci, 2009; Bouklia-Hassane e Talahite 2010). In Tunisia, per esempio, le imprese che ricevevano incentivi statali per assumere personale hanno di rado trasformato le opportunità di lavoro create in impieghi a tempo indeterminato.20 I giovani assunti nell’ambito dei programmi di sovvenzione statale perdevano dunque tale impiego una volta terminato il contratto. In secondo luogo, spesso i programmi di creazione di impiego messi in atto dai governi non sono stati destinati specificatamente ai giovani che incontravano problemi ad inserirsi nel mercato del lavoro (Directorate-General for Economic and Financial Affairs, 2010). Per esempio, in Algeria, nell’ambito delle politiche dell’occupazione, il governo ha privilegiato i programmi di lavori pubblici che non soltanto offrono lavori temporanei e mal remunerati ma si rivolgono soprattutto a manodopera non qualificata (Achy, 2011). In terzo luogo, i programmi di microcredito, uno degli strumenti maggiormente usato dai governi dei tre paesi per creare opportunità di lavoro tra le donne ed i giovani, spesso non sono riusciti a creare iniziative imprenditoriali finanziariamente sostenibili nel tempo. La maggior parte di tali imprese non sono riuscite a posizionarsi in maniera competitiva sul mercato, hanno generato bassi profitti e sovente sono state costrette ad operare nell’economia informale (Destremau, 2009, per la Tunisia; Achy, 2011, per l’Algeria). 18 Tra il 1990 ed il 1997, gli investimenti diretti esteri rappresentano soltanto l’1,7% del Pil, poi arrivano a toccare il 2,9% tra il 1998 ed il 2005, il 3,2% nel 2006, il 6% nel 2007 ed il 6,9% nel 2008 (Haddar, 2011). 19 Per un quadro di tutti i dispositivi messi in atto nei diversi paesi, vedi Bouklia-Hassane e Talahite (2010) per l’Algeria; Mahjoub, (2010) per la Tunisia; e El-Megharbel (2007) per l’Egitto. 20 Abdelaziz Barrouhi, “Emplois « assistés”, Jeune Afrique, N° 2368, 28 mai - 3 juin 2006. 13 Infine, nonostante le ingenti risorse investite, le politiche attive del mercato del lavoro sono state inefficaci perché frammentate in molteplici dispositivi e programmi privi di coordinamento tra loro e tra le agenzie incaricate di gestirli (El-Megharbel, 2007; Wahba, 2010; interviste dell’autore al Cairo, novembre 2010; Achy, 2011). E’ mancata quindi una politica coerente e comprensiva dell’occupazione che rispondesse ai reali problemi del mercato del lavoro. 1.2 Sistema di welfare e condizioni di vita 1.2.1 Crisi del sistema di welfare Durante gli anni sessanta e settanta, i governi in Algeria, Tunisia e Egitto portarono avanti politiche sociali molto generose, destinando una parte sostanziosa della spesa pubblica ai settori sociali (istruzione e sanità gratuite, sussidi pubblici universali ed espansione dell’impiego pubblico). Con la fine del boom petrolifero e l’adozione dei programmi di aggiustamento strutturale che impongono la stabilità macro-economica, si è assistito ad una progressiva ma profonda crisi del sistema di welfare, che ha accelerato nell’ultimo decennio. In Tunisia, nonostante i programmi di aggiustamento strutturale abbiano imposto in genere un forte taglio alla spesa pubblica, in un primo tempo, il governo di Ben Ali si è impegnato a proteggere la spesa sociale, proseguendo lungo la strada tracciata da Bourghiba. La Tunisia si è distinta dagli altri paesi arabi per aver continuato a destinare una percentuale consistente della spesa pubblica al welfare, circa il 19 percento del Pil nel periodo 1987-2007 (Ben Romdhane, 2007). La spesa per l’istruzione e per la sanità durante lo stesso periodo hanno raddoppiato. Per compensare i tagli al sistema dei sussidi pubblici e far fronte agli effetti sociali negativi derivanti dalle riforme economiche, Ben Ali inoltre creò due programmi presidenziali come il Fondo di Solidarietà Nazionale, conosciuto come “26-26” (1992), per finanziare la costruzione di infrastrutture nelle zone più povere, ed il Fondo Nazionale per l’Occupazione o “21-21” (2000), per favorire la creazione di lavoro. La Tunisia di Ben Ali è riuscita quindi a realizzare importanti progressi nel campo dell’istruzione, dei diritti delle donne e nella lotta alla povertà (Ibid.). Il generoso sistema di welfare sostenuto da Ben Ali durante il suo regime ha costituito uno dei suoi più efficaci strumenti di potere e di controllo della società tunisina (Hibou, 2006). Tali politiche hanno contribuito a formare una classe media molto ampia, che, in cambio degli estesi vantaggi sociali ed economici offerti dal regime, è stata disposta ad accettare e/o a sopportare di vivere in una società dove ogni libertà politica e civile veniva negata (Ben Romdhane, 2007). Come spiega Bèatrice Hibou (2006), il regime di Ben Ali deve la sua longevità a una combinazione di coercizione e consenso. Tuttavia, nel corso dell’ultimo decennio, il tacito contratto sociale tra il regime di Ben Ali ed una parte della popolazione sembra progressivamente essere venuto meno. Nell’ultimo ventennio, l’ampliamento della copertura del sistema di sicurezza sociale, benché abbia continuato, ha subito un progressivo rallentamento rispetto al ventennio precedente a causa dell’elevata disoccupazione e la diffusione dell’economia informale (Ben Romdhane, 2007, 2011). Anche il sistema della sanità pubblica si è rivelato sempre più incapace di rispondere alle esigenze mediche della popolazione. La spesa delle famiglie destinata alle cure mediche è andata aumentando, poiché un numero crescente di tunisini è stato costretto a rivolgersi al privato, che nell’ultimo ventennio ha subito una rapida crescita (Hibou et al., 2011; Ben Romdhane, 2011). Si sono acuite anche le drammatiche disparità regionali nell’accesso ai servizi sociali (istruzione, sanità, acqua potabile e elettricità). Lo spettacolare sviluppo del turismo medico, che ha attratto negli ultimi anni un grande numero di pazienti dalla Libia e dall’Europa nelle lussuose cliniche di Tunisi, contrasta con la pessima situazione delle infrastrutture ospedaliere nei governatorati più poveri di Kasserine, Thala e Gafsa, dove sovente non è possibile fare neppure semplici interventi chirurgici (Hibou et al., 2011). L’intervento pubblico si è infatti concentrato quasi unicamente nelle zone costiere, a cui per l’anno 2011 il governo di Ben Ali avrebbe destinato l’82% del bilancio statale (Ibid). Per questo, anche se, 14 a partire dalla metà degli anni ottanta, si è assistito ad una progressiva riduzione della povertà di reddito a livello nazionale, nelle regioni interne la povertà è rimasta particolarmente elevata.21 In Egitto, il sistema di welfare ha subito un progressivo deterioramento a partire dagli anni novanta (Bayat, 2006; Tadros, 2007; Harrigan e el-Said, 2009). Anche se, per tutti gli anni novanta, la spesa sociale fu relativamente protetta, questo non fu sufficiente per prevenire il peggioramento della qualità dei servizi sanitari e dell’istruzione perchè una parte significativa della spesa sociale continuò ad essere destinata al pagamento dei salari degli impiegati pubblici. Progressivamente, e soprattutto nell’ultimo decennio, la presenza dello stato nel settore dei servizi sociali è diminuita visibilmente, come attesta il forte taglio apportato alla spesa pubblica destinata all’istruzione e alla sanità (Paciello, 2011). Per esempio, la spesa pubblica per l’istruzione sul totale della spesa statale è scesa dal 19,5% nel 2002 all’11,5% nel 2006 (UNDP, 2008). Il finanziamento pubblico all’istruzione universitaria ha sofferto il maggior taglio.22 Questi tagli alla spesa sociale hanno contribuito ad un ulteriore e drammatico aumento delle spese per le famiglie egiziane anche quando si rivolgevano ai servizi pubblici e al peggioramento della qualità di tali servizi: classi sovraffollate, edifici scolastici fatiscenti, scarse condizioni igieniche negli ospedali e continui casi di malasanità (Paciello, 2011). Infine, a differenza dell’Egitto e della Tunisia, l’Algeria, sin dall’inizio dei programmi di aggiustamento strutturale, ha optato per un taglio drastico della spesa sociale al fine di perseguire l’austerità fiscale: la spesa per l’istruzione sul totale della spesa pubblica è passata da 23% nel 1993 al 17,8% nel 1997, mentre quella per la sanità dal 54,5% al 47% durante stesso periodo (Layachi, 2009). Nei primi anni del duemila, a causa del taglio drastico alla spesa sociale combinato a politiche sociali inefficaci, l’Algeria si trovava quindi ad attraversare una crisi sociale dalle dimensioni enormi, marcata da un aumento vertiginoso della povertà e delle ineguaglianze sociali (ibid). Negli anni duemila, anche se la povertà sembra essere diminuita secondo i dati ufficiali (dal 12,1% nel 2000 al 5,7% nel 2005), il sistema di welfare risulta essere allo sbando. Scuole, università e ospedali pubblici sono in uno stato di completo abbandono e indigenza (Brown 2011; Abderrahim, 2011). La quasi totale dipendenza dell’Algeria dalle importazioni di medicinali ha esposto il paese a periodi prolungati di mancanza di medicinali mettendo a rischio la vita dei pazienti malati di cancro.23 I tassi di abbandono scolastico sono preoccupanti ed il problema delle classi sovraffollate è drammatico ovunque nel paese, anche nella capitale Algeri, dove il rapporto studenti/insegnati per classe può toccare il numero di 40 (UNCESCR, 2010; Interviste condotte dall’autore, Algeri, ottobre 2011). Per questo, l’Unesco ha recentemente raccomandato al governo algerino di assumere 10,000 nuovi insegnanti entro il 2015 per far fronte alla domanda di studenti.24 Uno dei problemi socialmente più preoccupanti in Algeria è quello della carenza di alloggi. Le Nazioni Unite stimano che 1,2 milioni di persone vivono nelle bidonville (UNCESCR, 2010). Anche se, negli ultimi anni, il governo algerino ha lanciato un ampio programma di investimenti nelle infrastrutture prevedendo la costruzione di nuovi alloggi per le famiglie più svantaggiate, tale politica non ha sortito gli effetti sperati, come mostrano le continue proteste della popolazione.25 Le risorse stanziate rimangono limitate rispetto alle effettive esigenze; molti dei progetti per la 21 Il tasso di povertà di reddito è sceso da 7,7% nel 1985 a 3,8% nel 2005 (Ben Romdhane, 2011). Comunque, secondo il ministro degli affari sociali del governo di transizione, la povertà a livello nazionale sarebbe più alta rispetto alle cifre diffuse sotto il regime di Ben Ali, toccado il 10% nel 2005 (Hibou et al., 2011). Tra il 1985 ed il 2000, nel sud e nelle zone centro-occidentali, il livello di povertà non è affatto migliorato, come invece è avvenuto nel resto del paese (Harrigan e el-Said, 2009). Secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili, dal 2000 al 2005, la povertà nelle regioni centro occidentali sarebbe aumentata, passando da 7,1% a 13% (Hibou et al., 2011). Alcuni analisti stimano che il tasso di povertà in queste zone raggiungerebbe anche il 30% (Ibid.). 22 Abul Soud Mohamed e Mohamed Kamel, “University teachers criticize reduced funding for education and research”, Al-Masry alYoum, 19/04/2010 (http://www.almasryalyoum.com/en/news/university-teachers- criticize-reduced-funding-education-and-research); Fahim e Sami (2009). 23 Per l’ultima crisi, vedi “Algeria cancer patients lack proper treatment”, Magharebia, 24/09/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2010/09/24/feature-01) 24 “Algeria needs more teachers, UN report finds”, Magharebia, 7/10/2011. 25 “Housing riots rock Algiers”, Magharebia, 16/09/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/09/16/feature-02). 15 costruzione di alloggi inizialmente annunciati non sono stati ancora realizzati e molte famiglie sono state sfrattate senza ricevere un’adeguata protezione, alternativa o compensazione (OHCHR, 2011). Infine, la situazione socio-economica risulta particolarmente difficile nelle province del sud del paese. Come nel caso della Tunisia, la spesa pubblica stanziata per le province più svantaggiate continua ad essere di gran lunga più bassa rispetto a quella destinata alle province più ricche.26 1.2.2 Erosione del potere d’acquisto Nell’ultimo decennio, una parte crescente della popolazione in Egitto, Algeria e Tunisia ha visto diminuire il proprio potere d’acquisto a causa dell’aumento dell’inflazione, che ha riguardato soprattutto i beni alimentari, a fronte di una stagnazione dei salari. Questa impennata dei prezzi riflette, oltre a fattori endogeni specifici ad ogni paese, l’impressionante aumento dei prezzi dei beni alimentari a livello internazionale. Infatti, i tre paesi arabi oggetto di studio dipendono in modo significativo dalle importazioni di generi alimentari per garantire il loro fabbisogno e dunque sono fortemente vulnerabili alle oscillazioni dei prezzi a livello mondiale. L’elevata inflazione ha contribuito ad accrescere il malcontento in larghe fasce della popolazione. Tra giugno 2010 e gennaio 2011, quindi nei mesi che hanno preceduto le proteste in Tunisia, Egitto e Algeria, i prezzi internazionali di farina e zucchero sono aumentati in modo impressionante (rispettivamente del 113% e 86%) (World Bank, 2011). In Egitto, l’indice dei prezzi al consumo, che ha cominciato a salire dal 2003, ha raggiunto il picco massimo del 23,6% nell’agosto 2008 dietro la spinta dell’aumento vertiginoso dei prezzi di farina, riso e olio (Jones et al., 2009). L’aumento dei prezzi del pane ha scatenato nell’aprile dello stesso anno una serie di sommosse nel paese, in cui persero la vita undici persone. Anche se, a partire da quella data, l’inflazione ha cominciato a scendere, il suo andamento è stato soggetto a continue oscillazioni e il suo livello è rimasto elevato (Paciello, 2011). Le misure prese da Mubarak a partire dal 2008 per mitigare gli effetti della crisi alimentare mondiale, tra cui l’espansione della copertura del sistema di sussidi alimentari (di 22 milioni di persone), l’aumento dei salari degli impiegati pubblici e l’innalzamento del salario minimo, si sono rivelate insufficienti. Il sistema di sussidi alimentari soffre da anni di numerose inefficienze e lascia fuori un numero importante di poveri, circa 1/3 secondo la Banca Mondiale (World Bank, 2007), mentre, gli aumenti previsti per i dipendenti pubblici sono stati quasi del tutto irrilevanti per sostenere l’aumento dei prezzi dei beni alimentari.27 Non bisogna poi dimenticare che le misure relative agli aumenti dei salari e dei bonus hanno riguardato solo i dipendenti pubblici, escludendo una parte importante di lavoratori, quelli nell’economia informale. Infine, l’aumento del salario minimo a 400 pound egiziani per mese è stato irrisorio (i sindacati indipendenti propongono 1200 pound egiziani).28 La pressione inflazionistica in Egitto ha colpito con forza i ceti medio bassi, che spendono una larga parte del loro reddito in generi alimentari, ed è ritenuto il principale fattore responsabile dell’aumento della povertà osservato a partire dal 2000 (Klau, 2010). Infatti, in controtendenza alla seconda metà degli anni novanta, successivamente il tasso di povertà di reddito ha ripreso a crescere, passando dal 16,7% nel 2000/2001 al 23,4% nel 2008/2009 (Jones et al., 2009; UNICEF, 26 Come mostra l’ultimo bilancio supplementare stanziato per l’anno 2011, in base al quale dodici località su trentadue sarebbero state escluse e tra queste, ci sarebbero proprio Légata, Souk El Had, Kharouba, Taouarga, Larbatache, che sono le zone più povere dell’Algeria (“APW: L'argent du contribuable mal distribé Boumerdes : les autres articles”, El Watan, 10/10/2011, http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342801). 27 Interviste dell’autore, Cairo, novembre 2010; Vedi Abdelhamid e el-Baradei, 2009, “Workers, not voters, worry Egypt's government”, Al-Masry al-Youm, 23/11/2010 (http://www.almasryalyoum.com/en/news/workers-not-voters-worry-egyptsgovernment); Mona el-Fiqi, “Not Even Minimum Wage”, Al-Ahram Weekly, 20-30/07/2008 (http://weekly.ahram.org.eg/2008/907/ec1.htm). 28 Vedi §3.4 nel presente rapporto. Mohamed Azouz, “Investors’ federation calls for upping minimum wage to LE600/month”, AlMasry Al-Youm, 2/11/2010 (http://www.almasryalyoum.com/en/news/investors-federa- tion-calls-upping-minimum-wagele600month); Noha el- Hennawy, “School teachers form Egypt’s and Independent Union”, Al-Masry Al-Youm, 20/07/2010, (http://www.almasryalyoum.com/en/news/school-teachers- form-egypts-2nd-independent-union). 16 2010). Nel 2008/2009, il numero di poveri in Egitto raggiungeva i 16,3 milioni, rispetto ai 13,7 milioni nel 2005 (UNICEF, 2010). In Algeria, l’inflazione media annuale (misurata dall’indice nazionale dei prezzi al consumo) ha ricominciato a salire dal 2007 per toccare la punta record nel 2009,29 trainata dall’aumento dei prezzi di alcuni beni alimentari, quali per esempio le verdure che hanno subito un aumento del 20,5% (Ons, 2009). Per contro, i salari sono rimasti bassi e la revisione del salario minimo a 15000 dinari algerini per mese ($250) entrata in vigore a gennaio 2010 è risultata inadeguata a soddisfare i bisogni di base delle famiglie.30 Il fattore scatenante, seppur non decisivo, delle proteste scoppiate a gennaio 2011 in Algeria sembra sia stato proprio l’incremento dei prezzi di alcuni prodotti alimentari di base, tra cui lo zucchero e l’olio da cucina che, secondo stime non ufficiali, sarebbe arrivato a toccare tra il 33% ed il 45% (Layachi, 2011; Brown, 2011). Tale aumento, come già detto, è il risultato, oltre che di fattori esogeni, quali l’innalzamento dei prezzi dei beni alimentari a livello mondiale, anche delle misure prese dalle autorità algerine nel 2009 per rispondere alla crisi finanziaria mondiale (vedi § 1.1.2 nel presente rapporto). Infine, anche in Tunisia, negli ultimi anni, il potere d’acquisto della classe media è stato colpito dall’aumento del costo dei beni alimentari, dalla stagnazione dei salari e dall’espansione del lavoro nell’economia informale, che ha offerto redditi irrisori senza alcun tipo di benefit (International Monetary Fund, 2007; Hibou et al., 2011; interviste dell’autore, Tunisi, dicembre 2010). Tutto ciò ha contribuito a frustrare le aspettative della classe media tunisina, che per contro ha accumulato un elevato livello di indebitamento (Marzouki, 2011; interviste dell’autore, Tunisi, dicembre 2010). 1.3 Quadro politico L’analisi delle cause che hanno portato alle sollevazioni popolari in Egitto e Tunisia e alle proteste di minore entità in Algeria sarebbe incompleta senza considerare il quadro politico da cui sono emerse così come le dinamiche politiche che hanno contribuito all’inefficacia delle politiche economiche e sociali. Tali politiche si sono infatti rivelate fallimentari per ragioni di natura essenzialmente politica. 1.3.1 Contesti autoritari Una lunga storia di gestione autoritaria del potere ha contraddistinto i tre paesi, seppur con varianti e differenze. In Tunisia, Ben Ali, diventato presidente nel 1987 con un tacito colpo di stato, ha proceduto rapidamente a creare un sistema autoritario tra i più repressivi nel mondo arabo, che ha consolidato negli anni novanta e inasprito nell’ultimo decennio. Ben Ali ha attuato una repressione sistematica e totale di ogni forma di dissenso, esercitando un controllo severo delle libertà civili e politiche. Esponenti politici, militanti dei diritti umani, giornalisti, membri dell’opposizione e chiunque rappresentasse potenzialmente un rischio per il regime sono stati quotidianamente sorvegliati, intimiditi ed esposti a vessazioni fisiche da parte di un apparato poliziesco, che, a partire dagli anni novanta, si è allargato a dismisura (Kausch, 2009; Emhrn, 2010; Alexander, 2011). Il regime ha esercitato un controllo completo sui media, vietando qualsiasi organo di stampa, radio e televisioni indipendenti e, negli ultimi anni, con l’espandersi di internet, adottando un blocco sofisticato ed esteso dei siti web ritenuti pericolosi e quotidianamente tenendo sotto controllo gli account email (Emhrn, 2010). Inoltre, Ben Ali ha limitato fortemente l’attività di tutte le organizzazioni politiche. Oltre al partito di regime, il Rassemblement Constitutionnel Dèmocratique (RCD), totalmente sotto controllo di Ben Ali, soltanto ad un numero ristretto di partiti è stato permesso di operare legalmente nel paese. Su sei partiti legalizzati, solo tre rappresentavano 29 Secondo stime ufficiali, l’indice dei prezzi al consumo passa da 3,9% nel 2007, al 4,4% nel 2008, al 6,4% nel 2009 (Ons, 2009). Comunque, tali stime potrebbero essere sottostimate. Per esempio, altri studi non ufficiali riportano per il 2007 un valore del 12% contro il 3,7% pubblicato dal governo algerino (“Le gouvernement peut-il juguler l’inflation et créer 400 000 emplois par an ?”, La Nouvelle République, 23/04/2008, http://www.algeria-watch.org/fr/article/analyse/inflation_emplois.htm). 30 “Que va lâcher le gouvernement ?”, el Watan, 29/09/2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/administration/gouvernement_face_malaise.htm). 17 l’opposizione indipendente: il Parti Démocratique Progressiste (PDP), il Forum Démocratique pour le Travail et le Libertés (FDTL) e l’Ettajdid. Questi partiti, comunque, hanno svolto un ruolo molto marginale nella vita politica tunisina, nel timore di essere messi a tacere del tutto e per i divieti imposti dal regime alla libertà di associazione ed espressione. Infine, le elezioni presidenziali sono state sapientemente manipolate per favorire la rielezione incontrastata di Ben Ali. Nel 2002, un referendum costituzionale ha abolito il limite dei mandati presidenziali e ha alzato l’età massima per candidarsi da 70 anni a 75 anni, permettendo a Ben Ali di ripresentarsi, e vincere, le elezioni del 2004 e del 2009. Nel 2008, una nuova legge, che stipulava che ogni candidato alla presidenza dovesse essere leader di un partito da almeno due anni, ha escluso dalle elezioni dell’anno seguente due dei rappresentanti dei principali partiti di opposizione, Mustafa Ben Jafaar, segretario del FDTL, e Nejib Chebbi, leader del PDP. Per quanto riguarda l’Egitto, Hosni Mubarak era al potere dal 1981. Dopo un periodo di cauta apertura politica tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, Mubarak invertì rotta, dando inizio ad una dura repressione contro gli oppositori politici, in particolare contro i Fratelli Musulmani, e restrinse, attraverso importanti emendamenti alla costituzione, gli spazi di azione e di libertà della società civile (Pioppi, 2004; Kienle, 1998; Din Arafat, 2009). Nella prima metà degli anni duemila, sotto la pressione di una crescente contestazione politica (vedi §3.2 nel presente rapporto), il regime tornò a fare alcune concessioni. Diversamente da Ben Ali, Mubarak acconsentì ad una certa libertà di stampa, concedendo ad alcuni giornali indipendenti, come al Masry al Youm, al Arabi e al Dustur, di operare. Venne inoltre emendata la costituzione (articolo 76) così che nel settembre 2005 si tennero le prime elezioni presidenziali aperte ad altri candidati oltre al presidente Mubarak. Tutto ciò, comunque, non cambiò affatto la natura autoritaria e repressiva del regime. Grazie alla legge di emergenza in vigore dal 1981, continuarono gli arresti, le detenzioni arbitrarie e le intimidazioni verso quei giornalisti ed oppositori che oltrepassavano i confini fissati dal regime (Beinin, 2009). La possibilità o meno di presentarsi come candidati alla presidenza continuò ad essere sottoposta alla stretta supervisione del regime e le frodi e le intimidazioni continuarono a inficiare i risultati delle elezioni del 2005 (Dunne, 2006; Din Arafar, 2009). Negli ultimi cinque anni, dopo il successo inatteso dei Fratelli Musulmani alle elezioni parlamentari del 2005,31 il regime di Mubarak ha rafforzato significativamente il controllo sulla vita politica e ha intensificato gli arresti e le intimidazioni contro gli oppositori politici, soprattutto i Fratelli Musulmani, ma non solo (Paciello, 2011). L’uccisione del giovane Khaled Saieed da parte di alcuni poliziotti nel giugno 2010 ha rivelato tutta la brutalità del regime, contribuendo a politicizzare le coscienze di molti egiziani, soprattutto ragazzi. Una serie di emendamenti costituzionali approvati nel 2006 e nel 2007 hanno conferito al presidente il potere di sciogliere il parlamento senza referendum, hanno arginato ogni tentativo da parte dei Fratelli Musulmani di dar vita ad un partito, vietando la costituzione di formazioni politiche basate sulla religione, e hanno limitato il ruolo dei giudici nella supervisione delle elezioni, incaricando un comitato appositamente nominato dal governo (Sullivan 2009; el-Ghobashy, 2010; Shehata, 2009). In vista delle elezioni presidenziali, previste per settembre 2011, sono state introdotte condizioni ancora più restrittive per le candidature alla carica di presidente, di fatto impedendo alle forze di opposizione di presentare un loro candidato e preparando la strada alla rielezione di Mubarak o alla nomina di suo figlio Gamal (Brown et al., 2007). Le ultime elezioni parlamentari tenute il 28 novembre 2010, qualche mese prima della rivoluzione, sono state le più fraudolente da quando Mubarak era al potere, segnate da violazioni senza precedenti, arresti di centinaia di attivisti dei Fratelli Musulmani e forti pressioni sui media. Grazie anche agli emendamenti costituzionali del 2006/2007, la vittoria massiccia del National Democratic Party (NDP)32 è stata quindi inevitabile, mentre i partiti di opposizione ha ottenuto una manciata di voti. I Fratelli Musulmani, principale forza di opposizione del paese, non sono riusciti a conquistare 31 Per la prima volta, 88 candidati indipendenti appartenenti ai Fratelli Musulmani riuscirono ad entrare in parlamento, aggiudicandosi il 20% dei seggi totali. 32 Partito nazionale democratico 18 neppure un seggio, decidendo di boicottare il secondo turno elettorale in segno di protesta (Dunne e Hamzawy, 2010). In Algeria, benché Bouteflika, eletto nel 1999 con il supporto dell’esercito, sia riuscito, anche se non completamente, a contenere la violenza esplosa durante gli anni novanta e a ridurre il peso politico dei militari (Tlemcani, 2008), sotto la sua presidenza, si è assistito ad un consolidamento dell’autoritarismo. Di fatto, nel giro di dieci anni, Bouteflika ha proceduto ad una progressiva concentrazione del potere e dei processi decisionali nelle sue mani, subordinando completamente l’organo legislativo a quello esecutivo e dunque indebolendo l’azione del parlamento (Darbouche, 2011; Tamburini, 2010). Nel 2008, una serie di emendamenti costituzionali approvati dal parlamento hanno contribuito a rafforzare ulteriormente il potere del presidente e consentirgli di ricandidarsi per la terza volta alle elezioni del 2009, rimuovendo il limite di due mandati all’eleggibilità dei presidenti imposto dalla costituzione del 1993 (Aghrout e Zoubir, 2009). Inoltre, il regime di Bouteflika è riuscito a contenere le espressioni di dissenso grazie alla legge d’emergenza introdotta nel 1992, al forte controllo dello stato sui media e all’opera di intimidazione della polizia (il noto Département du Renseignement et de la Sécurité) (Roberts, 2007; Darbouche, 2011). Nonostante la presenza di innumerevoli partiti politici, la maggior parte di essi sono stati cooptati e indeboliti dal regime attraverso la strategia del divide et impera che ha generato rivalità e fazionalismi tra gli stessi partiti di opposizione (Dessi, 2011; Layachi, 2011; Roberts 2007). I partiti politici appaiono dunque deboli e godono di scarsa credibilità, come mostra il progressivo aumento nei tassi di astensionismo al voto a partire dalle elezioni del 1995 (Dris-Ait-Hamadouche, 2008). Infine, nonostante i tentativi di Bouteflika di consolidare la natura civile del suo governo, i servizi di sicurezza hanno continuato ad esercitare una forte influenza sulla politica algerina, interna e estera, e sulle decisioni del governo (Tlemcani, 2008). Il contesto politico su delineato mostra dunque come il drammatico peggioramento delle condizioni socio-economiche osservato nei tre paesi soprattutto nell’ultimo decennio sia stato accompagnato da un progressivo rafforzamento dell’autoritarismo, della repressione e della chiusura degli spazi di espressione politica, anche se con modalità ed intensità diverse da paese a paese. Il deterioramento della condizione socio-economica combinato ad una regressione sul fronte politico hanno contribuito dunque ad esasperare la frustrazione ed il risentimento tra la popolazione. In assenza di canali formali di espressione politica, il quadro socio-economico e politico si è rivelato insostenibile e inaccettabile, sfociando in una forma di mobilitazione spontanea. 1.3.2 Dinamiche politiche e problemi economici Il contesto autoritario su presentato ha influenzato profondamente gli sviluppi sociali ed economici dei paesi oggetto di studio. Le politiche pubbliche si sono rivelate inefficaci ad affrontare i problemi socio-economici su descritti per ragioni di natura essenzialmente politica. Le riforme di liberalizzazione economica sono state infatti uno strumento centrale di consolidamento del potere autoritario nei tre paesi. Esse hanno offerto opportunità di arricchimento all’elite di potere, ad una cerchia ristretta di imprenditori vicini ai regimi e, nel caso dell’Egitto e dell’Algeria, anche ai militari. I programmi di privatizzazione, condotti in maniera opaca e in assenza di una competizione trasparente, sono un chiaro esempio di come le riforme economiche abbiano avvantaggiato solo coloro che avevano stretti legami con l’elite al potere: i membri della famiglia di Ben Ali e di sua moglie Leila Trabelsi in Tunisia, i generali dell’esercito in Algeria e un gruppo di grandi imprenditori locali vicini agli uomini di governo in Egitto (Hibou, 2006; Larsson, 2010; Alissa, 2007; Delhaye e Le Pape, 2004). Come mostrano numerosi casi, molti dei quali legati alle privatizzazioni, anche gli investitori stranieri non sono sfuggiti a questo fitto sistema di corruzione, compromessi e favoritismi con i regimi in carica (Escribano e Lorca, 2011; el Naggar, 2010; Hibou et al., 2011). 19 Allo stesso tempo, tali riforme sono servite ai regimi al potere per cooptare importanti segmenti del settore privato al fine di ampliare o rafforzare la loro base di consenso.33 A loro volta, in cambio di supporto politico ed acquiescenza, gli imprenditori collusi con il potere hanno beneficiato delle riforme economiche, ad esempio rilevando le compagnie pubbliche a prezzi irrisori per poi rivenderle a prezzi maggiorati; hanno fatto maggiori profitti grazie ad agevolazioni fiscali e ad altri privilegi personali; e hanno potuto perseguire i loro interessi economici nella più totale assenza di trasparenza (Hibou 2007; El Naggar, 2011). Il magnate dell’acciaio Ahmad Ezz, uno dei primi ad essere arrestato dopo la fuga di Mubarak, rappresenta il caso più emblematico, ma non l’unico, della fitta rete di privilegi che legava un gruppo di imprenditori al potere politico (Al Din Arafat, 2009). Grazie alla sua stretta amicizia con Gamal Mubarak e alla sua posizione di primo piano nel partito di regime, il parlamento non osò mai mettere in discussione il monopolio dell’imprenditore nel settore dell’acciaio (Beinin, 2009). Insieme ad altri noti imprenditori, Ahmed Ezz fu uno dei principali finanziatori della campagna presidenziale di Mubarak nel 2005 (Alissa, 2007). Non è un caso che, in Egitto, all’epoca di Mubarak, il numero di uomini d’affari aderenti al partito di regime e presenti in parlamento fosse progressivamente aumentato (dal 12% alle elezioni del 1995 al 22% nel 2005) (Beinin, 2009; Al Din Arafat, 2009). Grazie alla loro presenza in parlamento e dunque all’immunità parlamentare di cui godevano, questi imprenditori riuscirono ad accumulare illegalmente enormi fortune, ricambiando con una totale acquiscienza al regime (Al Din Arafat, 2009). Infine, nonostante l’attuazione delle riforme di mercato volte a rafforzare l’iniziativa privata, i regimi nei tre paesi hanno continuato ad esercitare una forte sorveglianza sul settore privato. Il caso della Tunisia, studiato in modo approfondito da Bèatrice Hibou (2006), serve ad illustrare chiaramente questo punto. In Tunisia, l’accesso alle agevolazioni fiscali di cui si è parlato o ai numerosi dispositivi di finanziamento disponibili per le imprese così come ai vantaggi contemplati dallo stesso programma di Mise à Niveau finanziato dall’Europa, erano parte integrante di questo sistema di controllo da parte del regime, che determinava l’attribuzione di tali benefici in base a logiche politiche (Hibou, 2006; Cassarino 2004). A tali pratiche di “inclusione”, si affiancavano strategie diffamatorie nei confronti degli imprenditori non accondiscendenti al potere e misure di natura coercitiva. A questo proposito, per esempio, si ricorda che i programmi presidenziali di assistenza sociale erano in gran parte finanziati da donazioni “volontarie” provenienti dal settore privato, a cui ognuno era costretto a partecipare per non incorrere in ritorsioni da parte del regime (Hibou, 2006, 2009). Inoltre, se da una parte il regime tollerava l’evasione fiscale e l’illegalità, in cambio gli imprenditori erano in qualche modo costretti a versare denaro al partito di regime o alle associazioni vicine al potere (Hibou, 2006). Gli imprenditori tunisini che si rifiutavano di sottostare al sistema mafioso di Ben Ali rischiavano persino di essere imprigionati.34 Queste modalità di gestione economica, profondamente radicate in un sistema autoritario e repressivo, hanno impedito l’emergere di un settore imprenditoriale dinamico ed indipendente realmente capace di generare opportunità di lavoro e di produrre un profondo cambiamento economico, favorendo il dilagare della corruzione e delle pratiche predatorie, del nepotismo, ed il perpetuarsi di inefficienze nell’economia. Il basso livello di investimenti privati dunque, oltre a riflettere problemi di natura economica soprattutto tra le piccole e medie imprese (difficoltà di accesso al credito, mancanza di accesso alle nuove tecnologie, limitate infrastrutture, mercati limitati ecc) è dovuto innanzitutto a fattori di natura essenzialmente politica. Come emerge da numerose analisi,35 uno dei principali fattori che sembra aver scoraggiato gli investimenti privati, 33 La letteratura su questo tema è molto ampia (vedi Alissa, 2007; Beinin, 2009; Droz-Vincent, 2009; Wurzel, 2004, 2009; Heydemann, 2007; Richter, 2007; Sfakianakis, 2004; Cassarino, 2004; Hibou, 2004, 2006; Delhaye e Le Pape, 2004). 34 Si rimanda alla testimonianza di un giovane imprenditore tunisino rimasto in carcere per cinque anni, pubblicata dopo la fuga di Ben Ali su La Presse (“Le récit d’un entrepreneur tunisien broyé par le système Ben Ali”, 17/02/2011, La Presse, http://www.lapresse.tn/17022011/22809/le-recit-dun-entrepreneur-tunisien-broye-par-le-systeme-ben-ali.html). 35 Hibou et al. 2011; Robert F. Godec ,“Corruption en Tunisie: Ce qui est à toi m’appartient”, Tunisia Watch, 14/12/2010 (http://www.tunisiawatch.com/?p=3166); “Bribes and prejudice: why anti-graft measures worry Egypt's economists”, Ahram online, 04/05/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11412/Business/Economy/Bribes-and-prejudice-why-antigraft-measuresworry-.aspx). 20 locali e stranieri, nei tre paesi è proprio la corruzione, la mancanza di trasparenza ed il sistema di favoritismi. Uno studio sull’Egitto condotto da Transparency International prima della rivoluzione dimostra che gli investitori stranieri investivano poco nel paese proprio a causa della corruzione dilagante e della poca trasparenza del clima d’affari. Allo stesso modo, un’altra indagine dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni rileva che il primo fattore a scoraggiare gli investimenti della diaspora egiziana nel paese d’origine era proprio la mancanza di trasparenza (IOM, 2010). Anche i programmi di assistenza sociale e di creazione di impiego devono la loro inefficacia ad una gestione opaca, corrotta e nepotistica, guidata da motivazioni politiche (Kallander, 2011; Harrigan e el-Said, 2009). In Tunisia, per esempio, il programma presidenziale noto con il nome di Fondo 2626 fu gestito con poca trasparenza e molte delle sue risorse intese a risolvere il problema della disoccupazione furono distribuite secondo criteri puramente clientelari (Kallander, 2011). Sempre in Tunisia, poiché era il partito di regime che determinava l’attribuzione dei benefici sociali, a chi anche lontanamente fosse sospettato di essere oppositore politico, venne precluso l’accesso ai servizi sociali o ad altri benefici (Hibou, 2007; Harrigan e el-Said, 2009). Tali considerazioni naturalmente si estendono anche agli altri paesi oggetto di studio. In Algeria, il processo di attribuzione delle nuove case ha sollevato numerose proteste poichè è stato condotto in modo opaco, dando luogo a favoritismi e escludendo le famiglie realmente bisognose (OHCHR, 2011). 2. SFIDE SOCIO-ECONOMICHE DOPO LA PRIMAVERA ARABA Introduzione La primavera araba ha avuto nel breve termine effetti diversi sulle economie studiate in questo rapporto. Nella fase successiva all’ondata di proteste di gennaio e febbraio, il quadro socioeconomico in Tunisia e in Egitto ha continuato a peggiorare. Le sollevazioni popolari hanno avuto ripercussioni drammatiche sulle economie dei due paesi, andando a peggiorare una situazione che era già complicata in precedenza. Inoltre, le risposte elaborate nei mesi successivi alla rivoluzione dai governi di transizione per contenere il drammatico deterioramento della situazione socioeconomica si sono rivelate inefficaci perché hanno riproposto le stesse ricette del passato. Anche se l’Algeria sembra godere, almeno nel breve termine, di una situazione relativamente più favorevole rispetto a Tunisia e Egitto, considerando l’impatto della crisi libica sui prezzi del petrolio, tuttavia in una prospettiva di lungo termine le misure socio-economiche messe in atto dal governo algerino per contenere le proteste di gennaio non sono sostenibili e continuano ad essere insufficienti per affrontare i problemi strutturali del paese. Dal punto di vista politico, l’incertezza che ha accompagnato la fase della transizione in Tunisia e Egitto, combinata ad uno persistente stato di insicurezza e instabilità, ha scoraggiato la ripresa di settori economici chiave, come il turismo, e quella degli investimenti privati. Ma soprattutto, il fatto che i governi di transizione abbiano esitato a rompere con il vecchio sistema di potere, anche se con differenze tra Egitto e Tunisia, ha finora impedito un ripensamento profondo delle strategie di sviluppo. In Algeria, le riforme politiche inaugurate da Bouteflika dopo le proteste di gennaio non hanno apportato alcun miglioramento tangibile, preservando dunque lo status quo non soltanto negli equilibri politici ma anche in quelli economici. 2.1 Incertezze del cambiamento politico Tunisia: segnali incoraggianti e molte incognite sul futuro politico Dopo le sollevazioni popolari che hanno portato al rovesciamento di Ben Ali, i poteri del presidente sono passati temporaneamente a Fouad Mebazaa, ex presidente del Parlamento, che ha nominato un governo di transizione con l’incarico di guidare il paese fino alle elezioni. I primi due governi ad 21 interim hanno avuto breve durata perchè accoglievano diverse personalità note per i legami con l’ex presidente e la sua famiglia, ed erano diretti da Muhammad Ghannouschi, primo ministro uscente del governo sotto Ben Ali e figura di spicco durante il precedente regime. Proprio per questo, i primi due governi ad interim hanno esitato ad attuare misure volte a mettere seriamente in discussione il sistema passato di potere (Paciello 2011). Ad esempio, non hanno preso alcuna iniziativa per dissolvere il vecchio apparato di sicurezza ideato da Ben Ali per controllare gli oppositori politici. Inoltre, la nomina dei nuovi governatori delle province (il 3 febbraio) si è svolta senza previa consultazione delle forze politiche e quasi tutti i nuovi governatori eletti provenivano dall’ex partito di regime. Il problema dell’insicurezza, che ha attraversato la Tunisia sin dalla fuga di Ben Ali, è stato affrontato solo tardivamente e senza riuscire a porre fine all’anarchia nel paese. Il terzo governo ad interim guidato da Beji Caid Essebsi ha rappresentato, rispetto ai precedenti, un passo avanti. La transizione politica ha infatti proceduto più speditamente. Una delle prime misure adottate è stato lo smantellamento del vecchio apparato di sicurezza, una delle richieste prioritarie dei manifestanti. Il governo di Essebsi ha inoltre fatto numerose concessioni in favore del cambiamento politico: ha accettato la proposta, arrivata dalla società civile, di eleggere un’Assemblea Costituente incaricata di riscrivere la Costituzione prima di tenere elezioni parlamentari e presidenziali, così da aprire la strada ad un processo di riforme costituzionali condiviso e rappresentativo; ha posticipato la data delle elezioni dell’Assemblea Costituente, inizialmente previste per il 24 luglio 2011, al 23 ottobre 2011 in modo da lasciare più tempo alle forze politiche per organizzarsi; e, attraverso la creazione della Instance Supérieure36 per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, ha accettato di consultarsi con numerosi rappresentanti della società civile su diverse questioni, come per esempio sulla riforma della legge elettorale (vedi §3.4.1). Infine, la riforma della legge elettorale per nominare l’Assemblea Costituente ha introdotto importanti provvedimenti: ha vietato la candidatura dei rappresentanti dell’ex partito di regime che avevano ricoperto incarichi dirigenziali nell’ultimo decennio; ha adottato la parità uomo-donna ed il principio dell’alternanza nella presentazione delle liste elettorali; e ha concesso il diritto di voto ai tunisini residenti all’estero, attribuendo loro dieci seggi. Il 23 ottobre, si sono tenute in Tunisia le elezioni dell’Assemblea Costituente, che hanno visto il partito islamista moderato al Nahda ottenere il maggior numero di seggi (89 su 217) e aggiudicarsi voti in pressocchè quasi tutti i distretti. Entro un anno, l’Assemblea dovrà terminare la stesura della costituzione, che verrà poi sottoposta a referendum popolare. Al termine di questo processo, ci saranno le elezioni del parlamento. Nel frattempo, un nuovo governo diretto dal segretario generale di al Nahda, Hamadi Jebali, avrà il compito di occuparsi di alcune questioni cruciali per il paese come il rilancio dell’economia e la riforma della giustizia e della sicurezza. L’elezione dell’Assemblea Costituente potrebbe quindi dare inizio ad una nuova fase della transizione politica della Tunisia, quella che potrebbe aprire la strada alle riforme istituzionali, su cui finora i governi ad interim hanno esitato, accelerare la trasformazione politica e rilanciare l’economia. Benché ci siano diversi segnali incoraggianti, la traiettoria della transizione politica tunisina è piena di incertezze. L’incognita maggiore riguarda il futuro ruolo di al Nahda, che secondo alcuni osservatori ed esponenti della società civile tunisina potrebbe costituire una minaccia per il processo di transizione democratica, soprattutto per quanto riguarda la questione dei diritti delle donne. Sul piano programmatico, sin da quando il suo leader, Rachid Ghannouchi, in esilio a Londra è tornato in Tunisia (30 gennaio 2011), il partito islamista ha ripetutamente ribadito la sua volontà di rispettare le regole della democrazia e i diritti dell’uomo, di non voler instaurare la legge islamica ma di rifarsi ad un Islam moderato sul modello del Partito Giusizia e Sviluppo in Turchia, nè di voler rimettere in discussione il Codice della Famiglia, che tra le altre cose vieta la poligamia. Anche dopo le elezioni, gli esponenti del partito islamista hanno continuamente rassicurato l’opinione pubblica sul rispetto di tali principi. 36 Instance Supérieure pour la Réalisation des Objectifs de la Révolution, de la Réforme Politique et de la Transition Démocratique. 22 Anche se non è possibile escludere il rischio che al Nahda, attraversato da numerose correnti, inverta rotta per avvicinarsi a posizioni conservatrici, alcuni elementi potrebbero contribuire a scoraggiare un eventuale spostamento del partito islamista in tale direzione. Non avendo ottenuto la maggioranza assoluta, al Nahda ha formato un governo di coalizione con due partiti di sinistra, il Congrès pour la République (CPR) di Moncef Marzouki, che ha ottenuto ventinove seggi, e Ettakatol di Mustapha Ben Jaafar, che si è aggiudicato venti seggi. Questi due partiti devono il loro relativo successo elettorale al fatto di aver tenacemente combattuto contro la dittatura di Ben Ali e aver difeso strenuamente i diritti umani. Proprio in virtù di tali prerogative, il CPR e Ettakatol potrebbero porsi a garanzia del fatto che al Nahda rimanga coerente con le affermazioni e le rassicurazioni fatte finora in tema di diritti umani e sul codice della famiglia. Gli altri molteplici partiti che hanno dichiarato di posizionarsi all’opposizione sono in maggioranza formazioni liberali e di sinistra, che potrebbero anch’essi svolgere un ruolo in tal senso.37 Infine, la scelta del presidente ad interim della repubblica nella figura di Moncef Marzouki, leader del CPR, potrebbe rappresentare un ulteriore garanzia per assicurare il rispetto delle istituzioni, equilibrare i rapporti di forza tra le parti e garantire le libertà fondamentali. Una seconda incognita riguarda il grado di compattezza e solidità del nuovo governo. Da una parte, la futura coalizione sembra convergere su diversi temi, tra cui l’attaccamento all’identità arabo musulmana, la volontà di rompere radicalmente con il passato regime, essendo tutti e tre ex partiti di opposizione duramente repressi sotto Ben Ali, ed il tema della giustizia sociale. Tuttavia, il dibattito sulla costituzione all’interno dell’Assemblea Costituente potrebbe dividere queste forze politiche che hanno posizioni diverse su questioni quali la scelta del sistema politico (parlamentare o presidenziale), i rapporti tra stato e religione, i poteri del presidente ecc.38 Un terzo fattore di incertezza è dato dal ruolo che svolgerà la controversa formazione Pétition Populaire (Al Aridha Chaâbia), guidata da Hachemi Hamdi, potente uomo d’affari e proprietario del canale satellitare al Mustaquilla basato a Londra, e sospettato di aver forti legami con il precedente regime. Contrariamente ad ogni aspettativa, Pétition Populaire ha ottenuto ventisei seggi diventando così la terza forza politica del paese dopo il CPR grazie al canale satellitare attraverso il quale ha condotto la sua campagna elettorale e a un programma fortemente populista, che ha conquistato le regioni più povere del sud. Immediatamente dopo le elezioni, sei liste di Pétition Populaire39 erano state annullate con l’accusa di aver condotto una campagna elettorale scorretta e, nel caso di una circoscrizione, per avere come capo lista un dirigente dell’ex partito di regime. La decisione di Hachemi Hamdi di ritirare tutte le liste della sua formazione politica aveva causato scontri violenti e saccheggi da parte dei suoi sostenitori a Sidi Bouzid, sua città natale e luogo da cui, come è noto, ha preso piede la sollevazione popolare contro Ben Ali. A seguito di diversi ricorsi, il tribunale ha annullato la decisione di invalidare le sei liste. Quale ruolo giocherà questa lista nella futura assemblea costituente è ancora presto per dirlo. Per il momento, Hechmi Hamdi non è ancora rientrato in Tunisia perché il suo nome figurerebbe nell’ultimo rapporto redatto dalla Commissione Nazionale sugli Affari di Corruzione commessi all’epoca di Ben Ali. Il fatto che Pétition Populaire, sospettata di avere il sostegno di membri dell’ex partito di regime, sia presente nell’Assemblea Costituente, insieme ad un altro partito, El Moubadara, fondato da un ex ministro di Ben Ali, Kamel Morjane (con 5 seggi), potrebbe influenzare negativamente la direzione del cambiamento politico. Infine, la presenza di numerose forze politiche nell’Assemblea Costituente, che riflette il sistema elettorale proporzionale scelto dall’Alta Istanza per garantire una maggiore rappresentatività, potrebbe rallentare il processo decisionale e dar luogo ad alleanze fragili e imprevedibili. A tal proposito, si ricorda che, oltre ai partiti su menzionati, l’Assemblea Costituente è composta da altri quattordici partiti che hanno ottenuto un seggio a testa. 37 Tra questi: l’ex partito di opposizione il Parti Démocratique Progressiste (16 seggi), Afek Tounès (4 seggi), il Partito Comunista Operaio Tunisino (3 seggi), il Pôle Démocratique Moderniste (5 seggi) e diversi partiti di sinistra che hanno ottenuto un seggio a testa. 38 Slate Afrique, 8/11/2011 (http://www.slateafrique.com/62767/les-missions-de-l%E2%80%99assemblee-constituante-tunisie). 39 Si tratta delle circoscrizioni di Tatauoine, Sfax I, Jendouba, Kasserine, Sidi Bouzid e France 2. 23 Egitto: tra involuzione autoritaria e instabilità politica In Egitto, il processo di transizione politica ha proceduto molto lentamente. La fase post Mubarak è stata gestita dal Consiglio Supremo delle Forze Armate presieduto da Mohammed Hussein Tantawi, ministro della difesa durante il precedente regime. A causa dei forti legami con il regime di Mubarak, il Consiglio delle Forze Armate è stato molto reticente a rompere con il passato sistema di potere e ha fatto pochissime concessioni alla rivoluzione. Il primo governo di transizione guidato da Ahmed Shafiq, pur essendo stato nominato da Mubarak poco prima della sua destituzione, è rimasto in carica, dopo un piccolo rimpasto, fino al 3 marzo. Il successivo governo, diretto da Essam Sharaf, ha continuato ad essere composto di ex ministri e personalità legate a Mubarak. In risposta alle recenti proteste di novembre, represse duramente dalle autorità, è subentrato un terzo governo diretto da Kamal el Ganzouri, che in quanto ex primo ministro all’epoca di Mubarak, continua ad essere un esponente del passato regime. Inoltre, al di là di alcune caute iniziative, le autorità di transizione non hanno preso alcuna seria misura per riformare l’apparato di sicurezza, il sistema di informazione e il sistema della giustizia, che rimangono ancora sotto il controllo di uomini legati all’ex regime (Paciello, 2011). I militari hanno usato, sempre più frequentemente, gli stessi metodi repressivi e violenti del precedente regime, rispondendo alle continue proteste con l’uso della forza, arrestando arbitrariamente bloggers, avvocati e giornalisti, e arrivando a processare ben 12,000 civili davanti alle corti militari (Paciello, 2011; Amnesty International, 2011). A metà settembre, contrariamente a quanto inizialmente dichiarato, il Consiglio delle Forze Armate ha annunciato la riattivazione della legge d’emergenza estendendola fino a giugno 2012. Il recente arresto di Alaa Abdel-Fattah, uno dei più famosi blogger egiziani e animatori della sollevazione contro Mubarak, e la violenta repressione contro le proteste di novembre, che ha provocato la morte di quarantadue persone, testimoniano la forte continuità con il passato regime. Infine, le autorità di transizione non hanno saputo o voluto gestire le tensioni intra-religiose, scoppiate tra Musulmani e Copti, e tra Sufi e Salafiti, contribuendo ad esacerbare il clima di insicurezza e instabilità che pervade il paese, come mostrano gli ultimi violenti incidenti di ottobre tra militari e manifestanti copti. Il 28 novembre, si è aperto il lungo processo elettorale per la nomina del nuovo parlamento dopo il rovesciamento di H. Mubarak che si concluderà il 4 marzo.40 Successivamente, il neo-parlamento avrà il compito di nominare il comitato incaricato di riscrivere la costituzione, che dovrà poi essere finalizzata entro sei mesi e soggetta all’approvazione di un referendum popolare. Benché sia difficile fare previsioni attendibili sull’esito delle elezioni a causa della complessità della legge elettorale e della nebulosità del panorama delle forze politiche, le opportunità di un reale cambiamento politico, almeno per i prossimi mesi, sembrano molto limitate. Le elezioni serviranno per chiarire quali sono gli equilibri di forza dei vari partiti politici nel paese, ma certamente non contribuiranno ad avviare il paese verso una netta rottura con il passato sistema di potere, indispensabile per una profondo cambiamento politico. Un primo problema riguarda le molte esitazioni, la confusione e l’opacità con cui il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha gestito la fase di preparazione delle elezioni che rischiano di comprometterne la legittimità, aumentando l’incertezza e l’instabilità nei prossimi giorni e mesi. La legge elettorale, che era già stata emendata alla fine di maggio, è stata modificata nuovamente dal Consiglio delle Forze Armate alla fine di settembre, a meno di due mesi dalle elezioni. Ciò ha lasciato pochissimo tempo per organizzare la campagna elettorale e per sensibilizzare la popolazione sul complesso sistema di voto (IFES, 2011), che potrebbe scoraggiare l’elettorato o indurlo in errore, soprattutto nelle zone rurali. Inoltre, la complessità e le molte ambiguità della legge elettorale, oltre ai numerosi problemi logistici, amministrativi e tecnici rimasti irrisolti, rischiano di sollevare nei prossimi mesi ricorsi e ulteriori proteste. Uno dei principali rischi legati alle elezioni parlamentari in Egitto è che il futuro parlamento sia 40 I primi tre turni (28 novembre, 14 dicembre ed il 3 gennaio) riguarderanno le elezioni dell’Assemblea Popolare, mentre i tre successivi (29 gennaio, 14 febbraio e 4 marzo) serviranno per eleggere la camera alta (Consiglio della Shura). 24 poco rappresentativo delle forze sociali e politiche che hanno animato la sollevazione popolare contro Mubarak. Infatti, sembra del tutto plausibile che la configurazione del futuro parlamento sarà caratterizzata dalla predominanza del partito islamista Giustizia e Libertà (Freedom and Justice Party), espressione della Fratellanza Musulmana. Benché si tratti di risultati preliminari relativi alla prima tornata elettorale condotta in nove governatorati su ventisette, il partito islamista si sarebbe aggiudicato tra il 40% ed il 45% dei voti. Anche se è difficile dire se Giustizia e Libertà otterrà la maggioranza assoluta in parlamento dato l’elevato numero di partiti islamisti, la formazione dei Fratelli Musulmani gode indubbiamente di una posizione nettamente più favorevole rispetto a tutte le altre in termini di strutture organizzative, risorse finanziarie e presenza sul terreno attraverso le sue attività caritatevoli. Accanto al partito islamista dei Fratelli Musulmani, il blocco dei partiti salafiti ultraconservatori coalizzato nell’Alleanza Islamica e guidato dal partito al Nour potrebbe conquistare una parte importante dei voti, tanto da diventare la seconda forza nel paese. Per ora, alla prima tornata elettorale, avrebbe ottenuto il 20% dei voti, posizionandosi dopo la formazione dei Fratelli Musulmani. Un elemento che influenzerà certamente il corso della transizione politica è rappresentato dalla strategia del partito Giustizia e Libertà nei confronti degli altri partiti: se cioè opterà per un’alleanza con i partiti salafiti o con quelli secolari. Benché i partiti islamisti si siano presentati alle elezioni frammentati in diverse coalizioni o, come nel caso di al Wasat senza aderire a nessuna alleanza, le divergenze, per alcuni dovute a rivalità personali piuttosto che a incomprensioni programmatiche, potrebbero ricomporsi una volta entrati tutti in parlamento. Secondo alcuni osservatori, se i salafiti si rivelassero il secondo blocco dopo il partito Giustizia e Libertà, questo potrebbe spingere il partito dei Fratelli Musulmani verso posizioni più conservatrici.41 La strategia del partito Giustizia e Libertà dipenderà naturalmente anche se ed in che misura i partiti secolari decideranno di cooperare con il partito islamista.42 Benché, data la complessità della legge elettorale, sia difficile prevedere quale sarà il ruolo degli altri partiti politici nel futuro parlamento, sembra probabile che le forze che si propongono di rappresentare le istanze rivoluzionarie e le giovani generazioni riescano ad ottenere una presenza molto marginale nel futuro parlamento. Per ora, i risultati della prima tornata elettorale mostrano che la terza forza nel paese è il Blocco Egiziano che raccoglie i cosiddetti partiti liberali e prosecolaristi, tra cui il Partito degli Egiziani Liberi, il Partito Social Democratico ed il Tagammu’. Questo blocco, che certamente potrebbe giocare un ruolo nel controbilanciare il peso delle forze islamiste, presenta numerosi aspetti controversi. Uno dei partiti che compone l’alleanza è il partito Free Egyptians,43 fondato dal ricco imprenditore Naguib Sawiris, che ha accumulato grandi fortune durante il regime di Mubarak e si dica fosse vicino al figlio dell’ex presidente, Gamal Mubarak.44 Il partito ha inoltre presentato nella sua lista otto membri dell’ex partito di regime. Infine, l’eterogeneità dell’Alleanza, formata da un partito ultra liberista come quello di Sawiris e da un partito socialista come il Tagammu’, potrebbe, in futuro, minacciarne la coesione. L’Alleanza Revolution Continues,45 l’unica ad essere costituita da alcuni gruppi giovanili protagonisti della rivoluzione, ad aver un programma fortemente improntato sulla giustizia sociale, oltre ad aver presentato un gran numero di candidati al di sotto dei quaranti anni e diverse donne nelle liste, non sembra aver grandi opportunità di successo. La stessa considerazione vale per il partito al Adl (Giustizia), l’altra formazione politica fondata da esponenti di vari gruppi giovanili (6 Aprile, Kifaya ecc) e blogger, tra cui Mostafa Naggar. C’è inoltre il rischio che, benché l’ex partito di regime, il National Democratic Party (NDP), sia stato ufficialmente dissolto ad aprile, molti dei suoi membri possano conquistare una parte non 41 Vedi “Egypt's Islamists Pushed to Right”, Middle East News, 30/11/2011 (http://online.wsj.com/article/SB10001424052970203441704577068301585521704.html). 42 “Egypt’s Election, Take One”, Carnegie Endowment, 2/12/2011. (http://egyptelections.carnegieendowment.org/2011/12/02/egypt’s-election-take-one). 43 “Liberi Egiziani” 44 “The Free Egyptians”, Ahram Online, 18/11/2011, (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/33/104/24944/Elections-/PoliticalParties/The-Free-Egyptians.aspx) 45 “La Rivoluzione Continua” 25 trascurabile di seggi in Parlamento. Diversamente dalla Tunisia e nonostante le continue pressioni da parte dei gruppi giovanili, il Consiglio Supremo delle Forze Armate non ha imposto alcun divieto ai membri dell’ex partito di regime di presentarsi alle prossime elezioni. Per questo, numerosi esponenti del NDP si sono candidati come indipendenti o hanno trovato ospitalità nei nuovi e molteplici partiti guidati da uomini legati al precedente regime, tra cui il Freedom Party, il Egyptian Citizen Party, il National Party of Egypt, il Modern Egypt Party, e molti altri.46 Oltre a questi partiti chiaramente legati all’ex regime, altre formazioni politiche, come già detto, non hanno esitato ad accogliere candidati esponenti del NDP. Infine, si dice che il sistema elettorale, particolarmente favorevole ai candidati indipendenti, avvantaggerebbe coloro che hanno forti contatti personali a livello locale e ampie risorse finanziarie, come è il caso di molti uomini d’affari e notabili appartenenti all’ex partito di regime. Una terza questione dagli esiti incerti riguarda il futuro ruolo dei militari nel processo di transizione politica del paese. Se i militari continueranno a guidare il paese nei prossimi mesi, il processo di transizione politica è destinato a subire una drammatica involuzione. Inoltre, come mostrano le proteste scoppiate il 18 novembre per chiedere la fine del governo del Consiglio Militare ed il passaggio alle autorità civili, la continuazione di un governo militare rischia di esporre il paese ad una crescente instabilità e spirale di violenza. Prima delle proteste, il Consiglio Supremo delle Forze Armate avrebbe dovuto guidare il paese almeno fino al 2013, quando, al termine del processo di stesura e approvazione della nuova costituzione, si sarebbero tenute le elezioni presidenziali. Sotto la pressione delle proteste, il Consiglio Militare ha annunciato di volere anticipare le elezioni presidenziali a giugno 2012, ma numerosi segnali sembrano indicare che non rinuncerà facilmente al suo ruolo politico. Al di là degli annunci fatti, concretamente i militari si sono limitati a proporre la creazione di un Consiglio di civili per assistere il Consiglio dei Militari nella fase di transizione senza tra l’altro specificare chiaramente le competenze.47 Inoltre, cominciano, a circolare voci che il generale Mohamed Tantawi alla guida del Consiglio e altri generali potrebbero presentarsi alle elezioni presidenziali. Ma soprattutto, per continuare ad esercitare una forte ingerenza nel processo di stesura della costituzione, ai primi di novembre, il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha emesso una dichiarazione dei “principi sovracostituzionali”, in cui, tra le altre cose, attribuiva ai militari il potere di nominare ottanta dei cento membri della futura commissione costituzionale, spogliando di tale prerogativa il nuovo parlamento.48 Questa dichiarazione, nonostante sia stata criticata da molte parti e respinta dai manifestanti, non è stata ancora ufficialmente annullata dai militari. Tuttavia, secondo alcuni osservatori, il successo dei partiti islamisti, ed in primis dei Fratelli Musulmani, potrebbe contribuire a controbilanciare i poteri del Consiglio Supremo delle Forze Armate e quindi ad accelerare il processo di rottura con il regime di Mubarak. Nella misura in cui queste forze islamiste con una larga maggioranza rivendicheranno un ruolo politico reale per il neo parlamento eletto, sarà molto difficile per i militari imporre la loro volontà sulla composizione della futura commissione costituzionale così come sul contenuto della costituzione se non al prezzo di uno scontro diretto con il parlamento e di nuove proteste.49 Algeria: insostenibilità dello status quo e incertezza sugli scenari di cambiamento politico Il futuro politico dell’Algeria appare particolarmente incerto. Sotto la pressione di quanto successo in Tunisia ed Egitto, e delle proteste interne, il regime algerino ha avviato una serie di riforme politiche che, secondo le autorità, hanno dato inizio all’atteso processo di democratizzazione del paese. Dopo aver abolito la legge d’emergenza a febbraio 2011, il presidente Bouteflika ha 46 Per una lista completa, vedi “NDP Offshoots”, Ahram Online, (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/33/104/26897/Elections/Political-Parties/NDP-Offshoots.aspx). 47 “SCAF expected to announce 'advisory council' imminently”, 1/12/2011, (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/28256/Egypt/Politics-/SCAF-expected-to-announce-advisory-council-imminen.aspx) 48 “SCAF's proposal for constitution 'abuses will of the people', charge critics”, Ahram Ondine, 3/11/2011 http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/0/25802/Egypt/0/SCAFs-proposal-for-constitution-abuses-will-of-the.aspx 49 “Egypt’s Election, Take One”, Carnegie Endowment, 2/12/2011. http://egyptelections.carnegieendowment.org/2011/12/02/egypt’s-election-take-one 26 annunciato ad aprile una serie di misure, che vanno dalla riforma della legge sui partiti e sulle organizzazioni della società civile fino al provvedimento che riporterebbe il limiti della candidatura presidenziale a due anni. Il 12 settembre, il consiglio dei ministri ha approvato il primo pacchetto di riforme politiche promesse da Bouteflika: la riforma dei media, che mira a liberalizzare il settore dell’audio-visivo, e una serie di misure volte a favorire maggiore trasparenza nel finanziamento ai partiti e ridurre la corruzione. Tali misure di fatto non hanno apportato alcun cambiamento significativo alla situazione politica del paese e alla vita degli algerini. Per questo, sono state accolte con molto scetticismo dalla società civile e dalla popolazione in generale (Dessi, 2011; Darbouche, 2011; interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Accanto a questi cauti provvedimenti, il regime ha preso misure che restringono gli spazi di espressione, come indicato dal nuovo progetto di legge sulle associazioni recentemente approvato dal consiglio dei ministri, che limita ulteriormente il margine d'azione della società civile.50 Inoltre, negli ultimi mesi, sembra esserci stato da parte del regime un inasprimento della repressione in risposta all’intensificarsi della contestazione sociale (vedi §3.4). Lo status quo appare ormai insostenibile, come segnala l’aumento della contestazione sociale ed il crescente malcontento (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Nel caso in cui ci fosse un ulteriore involuzione della situazione politica o l’elite al potere continuasse ad esitare nel promuovere riforme politiche reali, lo scenario più plausibile è che il malcontento, soprattutto giovanile, possa degenerare in un movimento spontaneo violento e incontrollabile di protesta, i cui esiti non sono affatto prevedibili. C’è il rischio, seppur poco probabile per alcuni osservatori, che i militari possano intervenire, tornando a svolgere un ruolo politico di primo piano e dunque favorendo un’ulteriore involuzione del sistema politico che potrebbe tornare nella situazione che caratterizzava il paese prima del 1999 (Darbouche, 2011a). Per poter superare l’impasse politico ed economico, l’Algeria necessita di un profondo cambiamento degli assetti politici ed istituzionali, che implichi un rinnovamento dell’elite al potere, il ritiro di Bouteflika dalla scena politica, una profonda riforma della costituzione e dell’apparato di sicurezza, l’elezione di un parlamento realmente rappresentativo, e la completa demilitarizzazione della sfera politica. Le prospettive per tale cambiamento politico dipendono da come evolveranno le pressioni interne ed internazionali (ibid). Per esempio, se la contestazione dei movimenti sociali e giovanili continuasse a crescere, le autorità algerine potrebbero scegliere di avviare le riforme politiche attese, invece di persistere sulla strada della repressione, che, come già detto, potrebbe innescare un processo dagli esiti comunque distruttivi per il regime. Ma perché questo processo di cambiamento avvenga, occorre che le diverse forze sociali e politiche di contestazione superino divergenze e rivalità, convergendo in un fronte comune contro il regime (§3.4). In tale contesto, le pressioni degli attori internazionali sul regime potrebbero contribuire a innescare il cambiamento atteso. Il futuro politico dell’Algeria rimane segnato da molte incertezze: il futuro ruolo dei militari; la successione di Bouteflika, che per ragioni di salute potrebbe non riuscire a completare il mandato presidenziale; la questione della riabilitazione degli islamisti del Fis, che il regime ha continuato ad escludere dalla vita politica; il ruolo del Dipartimento di intelligence e sicurezza, che esercita un forte peso nella politica nazionale (Darbouche, 2011a; Dessi, 2011). 2.2. Ripercussioni socio-economiche della primavera araba La primavera araba ha avuto effetti diversi sulle economie studiate in questo rapporto. In Tunisia ed Egitto, le proteste hanno avuto un impatto drammatico, andando a peggiorare un quadro socioeconomico che era già complicato in precedenza. La ripresa nei due paesi appare al momento lenta a causa della continua incertezza politica, il clima di insicurezza e la continuazione degli scioperi. Anche se, in entrambi i paesi, tutte le attività economiche hanno subito un rallentamento durante le 50 EMHRN, “Algeria: Review of the Proposed Legislation on Associations”, 27/10/2011, (http://www.euromedrights.org/en/newsen/emhrn-releases/emhrn-statements-2011/10559.html); “Le mouvement associatif ligoté”, El Watan, 28/09/2011, (http://www.algeria-watch.org/fr/article/just/mvt_associatif_ligote.htm). 27 proteste e nei mesi successivi, i settori maggiormente colpiti sono stati il settore turistico, l’industria tessile ed il settore delle costruzioni (World Bank, 2011). L’industria turistica, che impiega circa 350000 persone in Tunisia e 2 milioni di persone in Egitto, ha subito un drastico rallentamento, con effetti prevedibilmente negativi sulle entrate dei due paesi e sul mercato del lavoro. In Tunisia, dove nei primi dieci mesi del 2011 il numero di arrivi turistici è crollato del 33%,51 si stima che le entrate turistiche per l’anno in corso scenderanno dell’80% rispetto all’anno precedente.52 In Egitto, solo nel mese di febbraio, a seguito delle cancellazioni delle prenotazioni, le entrate turistiche sono cadute del 53% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, equivalente ad una perdita di 825 milioni di dollari (World Bank, 2011). Nei primi sette mesi, il numero di arrivi turistici è diminuito del 28% rispetto all’anno precedente,53 e, benché il turismo sembra aver ripreso nelle località balneari, l’incertezza politica continua a scoraggiarne una ripresa sostenuta.54 Anche gli investimenti diretti esteri e le esportazioni dei due paesi hanno subito un forte rallentamento durante e dopo le proteste. Per esempio, da gennaio ad aprile, in rapporto allo stesso periodo dell’anno precedente, gli investimenti diretti esteri sono diminuiti del 24,5% in Tunisia e del 33% in Egitto.55 Anche se le esportazioni e la produzione in alcuni settori (manifatturiero e edile) hanno ricominciato a crescere, la ripresa è stata lenta.56 Infine, nel caso dell’Egitto, anche le rimesse sembrano aver subito un crollo a causa dell’incertezza politica, anche se più di recente hanno ricominciato ad aumentare.57 L’impatto sulla crescita economica dei due paesi è stato quindi drammatico. Secondo le stime più ottimiste, nel 2011, il Pil reale in Tunisia crescerà solamente dell’1,5%, a fronte del 3,5% previsto prima della rivoluzione, mentre in Egitto toccherà solo l’1,0% contro il 3,5% inizialmente stimato (World Bank, 2011). Il settore privato, già debole, sta facendo fatica a riemergere dalla crisi. Molte società, soprattutto nel settore alberghiero e della ristorazione, sono state costrette a chiudere. In Tunisia, alla fine di aprile, le perdite delle imprese causate dalla crisi post-rivoluzione sono stimate a 140 milioni di dinari tunisini e coinvolgerebbero 515 imprese, considerando solo quelle che operano nell’economia formale.58 Le difficoltà economiche combinate all’incertezza della situazione politica sembrano aver scoraggiato, almeno per ora, anche gli investimenti da parte della diaspora tunisina ed egiziana. Anche se l’impatto sull’occupazione non è stato ancora ufficialmente quantificato, sia in Egitto che in Tunisia, si parla di numerosi licenziamenti, di riduzione dei salari e di molti posti a rischio se non arriva l’attesa ripresa.59 In Tunisia, la crisi economica subentrata dopo la fuga di Ben Ali avrebbe prodotto 200000 disoccupati supplementari, portando il tasso di disoccupazione al 19% nel mese di 51 “Tunisie: 33% de visiteurs en moins”, 12/11/2011(http://www.europe1.fr/International/Tunisie-33-de-visiteurs-en-moins-813281/). “Tunisie: Les 7 défis capitaux d'une économie fragilisée”, Jeune Afrique, 21/06/2011, (http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2631p064-067.xml0/france-canada-suisse-investissementtunisie-les-7-defiscapitaux-d-une-economie-fragilisee.html). 53 Dichiarazioni del Ministro del Turismo (“Minister anticipates 25% drop in 2011 tourist arrivals”, al Masry Al Youm, 28/09/2011 http://www.almasryalyoum.com/en/node/500103). 54 Per esempio, gli scontri di ottbre che hanno visto coinvolti la comunità copta e i soldati hanno causato una nuova ondata di cancellazioni da parte dei turisti (“Cairo hotel occupancy down 11%”, al Masry al Youm, 11/10/2011, http://www.almasryalyoum.com/en/node/503964). 55 “Tunisie: Les 7 défis capitaux d'une économie fragilisée”, Jeune Afrique, 21/06/2011, (http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2631p064-067.xml0/france-canada-suisse-investissementtunisie-les-7-defiscapitaux-d-une-economie-fragilisee.html); Sherin Abdel-Razek, “Bad, but we’ve seen worse”, Ahram Weekly, 26 May – 1 June 2011 (www.weekly.ahram.org.eg). 56 World Bank (2011); “Egypt's economy grows 0.4 per cent in second quarter 2011”, Ahram Online, 8/09/2011, (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/20643/Business/Economy/Egypts-economy-grows--per-cent-in-second-quarter.aspx). 57 “Another blow: Egypt's economy pays the price of continued political instability”, Ahram Weekly, 13-19/10/2011 ( http://weekly.ahram.org.eg/2011/1068/ec1.htm). 58 “Tunisie - UTICA: 515 entreprises sinistrées et 140 MDT de dégâts”, Webmanagercenter, 26/04/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-105100-tunisie-utica-515-entreprises-sinistrees-et-140-mdt-de-degats). 59 “Tunisie: Les 7 défis capitaux d'une économie fragilisée”, Jeune Afrique, 21/07/2011 (http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2631p064-067.xml0/france-canada-suisse-investissementtunisie-les-7-defiscapitaux-d-une-economie-fragilisee.html). 52 28 luglio.60 In Egitto, secondo dati ufficiali, da dicembre 2010 ad aprile 2011 il tasso di disoccupazione sarebbe aumentato di quasi due punti percentuali, toccando l’11,9% (circa 800 000 disoccupati in più).61 Infine, la crisi libica a partire da febbraio ha contribuito ad aggravare ulteriormente la situazione socio-economica dei due paesi. La Tunisia è il primo partner commerciale arabo e africano della Libia, oltre ad accogliere ogni anno quasi 2 milioni di turisti libici (De Santis et al., 2011). Nei primi tre mesi dell’anno 2011, le esportazioni tunisine verso la Libia sono cadute di circa il 34% (Ibid.). Per quanto riguarda il turismo, le enormi perdite dovute all’interruzione degli arrivi di turisti libici sono state compensate, anche se solo in parte, dall’arrivo degli 80000 libici che si sono rifugiati in Tunisia per fuggire alla guerra, molti dei quali hanno alloggiato negli alberghi di lusso del paese.62 Inoltre, circa 120000 tunisini che lavoravano in Libia prima della guerra hanno fatto ritorno, con implicazioni in termini di riduzione delle rimesse e di ulteriori pressioni sul mercato del lavoro (De Santis et al., 2011). Infine, la guerra in Libia ha prodotto un’impennata dei prezzi dei beni alimentari in Tunisia, soprattutto durante il periodo del ramadan. A causa della guerra, per soddisfare il proprio fabbisogno alimentare la popolazione libica si è approviggionata sul mercato tunisino, generando una penuria di generi alimentari, anche perché i produttori tunisini hanno preferito dare priorità al mercato libico per trarne maggiori profitti.63 In Egitto, l’impatto della guerra libica ha riguardato soprattutto la riduzione delle rimesse dei lavoratori egiziani che sono ritornati in massa nel loro paese d’origine, aggravando ulteriormente la situazione del mercato del lavoro.64 La fine della guerra in Libia e la progressiva stabilizzazione del paese potrebbero quindi aprire nuove opportunità economiche e commerciali sia per la Tunisia che per l’Egitto, ma per il momento le prospettive di ripresa economica del paese appaiono lente. Altri fattori che hanno contribuito a peggiorare il quadro socio-economico, e rischiano di rendere più complicata la ripresa economica di Egitto e Tunisia, sono l’andamento dei prezzi dei beni alimentari, che continuano ad aumentare sulla spinta dell’aumento dei prezzi del petrolio indotto dalla crisi libica, ed il rallentamento della crescita economica dell’Unione Europea, che potrebbe avere ricadute negative soprattutto per la Tunisia. Infine, diversamente dall’Egitto e dalla Tunisia, l’Algeria non ha risentito delle ripercussioni delle proteste di gennaio data la loro limitata ampiezza e, complessivamente, ha beneficiato della primavera araba, attraverso la crisi libica. La crisi in Libia, causando una totale interruzione della produzione di petrolio nel paese, ha infatti generato un’impennata dei prezzi del petrolio, avvantaggiando gli altri paesi arabi produttori di petrolio e nello specifico anche l’Algeria (International Monetary Fund, 2011). Il che ha permesso al governo algerino, come vedremo, di contenere rapidamente le proteste di gennaio ampliando la spesa sociale. Tuttavia, nonostante l’aumento delle entrate petrolifere, le misure sociali messe in atto per placare il malcontento causeranno, secondo la legge finanziaria del 2011 emendata a giugno, un deficit del 33,9% del Pil.65 Questo livello di deficit, come già detto, potrebbe costituire un serio rischio per l’economia algerina se il prezzo del petrolio dovesse scendere. 60 Ibid. “Egypt's index of labour demand falls 37 per cent in May”, Ahram Online, 30/06/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/15371/Business/Economy/Egypts-index-of-labour-demand-falls--per-cent-inM.aspx). 62 « Tunisie: les réfugiés libyens disputent l'île Djerba aux touristes”, Jeune Afrique, 7/06/2011 (http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAWEB20110607163810/libye-tunisie-tourisme-mouammar-kaddafitunisie-les-refugieslibyens-disputent-l-ile-djerba-aux-touristes.htm). 63 “Tunisie - Libye: la guerre des prix”, Jeune Afrique, 28/07/2011 (http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2637p016.xml0/prix-libye-inflation-alimentationtunisie-libye-la-guerre-desprix.html); interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011. 64 Ad aprile, per esempio, si stima che fossero già ritornati 120,000/140,000 Egiziani dalla Libia (Ahram Online, 21/04/2011, http://english.ahram.org.eg/). 65 “Algeria Responds to Social Tensions”, Magharebia, 24/06/2011, (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/06/24/feature-02). 61 29 2.3 Risposte dei governi In Egitto e in Tunisia, i governi di transizione hanno promosso una serie di misure per tentare di rispondere alla crisi socio-economica post rivoluzione. Benché sia difficile valutare l’impatto concreto di tali misure a causa della limitata disponibilità di informazioni, è certo che, come mostrano i dati socio-economici su discussi e la continua contestazione sociale (vedi §3.4), esse continuano ad essere del tutto insufficienti per affrontare i problemi socio-economici, vecchi e nuovi, dei due paesi. In Tunisia, la prima risposta ai problemi sociali ed economici dopo la rivoluzione è arrivata, seppur tardivamente, il 1 aprile, sotto il terzo governo di transizione diretto da Essebsi. Il pacchetto di misure d’urgenza si propone i seguenti obiettivi: riportare la sicurezza; creare 60000 posti di lavoro (di cui 40000 nel pubblico ed il resto nel privato); rilanciare il settore privato, attraverso incentivi e agevolazioni fiscali e finanziarie; promuovere lo sviluppo delle regioni più svantaggiate, raddoppiando gli investimenti pubblici; sostenere le famiglie più bisognose (estendendo ad altre 50000 l’accesso ai trasferimenti monetari); ed offrire un supporto finanziario alle famiglie di ritorno dalla Libia.66 Comunque, pur prefiggendosi obiettivi validi, il piano socio-economico di breve termine sembra non aver sortito gli effetti desiderati. Innanzitutto, non è chiaro quali di queste misure siano state effettivamente realizzate e quali semplicemente annunciate. Per esempio, nell’ambito del piano di aprile, il governo ad interim ha deciso di raddoppiare gli investimenti pubblici da destinare alle aree più svantaggiate,67 ma ancora ad oggi è difficile capire se, come e quanti di questi soldi siano stati effettivamente sborsati. Soprattutto, le misure del governo di transizione hanno continuato ad essere in linea con le politiche del passato messe in atto sotto il regime di Ben Ali (Hibou et al., 2011). Per esempio, il piano d’urgenza ha previsto di creare 40000 posti di lavoro nel settore pubblico attraverso un aumento degli investimenti nei progetti di pubblica utilità e l’attivazione di una serie di programmi di inserzione nel mercato del lavoro. Questi ultimi, tuttavia, come in passato, hanno previsto opportunità di lavoro temporanee per i giovani, senza contemplare alcun meccanismo di inclusione stabile nel mercato del lavoro, dunque acutizzando il problema della precarizzazione tra i giovani (Ibid.). Oppure, per promuovere la creazione di 20000 posti di lavoro nel settore privato, il governo di transizione si è limitato a riproporre la stessa logica fallimentare delle agevolazioni fiscali e finanziarie alle imprese in cambio dell’impegno da parte di queste ad assumere nuovo personale (Ibid.). Infine, alcuni degli obiettivi fissati dal piano appaiono limitati rispetto alle reali esigenze del paese. Per esempio, se anche si riuscisse a raggiungere l’obiettivo di creare i 60000 posti previsti, non sarebbero sufficienti in considerazione del fatto che più di 600000 entreranno nel mercato del lavoro nel prossimo anno. In Egitto, dopo annunci e smentite tra febbraio e maggio, solo a luglio, nella nuova legge finanziaria del 2011-2012, le autorità di transizione hanno approvato un pacchetto di misure per rispondere alla crisi socio-economica nella fase post-rivoluzione. Anche nel caso dell’Egitto, comunque, la legge finanziaria non ha fatto altro che riproporre le stesse politiche inefficaci del passato: un aumento dei sussidi alimentari (del 26%) per controbilanciare l’incremento dei prezzi dei beni alimentari a livello mondiale; un aumento dei salari e delle pensioni per i dipendenti pubblici (del 15%); la creazione di 450000 posti di lavoro nel settore pubblico a contratto determinato; e ampliamento del numero di famiglie coperte dal programma di solidarietà sociale (150000 famiglie in più).68 La legge di bilancio non ha presentato alcuna novità sul fronte degli investimenti pubblici, della spesa per la ricerca e l’università o per quanto riguarda il sistema di tassazione. Per esempio, è stata 66 Per le misure dettagliate, vedi “Les 17 nouvelles mesures économiques et sociales d'urgence décidées par le gouvernement”, 1/04/2011 (http://leaders.com.tn/article/les-17-nouvelles-mesures-economiques-et-sociales-d-urgence-decidees-par-legouvernement). 67 “Tunisie: le gouvernement rééquilibre le développement régional”, Tunis News, 11/04/2011, (http://www.tunisnews.net/11Avril11f.htm). 68 “Egypt’s Democratic Transition: Five Important Myths About the Economy and International Assistance”, Carnegie Endowment, 21/07/2011( http://www.carnegieendowment.org/2011/07/21/egypt-s-democratic-transition-five-important-myths-about-economyand-international-assistance/41ca); World Bank, 2011; “Egypt ruling military approves tightening in spending in 2011/2012 budget” Ahram online, 4/07/2011. 30 accantonata all’ultimo momento la proposta di tassare i profitti derivanti dalle transazioni in borsa presente nella prima versione della legge finanziaria finalizzata dal governo.69 Tale imposta se fissata al limite più basso dello 0,5% avrebbe fruttato allo stato 5 miliardi di sterline egiziane all’anno.70 L’aumento del salario minimo previsto dalla legge finanziaria a 685 sterline egiziane mensili è ritenuto da più parti insufficiente per migliorare il potere d’acquisto degli egiziani e, tra l’altro è applicabile solo ai lavoratori del pubblico impiego che hanno un contratto permanente, escludendo il settore privato ed i lavoratori precari (Beinin, 2011). Inoltre, ad oggi, l’aumento del salario minimo non è ancora entrato in vigore per mancanza di risorse. Infine, è mancata in questa prima fase, una visione coerente e condivisa da parte di tutte le autorità di transizione, governo e Consiglio delle Forze Armate, sul fronte delle politiche economiche. 71 L’esempio più emblematico riguarda la questione degli aiuti internazionali. In un primo momento, a giugno, il Consiglio Militare aveva rifiutato il generoso pacchetto di aiuti proposto dal FMI e la BM, contrariamente a quanto inizialmente contemplato nella legge di bilancio preparata dal Ministro delle Finanze. Al momento, comunque, il governo sta riconsiderando seriamente la possibilità di ricorrere al Fmi poiché l’opzione di basarsi essenzialmente sul prestito interno e sugli aiuti finanziari senza condizionalità dei Paesi del Golfo sembra insostenibile ed insufficiente per finanziare il bilancio. I governi di transizione in Tunisia ed in Egitto si sono dunque limitati a riproporre una serie di misure socio-economiche che sono in forte continuità con il passato e che, come sotto i governi precedenti, mancano di una chiara visione strategica di lungo termine intesa a promuovere un cambiamento strutturale profondo delle economie dei due paesi. Ciò può essere in parte riconducibile alla natura transitoria dei primi governi del dopo rivoluzione, alla loro composizione ideologica eterogenea72 così come alla scarsa legittimità di cui hanno goduto sin dall’inizio perché non eletti democraticamente. Tali fattori possono aver certamente scoraggiato la messa a punto di una strategia coerente ed innovativa di lungo periodo. Inoltre, in previsione delle prime elezioni, sia le autorità ad interim sia le forze della società civile hanno dato priorità alla dimensione politica della transizione, perdendo così di vista la dimensione socio-economica. Peraltro, senza considerare il rischio che un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica potrebbe compromettere o rallentare la transizione dei due paesi verso la democrazia. Se è vero infatti che l’incertezza politica è tra i principali fattori responsabili della mancata ripresa economica dei due paesi, allo stesso tempo, senza un cambiamento radicale e profondo delle politiche sociali ed economiche seguite finora, è del tutto improbabile che i due paesi riescano a superare la crisi e le loro difficoltà socio-economiche. C’è infine un problema di totale inattendibilità dei dati economici disponibili, che impedisce, pur volendo, l’elaborazione di una strategia o politica economica efficace.73 Lo stesso ministro del lavoro e delle migrazioni in Egitto ha dichiarato che le stime ufficiali sulla disoccupazione sono inaccurate e sottostimano la realtà.74 Benché i passati regimi, e quello di Ben Ali ne è un caso emblematico, abbiano manipolato i dati statistici, omettendo quelli scomodi o modificandoli per confortare il discorso ufficiale sul successo economico (vedi Hibou et al. 2011), non c’è stata finora alcuna volontà da parte dei governi di transizione di rimettere in discussione tali informazioni. Il fatto che le misure economiche messe in atto dalle autorità di transizione nei due paesi non abbiano preso le distanze da quelle dei precedenti regimi ha anche e soprattutto una spiegazione 69 “Egypt ruling military approves tightening in spending in 2011/2012 budget”, Ahram online, 4/07/2011. “In search of a way out”, Ahram Weekly, 13-19/10/2011 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1068/ec2.htm). 71 Per esempio, la versione definitiva della legge di bilancio approvata a luglio dal Consiglio Militare differisce rispetto a quella compilata e presentata a giugno dal Ministro delle Finanze su alcune questioni: l’entità dell’aumento del salario minimo e degli investimenti pubblici, la tassa sui profitti derivanti dalle transazioni in borsa e il ricorso agli aiuti internazionali (“Egypt ruling military approves tightening in spending in 2011/2012 budget”, Ahram online, 4/07/2011). 72 In Egitto, per esempio, Gouda Abdel-Khaleq, ministro della solidarietà sociale, è membro del Tagammu’, partito di ispirazione socialista, mentre Hazem Beblawi, il ministro delle finanze, è un fervente neo-liberista. 73 Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011. 74 “Egypt's unemployment statistics not accurate, says manpower minister”, Ahram Online, 30/05/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/13287/Business/Economy/Egypts-unemployment-statistics-not-accurate,-says-.aspx). 70 31 politica. Ciò infatti riflette una continuità di legami tra il vecchio sistema di potere e le autorità di transizione. In Tunisia, per esempio, i principali ministri del governo di transizione addetti alla sfera economica erano stati ministri o funzionari di rilievo all’epoca di Ben Ali. Abdelhamed Triki, ministro della pianificazione e della cooperazione internazionale nel governo di transizione, fu ex segretario di stato del ministro dello sviluppo e della cooperazione internazionale sotto Ben Ali. Altri uomini che svolsero incarichi di rilievo sotto Ben Ali sono Abdelaziz Rassaa, ministro dell’industria e delle tecnologie e Slim Chaker, segretario di stato del turismo (vedi Hibou et al., 2011). In Egitto, il fatto che la fase di transizione sia stata diretta dai militari, che, sotto Mubarak, hanno esercitato un diffuso controllo sull’economia, rende, almeno per ora, improbabile l’attuazione di misure che rompano radicalmente con il passato e che rischierebbero di mettere in discussione i vantaggi economici acquisiti in passato. Inoltre, Samir Radwan, che è stato ministro delle finanze nel governo di transizione fino alla metà di luglio, era stato nominato dallo stesso Mubarak qualche giorno prima della sua fuga. Hazem Beblawi, chiamato al suo posto, ha la fama di essere un fervido sostenitore delle riforme neo-liberiste, mentre il ministro per il commercio e l’industria nominato a luglio, Ahmed Fikry Abdel Wahab, è un noto uomo d’affari, che ha ricoperto posti di rilievo in varie strutture pubbliche e private sin all’epoca di Mubarak.75 Infine, un cambiamento reale nelle strategie di sviluppo necessita innanzitutto di una ristrutturazione profonda dei rapporti di potere tra economica e politica, indispensabile tra l’altro per favorire l’emergere di una classe di imprenditori autonoma dalla classe politica. Un segnale importante in tal senso sono state certamente le misure prese dalle autorità di transizione contro le pratiche predatorie delle famiglie degli ex-presidenti, di alcuni esponenti noti dei precedenti governi e degli imprenditori di spicco vicini all’establishment politico. In Tunisia, il secondo governo di transizione ha creato un’apposita commissione di inchiesta per indagare sugli atti di corruzione commessi all’epoca del precedente regime, a cui numerosi imprenditori hanno fatto ricorso (Hibou et al., 2011). A partire da marzo, hanno avuto inizio le espropriazioni dei beni appartenenti al clan di Ben Ali e Leila Trabelsi, e a imprenditori a loro vicini, tra cui le azioni delle compagnie telefoniche Orange e Tunisiana.76 In Egitto, dopo continue proteste, alcuni ex ministri e diversi uomini d’affari vicini all’ex presidente, tra cui il magnate dell’acciaio Ahmed Ezz, e i due figli di Mubarak sono stati processati e condannati con l’accusa di appropriazione illecita e corruzione.77 A fine settembre e ai primi di dicembre, la Corte Amministrativa presso il Consiglio di Stato ha dichiarato illegali alcuni contratti di privatizzazione poiché conclusi in circonstanze sospette.78 Tali azioni sono certamente necessarie per mandare un segnale incoraggiante alla popolazione locale e agli investitori, nazionali ed internazionali, e dovranno essere accompagnate da ulteriori riforme sul piano istituzionale e normativo volte a rendere più trasparenti le istituzioni pubbliche e a creare un sistema efficace di controlli e sanzioni. Comunque, in assenza di un cambiamento profondo e radicale dei rapporti di potere tra economia e politica, si rischia di riprodurre le stesse inefficienze del passato. In questo senso, non è incoraggiante il fatto che numerosi uomini d’affari in Egitto e in Tunisia abbiano deciso di entrare in politica, presentandosi alle elezioni come candidati o fondando un partito. In Egitto, oltre al già citato Naguib Sawiris, tra i tanti imprenditori entrati in politica ci sono Hisham el-Khazindar, finanziatore del Justice Party e Nabil Deabis che ha 75 Vedi “Nominating a businessman as minister stirs Egyptian bad memories”, Ahram Online, 20/07, 2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/16758/Business/Economy/Nominating-a-businessman-as-minister-stirsEgyptia.aspx). 76 Global Net, 21/06/2011 (http://www.gnet.tn/temps-fort/tunisie-la-peur-de-la-confiscation-des-biens-hante-les-hommesdaffaires/id-menu-325.html); “Télécom: la Tunisie nationalise”, Jeune Afrique, 18/04/2011 (http://www.jeuneafrique.com). 77 “Egypt ministers face corruption charges”, al Jazeera, 17/04/2011 (http://english.aljazeera.net/news/middleeast/2011/04/201141715562214192.html); “Money, power and law-twisting: The makings of the real Ezz empire”, Ahram Online, 7/05/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11480/Business/Economy/Money,-power-and-lawtwisting-The-makings-of-there.aspx). 78 “Privatisation in reverse”, Ahram Weekly, 29/09/2011– 5/10/2011 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1066/ec1.htm); “Egypt court revokes privatisation of a fourth public sector firm”, Ahram Online, 3/12/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/28377/Business/Economy/Egypt-court-revokes-privatisation-of-a-fourth-publ.aspx). 32 creato il partito Modern Egypt. In Tunisia, come già detto, la Pétition Populaire di Mohammed Hechmi Hamdi e il partito Afek Tounes, fondato da alcuni noti imprenditori tunisini, sono presenti nell’Assemblea Costituente. Inoltre, se è vero che una ristrutturazione dei rapporti tra economia e politica richiederà molto tempo ed un impegno condiviso tra tutte le forze della società civile, la direzione che prenderà la transizione politica sarà determinante nel definire l’entità e la natura del cambiamento economico. L’esito delle elezioni influenzerà non soltanto la traiettoria della transizione politica dei due paesi ma anche naturalmente quella delle politiche economiche. Benché sia al Nahda in Tunisia sia il partito dei Fratelli Musulmani in Egitto dichiarino di non voler rimettere in discussione la direzione delle politiche economiche del passato,79 questo non significa che non ci saranno cambiamenti, anche rilevanti, sul piano economico. In Tunisia, dopo le elezioni dell’Assemblea Costituente, al Nahda ha ribadito continuamente il suo sostegno all’economia di mercato, agli investimenti stranieri e all’iniziativa privata, oltre all’intenzione di non voler cambiare la natura del sistema bancario né di voler introdurre divieti, come quello sugli alcolici, che potrebbero danneggiare il settore turistico.80 Tuttavia, non bisogna dimenticare che il nuovo governo è composto da tre forze politiche che non hanno alcun legame con il passato regime e questo potrebbe dare inizio a quel processo di graduale riorganizzazione dei rapporti tra politica ed economia a cui si è accennato, aprendo la strada, eventualmente, ad una nuova classe di imprenditori o a più gruppi di imprenditori. Inoltre, sul piano delle proposte concrete per rilanciare il turismo, tra le altre cose, al Nahda ha insistito sulla necessità di diversificare l’offerta turistica in direzione del turismo ecologico, culturale e rivoluzionario, che potrebbe servire per rilanciare anche le regioni interne più povere e aprire nuove opportunità per il settore privato.81 Ancora, il fatto che i tre partiti che hanno formato il nuovo governo convergano soprattutto sulla priorità data alla giustizia sociale82 potrebbe portare alla realizzazione di politiche di sviluppo più inclusive e sensibili ai problemi dei giovani nel mercato del lavoro..E’ presto per capire quali saranno le misure concrete per perseguire questo obiettivo poiché è probabile che il piano Jasmin, la strategia di sviluppo per il periodo 2012-2016 presentata dal governo provvisorio a settembre, venga rivista, come vorrebbe al Nahda, o persino respinta integralmente, come richiede il CPR.83 Infine, il nuovo governo potrebbe optare per una maggiore diversificazione dei partner commerciali verso Turchia, Libia e paesi del Golfo,84 e per ridurre la dipendenza del paese dal debito estero.85 Infine, per quanto riguarda l’Algeria, le proteste di gennaio 2011 non hanno innescato alcun cambiamento sul piano delle politiche economiche, anche se sembrano aver rafforzato la consapevolezza negli ambienti governativi sulla necessità di cambiare rotta. Sin dai primissimi giorni delle rivolte, le autorità hanno risposto con una serie di misure socio-economiche volte a 79 Per i Fratelli Musulmani, vedi “Egypt Brotherhood businessman: Manufacturing is key”, Ahram Online, 28/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/25348/Business/Economy/Egypt-Brotherhood-businessman-Manufacturing-iskey.aspx). 80 “Hamadi Jebali se prononce sur l'avenir de la Stratégie 2016 du tourisme tunisien”, Webmanagercenter, 8/11/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-112348-hamadi-jebali-se-prononce-sur-l-avenir-de-la-strategie-2016-dutourisme-tunisien); “Tunisia's Ennahda likely to back an open economy: Analysts”, Ahram Online, 27/10/2011 ( http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/25250/Business/Economy/Tunisias-Ennahda-likely-to-back-an-open-economyAn.aspx); “Tunisia Islamists send business-friendly message after victory”, Ahram Online, 26/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/25190/Business/Economy/Tunisia-Islamists-send-businessfriendly-message-af.aspx). AfriqueJet, 12/11/2011 (http://www.afriquejet.com/ennahdha-tunisie-2011111227096.html). 81 “Tunisie, Ennahdha dévoile son plan d’action pour relancer le tourisme”, Gnet, 10/11/2011 ( http://www.gnet.tn/tempsfort/tunisie-ennahdha-devoile-son-plan-daction-pour-relancer-le-tourisme/id-menu-325.html). 82 “Tunisie/Politique: S’achemine-t-on vers un AKP à la tunisienne ? “, Gnet, 14/11/2011 (http://www.gnet.tn/sur-levif/tunisie/politique-sachemine-t-on-vers-un-akp-a-la-tunisienne/id-menu-1006.html). 83 “Economie tunisienne: Ennahdha veut revoir "le plan jasmin", Businessnews, 12/11/2011 (http://www.businessnews.com.tn/details_article.php?a=27603&t=520&lang=fr&temp=3) 84 Adriquinfos, 12/11/2011 (http://www.afriquinfos.com/articles/2011/11/12/brevesdafrique-190627.asp). 85 Al Nahda vorrebbe rivedere le modalità di finanziamento del piano jasmin perché non è d’accordo con il fatto che il 30% del piano verrà finanziato contraendo debiti con l’estero (“Economie tunisienne : Ennahdha veut revoir "le plan jasmin", 12/11/2011 http://www.businessnews.com.tn/details_article.php?a=27603&t=520&lang=fr&temp=3). 33 contenere l’aumento dei prezzi dei beni alimentari di base, tra cui la revoca dei provvedimenti economici che erano stati adottati nel 2009 per ridurre la dipendenza dalle importazioni e l’alleggerimento della tassazione sui beni alimentari importati, oltre a riconfermare l’impegno dello stato a finanziare i sussidi alimentari.86 Accanto a queste misure, il governo ha annunciato aumenti salariali per i lavoratori pubblici, la costruzione di nuove abitazioni, la creazione di posti di lavoro nel settore pubblico, esenzioni fiscali (fino a tre anni) e agevolazioni finanziarie per giovani imprenditori, ed infine trasferimenti diretti per le famiglie più povere. Secondo diversi osservatori, è grazie a queste misure che il regime di Bouteflika è riuscito a far si che le proteste non degenerassero in un movimento più ampio come in Egitto e Tunisia.87 Ciò è stato possibile naturalmente in virtù delle generose entrate derivanti dagli idrocarburi che hanno permesso al regime algerino di godere di un margine di risposta più ampio rispetto a quello tunisino e egiziano. Tali misure, che hanno fatto lievitare la spesa pubblica prevista per il 2011 del 25%, non sono comunque sostenibili nel lungo termine, come ammette lo stesso ministro delle finanze (Dessi, 2011). Inoltre, al di là dell’immediata diminuzione dei prezzi dei beni alimentari, che è servita a fermare le violente proteste di gennaio, e benché il governo dichiari di aver creato 1 milione di posti di lavoro e realizzato 64000 alloggi nel primo semestre del 2011,88 le misure socio-economiche rimangono insufficienti per risolvere i problemi della carenza di alloggi, della disoccupazione giovanile e dei bassi salari, come mostra la forte contestazione sociale degli ultimi mesi (vedi §3). Per esempio, non soltanto occorre cautela sull’attendibilità dei dati ufficiali, ma la realizzazione dei 64000 alloggi è ben al di sotto delle promesse fatte da Bouteflika nel suo programma elettorale del 2009 (2 milioni in cinque anni e dunque una media di ben 200000 a semestre),89 ed inoltre, come già anticipato, le politiche per la casa soffono di numerose debolezze. Infine, per quanto le autorità algerine continuino a sottolineare la necessità di diversificare l’economia del paese,90 la risposta alle proteste di gennaio non va affatto in tale direzione, poiché non propone nulla di nuovo, continua a mancare di una visione strategica di lungo periodo e non affronta i problemi strutturali dell’economia algerina. Alla luce di quanto detto, è più che mai chiaro che, al fine di uscire dall’attuale crisi socio-economica, l’Algeria necessita di un profondo cambiamento degli assetti politici ed istituzionali. 3. RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE 3.1 La società civile alla vigilia della primavera araba tra repressione e cooptazione I contesti autoritari su delineati hanno influenzato significativamente le dinamiche e le modalità di azione delle organizzazioni della società civile nei tre paesi presi in esame. Piuttosto che reprimere in toto le organizzazioni della società civile, a partire dalla metà degli anni ottanta, i regimi hanno preferito tenerle sotto controllo attraverso una molteplicità di strategie: repressione selettiva degli oppositori scomodi; regolamentazione del quadro normativo in modo da scoraggiare la nascita di nuove organizzazioni; elargizione dei fondi pubblici unicamente alle organizzazioni vicine al regime; e restrizione delle libertà di associazione e di espressione, tra cui il divieto di tenere riunioni pubbliche (Ben Achour, 2011; Liverani, 2008; Kausch 2009; Albrecht, 2007). Per esempio, la nascita di nuove organizzazioni (dai partiti alle associazioni in difesa dei diritti umani) è stata duramente ostacolata e soggetta alla selettiva approvazione delle elite al potere. In Egitto e Algeria, il riconoscimento legale di un’associazione è sottoposto all’autorizzazione formale delle autorità, 86 Dessi (2011); “Algerian experts criticise food subsidy policy”, Magharebia 31/07/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/07/31/feature-01) 87 Lahcen Achy, “Why did protests in Algeria fail to gain momentum?”, The Middle East Channel, March 2011. 88 Elmoudjahid, 9/08/2011 (http://www.elmoudjahid.com/fr/actualites/15316). 89 La Tribune, 10/08/2011, http://www.djazairess.com/fr/latribune/55885 90 “Bouteflika calls for energy diversification”, Magharebia, 04/08/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/newsbriefs/general/2011/08/04/newsbrief-05). 34 che dispongono di un ampio potere discrezionale (Liverani, 2007; Kausch, 2009). Nella Tunisia di Ben Ali, dove le procedure per ottenere la legalizzazione di un’associazione erano più facili poiché era richiesta una semplice notifica da parte delle autorità, il processo era ugualmente pieno di insidie (Kausch, 2009).91 Accanto all’uso di misure coercitive e repressive, i regimi hanno tentato di assorbire le organizzazioni della società civile nel sistema esistente di potere nel duplice intento di marginalizzare quelle più pericolose e proiettare verso l’esterno un'immagine positiva (Heydemann, 2007). Hanno, per esempio, sponsorizzato e finanziato la formazione di innumerevoli organizzazioni della società civile. Le first ladies, Susanna Mubarak e Leila Ben Ali, ed altri esponenti dell’establishment erano in prima fila nel promuovere e fondare organizzazioni non governative impegnate nella realizzazione di progetti di sviluppo, nella lotta alla povertà, in campagne per l’empowerment delle donne e i diritti dei minori. Grazie ai loro rapporti con i regimi, queste organizzazioni semi-ufficiali, compiacenti con il potere, hanno così goduto di una situazione privilegiata, catalizzando i fondi pubblici e stranieri, e ricoprendo una maggiore rilevanza a livello nazionale ed internazionale (EMHRN, 2010). Inoltre, pur continuando a violare continuamente i diritti umani, i regimi in carica hanno astutamente creato strutture o ministeri ad hoc incaricati di monitorare il rispetto dei diritti umani e dialogare con la società civile su questi temi. Oppure, hanno veicolato dall'alto campagne in favore dei diritti delle donne. Il caso delle organizzazioni in difesa dei diritti delle donne nei tre paesi è emblematico dell'efficacia delle strategie di cooptazione e del divide et impera perseguite dai governi in carica. Proprio perché questi regimi si sono fatti portavoce di rivendicazioni centrali per le donne e a causa delle enormi difficoltà ad operare in un contesto autoritario, molte organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, anche se animate dalle più genuine intenzioni, hanno preferito lavorare con le dittature in una logica di continuità (El-Mahdi, 2010a). Ciò significa, ad esempio, che diverse organizzazioni in difesa dei diritti delle donne in Egitto, Tunisia e Algeria si sono frequentemente allineate alle politiche repressive dei governi contro le forze islamiste (Cavatorta e Durac, 2010). Tutto questo ha fortemente indebolito il movimento in difesa dei diritti delle donne e la legittimità delle loro rivendicazioni, mostrando allo stesso tempo l'efficacia delle strategie di cooptazione e del divide et impera perseguite dai regimi. Il fatto che certe riforme approvate nell’ultimo decennio, come ad esempio la riforma del Khul’ (o ripudio) in Egitto o la decisione di introdurre quote rosa sempre in Egitto e in Tunisia, siano arrivate dall’alto di governi autoritari, le ha di fatto svuotate di ogni legittimità, rendendole inaccettabili alla gran maggioranza della popolazione, indipendentemente dal valore intrinseco (Bernard-Maugiron, 2011). Oltre ai limiti imposti dai regimi, le organizzazioni della società civile, sia quelle politiche che sociali, hanno in genere sofferto di numerose debolezze interne: incapacità di mobilitare un largo consenso tra la popolazione perché prive di radicamento nel tessuto sociale e per il carattere elitario; contrasti e profonde spaccature ideologiche e programmatiche tra le varie organizzazioni; la mancanza di democrazia interna e la limitata presenza dei giovani e delle donne, soprattutto nelle posizioni dirigenziali.92 Tutti i fattori descritti sinora hanno generato una società civile fortemente frammentata, debole e incapace di costituire un fronte comune contro i regimi in carica. La capacità e la volontà delle organizzazioni della società civile di promuovere un reale e profondo cambiamento politico ed economico è dunque rimasta molto limitata. In quanto organizzazioni della società civile, i sindacati dei lavoratori e le associazioni rappresentative degli imprenditori non fanno eccezione al quadro su delineato, anche se ci sono 91 In Tunisia, le autorità avevano tre mesi di tempo per rifiutare la domanda di registrazione fatta dall’associazione. Se, dopo tre mesi, non veniva emesso un rifiuto formale, l’associazione risultava legalmente registrata. In pratica, comunque, per un’associazione che non era in sintonia con il regime era pressoché impossibile ottenere l’approvazione dal Ministero. Nella maggior parte dei casi, come denunciano numerosi attivisti tunisini, queste associazioni si vedevano negare la ricevuta che attestava la presentazione della pratica alle amministrazioni competenti. Non avendo alcun documento che confermava l’avvenuta registrazione, anche dopo il silenzio assenso del ministero, le associazioni non potevano considerarsi legalmente riconosciute né fare ricorso. 92 Per un quadro delle debolezze della società civile, dai partiti politici alle organizzazioni dei diritti umani, vedi Guazzone e Pioppi, (2007), Paciello (2011a, 2011b), Liverani (2008), Jalaby (2011). Sulla limitata presenza dei giovani e delle donne nelle organizzazioni della società civile, vedi UNDP (2011), Tadros (2008) e UNICEF (2010). 35 differenze rilevanti tra i tre paesi. Per quanto riguarda i sindacati dei lavoratori, in Egitto, da Nasser in poi, l’unica organizzazione legalmente riconosciuta è stata la Egyptian Trade Union Federation (ETUF),93 creata nel 1957 e rimasta subordinata senza interruzione al potere politico. Nel corso degli anni, con l’intensificarsi della liberalizzazione economica, Mubarak ha rafforzato il controllo sulla leadership della Federazione, intervenendo pesantemente nelle elezioni sindacali, soprattutto a partire dal 1996, e corrompendo ripetutamente i quadri dell’organizzazione (Gobe, 2006; Beinin, 2009; el Mikawy e Pripstein Posusney, 2000). Le ultime elezioni sindacali nel novembre 2006, segnate da frodi e manipolazioni ad opera del ministero del lavoro, non hanno lasciato spazio ad alcun candidato indipendente a livello di comitati e sindacati di base, esacerbando le frustrazioni tra i lavoratori e il sentimento di sfiducia verso l’ETUF (Clément, 2006). La forte continuitá tra potere politico e ETUF é chiaramente evidente nel fatto che i dirigenti della Federazione sindacale fossero presenti in parlamento a nome del partito di regime: alla vigilia della rivoluzione, ventuno su ventitre membri del comitato esecutivo della Federazione appartenevano al NDP, mentre il suo presidente era anche vice presidente del parlamento.94 La Federazione ha accettato silenziosamente le riforme di mercato iniziate da Mubarak, senza reagire al progressivo deterioramento del potere d’acquisto della popolazione né al peggioramento della condizione dei lavoratori nel settore pubblico e ai licenziamenti causati dalle privatizzazioni (Beinin, 2009; Gobe, 2006). Col passar degli anni, quindi, la Federazione ha perso ogni legittimità agli occhi dei lavoratori. Anche in Tunisia, la Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT),95 che costituiva all’indomani dell’indipendenza una delle forze più rappresentative ed organizzate del paese, è stata trasformata rapidamente in un organo di inquadramento e di controllo della società da parte del regime, prima sotto Bourghiba e poi sotto Ben Ali (Gobe, 2006). I vertici dell’UGTT si sono assoggettati completamente al potere, come mostra per esempio il sostegno ufficiale dato alla candidatura di Ben Ali come presidente nel 2004 e poi nel 2009. Ogni tentativo di costituire sindacati indipendenti al di fuori dell’UGTT è stato duramente ostacolato dal regime di Ben Ali (Human Rights Watch, 2010). Tuttavia, a differenza dell’Egitto, in Tunisia, l’UGTT non è stata mai completamente assorbita dal potere, come dimostrano le manifestazioni di dissenso e di contestazione verso il regime che hanno segnato la storia tunisina dall’indipendenza ad oggi (Camau et Geisser, 2003; Khiari, 2000). A livello locale e regionale, soprattutto nelle province del sud, i sindacati di base, ben radicati nel tessuto sociale, sono infatti riusciti a conservare una certa autonomia rispetto alla direzione centrale e, spesso, molti militanti dei movimenti di opposizione illegali hanno trovato rifugio nell’UGTT (Cavallo, 2002; Zghai, 1998; Allal e Geisser, 2011). Ciò spiega il ruolo centrale svolto dall’organizzazione nel sostenere e promuovere le proteste di gennaio 2011 che hanno portato alla fuga di Ben Ali. A differenza di Egitto e Tunisia, in Algeria il pluralismo sindacale è stato riconosciuto a partire dal 1990, in coincidenza con la relativa apertura politica seguita alle rivolte scatenate dalla crisi economica della metà degli anni ottanta. La Costituzione approvata nel 1989, oltre ad abolire il sistema del partito unico, garantiva la libertà di associazione (art. 39) e il diritto di sciopero (art. 54), mentre la legge del 2 giugno 1990 introduceva per la prima volta il pluralismo sindacale. Fino ad allora, il solo sindacato tollerato dal regime era stata l’Union Générale des Travailleurs Algériens (UGTA),96 posto sotto la direzione del partito unico immediatamente dopo l’indipendenza (nel 1963). A partire dai primi anni novanta, in alternativa all’UGTA, sono nate le prime unioni indipendenti nel settore pubblico. Tra le più importanti, figurano il Syndicat National Autonome des Personnels de l’Administration Publique (SNAPAP),97 il Syndicat National de l’Enseignement Supérieur (SNES)98 e il Syndicat Autonome des Travailleurs de l’Education et de la Formation 93 Federazione dei sindacati egiziani. El Mahdi (2010b); “The road to trade union independence”, Ahram Online, 20/09/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/21615/Egypt/Politics-/The-road-to-trade-union-independence.aspx). 95 Unione generale tunisina del lavoro. 96 Unione generale dei lavoratori algerini. 97 Sindacato nazionale autonomo del personale dell’amministrazione pubblica. 98 Sindacato nazionale dell’insegnamento superiore. 94 36 (SATEF).99 Comunque, il regime si è opposto alla legalizzazione di numerosi sindacati: il sindacato islamico, creato nel giugno 1990 ma poi scomparso dopo il colpo di stato nel 1992; il sindacato degli avvocati; il Syndicat National des Travailleurs de la Formation Professionnelle,100 che cerca di essere legalizzato dal 2002; e i sindacati nel settore privato (Kettab, 2004; ITUC, 2011; interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). I sindacati autonomi, inoltre, hanno avuto un margine di azione molto limitato a causa dei forti limiti imposti nella pratica ai diritti sindacali, e a causa delle continue intidimidazioni e violenze da parte della polizia (Kettab, 2004; Werenfels, 2007). Infine, nonostante l’esistenza di una pluralità di sindacati, l’UGTA, grazie al suo appoggio incondizionato all’azione del regime e del potere militare, è stato l’unico interlocutore coinvolto nel dialogo tra le parti sociali, che si tiene ogni quattro anni a partire dal 2006. Il governo ha giustificato l’esclusione degli altri sindacati dal dialogo sociale sulla base della non rappresentatività, ma allo stesso tempo ha ostacolato tutte le iniziative volte a creare una confederazione di sindacati indipendenti alternativa all’UGTA (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Il pluralismo sindacale in Algeria rimane quindi un pluralismo di facciata. Per quanto riguarda le associazioni rappresentative degli imprenditori, anch’esse sono rimaste politicamente acquiescenti e soggette ad un rigido controllo da parte dei regimi in carica, contribuendo a preservare lo status quo e a consolidare i sistemi autoritari. In Egitto, il modello corporativista applicato ai sindacati all’epoca di Nasser è stato esteso anche alle organizzazioni imprenditoriali. Nel 1958, la Federation of Egyptian Industries (FEI)101 e la General Federation of Chambers of Commerce (GFCC)102 sono state poste sotto la diretta supervisione dello stato, a cui spettava la nomina di 1/3 dei rispettivi comitati esecutivi e dei presidenti. Anche se a partire dagli anni settanta e ottanta, in coincidenza con i primi tentativi di apertura economica, sono apparse numerose associazioni di imprenditori alternative a quelle controllate direttamente dallo stato,103 esse non sono state affatto autonome dal regime, contribuendo quindi a preservare lo status quo. Queste associazioni, formate da imprenditori cooptati e dipendenti dal regime, apolitici o proMubarak, non hanno avuto infatti alcun interesse a promuovere un reale cambiamento politico ed economico e, laddove hanno ottenuto delle concessioni, è stato solo grazie ai loro contatti con il potere (al Din Arafat, 2009). Non hanno avuto contatti con altre organizzazioni della società civile e non hanno osato prendere posizioni contro il regime. Inoltre, nonostante, all’epoca di Mubarak, un gran numero di imprenditori fosse presente in parlamento e nei posti di governo, questi hanno perseguito i loro interessi particolaristici, piuttosto che rappresentare gli interessi più ampi della comunità di imprenditori (Ibid). Infine, queste organizzazioni, come negli altri paesi oggetto di studio, difficilmente hanno rappresentato gli interessi e le reali esigenze delle piccole e medie imprese, che, pur costituendo la maggioranza del tessuto produttivo, non hanno sinora avuto alcun peso sulle decisioni economiche (Escribano e Lorca, 2011; World Bank, 2011). In Tunisia, l’unica organizzazione di imprenditori riconosciuta all’epoca di Ben Ali è stata la Union Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat (UTICA),104 diretta per ventitre anni da Hèdi Dijilani, membro della famiglia di Leila Trabelsi. L’organizzazione è stata dunque parte integrante del sistema di potere al punto che, nel 2009, il suo presidente si è posto alla guida della campagna presidenziale per la rielezione di Ben Ali (Escribano e Lorca, 2011). In Algeria, con l’avanzata delle riforme di liberalizzazione economica, il panorama delle associazioni che rappresentano gli imprenditori si è notevolmente ampliato. Le cinque associazioni 99 Sindacato autonomo dei lavoratori dell’educazione e della formazione. Sindacato nazionale dei lavoratori della formazione professionale. 101 Federazione delle industrie egiziane. 102 Federazione generale delle camere di commercio. 103 Tra le più importanti, si ricorda: Association of Egyptian Businessmen (1977), Economic Committee for Alexandria Businessmen (1983), Association of Investors of 10th Ramadan City (1986) e Association of Investors of 6th October City (1986). Nel 2007, in Egitto si contavano 97 associazioni tra organizzazioni di imprenditori e di investitori (UNDP, 2008). 104 Unione tunisina dell’industria, il commercio e l’artigianato. 100 37 di imprenditori105 riconosciute dal governo come interlocutori privilegiati del dialogo sociale sono state completamente cooptate. L’associazione più influente e potente, il Forum des Chefs d’Enteprise (FCE)106 formato dai più grandi gruppi industriali del paese (circa un centinaio) è invece rimasta ai margini del dialogo sociale a partire dal 2000, anno della sua nascita. Comunque, il Forum sembra aver avuto un peso importante nell’influenzare alcune decisioni economiche del governo.107 Diversamente dalle altre associazioni imprenditoriali, il FCE è arrivato a criticare apertamente certe misure prese dal governo come quelle protezionistiche varate nel 2009. Per questo, successivamente, sotto pressione del ministro delle finanze, le società pubbliche appartenenti alla FCE sono state costrette a ritirarsi. Benché il Forum abbia più volte ribadito la sua piena autonomia dal governo (intervista dell’autore, Algeri, ottobre 2011), comunque, l’organizzazione deve il suo margine di manovra relativamente ampio alla vicinanza di alcuni dei suoi aderenti ai generali (Werenfels, 2008). Lo stesso presidente Reda Hamiani, al suo terzo mandato, si definisce un uomo ben inserito nel sistema di potere in quanto ex-ministro (intervista dell’autrice a Reda Hamiani, Algeri, ottobre 2011). Infine, nel 2009, insieme ad altre organizzazioni della società civile, il Forum ha sostenuto la campagna di rielezione del presidente Bouteflika. Al di là delle sei organizzazioni su menzionate, le molteplici organizzazioni di imprenditori presenti nel paese, che rappresentano soprattutto proprietari di piccole e medie imprese, sono rimaste deboli e prive di influenza (Escribano e Lorca, 2011). Per esempio, la Union des Commerçants et Artisans Algériens (UGAA),108 che rappresenta circa 200000 piccole e medie imprese e rivendica una lotta decisa al mercato parallelo, è stata completamente esclusa dalle consultazioni con il governo (ibid). 3.2 Crescente contestazione nell’ultimo decennio Un complesso sistema di restrizioni, coercizione e cooptazione ha dunque accompagnato l’evoluzione della società civile nel Nord Africa nell’ultimo ventennio, indebolendola fortemente e limitandone la capacità e la volontà di promuovere un reale e profondo cambiamento politico e economico. Detto questo, sarebbe sbagliato concludere che la società civile nel mondo arabo, e nei tre paesi nello specifico, sia rimasta immobile e passiva. Il solo fatto che i regimi abbiano negli anni rafforzato il loro apparato repressivo attesta che una certa opposizione in grado di minacciarne il potere è progressivamente emersa (Cavatorta e Durac, 2010). E soprattutto, non si comprenderebbero fino in fondo le dinamiche profonde che sono state all’origine delle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto, e della primavera araba in generale. Innanzitutto, esiste una parte della società civile organizzata, che pur essendo minoritaria e pur non costituendo una seria minaccia per i regimi in carica, ha svolto un’azione importante nei paesi interessati, portando avanti quello che l’attivista Sana Ben Achour (2011) definisce, nel caso della Tunisia, un “movimento pacifico di insubordinazione”. Ad esempio, quei pochi gruppi in difesa dei diritti umani che sono riusciti a mantenere una certa autonomia rispetto ai regimi hanno fornito assistenza legale agli oppositori perseguitati, hanno denunciato le continue violazioni dei diritti umani, oltre a darne risonanza all’opinione pubblica internazionale, e hanno contribuito a far penetrare, seppur lentamente, nelle società interessate quel linguaggio dei diritti umani e delle libertà politiche che ha dato voce alle rivoluzioni egiziana e tunisina (Nefissa, 2011; Albretch, 2007; Bayat, 2009; Ben Achour, 2011). Sopratutto, nell’ultimo decennio, le forme di contestazione politica e, in maniera maggiore, quelle di contestazione sociale al di fuori della società civile organizzata si sono moltiplicate. A livello 105 Confédération Générale des Entreprises Algériennes (CGEA), Confédération Algérienne du Patronat (CAP), Confédération National du Patronat Algérien (CNPA), Association des Femmes Chefs d'Entreprises (SEVE) e Confédération des Industriels et Producteurs Algériens (CIPA). 106 Forum dei capi di impresa. 107 Il Forum avrebbe giocato un ruolo importante nella decisione dell’Algeria di entrare dell’accordo di libero scambio con l’Unione Europea (Delhaye e Le Pape, 2004). 108 Unione dei commercianti e artigiani algerini. 38 politico, a partire dai primi anni del duemila,109 l’Egitto è stato percorso da un’ondata di movimenti non inquadrati nelle organizzazioni tradizionali della società civile (tra cui Kifaya,110 Women for Democracy,111 ElShayfeen.com,112 il Club dei Giudici ed altri)113 che hanno chiesto la riforma del sistema politico, elezioni competitive e trasparenti, la fine dello stato di emergenza, l’indipendenza della magistratura e la rimozione di tutti i vincoli imposti alla libertà di associazione e di stampa (el Mahdi, 2009a, 2009b). Tutti questi movimenti di contestazione politica, in cui i giovani e le donne hanno rappresentato una componenente importante, hanno il merito di aver contribuito a sgretolare, seppur lentamente, il muro della paura tra la popolazione. Kifaya, il più noto tra tutti, nato nel 2004 e composto da attivisti di diverso orientamento ideologico (di sinistra, nasseristi e islamisti), si è spinto fino a chiedere la fine del governo del presidente Mubarak. A partire dal 2005, diversi giudici si sono mobilitati apertamente contro il regime, denunciando la corruzione e le irregolarità in occasione delle elezioni parlamentari di quell’anno e dando inizio ad una serie di dimostrazioni, appoggiate da altri movimenti di contestazione, in favore della loro indipendenza dal potere. Anche in Tunisia, il movimento di resistenza politica si è intensificato nell’ultimo decennio, manifestandosi attraverso varie forme: scioperi della fame di attivisti e militanti politici, che hanno portato l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani nel paese; la dura mobilitazione dei magistrati e degli avvocati che sono stati in prima fila, sin dai primi anni duemila, nelle numerose battaglie per l’indipendenza della giustizia; l’azione dei collettivi, dei comitati e degli osservatori indipendenti non riconosciuti legalmente, che hanno dato il loro sostegno ai prigionieri politici e denunciato la tortura e l’assenza di libertà di stampa; la militanza del sindacato degli studenti tunisini, la Union Generale des Etudiants Tunisiens (UGET)114 e dell’associazione dei disoccupati diplomati, la Union des Diplômés Chômeurs (UDC),115 duramente represse dal regime; ed infine, il più rilevante tra i movimenti, il Collectif du 18 Octobre pour les Droits et les Libertés,116 costituito da numerose personalità di diverso orientamento politico per denunciare le violazioni della libertà di espressione in occasione del summit mondiale sull’informazione organizzato nel 2005 in Tunisia (Ben Achour, 2011; Gobe e Bechir Ayari, 2007; Human Rights Watch, 2010). Nell’ultimo decennio, inoltre, si sono intensificate anche le espressioni di dissenso da parte dei giovani. Diversamente dal passato, queste nuove forme di attivismo giovanile hanno contestato i regimi al di fuori dei campus universitari, facendo ampio uso delle nuove tecnologie, come facebook, siti internet e blog, per organizzare le mobilitazioni, condividere opinioni, far circolare materiale audio-visivo sulle violazioni da parte della polizia e criticare i governi al potere.117 In Egitto, il movimento giovanile April 6 Youth Movement,118 che ha svolto un ruolo importante durante le proteste di gennaio, è nato nel 2008 dall’iniziativa di alcuni giovani attivisti di Kifaya e blogger che lanciano un appello di solidarietà da una pagina facebook ad unirsi allo sciopero generale indetto per quel giorno dai lavoratori del complesso industriale di Mahalla (Shehata, 2008). Anche tra le giovani donne, i social networks sono diventati una forma molto diffusa di 109 L’inizio di questo attivismo politico viene fatto risalire al settembre 2000 con lo scoppio della seconda intifada palestinese che diede luogo a numerose dimostrazioni spontanee, soprattutto nelle università e nelle scuole. Successivamente, la mobilitazione si è focalizzata su temi domestici. 110 Può essere tradotto con “Enough”. Noto anche con il nome di Egyptian Movement for Change. 111 Conosciuto anche con il nome di El Shar’i lina (“The Street is Ours”). 112 “We Can See You”. 113 Tra questi: Engineers for Democracy, The March 9th Group for Academic Freedoms, Egyptian Anti-Globalization Group e Leftist March 20th Movement. 114 Unione generale degli studenti tunisini. 115 Unione dei disoccupati diplomati. 116 Collettivo 18 ottobre per i diritti e le libertà. 117 Tra le iniziative in Tunisia: il sito web Tazrik, sviluppato da giovani tra i 20 ed i 30 anni; Radio Kalima fondata da Sihem Ben Sèdrine; Alternatives Citoyennes di Nadia Omrane; il blog di Slim Amamou, tra i blogger arrestati durante le proteste di gennaio 2011; e la grande campagna Sayab Salah contro la censura iniziata nel 2009 che ha portato all’occupazione pacifica delle terrazze dei cafè. In Egitto, si ricorda, tra le numerose iniziative, il gruppo facebook We are all Khaled Said, con un milione di aderenti, creato in memoria del giovane ragazzo ucciso brutalmente dalla polizia ad Alessandria nel giugno 2010 e utilizzato per lanciare diverse proteste nell’estate di quell’anno, oltre che la grande mobilitazione del 25 gennaio 2011. 118 Movimento Giovanile 6 Aprile. 39 contestazione politica e di denuncia delle violazioni dei diritti umani.119 Tra i fondatori della pagina facebook 6 Aprile, per esempio, c’era una donna, Esraa Abdel Fattah Ahmed Rashid, arrestata il giorno dello sciopero generale. Nell’ultimo decennio, è stata soprattutto la contestazione sociale ad aumentare in modo significativo, confermando il peggioramento delle condizioni di vita e della situazione del mercato del lavoro discussi in precedenza. La contestazione sociale ha preso spesso la forma di micro proteste, di natura spontanea, concentrate su rivendicazioni settoriali e quotidiane che non hanno rimesso in causa direttamente il sistema di potere autoritario: proteste nei quartieri popolari contro la demolizione delle case abusive; sit-ins di genitori per denunciare le pessime condizioni degli edifici scolastici; proteste contro il caro vita e per la carenza di acqua (Al-Mahdi, 2009b; Nefissa, 2011; Khalil, 2011; Beinin e Varel, 2011; Ben Nefissa e Destremau, 2011). Negli anni recenti, si è intensificata, in modo particolare, la contestazione dei lavoratori e dei giovani disoccupati. In Tunisia, le cellule di base dell’UGTT hanno sostenuto gli scioperi dei lavoratori nelle fabbriche e nelle regioni più svantaggiate senza l’approvazione della direzione sindacale (Allal e Geisser, 2011). A partire dal 2008, sono aumentate le proteste nelle regioni piú povere (CIHRS, 2011).120 La rivolta scoppiata in diverse città della provincia di Gafsa nel gennaio 2008 è stata la più ampia attestando della frustrazione e del malcontento diffusi tra i giovani senza un lavoro (Seddik e Gantin, 2008; Gobe, 2010; Chouikha e Gobe, 2009). In risposta alla pubblicazione dei risultati, ritenuti fraudolenti, del concorso indetto dalla compagnia mineraria della regione, i giovani esclusi, insieme ad altri disoccupati, studenti e alla popolazione locale, hanno reagito protestando per sei mesi, durante i quali il regime ha attuato una durissima repressione. E’ in Egitto che, nell’ultimo decennio, soprattutto dal 2004, è emersa la più ampia mobilitazione di lavoratori,121 che non ha precedenti nella storia egiziana almeno dagli anni quaranta e che ha agito in completa autonomia rispetto alla Federazione dei lavoratori (ETUF). I lavoratori hanno rivendicato l’innalzamento dei salari, il pagamento dei bonus (per il settore pubblico) e la stabilizzazione dei contratti precari (Beinin, 2008). Le proteste hanno investito tutte le categorie di lavoratori, dagli operai delle fabbriche ai medici, e, differentemente dagli scioperi degli anni ottanta e novanta, hanno toccato anche il settore privato, ed in particolare quelle imprese privatizzate che non avevano mantenuto gli impegni contrattuali presi con i lavoratori (Beinin 2011). Una delle mobilitazioni più imponenti è stata quella condotta nell’autunno del 2007 dai 55000 esattori delle tasse dipendenti dalle autorità locali che reclamavano un adeguamento dei loro salari a quelli dei dipendenti del ministero delle finanze. Dopo undici giorni di sit-ins e proteste, in cui i lavoratori hanno incrociato le braccia bloccando il funzionamento di tutta l’amministrazione pubblica, il governo è stato costretto a soddisfare le richieste dei manifestanti. Di particolare rilievo, infine, è stata la larga partecipazione delle donne lavoratrici, talora anche in posizioni di leadership,122 a tali proteste, contravvenendo così alle norme e agli stereotipi di genere (Beinin, 2010; Solidarity Center, 2010). Anche l’Algeria, da qualche anno, è stata investita da una crescente contestazione, ma, per certi aspetti diversa, da quella osservata in Tunisia e in Egitto perché si è trattato di movimenti di contestazione completamente disorganizzati, senza una chiara prospettiva politica, sovente di natura violenta e di cui sono stati protagonisti gruppi di giovani senza lavoro e con un basso livello di istruzione.123 Comunque, accanto a queste rivolte divenute quasi quotidiane, e diversamente dalle 119 Per la Tunisia, tra le più note, si ricorda Lina Ben Mehenni (“A Tunisian girl”, http://atunisiangirl.blogspot.com/.) See “Tunisie: Un rassemblement de jeune diplômés chômeurs de la ville de Skhira tourne à l’affrontement avec les forces de l’ordre”, Nawaat, 4/02/2010 (http://nawaat.org/portail/2010/02/04/tunisie-un-rassemblement-de-jeune-diplomes-chomeurs-de-laville-de-skhira-tourne-a-laffrontement-avec-les-forces-de-lordre/); Christophe Ayad, “Face au gâchis social, la Tunisie ose s’insurger”, Tunisia Watch, 22/12/2010 (http://www.tunisiawatch.com/?p=3180); Amnesty International (2009). 121 Tra il 2004 ed il 2008, sono stati coinvolti circa 1,7 milioni di lavoratori (Solidarity Center, 2010). 122 Aisha Abd-al-Aziz Abu-Samada, per esempio, ha organizzato i lavoratori, uomini e donne, alla fabbrica Hennawi che produce tabacco nella zona del Delta (Solidarity Center, 2010). 123 Nasser Jaby (2011); “Algeria: A Quiet Revolution in Civil Society Takes Hold”, Mideastposts, 24/03/2011 (http://mideastposts.com/2011/03/24/algeria-a-quiet-revolution-in-civil-society-takes-hold/); “Algeria’s Midwinter Uproar”, MERIP, 20/01/2011 (http://www.merip.org/mero/mero012011). 120 40 proteste degli anni passati concentrate su rivendicazioni culturali e religiose, si è assistito all’intensificarsi della contestazione sociale (Larabi, 2011). I sindacati indipendenti, soprattutto dopo il 2008, sono tornati a mobilitare gli impiegati pubblici in tutti i settori - dalla sanità, all'istruzione e ai trasporti - contro il caro vita e i bassi salari, arrivando talvolta alla paralisi dei servizi pubblici (Khalil, 2011). Di fronte a questo intensificarsi dell'azione dei sindacati autonomi, il regime ha risposto in maniera crescente con l'uso della forza e l'arresto dei manifestanti (CIHRS, 2011). Il quadro che emerge dalla nostra breve analisi rivela dunque che, alla vigilia della primavera araba, i tre paesi, anche se con intensitá e modalità diverse, erano attraversati da un movimento di diffusa contestazione, soprattutto di natura sociale. Tuttavia, a causa della natura non organizzata e frammentata in molteplici e particolaristiche rivendicazioni, tale contestazione sembrava non minacciare almeno nell’immediato l’esistenza stessa dei regimi. Allo stesso tempo, é chiaro che essa attestava di un malcontento e di un'insofferenza ormai condivisi da ampie fasce della popolazione, confermando l'analisi presentata nella prima parte. Infine, benché spontaneo e disperso, questo generale movimento di contestazione mostra che il muro della paura verso i regimi cominciava a sgretolarsi.124 3.3 La primavera araba L’ondata di proteste che ha investito la Tunisia, l’Egitto e, in misura minore, l’Algeria non è dunque emersa dal nulla, ma è profondamente radicata nel quadro socio-economico e politico evidenziato finora ed in quel movimento diffuso, benché poco visibile, di contestazione sociale e politica, che si è protratto, intensificandosi, nell’ultimo decennio. Nella misura in cui un forte deterioramento della situazione socio-economica è stato accompagnato da un indurimento della repressione e dell’autoritarismo, un sentimento di frustrazione e di esasperazione si è progressivamente generalizzato, esprimendosi in molteplici forme di contestazione, individuali e collettive. Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, un giovane disoccupato della città di Sidi Bouzid in Tunisia, costretto a lavorare come venditore ambulante, si è dato fuoco, dopo che la polizia gli aveva sequestrato la merce. Il gesto disperato di questo ragazzo ha innescato un’ondata di proteste spontanee nella città di Sidi Bouzid, dando così inizio alla rivoluzione del popolo tunisino. Le proteste sono emerse quindi da fattori di natura economica. Non a caso, hanno origine a Sidi Bouzid, una delle zone più povere della Tunisia, dove la disoccupazione giovanile tocca il 40%, e hanno visto come principali protagonisti giovani, studenti e disoccupati. Comunque, la mobilitazione è diventata rapidamente un movimento di natura politica, una rivoluzione per le libertà civili e politiche, anche se, nelle primissime fasi, non è stata guidata da alcun partito o movimento politico. Da Sidi Bouzid è arrivava fino alle città più ricche del nord e della costa, come la capitale Tunisi (Alexander, 2011; Marzouki, 2011), estendendosi velocemente ad ampie fasce della popolazione (avvocati, artisti, giornalisti, insegnanti, ecc) e registrando una grande partecipazione da parte delle donne. Circa una settimana dopo la fuga di Ben Ali in Tunisia, in Egitto l’appello a scendere per la prima volta nelle strade è arrivato dai giovani, donne e uomini, senza alcuna appartenenza politica. Via web, questi giovani istruiti delle classi medie sono riusciti ad organizzare per il 25 gennaio, giorno in cui ricorreva la festa della polizia, una protesta che ha portato nelle strade mezzo milione di persone.125 Il passaggio dal virtuale al reale è stato possibile grazie alla rivoluzione tunisina, che ha convinto gli egiziani, inizialmente i più giovani, che rovesciare un dittatore era possibile (Ben Nefissa, 2011; ICG, 2011). Sono soprattutto i giovani istruiti, i professionisti, gli avvocati e gli artisti che hanno partecipato alla prima mobilitazione. Successivamente, le proteste hanno conquistato gli strati più poveri, coloro che non avevano accesso ad internet (Nefissa, 2011; 124 Khalil (2011); Hossam el-Hamalawy, “Egypt's revolution has been 10 years in the making”, The Guardian, 2/02/2011 (http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/mar/02/egypt-revolution-mubarak-wall-of-fear). 125 Lindsey (2011); ICG (2011); Amr Hamzawy, “Egypt's Bread and Butter Issues”, The New York Times, 27/01/2011 (http://www.carnegieendowment.org/publications/index.cfm?fa=view&id=42393). 41 Lindsey, 2011). Come in Tunisia, anche in Egitto, le donne sono state in prima fila a manifestare (Paciello e Pepicelli, 2011). Anche alcuni imprenditori, come Naguib Sawiris, Anis Aclimandos, Mohamed Metwally e Safwan Thabet, hanno dato il loro supporto a titolo personale all’ondata di proteste.126 Infine, sin dall’inizio, le rivendicazioni hanno riguardato questioni sia economiche che politiche, convergendo rapidamente nella richiesta delle dimissioni di Mubarak.127 Il fatto che, diversamente dalla contestazione degli anni passati, le proteste in Tunisia e in Egitto abbiano finalmente coniugato rivendicazioni socio-economiche con rivendicazioni chiaramente politiche può essere considerato un elemento importante del loro successo. Per questo, in Tunisia, le proteste non si sono arrestate di fronte alle concessioni economiche fatte da Ben Ali nel suo secondo discorso alla popolazione (11 gennaio), come la promessa di creare 300000 posti di lavoro nell’arco di due anni. Quando, infine, nel discorso del 13 gennaio, Ben Ali ha fatto concessioni politiche più esplicite, dichiarando di non ricandidarsi alle elezioni del 2014 e di togliere la censura su internet, era ormai troppo tardi e le sue parole sono apparse poco credibili. Anche il fatto che le proteste non siano state iniziate da alcun partito politico o altra organizzazione della società civile e che sia mancata una leadership politica precisa spiegano l’ampiezza, l’eterogeneità e la natura non ideologica delle mobilitazioni in entrambi i paesi, e dunque nuovamente il loro esito positivo. Inoltre, in questo contesto, nei primi giorni, l’uso di internet e dei social networks come Facebook e Twitter si è rivelato determinante per mobilitare ed organizzare rapidamente le proteste, e, successivamente, per diffondere in tempo reale filmati e aggiornamenti sulle manifestazioni, che hanno contribuito a conquistare il consenso della popolazione e degli altri paesi alle rivoluzioni.128 Relativamente al ruolo delle forze politiche e sociali durante le fasi delle proteste, è importante, comunque, fare alcune precisazioni. Dopo un primo momento di esitazione e di divergenze, tutti i partiti politici e le forze di opposizione hanno preso parte alle proteste.129 Nel caso tunisino, il sindacato dei lavoratori, l’UGTT, ha svolto un ruolo determinante sin da subito, soprattutto nelle regioni dell’interno. Nei primi giorni, contrariamente all’atteggiamento prudente della direzione nazionale, le cellule locali dell’UGTT hanno giocato un ruolo cruciale nel sostenere ed inquadrare le manifestazioni. Sotto la pressione delle federazioni regionali, infine, la direzione centrale è stata costretta a sostenere più apertamente il movimento di proteste per paura di essere sconfessato dalla base. Dopo aver emesso l’11 gennaio un comunicato che condannava l’uso della forza e della repressione delle proteste, il 14 gennaio, la direzione nazionale dell’UGTT ha decretato lo sciopero generale in tutto il paese. Lo stesso giorno, Ben Ali è fuggito dalla Tunisia (Alexander, 2011; Allal e Geisser, 2011). A differenza della Tunisia, in Egitto, il movimento dei lavoratori, particolarmente attivo nell’ultimo decennio, è entrato in scena solo nelle fasi conclusive delle proteste. Questo potrebbe riflettere in parte l’interruzione delle attività economiche durante i primi giorni delle proteste (Shehata, 2011) e le divisioni interne al movimento (Interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011), fattori che possono aver rallentato l’organizzazione dei lavoratori. Negli ultimi giorni, tra il 9 e l’11 febbraio, comunque, il contributo dei lavoratori alle proteste è stato determinante (Beinin, 2011). Lo sciopero generale indetto per il 9 febbraio ha portato in strada 300 000 lavoratori, appartenenti a numerosi settori (trasporti, canale di Suez, telecomunicazioni, tessile, elettricità, cantieri navali, siderurgica) (Clément et al., 2011). Nei giorni successivi, il paese è stato attraversato da un’ondata di scioperi, 126 Ellis Goldberg, “Egyptian businessmen eye the future”, The Middle East Channel, 10/02/2011 (http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2011/02/10/egyptian_businessmen_eye_the_future). 127 Amr Hamzawy, “Egypt's Bread and Butter Issues”, The New (http://www.carnegieendowment.org/publications/index.cfm?fa=view&id=42393). York Times, 27/01/2011 128 E’ indicativo, a tal proposito, che, durante i giorni delle proteste in Tunisia il regime abbia arrestato diversi bloggers (Hamadi Kalutcha, Slim Amamu and Aziz Amami). Anche alcune donne sono state in prima fila a documentare le proteste attraverso i blog (vedi Boris Vanenti, “Sidi Bouzid ou la révolte tunisienne organisée sur Facebook”, 4/01/2011, Nouvelobs.com). 129 Il movimento dei Fratelli Musulmani, per esempio e il partito di sinistra Tagammu hanno aderito alle proteste solo nei giorni successivi al 25 gennaio (vedi Husam Tammam e Patrick Haenni, “Egypt: Islam in the insurrection”, Religious Globe, 22/02/2011 (http://religion.info/english/articles/article_519.shtml). 42 che ha investito tutte le attività economiche, toccando anche i liberi professionisti, e ha portato in strada 8 milioni di lavoratori (Beinin, 2011). Al di là delle rivendicazioni economiche (aumento del salario minimo, introduzione dell’indennità di disoccupazione, stabilizzazione dei contratti temporanei ecc), i lavoratori hanno chiesto, per la prima volta, la fine della presidenza di H. Mubarak (Clément et al., 2011). Secondo alcuni osservatori, la ripresa della mobilitazione dei lavoratori avrebbe spinto i militari ad accelerare le pressioni su Mubarak affinché lasciasse la presidenza del paese (Shehata, 2011). Infine, il quadro dei fattori che hanno favorito il successo delle proteste sarebbe incompleto senza considerare il ruolo dell’esercito nei due paesi. In Tunisia, i militari, non soltanto si sono rifiutati di agire contro i dimostranti ma si sono schierati in molto casi anche in loro difesa contro le violenze della polizia. Questo riflette certamente il fatto che i rapporti tra militari e Ben Ali non sono stati mai buoni e il ruolo politico ed economico dell’esercito è rimasto marginale (Kallander, 2011). In Egitto, i militari hanno giocato un ruolo altrettanto importante nell’esito della rivoluzione, ma diverso, e per certi aspetti ambivalente dal momento che, a differenza della Tunisia, essi sono stati parte integrante del sistema di potere economico e politico creato da H. Mubarak. 130 Se è vero che l’esercito in Egitto non ha agito contro i manifestanti, tuttavia, diversamente da quello tunisino, esso non ha preso le parti degli insorti né è intervenuto a fermare le violenze dei sostenitori di H. Mubarak. Comunque, dopo l’allargamento delle proteste ai lavoratori, i militari hanno optato per spingere H. Mubarak alle dimissioni nella speranza di non venir travolti dall’ondata di proteste. Guardando al caso dell’Algeria, rispetto alla Tunisia e all’Egitto, emergono importanti differenze, che spiegherebbero perché, benché i tre paesi condividano un quadro socio-economico e politico simile, le proteste di gennaio in Algeria non abbiano portato ad un cambio di regime. In primo luogo, sul piano delle rivendicazioni, diversamente da Tunisia ed Egitto, almeno nelle prime fasi, le proteste di gennaio sembrano essere state motivate da questioni di natura essenzialmente socioeconomica e, comunque, non hanno avanzato richieste specifiche, sia politiche che sociali (Nasser Jaby, 2011; Dessi, 2011). Per questo, ed in virtù della disponibilità delle generose rendite petrolifere, il governo è riuscito ad evitare che le proteste si allargassero approvando una serie di misure di breve termine volte a migliorare il potere d’acquisto della popolazione (§2.3). Inoltre, anche se, come vedremo a breve, nei mesi successivi, nell’ambito di alcune iniziative promosse dalla società civile, sono state avanzate richieste più specificatamente politiche, queste non hanno riguardato un cambio di potere, ma si sono limitate a chiedere un ampliamento delle libertà civili e politiche.131 Su questo differente approccio rispetto alla Tunisia e all’Egitto, sembra aver pesato profondamente l’eredità della guerra civile degli anni novanta ed il timore di ricadere nella violenza di quel periodo (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Un secondo elemento di differenza del caso algerino con quello tunisino e egiziano riguarda il ruolo svolto dalle forze politiche e sociali organizzate del paese durante le proteste. Diversamente dall’Egitto e dalla Tunisia, in Algeria, durante i giorni delle proteste, le organizzazioni politiche e sociali di opposizione non sono riuscite a costituire un fronte unico contro il regime e si sono divise sulla strategia da seguire di fronte alle proteste. Ciò a causa delle profonde divisioni etniche e ideologiche così come delle forti rivalità che, da un ventennio, hanno indebolito le forze di opposizioni (Nasser Jaby, 2011; Dessi, 2011). Per esempio, alcune formazioni politiche, come gli islamisti e il partito dei lavoratori di Louisa Hanoune, si sono dissociate apertamente dalla mobilitazione di gennaio (Brown, 2011). L’iniziativa di alcuni partiti politici di opposizione, sindacati indipendenti e gruppi per i diritti umani di creare un Coordinamento, il Coordination Nationale pour le Changement el la Democratie (CNCD),132 il 21 gennaio al fine di avanzare richieste di natura politica, tra cui l’abolizione della legge di emergenza, è stata boicottata da 130 Clement M. Henry e Robert Springborg, “Why Egypt's Military Will Not Be Able to Govern”, Foreign Affairs, 2/02/2011 (http://www.foreignaffairs.com/articles/67475/clement-m-henry-and-robert-springborg/a-tunisian-solution-for-egypts-military). 131 Heven Armede, “La révolution est-elle impossible en Algérie?”, (http://www.lexpress.fr/actualite/monde/la-revolution-est-elle-impossible-en-algerie_983439.html). 132 Coordinamento Nazionale per il Cambiamento e la Democrazia. 43 L'Express, 16/04/2011 diverse forze sociali e politiche.133 Tra queste, vi è il partito di Louisa Hanoune, il Front des Forces Socialistes (FFS),134 uno dei principali partiti d’opposizione in Algeria, e l’UGTA, la principale organizzazione sindacale del paese (Dessi, 2011). Infine, le profonde divisioni che attraversano le forze di opposizione hanno portato a scissioni in seno allo stesso CNCD.135 Il 22 febbraio, il CNCD si è diviso in due gruppi: il primo formato da rappresentanti dei partiti politici vicini al Rassemblement pour la Culture et la Démocratie (RCD),136 e il secondo costituito dalle principali organizzazioni dei diritti umani, i sindacati autonomi, alcuni movimenti di studenti e associazioni di donne.137 Benché le ragioni di tale scissione non siano chiare, tra i fattori sembra esserci sia la scarsa credibilità di cui godono i partiti politici che avrebbe spinto gli altri rappresentanti della società civile a prenderne le distanze sia divergenze sulle strategie di azione (interviste dell’autore con esponenti del CNCD, Algeri, ottobre 2011). Infine, diversamente da Egitto e Tunisia, i social networks non hanno giocato alcun ruolo nelle proteste di gennaio in Algeria. Questo sembra riflettere il fatto che i gruppi coinvolti nelle proteste fossero poco istruiti e provenienti dai quartieri popolari (Nasser Jaby, 2011). 3.4 Società civile tra sfide e opportunità 3.4.1 Quadro d’insieme All’indomani della fuga di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, la società civile ha subito una vera e propria esplosione in questi paesi, con la legalizzazione di numerosi partiti politici138 e la nascita di molte altre associazioni, dai sindacati di lavoratori ai gruppi giovanili. Sul piano del cambiamento politico, vecchi e nuovi attori della società civile si sono mobilitati per fare pressione sui governi di transizione affinchè non tradissero le aspettative della rivoluzione (vedi Paciello, 2011). Sul piano delle sfide socio-economiche, nel periodo post rivoluzionario, la contestazione dei lavoratori in entrambi i paesi si è intensificata. In Egitto, dopo la caduta di Mubarak, gli scioperi e i sit-ins dei lavoratori, spesso organizzati dai nuovi sindacati, si sono susseguiti allo stesso ritmo del periodo antecedente, toccando tutti i settori e le categorie di lavoratori, dai trasporti pubblici alle forze della polizia.139 Nonostante la forte contestazione sociale e l’urgenza delle sfide socioeconomiche, le diverse forze della società civile, ad eccezione dei sindacati, hanno concentrato la loro azione e le loro rivendicazioni quasi unicamente sulle riforme politiche. Tutto ciò ha fatto sì che finora sia mancato un dibattito serio su come affrontare le sfide economiche presenti e future, ritardando un ripensamento delle politiche del passato da parte dei governi di transizione, che, come già detto, si sono limitati a riproporre le stesse misure inefficaci dei precedenti regimi. Ad una prima valutazione d’insieme sul ruolo delle forze della società civile nei primi dieci mesi dopo le rivoluzioni emergono importanti differenze tra la Tunisia e l’Egitto sia in termini di impatto 133 Benmehdi, Redouane, “In State of High Alert, Algiers Braces for Protests”, The North African Journal, 10/02/2011 (http://www.north-africa.com/social_polics/security_politics/1dzprotests46.txt). Anche alcuni partiti islamisti moderati e il partito F 134 Fronte delle Forze Socialiste. 135 Per dettagli sulle dinamiche, vedi Achy Lahcen, “Why did protests in Algeria fail to gain momentum?”, 31/03/2011 (http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2011/03/31/why_did_protests_in_algeria_fail_to_gain_momentum); Layachi Azzedine. “Algeria’s Rebellion by Instalments”, MERIP, 12/03/2011 (http://www.merip.org/mero/mero031211). 136 Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia. 137 “CNCD: c’est la division”, Le Temps D’Algerie, 22/02/2011 (http://www.letempsdz.com/content/view/53688/1/). Le maggiori organizzazioni rappresentate nel secondo gruppo sono: l’organizzazione per la difesa dei diritti umani, la Ligue Algerienne de Defense des Droits de l’Homme (LADDH), alcuni sindacati autonomi (SNAPAP e SATEF), il Collectif Des Familles de Disparus en Algerie, il Comité des Citoyens pour la Défense de la République ed il gruppo, Tharwa Fatma N’Soumer, che lavora per l’abolizione del Codice della Famiglia, introdotto in Algeria nel 1984. 138 In Tunisia, sono stati legalizzati più di cento partiti, mentre in Egitto una cinquantina. 139 Beinin (2011); “Egyptian labour flaunt anti-strike law with rising strike action”, Ahram Online, 11/08/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/18659/Business/Economy/Egyptian-labour-flaunt-antistrike-law-with-rising-.aspx); “Mffco Helwan workers protest for third day”, Ahram Online, 4/05/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11392/Business/Economy/Mffco-Helwan-workers-protest-for-third-day.aspx); “Industrial protests rumble on in Sadat city”, Ahram Online, 8/05/2011(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11649/Business/Economy/Industrial-protests-rumble-on-in-Sadatcity.aspx); “Doctors strike on hold”, Ahram Weekly, 26/05-1/06/2011 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1049/eg12.htm). 44 sui processi decisionali sia nelle modalità di azione. In Egitto, le poche concessioni politiche fatte dal Consiglio Militare sono state il risultato delle continue proteste animate dai gruppi giovanili. Al di là di queste timide concessioni, tutte le decisioni prese dal Consiglio Militare in materia di questioni politiche ed economiche sono state calate completamente dall’alto, senza alcun coinvolgimento della società civile (Paciello, 2011). Il modo con cui è stata emendata la costituzione del 1971 ne è l’esempio più eclatante. La costituzione è stata infatti modificata da un comitato di giuristi, tutti uomini, nominato arbitrariamente dal Consiglio Militare e senza il coinvolgimento di alcun rappresentante della società civile (ad eccezione di un membro dei Fratelli Musulmani). Le proposte costituzionali, presentate il 26 febbraio, sono state sottoposte ad un referendum popolare il 19 marzo, lasciando solo pochissimi giorni per informare l’opinione pubblica sul suo contenuto. Due settimane dopo l’approvazione degli emendamenti costituzionali tramite referendum popolare, il Consiglio Militare ha emanato una dichiarazione costituzionale che conteneva articoli non contemplati nella precedente proposta costituzionale, scavalcando così la volontà popolare espressa nel referendum. Ed ancora una volta, senza consultarsi con le forze della società civile. Sul piano delle decisioni in materia di questioni economiche, il Consiglio Militare è stato ancora più opaco, come mostra la totale assenza di trasparenza nell’approvazione della legge finanziaria.140 Inoltre, le organizzazioni della società civile, soprattutto quelle in difesa dei diritti umani e dei diritti delle donne, hanno continuato ad essere soggette a intidimidazioni, arresti dei loro esponenti e ad una dura campagna di denigrazione.141 La società civile in Egitto ha continuato quindi, come in passato, ad essere emarginata dai processi decisionali per due ragioni: in primo luogo, perchè la transizione politica è stata diretta dai militari che hanno gestito il paese in modo autoritario, e perché, come vedremo a breve, la coesione raggiunta tra le forze politiche e sociali del paese durante la mobilitazione popolare che ha portato alla fuga di Mubarak sembra aver lasciato il posto a profonde divisioni e spaccature, che hanno impedito la formazione di un fronte unico vis-àvis il Consiglio Militare (Paciello, 2011 per maggiori approfondimenti). Diversamente dall’Egitto, in Tunisia, gli attori della società civile, dai partiti politici alle associazioni in difesa dei diritti delle donne, sembrano aver giocato un ruolo più influente sulle decisioni riguardanti le questioni politiche, grazie alla creazione della già menzionata Instance Supérieure. Alla fine di marzo, infatti, dietro la forte pressione di vari esponenti della società civile, la commissione nominata dal primo governo di transizione per riformare la costituzione,142 ma composta da un numero ristretto di esperti di diritto alcuni dei quali vicini al passato regime, è stata trasformata in un’istituzione più rappresentativa, appunto la Instance Supérieure. L’Alta Istanza è arrivata ad includere 145 rappresentanti della società civile (tra cui l’UGTT, l’Ordine Nazionale degli Avvocati, gli ex partiti di opposizione, alcune organizzazioni in difesa dei diritti delle donne ecc).143 Attraverso questa struttura, i principali esponenti della società civile sono quindi riusciti ad esercitare una certa influenza sulle decisioni prese dal governo di transizione, partecipando alla stesura della legge elettorale per nominare l’Assemblea Costituente (approvata l’11 aprile), facendo slittare la data delle elezioni nonostante le forti resistenze del governo di transizione, e contribuendo ad elaborare la nuova legge sulle associazioni e sui partiti politici, oltre al nuovo codice della stampa. Per quanto riguarda l’Algeria, dopo le proteste di gennaio, il margine d’azione della società civile e le opportunità di influenzare le decisioni del governo sono rimasti limitati. Le riforme politiche intraprese recentemente dal governo sono state calate dall’alto: le consultazioni guidate dalla commissione di Bensalah sono state boicottate dai principali partiti di opposizione e non hanno 140 “Egypt ruling military approves tighthening in spending in 2011/12 budget”, Ahram online, 4/07/2011. Vedi per esempio la denuncia di 36 organizzazioni della società civile “Successors of the Mubarak regime redouble their assault on civil society and the freedom of association”, 26/08/2011 (http://en.eohr.org/2011/08/26/successors-of-the-mubarak-regime-redouble-their-assault-on-civil-society-and-the-freedom-ofassociation/). 142 Si tratta della Commission Supérieure de la Réforme Politique (Commissione Superiore della Riforma Politica). 143 Per una lista dei membri dell’Alta Istanza, vedi “Instance Yadh Ben Achour: la dernière liste actualisée des membres du Conseil”, Tunis News, 29/03/2011 (www.tunisnews.net). 141 45 coinvolto nessuna altra forza della società civile.144 Tuttavia, la primavera araba sembra aver dato un rinnovato impulso alla nascita di nuovi comitati, gruppi giovanili e sindacati dei lavoratori nel settore privato (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). La contestazione sociale ha inoltre subito un’accelerazione negli ultimi mesi, investendo, oltre al settore pubblico, anche quello privato.145 Per esempio, oltre ai casi degli hotel Sheraton e Aurassi, le multinazionali nel settore degli idrocarburi nel sud del paese, dove finora la mobilitazione dei lavoratori era rimasta contenuta, hanno cominciato ad assistere a un susseguirsi di scioperi e sit-ins che rivendicano un aumento dei salari alla stregua dei dipendenti stranieri e un’indennità di lavoro per le difficili condizioni di lavoro (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). 3.4.2 Sindacati dei lavoratori Il periodo post-rivoluzionario in Egitto e Tunisia ha aperto la strada al pluralismo sindacale. In Egitto, già durante i primi giorni delle proteste, il 31 gennaio 2011, si è costituita, in alternativa all’ETUF, la prima Federazione dei Sindacati Indipendenti, la Egyptian Federation of Independent Trade Unions (EFITU),146 sotto la direzione del noto sindacalista Kamal Abu Eita e su iniziativa di alcuni sindacati indipendenti.147 La Federazione è nata in risposta ad un comunicato dell’ETUF emesso il 27 gennaio in cui si chiedeva ai segretari di tutti i sindacati federati di opporsi ad ogni tentativo dei lavoratori di partecipare alle proteste. Qualche giorno dopo, l’8 febbraio, la EFITU ha lanciato un appello ai lavoratori affinché aderissero alle proteste e scendessero in piazza il giorno successivo per uno sciopero generale. L’appello, come già detto, ha segnato l’inizio del coinvolgimento dei lavoratori nel movimento di proteste. Dopo la fuga di Mubarak, la Federazione indipendente si è ampliata notevolmente, arrivando ad includere più di cento sindacati per un totale di 1 milione di lavoratori.148 Accanto alla nascita della nuova Federazione, all’indomani della rivoluzione, si è assistito in tutto il paese alla costituzione di numerosi sindacati e comitati di lavoratori.149 Grazie alle pressioni della nuova federazione e di alcune organizzazioni in difesa dei diritti dei lavoratori già attive all’epoca di Mubarak,150 le autorità di transizione si sono viste costrette a fare alcune concessioni ai lavoratori, tra cui la nomina di Ahmad Hasan al-Burai a ministro del lavoro (Clément et al., 2011). Il nuovo ministro, professore di diritto del lavoro presso l’Università del Cairo, per anni sostenitore del pluralismo sindacale, ha riconosciuto immediatamente i nuovi sindacati indipendenti in una dichiarazione ufficiale, soprassedendo alla legislazione nazionale in nome delle convenzioni internazionali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ratificate dall’Egitto. Inoltre, seppur tardivamente, ai primi di agosto, è arrivata la decisione del governo di dissolvere il comitato esecutivo dell’ETUF. Fino ad allora, nonostante l’arresto del suo presidente Hussein Megawer ed il ricorso presentato dalla federazione indipendente ed altre 144 Magharebia, 26/05 /2011, http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/05/26/feature-01 “Algeria Responds to Social Tensions”, Magharebia (http://www.city-dz.com/crise-sociale-en-algerie-l’etat-tourne-le-dos-auxprotestataires/); Daily Telegraph, 07/03/2011 (http://www.dailytelegraph.com.au/news/breaking-news/thousands-of-police-rally-inalgeria/story-e6freuyi-1226017339629); Echorouk online, 20/06/2011 (http://www.echoroukonline.com/eng/algeria/13741-algeriamunicipal-workers-launch-nationwide-strike-action.html); El Watan 28/09/2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/syndicat/sante_option_greve.htm); El Watan 29/09/2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/syndicat/contractuels_education_fronts.htm). Per il settore privato, CISA, “L a g rèv e d e s t r av a i l l eu rs d es g ran d s h ô t el s d e l u x e al g é ri en s “, 29/09/2011 (http://www.cisa-solidaritesyndicats-algerie.org/spip.php?article60); Magharebia, 10/11/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/11/10/feature-03). 146 Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti. 147 La Retired Workers Union (Unione dei Pensionati), la Health Professionals Union e la Teachers Independent Union. Vedi “After 50-year hiatus, Egypt’s first independent labor union is born”, al Masry al Youm (http:// www.almasryalyoum. com/en/node/337515); CTUWS, “The formation of the Constituent Body of the Egyptian Independent Trade Union Federation” 30/01/2011 (http://www.ctuws.com/ Default.aspx?item=689). 148 I dati si riferiscono al 30 settembre 2011 (Mena Solidarity Network, http://menasolidaritynetwork.com/2011/10/04/egyptindependent-union-federation-welcomes-tuc-solidarity/). 149 Secondo stime non ufficiali circa novanta. Beinin (2011); al Masry al Youm, 3/06/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/462369); Ahram Online, 20/09/2011 (http://english.ahram.org.eg/~/NewsContent/1/64/21674/Egypt/Politics-/Human-rights-in-postMubarak-Egypt-the-jury-is-stil.aspx). 150 Egyptian Center for Economic and Social Rights, Center for Trade Unions and Workers Services, Hisham Mubarak Center e Center for Socialist Studies. 145 46 associazioni che ne chiedevano la dissoluzione, l’ETUF aveva continuato ad operare e ad essere considerato l’unico interlocutore ufficiale in rappresentanza dei lavoratori.151 Infine, ai primi di novembre, il governo di transizione ha approvato la bozza della nuova legge sui sindacati proposta dal ministro del lavoro dopo lunghe consultazioni con i sindacati indipendenti e attivisti dei diritti dei lavoratori. La bozza, che elimina i numerosi impedimenti all’azione dei sindacati imposti dalla legge n. 35 del 1976 e riconosce il diritto per i lavoratori di organizzarsi, è in attesa di essere approvata dal Consiglio dei Militari. Comunque, la maggior parte delle richieste dei lavoratori, dei nuovi sindacati e della EFITU sono rimaste disattese. Le principali rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati hanno riguardato: l’aumento dei salari; l’innalzamento del salario minimo a 1200/1500 pound egiziani, poiché il recente aumento deciso nella legge finanziaria è stato considerato inadeguato; la stabilizzazione dei contratti temporanei; il diritto per tutti i cittadini alla sicurezza sociale; l’approvazione della legge sui sindacati; la rimozione dei vecchi membri dei consigli d’amministrazione delle aziende; l’abolizione della legge contro il diritto di sciopero introdotta dal Consiglio dei Militari e la reintegrazione di tutti quei lavoratori licenziati arbitrariamente.152 Per quanto riguarda la Tunisia, le dinamiche del pluralismo sindacale appaiono per molti aspetti differenti da quelle dell’Egitto. Dati la diversa storia dell’UGTT e il peso rilevante avuto da questo sindacato nell’esito delle proteste, è naturale che tale organizzazione abbia continuato a giocare un ruolo importante nel periodo post-rivoluzionario. Dal punto di vista politico, l’UGTT ha contribuito a far cadere il primo governo di transizione diretto da Ghannouchi e successivamente ha partecipato con ben quattro rappresentanti all’Alta Istanza.153 Dal punto di vista socio-economico, nonostante la nascita di nuovi sindacati, l’UGTT ha continuato ad essere, almeno in questa prima fase, l’unica organizzazione dei lavoratori riconosciuta dalle autorità di transizione nelle sedi ufficiali di contrattazione. Infatti, nella fase post Ben Ali, l’UGTT ha continuato ad essere l’unico sindacato coinvolto nelle negoziazioni sociali con il governo e l’UTICA, concludendo il 21 luglio un accordo sugli aumenti salariali nel settore pubblico e privato. Tuttavia, le richieste dei lavoratori in sciopero sono rimaste insoddisfatte poiché gli aumenti non hanno riguardato i numerosi precari del pubblico e del privato, e tra le principali richieste c’è la fine dei contratti precari. Come in Egitto, anche in Tunisia, il nuovo contesto politico ha aperto la strada al pluralismo sindacale. Accanto all’UGTT, sono sorti due nuovi sindacati: a febbraio, è nata la Confédération Générale des Travailleurs Tunisiens (CGTT),154 sotto la direzione di Habib Guiza, ed il 1 maggio, la Union Tunisienne du Travail (UTT),155 guidata da Ismaël Sahbani. Anche a livello di associazioni professionali, si è assistito ad una riorganizzazione interna in rottura con le pratiche del passato. 156 Per esempio, il Syndicat National des Journalistes Tunisiens,157 costituitosi nel 2008 e completamente paralizzato dal controllo del regime, ha eletto ai primi di giugno il nuovo comitato esecutivo, nominando alla sua guida una donna, Nejiba Hamrouni, e ha contribuito attivamente a prepare il nuovo codice dei media (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). La fase post rivoluzionaria in Tunisia ed in Egitto ha dunque aperto la strada al pluralismo sindacale. L’emergere di una pluralità di organizzazioni sindacali forti e rappresentative potrebbe contribuire a uno sviluppo economico equilibrato ed inclusivo. Nell’attuale fase di grande incertezza politica ed economica, coinvolgere le organizzazioni dei lavoratori nel dibattito su come 151 Al Masry al Youm, 4/08/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/483386). Beinin (2011). Per una lista completa delle rivendicazioni della EFITU, vedi Egypt Workers Solidarity, 20/09/2011 (http://www.egyptworkersolidarity.org). 153 Moncef Yaacoubi, Ridha Bouzriba, Abid Briki, Hacine El Abassi e Marwan Chérif. 154 Confederazione Generale dei Lavoratori Tunisini. La CGTT esisteva già dal 2006 ma non era riuscita a ottenere l’autorizzazione sotto il regime di Ben Ali. “Naissance du second syndicat de l'histoire de la Tunisie”, Jeune Afrique, 1/02/2011 (http://www.jeuneafrique.com/). 155 Unione Tunisina del Lavoro. 156 Per i cambiamenti che hanno investito alcuni sindacati professionali, tra cui il Syndicat tunisien des Médecins Spécialistes de Libre Pratique (Faouzi Charfi) e la Association des Magistrats Tunisiens (Ahmed Rahmouni), vedi Business News 16/05/2011 (http://www.businessnews.com.tn/Tunisie-–-Une-justice-à-dépolitiser,519,24802,1 ). 157 Sindacato Nazionale dei Giornalisti Tunisini. 152 47 affrontare le sfide socio-economiche, di breve e lungo termine, e nell’elaborazione delle future politiche economiche e sociali appare più che mai cruciale. Il dialogo sociale potrebbe rappresentare uno strumento efficace per superare le tensioni sociali, costruire un consenso sulle politiche nazionali dei nuovi governi e migliorare le condizioni di lavoro. Affinché il pluralismo sindacale si trasformi in una grande opportunità di cambiamento per entrambi i paesi, occorre che le organizzazioni sindacali emergenti diventino forti, credibili, rappresentative e indipendenti. Tuttavia, nella fase attuale, come è prevedibile, nonostante l’emergere di una pluralità di sindacati, tali organizzazioni appaiono ancora deboli e poco rappresentative. E dunque non sono ancora in grado di contribuire in maniera efficace al processo di cambiamento economico. In Egitto, per esempio, non è chiaro se ed in che misura la federazione dei sindacati indipendenti riuscirà a diventare un organo rappresentativo dei lavoratori ed alternativo all’ETUF. Si sono registrate già alcune defezioni, mentre altri sindacati indipendenti si sono rifiutati di aderire.158 Anche il futuro dell’ETUF rimane incerto e non è chiaro se ed in che misura riuscirà a rompere con il passato. Nonostante sia stato formato un comitato esecutivo temporaneo incaricato di gestire gli affari della Federazione fino alle nuove elezioni interne, la struttura piramidale dell’organizzazione è rimasta in piedi. Inoltre, il nuovo comitato esecutivo, formato da venticinque membri di orientamento politico eterogeneo - socialisti, figure indipendenti, membri della nuova federazione e della Fratellanza Musulmana - include anche alcuni ex-dirigenti dell’ETUF.159 La presenza di membri legati al passato regime potrebbe rallentare il processo di dissoluzione delle 24 unioni generali e dei 173 comitati di base eletti all’epoca di Mubarak. La data delle elezioni interne inizialmente previste per novembre non è stata ancora definita e c’è il rischio che vengano posticipate di diversi mesi, ritardando il processo di rinnovamento delle strutture dell’ETUF.160 Infine, i risultati delle elezioni interne, da cui dipenderà il futuro dell’ETUF, non sono affatto prevedibili poiché ci si aspetta un’aspra competizione tra i gruppi di sinistra, i rappresentanti dei Fratelli Musulmani e gli ex-membri del regime.161 A conferma dell’incertezza che avvolge le future elezioni all’interno dei sindacati controllati dal passato regime, può essere utile notare che, a ottobre, in occasione delle prime elezioni libere tenute al sindacato dei medici egiziani, benché la lista dei Fratelli Musulmani, corrente predominante nel sindacato da trenta anni, fosse considerata la favorita, non ha ottenuto un risultato schiacciante come previsto. La corrente contrapposta, quella dei medici indipendenti, ha ottenuto risultati impensabili, conquistando una solida maggioranza di seggi nei comitati locali del sindcacato in quattordici su ventisette governatorati e rompendo il monopolio dei Fratelli Musulmani a livello nazionale, aggiudicandosi sei seggi su ventiquattro nel comitato esecutivo.162 Le ragioni di questo relativo successo sono da ricercare nel ruolo chiave svolto dai medici copti, che rappresentano quasi il 30% della categoria e alla nuova generazione di medici, critica dell’atteggiamento passivo adottato dalla Fratellanza Musulmana negli anni del regime di Mubarak e nel periodo post rivoluzionario.163 I Fratelli Musulmani hanno inoltre perso la presidenza di altri sindcati professionali, quello dei giornalisti e degli avvocati. Anche nel caso della Tunisia, in queste prime fasi nel periodo post rivoluzionario, le organizzazioni sindacali sono indebolite da innumerevoli problemi. L’UGTT ha continuato a soffrire delle stesse debolezze del passato. In primo luogo, è rimasta un’organizzazione ambigua poichè non ha rotto completamente con il passato regime: i vertici dell’UGTT - il segretario generale Abdesslem Jrad e 158 Vedi per esempio CTUW, “The Center for Trade Union and Workers Services Decides to Withdraw From the Formation Process of The Egyptian Federation of Independent Trade Unions”, 25/07/2011 (http://www.ctuws.com/Default.aspx?item=990); al Masry al Youm, 31/08/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/491205) 159 “Committee for new federation of trade unions formed”, al Masry al Youm, 06/08/2011, (http://www.almasryalyoum.com/en/node/483781). 160 Le elezioni sono previste sei mesi dopo l’approvazione della bozza della nuova legge sui sindacati da parte del Consiglio Militare, che, tuttavia, non si è ancora pronunciato in tal senso. 161 Ahram Online, 20/09/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/21615/Egypt/Politics-/The-road-to-trade-unionindependence.aspx). 162 Ahram Online, 20/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/24533/Egypt/Politics-/Behind-the-Brotherhoodslosses-in-historic-Doctors.aspx). 163 Alain Gresh, “Echec relatif des Frères musulmans aux élections du syndicat des médecins”, 23/10/2011, Le blog du Diplo, (http://blog.mondediplo.net/2011-10-23-Echec-relatif-des-Freres-musulmans-aux-elections). 48 il comitato esecutivo - non sono stati cambiati. Secondo il rapporto preparato dalla commissione sugli atti di corruzione commessi all’epoca di Ben Ali, Abdessalam Jrad sarebbe coinvolto in diversi affari di corruzione.164 In secondo luogo, la sua struttura ha continuato ad essere fortemente centralizzata e non democratica. Il prossimo congresso e le elezioni interne che si dovrebbero tenere a breve saranno decisive per determinare il futuro dell’UGTT e favorire un rinnovamento dei quadri dirigenti. A questo proposito, appare come un segnale positivo la decisione che nove membri dell’attuale comitato esecutivo su dodici non potranno ricandidarsi.165 In terzo luogo, l’UGTT sembra aver perso legittimità e credibilità tra alcune fasce di lavoratori come mostrano i numerosi scioperi non inquadrati e coordinati dalla direzione centrale.166 Ancora, per la sua storia di sindacato unico ma non completamente cooptato dal regime, l’UGTT è composto da molteplici anime – esponenti di sinistra, islamisti, sostenitori dell’ex regime ecc. Nel contesto di un crescente pluralismo politico e sindacale, questa eterogeneità può esporre l’UGTT al rischio di continue scissioni, come mostra la fondazione dei due nuovi sindacati da parte di ex militanti dell’UGTT o l’adesione di numerosi sindacalisti ai nuovi partiti politici nati dopo la rivoluzione.167 Anche i due nuovi sindacati presentano alcuni problemi. Pur proponendosi in alternativa alle pratiche burocratiche e centralizzate dell’UGTT, non è chiaro in che misura le due organizzazioni sindacali rappresentino effettivamente una rottura con il passato. I segretari generali dei due sindacati sono ex-membri dell’UGTT. In particolare, Ismael Sahbani a capo della UTT fu exsegretario generale dell’UGTT per diversi anni ed è considerato un uomo molto vicino a Ben Ali (interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Inoltre, al momento, le due organizzazioni sindacali sembrano ricoprire ancora un ruolo marginale in termini di capacità di mobilitazione dei lavoratori e di impatto sui processi decisionali (ibid). Al di là delle debolezze interne su menzionate, un’altra sfida che si pone ai sindacati, vecchi e nuovi, è la questione del livello di rappresentatività. Uno dei principali problemi dei sindacati esistenti all’epoca dei precedenti regimi, la ETUF in Egitto e l’UGTT in Tunisia, è stata la loro scarsa presenza nel settore privato. In Tunisia, per esempio, si stima che solo il 10% dei lavoratori salariati nel privato aderisca all’UGTT.168 Ma soprattutto, nonostante le forme di lavoro precario senza contratto siano andate crescendo in modo significativo in entrambi i paesi, i sindacati hanno completamente ignorato questa parte di lavoratori più vulnerabili. Gli aumenti salariali firmati da UGTT, UTICA e governo ad interim alla fine di luglio, per esempio, hanno riguardato solo i lavoratori con contratti indeterminati.169 Sembra, comunque, esserci all’interno dell’UGTT una certa consapevolezza sulla necessità di rivolgersi ai lavoratori del settore privato e dell’economia informale in senso più ampio (interviste dell’autore con esponenti UGTT, Tunisi, settembre 2011). L’efficacia e la rilevanza dei sindacati e delle federazioni di sindacati, vecchi e nuovi, in entrambi i paesi dipenderanno quindi dalla misura in cui coinvolgeranno i lavoratori del settore privato e le categorie più vulnerabili del mercato del lavoro come i lavoratori nell’economia informale. Infine, altra questione cruciale è la rappresentanza delle donne. Non soltanto l’adesione delle donne ai sindacati nel mondo arabo, ed in particolare in Tunisia ed Egitto, è rimasta di gran lunga più bassa rispetto a quelle degli uomini, ma soprattutto le donne sono state sottorappresentate ai livelli dirigenziali e nei comitati esecutivi. Il periodo post rivoluzionario sembra offrire un’opportunità per riequilibrare queste disparità di genere. I nuovi sindacati e l’UGTT in Tunisia dichiarano di voler 164 Tunis News, 13/11/2011 (http://www.tunisnews.net/13Novembre11f.htm). In particolare, non si presenteranno: Abdesslem Jrad, Ali Romdhane, Mohamed Chandoul, Ridha Bouzriba, Abid El Brigui e Mohamed Shimi. 166 Webmanager Center, 4/06/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-106700-tunisie-ugtt-jrad-s-interesse-ala-politique-mais-ignore-le-travail). 167 Webmanager Center 6/05/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-105500-tunisie-pluralisme-syndicalavec-la-creation-de-la-cgtt-et-de-l-utt-l-ugtt-risque-gros). 168 Webmanager Center 14/03/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-103183-tunisie-syndicats-l-ugtt-avoulu-jouer-le-jeu-de-la-terre-br%FBlee-affirme-habib-guiza). Si stima che solamente il 10% dei salariati nel settore privato aderisca al’UGTT. 169 Webmanager Center 30/07/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-108614-tunisie-ca-y-est-l-accord-surles-majorations-salariales-a-ete-signe). 165 49 puntare su una maggiore rappresentatività delle donne. Sul piano delle misure concrete, l’UGTT sta discutendo seriamente l’ipotesi di introdurre delle quote rosa per favorire una maggiore presenza di donne nel prossimo congresso e nel comitato esecutivo (interviste dell’autore con esponenti UGTT, Tunisia, settembre 2011). In Egitto, alla fine di ottobre, è nato il primo sindacato di donne occupate nell’agricoltura, mentre nei nuovi sindacati indipendenti sembra esserci maggiore sensibilità alle questioni di genere e attenzione al coinvolgimento delle donne.170 Infine, un quadro normativo nazionale in linea con le convenzioni internazionali sulla protezione dei diritti dei lavoratori, che riconosca, tra gli altri, il diritto per i lavoratori di costituire organizzazioni e la libertà per i sindacati di condurre le proprie attività senza interferenze o intimidazioni, è una precondizione indispensabile sia per un dialogo sociale efficace e trasparente sia per permettere alle organizzazioni dei lavoratori di svolgere un ruolo propositivo nei processi di trasformazione economica e politica. Tuttavia, nella fase post-rivoluzione, il contesto politico ed il quadro normativo in cui operano i sindacati ed in linea generale le organizzazioni della società civile continuano ad essere sfavorevoli alla libertà di espressione e di associazione, soprattutto in Egitto. La situazione appare particolarmente preoccupante in Egitto. Oltre a quanto già detto sopra, immediatamente dopo la destituzione di Mubarak, il Consiglio Militare ha vietato gli scioperi ed il 24 marzo ha approvato un progetto di legge che punisce chiunque organizzi, inciti o partecipi a proteste che danneggiano l’economia, con pene che vanno dal carcere al pagamento di un’ammenda (Clément et al., 2011). Benché la legge sia stata applicata per la prima volta solo alla fine di giugno,171 rimane comunque in vigore, ponendo seri impedimenti al diritto di sciopero. Infine, finchè la nuova legge sulle libertà sindacali depositata dal governo di transizione non verrà approvata dal Consiglio dei Militari, la vecchia legge restrittiva delle libertà sindacali (legge n. 35 del 1976) rimane attiva. La Tunisia presenta un quadro normativo relativamente più favorevole rispetto all’Egitto poiché il diritto di costituire sindacati indipendenti dall’interferenza del governo è riconosciuto nella Costituzione (art. 8) e nel Codice del Lavoro così come nelle convenzioni internazionali della OIL ratificate dalla Tunisia. Comunque, per quanto riguarda il diritto di sciopero, benché sia garantito dalla Costituzione, esso è soggetto ad alcune restrizioni. Gli scioperi devono ricevere l’approvazione dell’UGTT (art. 376 del Codice del Lavoro) ed essere annunciati con dieci giorni di anticipo. In caso di scioperi non autorizzati, si rischia persino il carcere da tre a otto mesi (Human Rights Watch, 2010). L’Assemblea Costituente eletta a ottobre avrà il compito tra le altre cose, di adottare una costituzione che garantisca i diritti fondamentali dei lavoratori e meccanismi adeguati per proteggerli. Infine, una sfida centrale in questa prima fase di transizione politica è posta certamente dal persistere della contestazione sociale che potrebbe continuare, intensificandosi e portando al caos. Le richieste dei lavoratori rischiano infatti di rimanere inattese sia per le resistenze del settore privato, che soprattutto in questa fase di crisi economica non sembra disposto a fare concessioni salariali e contrattuali, sia per i problemi finanziari dei governi. In Egitto, per esempio, i dipendenti pubblici hanno denunciato ritardi nei pagamenti dei salari e dei bonus, e gli aumenti del salario minimo non sono ancora entrati in vigore. Inoltre, le rivalità e le divergenze esistenti tra i diversi sindacati potrebbero frammentare e indebolire il movimento dei lavoratori, impedendo un’azione comune in nome di interessi particolaristici e indebolendone il potere di contrattazione, con il rischio che tutto ciò alimenti la contestazione sociale. L’emergere di sindacati credibili agli occhi dei lavoratori, forti e indipendenti è dunque un fattore importante per attenuare le tensioni sociali e incanalarle nel quadro del dialogo sociale. Tornando al caso dell’Algeria, le opportunità per i sindacati indipendenti di influenzare le politiche economiche e sociali del paese continuano a rimanere limitate. Anche dopo le proteste di gennaio e 170 Ahram Online 25/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/25107/Egypt/Politics-/Egypt-Women-peasants-formhistoric-union.aspx). Solidarity Center (www.solidaritycenter.org-content.asp?contentid=1161). 171 In occasione di alcuni sit-ins organizzati da duecento lavoratori precari della Petrojet, che dipende dal ministero del petrolio. In tale occasione, sono stati arrestati 5 lavoratori, poi condannati da una corte militare ad un anno di prigione (Beinin, 2011). 50 con l’intensificarsi della contestazione sociale, l’atteggiamento del governo nei confronti dei sindacati autonomi è rimasto immutato e, per certi aspetti, sembra essere peggiorato. Alle due negoziazioni tripartite che si sono tenute a partire da gennaio (l’ultima alla fine di settembre), l’UGTA ha continuato ad essere l’unico rappresentante per i lavoratori.172 Nella misura in cui il dialogo sociale è condotto escludendo i sindacati indipendenti dei lavoratori, non c’è alcuna possibilità né di costruire un consenso nazionale sugli accordi raggiunti né promuovere un reale cambiamento delle riforme economiche e sociali in direzione di uno sviluppo più inclusivo. L’accordo tripartito di ottobre si è concluso senza alcun concreto miglioramento del potere d’acquisto degli algerini e ha prodotto risultati al di sotto persino delle aspettative dell’UGTA. Per esempio, tra le tante richieste portate al tavolo delle trattative ma disattese, l’UGTA aveva proposto un innalzamento del salario minimo da 15000 a 20000 dinar algerini, ritenuto già insoddisfacente dai sindacati autonomi, ma è riuscita ad ottenere solo un aumento a 18 000 dinar algerini.173 Ancora, nonostante l’abolizione dello stato di emergenza decretato il 24 febbraio 2011 e i tentativi di riforma politica presi dopo le proteste di gennaio, gli atti di repressione e di intimidazione contro gli esponenti dei sindacati indipendenti, tra cui lo SNAPAP, si sono intensificati negli ultimi mesi.174 Infine, anche se il quadro normativo concernente i diritti dei lavoratori appare relativamente più favorevole in Algeria rispetto ad altri paesi arabi, non soltanto permangono alcune importanti restrizioni come quelle sul diritto di sciopero, ma c’è un serio problema di non applicazione della legge da parte del governo e del settore privato. Per quanto riguarda il diritto di sciopero, per esempio, benché riconosciuto nella costituzione, le autorità e i datori di lavoro hanno il potere di proibirlo o sospenderlo nel caso in cui possa provocare una seria crisi economica al paese (ITUC, 2011). I diritti dei lavoratori, tra cui quello di costituire un sindacato, sono stati completamente ignorati nel settore privato, soprattutto nelle multinazionali nel settore degli idrocarburi nel sud del paese (Ibid). In questo contesto fortemente restrittivo e vincolante, che limita significativamente l’efficacia dei sindacati del lavoratori, è possibile tuttavia cogliere alcuni segnali di cambiamento all’interno della società civile algerina. Un elemento di debolezza dei sindacati indipendenti è stato finora quello di aver concentrato la propria azione su rivendicazioni spesso particolaristiche legate al settore di appartenenza o esclusicamente socio-economiche.175 Sempre più frequentemente, comunque, i sindacati stanno affiancando a rivendicazioni economiche richieste di natura politica, come ad esempio la dissoluzione del parlamento e la creazione di un’assemblea costituente.176 Un’altra delle debolezze dei sindacati autonomi è stato il fatto di essere rimasti circoscritti all’amministrazione pubblica, mentre l’UGTA, pur essendo organizzata sulla base dei settori economici, è stata reticente a sostenere ogni rivendicazione nel settore privato, come mostrano i recenti episodi agli hotels Sheraton e Aurassi (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). In coincidenza con il crescente malcontento nel settore privato, sono emersi diversi tentativi di creare sindacati autonomi in tale settore. Inoltre, sebbene la frammentazione della società civile in molteplici gruppi, comitati, organizzazioni e sindacati continui ad essere uno dei principali fattori di debolezza della contestazione sociale in corso nel paese, sembrano esserci segnali di convergenza e di crescente 172 El Watan, 26/09/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/syndicats_exclus.htm). Tra le altre richieste disattese dell’UGTA: l’abolizione dell’imposta sulle entrate globali (impôt sur le revenu global), la rivalorizzazione delle pensioni e l’annullamento dell’articolo 87 bis. Le Quotidien d'Oran, 1/10/2011 2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/eco/soc/snmg_augmente.htm); El Watan 29/09/2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/administration/gouvernement_face_malaise.htm); El Watan 1/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/341738) 174 Furti alla sede dello SNAPAP (8 maggio), minaccie di morte al suo presidente M. Rachid Malaoui, arresti di alcuni membri, chiusura della sede dello SNAPAP (12 maggio). Vedi anche “Algeria: Halte à la campagne de harcèlement contre les militants syndicaux!” (http://www.algeria-watch.org/fr/mrv/mrvrepr/harcelement_militants_syndicaux.htm); El Watan 6/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342378); Interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011. 175 La Nation, 4/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/faiblesse_syndicats_autonomes.htm). 176 Algerie Focus, 3/06/2011 (http://www.algerie-focus.com/2011/06/13/algerie-des-syndicats-autonomes-du-secteur-de-leducationdemandent-la-dissolution-du-parlement-et-le-fin-du-monopole-syndical-de-lugta/). 173 51 coordinamento tra le diverse forze sociali. Per esempio, i differenti sindacati autonomi nel settore dell’istruzione hanno rafforzato i contatti tra loro sulla base del perseguimento di obiettivi comuni (libertà sindacale, aumenti salariali, riforma dello statuto dell’educazione pubblica e stabilizzazione dei precari) e, a ottobre, hanno indetto insieme uno sciopero generale.177 Il sindacato autonomo dell’amministrazione pubblica, lo SNAPAP, sta offrendo sostegno e assistenza ai sindacati nel settore privato, ai giovani precari o disoccupati che si stanno organizzando in comitati di protesta e ai lavoratori in sciopero alle multinazionali petrolifere nel sud del paese (Interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Allo stesso tempo, attraverso il suo centro la Maison des Syndicats, lo SNAPAP offre un punto di scambio e di incontro tra le diverse forze della società civile, giovani, lavoratori e militanti dei diritti umani. Infine, in seno all’UGTA, dalla base, cominciano ad emergere, con sempre più frequenza, voci discordanti con la direzione, come mostrano gli scioperi organizzati dalle sezioni locali dell’UGTA a Arcellor Mittal nel porto di Algeri, alla Société nationale des véhicules industriels a Rouiba e presso il gruppo Lafarge.178 A ottobre, i lavoratori di Rouiba aderenti all’UGTA hanno contestato, con sit-ins e proteste, i risultati mediocri ottenuti con la tripartita.179 La sfida cruciale che si pone a questi molteplici movimenti di constestazione sociale che provengono da vari settori della società algerina – giovani, lavoratori del settore privato e pubblico, base dell’UGTA – è convergere in un grande movimento organizzato, coeso e credibile. 3.4.3 Organizzazioni rappresentative degli imprenditori Il periodo post-rivoluzionario in Egitto e in Tunisia potrebbe offrire grandi opportunità di crescita per il settore privato, contribuendo a promuovere uno sviluppo sociale ed economico che sia inclusivo e generatore di occupazione. In questa prospettiva, l’emergere di strutture realmente rappresentative delle diverse categorie di imprenditori e, diversamente dal passato, autonome dal potere politico, rappresenta un fattore chiave: per lo sviluppo di un settore privato, vitale e innovativo in grado di generare opportunità di lavoro soprattutto per i giovani; per un reale rinnovamento dell’elite economica; e per un dialogo sociale efficace, credibile e condiviso. Dal punto di vista delle esigenze specifiche delle piccole e medie imprese o dei giovani imprenditori, il nuovo contesto post rivoluzionario potrebbe aprire la via alla formazione di organizzazioni più sensibili agli interessi di queste categorie. Finora, comunque, il processo di riconfigurazione delle organizzazioni rappresentative degli imprenditori in Tunisia ed in Egitto ha proceduto lentamente, anche se è prevedibile che nuovi sviluppi emergano con più chiarezza nel periodo post elettorale. Nel contesto post-rivoluzionario, il panorama delle organizzazioni rappresentative degli imprenditori appare ancora nebuloso e ambivalente, seppur con differenze importanti tra il caso tunisino e quello egiziano. In Egitto, il panorama delle associazioni imprenditoriali o datoriali ha continuato ad essere dominato dalle stesse organizzazioni operanti all’epoca di Mubarak. In seno a queste organizzazioni, non sembra esserci stato, almeno per ora, un ricambio dei quadri dirigenti. La Federation of Egyptian Industries (FEI), controllata dal precedente regime, è ancora diretta dallo stesso presidente Galal Zorba. La Federazione, insieme alle altre note organizzazioni imprenditoriali, ha continuato a partecipare agli incontri e alle consultazioni con il governo di transizione ed il Consiglio Militare. L’unica nuova organizzazione rappresentativa degli imprenditori emersa dopo il 25 gennaio è il Sindacato degli Importatori di Materiale Medico (Syndicate for Importers of Medical Devices) costituitasi a metà agosto.180 Comunque, anche se il periodo post rivoluzionario non sembra abbia favorito l’emergere di nuove organizzazioni imprenditoriali, il mutato contesto politico potrebbe dare nuovo slancio ad alcune associazioni rimaste finora ai margini dei processi decisionali perché meno compromesse con il potere politico. E’ il caso, per esempio, della Federation of Economic Development Associations 177 Intervista dell’autore ad un esponente di un sindacato autonomo nel settore, Algeri, ottobre 2011; El Watan 28/09/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/education_greve_prevue.htm). 178 La Nation 4/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/faiblesse_syndicats_autonomes.htm). 179 Le Soir d'Algérie, 5/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/travailleurs_rouiba.htm); el Watan 1/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/341740); el Watan 5/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342251) 180 al Masry al Youm 14/08/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/486255). 52 (FEDA)181 creata nel 2001, che raccoglie numerose associazioni che rappresentano circa 30000 piccole e medie imprese. La Federazione aveva osato criticare apertamente le elezioni fraudolenti di novembre 2010 e, durante le proteste di gennaio, ha lanciato un appello in cui denunciava le pratiche autoritarie di Mubarak.182 Nella fase di transizione, la Federazione ha sottoposto all’attenzione del Consiglio Militare una bozza di legge, in cantiere dal 2008, per aiutare i venditori ambulanti (circa 5 milioni) ad entrare nell’economia formale. In Tunisia, il quadro delle organizzazioni rappresentative degli imprenditori appare relativamente più dinamico, anche se l’UTICA ha continuato ad essere il principale portavoce degli imprenditori, come indica la presenza di due suoi rappresentanti nell’Alta Istanza e la sua partecipazione alle negoziazioni salariali con l’UGTT. In un primo tempo, il comitato esecutivo dell’UTICA si è limitato a sostituire il suo presidente Hédi Djilani con Hamadi Ben Sedrine (il 9 marzo), ma queste misure sono state considerate insufficienti da una parte degli imprenditori aderenti all’organizzazione. Alla fine di aprile, il nuovo presidente è stato costretto a dimettersi poichè accusato di essere un uomo vicino al passato regime e di non aver fatto niente per affrontare i problemi degli imprenditori. La pressione al cambiamento è arrivata da due correnti riformiste emerse in seno all’UTICA: il gruppo Sauvons l'Utica, costituitosi a metà gennaio e coordinato da Faouzi Belhadj, e il Mouvement pour le Renouveau de l’Utica, formatosi in un secondo tempo e capeggiato da Charfi, Sellami e Fourati. Al fine di garantire l’indipendenza dell’UTICA e rompere con le pratiche del passato, il primo gruppo ha proposto una ristrutturazione radicale: la nomina di un nuovo comitato esecutivo; il rinnovamento delle strutture a livello nazionale, regionale e locale; la revisione dello statuto e l’organizzazione di nuove elezioni libere e trasparenti. 183 Il secondo gruppo, più moderato, che ha chiesto un cambiamento più dolce, è riuscito a prevalere, promuovendo una soluzione di compromesso tra la vecchia guardia e le correnti riformiste. Contrariamente alla richiesta di formare un comitato esecutivo ex novo, il 2 maggio, l’UTICA ha optato per una soluzione intermedia, tra continuità con il passato e cambiamento, creando un comitato di transizione che include sia membri del vecchio comitato esecutivo (5 membri) sia gli imprenditori riformisti (cinque del gruppo Sauvons l’Utica e cinque del gruppo Mouvement pour le Renouveau), oltre a cinque rappresentanti delle federazioni.184 Accanto al comitato temporaneo, incaricato di gestire le questioni operative durante la fase di transizione, riscrivere lo statuto e il regolamento interno e preparare il prossimo congresso, ha continuato ad operare il vecchio comitato esecutivo che dovrà occuparsi delle questioni amministrative e finanziarie fino al nuovo congresso.185 Infine, a capo del comitato di transizione è stata nominata Wided Bouchemmaoui, membro del vecchio comitato esecutivo eletto nel 2006 sotto il controllo ed il benestare di Ben Ali, benché meno compromessa di altri con il precedente regime (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Oltre ad aver condotto un’operazione di ristrutturazione interna, seppur contenuta, in vista del prossimo congresso, l’UTICA sta procedendo a rinnovare le sue strutture a livello di unioni regionali, camere sindacali settoriali e federazioni.186 L’organizzazione ha inoltre dichiarato di voler garantire una maggiore rappresentatività degli imprenditori in tutte le regioni e settori economici, e si è impegnata a rinnovare le sue strutture dirigenziali in tutta trasparenza. 187 Al di là di queste dichiarazioni e timide riconfigurazioni interne, è presto per capire quale sarà il futuro dell’UTICA. 181 Federazione delle Associazioni per lo Sviluppo Economico. FEDA, 4/02/2011 (http://www.cipe.org/regional/mena/pdf/fedaStatement020411.pdf). 183 WebManager Center, 19/04/201 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-104829-tunisie-l-utica-ne-doit-pasetre-un-otage) 184 WebManager Center 29/94/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-105226-tunisie-l-utica-tourne-t-elleenfin-la-page); Tunis Visions (http://www.tunivisions.net/emergence-des-filles-bouchamaoui-au-devant-de-la-scene,12239.html). 185 Interviste aderenti UTICA, Tunisi, settembre 2011; WebManager Center 29/94/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-105226-tunisie-l-utica-tourne-t-elle-enfin-la-page); 186 Leaders, 19/09/2011 (http://www.leaders.com.tn/article/utica-le-premier-congres-regional-demarre-ce-samedi-a-sousse). 187 WebManager Center 04/07/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-107642-tunisie-la-creation-d-unecentrale-concurrente-pousse-l-utica-a-chercher-des-nouveaux-adherents); “Tunisie: L'intérêt national doit primer… dans les négociations sociales, estime l’UTICA”, 25/06/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-107314-tunisie-linteret-national-doit-primer%85-dans-les-negociations-sociales-estime-l-utica); Interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011. 182 53 Benché, nel periodo post rivoluzionario, l’UTICA si sia fatta portavoce di alcune rivendicazioni a nome degli imprenditori,188 non ha per ora ancora definito una strategia nuova di lungo termine, in quanto completamente concentrata sui problemi interni. Il congresso e le elezioni del nuovo comitato esecutivo, che si terranno nei prossimi mesi, saranno certamente una tappa importante per capire in che direzione andrà l’UTICA. Oltre ad una ristrutturazione interna, l’UTICA ha assistito anche a diverse defezioni. 189 Non è da escludere che, in occasione del congresso e delle elezioni, in seno all’organizzazione, si acutizzino le divisioni dando luogo a nuove scissioni. E’ proprio dalla decisione di un gruppo di ventisei imprenditori, tra cui alcune donne, di abbandonare l’UTICA che nasce il progetto di una nuova confederazione di imprese, la Confédération des Entreprises Citoyennes de Tunisie (CONECT). I fondatori della nuova confederazione, lanciata il 14 settembre e guidata da Tarek Chérif, ex membro dell’esecutivo dell’UTICA, hanno denunciato l’eccessiva politicizzazione di tale organizzazione, che l’ha portata a trascurare gli interessi degli imprenditori, e hanno deciso di creare CONECT nella consapevolezza che riformare l’UTICA dall’interno fosse impossibile (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Nel suo piano d’azione di lungo termine, la nuova Confederazione sembra in aperta rottura con le pratiche del passato dell’UTICA. Dichiara di ispirarsi al valori della cittadinanza (pagamento delle imposte, buona governance, rispetto delle norme ambientali e miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori), di rivolgersi ai giovani e alle donne, e ha nominato come vice-presidente una giovane donna imprenditrice, Douja Garbi. 190 Comunque, pur dichiarandosi in rottura con l’UTICA, esponenti di CONECT hanno affermato di non essere affatto in concorrenza con tale organizzazione, auspicando una possibile cooperazione sul fronte delle future negoziazioni sociali (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Infine, diversamente dall’UTICA, la nuova organizzazione ha definito in modo più preciso il profilo degli imprenditori a cui si rivolge, escludendo esplicitamente le micro-imprese e indirizzandosi alle imprese che hanno un minimo di almeno tre dipendenti e che appartengono al regime fiscale reale (e non forfettario).191 Occorrerà comunque del tempo per capire se ed in che misura CONECT metterà in pratica la sua agenda ispirata ai valori della cittadinanza e quali saranno i rapporti con l’UTICA. Infine, mentre al momento, non è chiaro se ed in che misura l’UTICA e la CONECT saranno in grado di diventare strutture participative e rappresentative degli interessi dei giovani imprenditori, è possibile che il Centre des Jeunes Dirigeants (CJD),192 che si rappresenta come una forza di proposizione e di riflessione finalizzata a promuovere l’impresa giovanile, e che, in passato, ha osato criticare alcune politiche del regime di Ben Ali (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011), giochi un ruolo più incisivo nell’avanzare le esigenze dei giovani imprenditori, donne e uomini.193 A differenza delle altre organizzazioni imprenditoriali e, pur essendo parte dell’UTICA, il CJD non ha avuto bisogno di cambiare il suo presidente, apprezzato per la sua trasparenza, nè il 188 Tra cui: la fine degli scioperi e dei sit-in dei lavoratori, ripristino della sicurezza, lotta al mercato parallelo, che danneggia l’industria locale, e l’indennizzazione delle imprese colpite dalla crisi post rivoluzione (Intervista dell’autore a esponenti UTICA, Tunisi, settembre 2011); Webmanager Center 24/08/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-109485-tunisie31-ao%FBt-2011-dernier-delai-de-depot-des-demandes-d-indemnisation-des-entreprises-sinistrees); 28/05/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-106439-tunisie-amnistie-sur-les-cheques-sans-provisoires-inacceptablepour-l-utica); Leaders, 29/05/2011 (http://www.leaders.com.tn/article/commerce-parallele-l-utica-veut-eradiquer-le-phenomene). 189 A livello regionale, alcune associazioni prima sotto il controllo dell’UTICA hanno optato per affermare la loro completa indipendenza, come ad esempio, la Foire Internazionale di Sfax, che a luglio ha rivendicato il completo controllo del suo immenso patrimonio immobiliare e la nomina del prossimo comitato esecutivo (Webmanager Center 6/07/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-107758-tunisie-la-foire-internationale-de-sfax-prend-ses-distances-vis-avis-de-l-utica-regionale). 190 Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011; Tunisie News 14/09/2011 (http://www.tunisienews.com/business/dossier_53_conect+nouvelle+organisation+patronale.html); Webmanager Center 14/09/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-110318-tunisie-conect-demarre-sur-les-chapeaux-de-roues). 191 Differentemente dall’UTICA dunque non include i lavoratori autonomi, i piccoli mestieri e quelli che seguono un regime forfettario (intervista dell’autore a esponente CONECT, Tunisi, settembre 2011). 192 Centro dei Giovani Dirigenti. 193 Il CJD ha già un certo numero di donne presenti nel comitato esecutivo, una donna presidente di una federazione e donne presenti in tutte le sedi regionali. 54 comitato esecutivo. La strategia del CJD diventerà certamente più esplicita con l’elezione del nuovo esecutivo e con il congresso, che si terranno nei prossimi mesi, occasioni in cui si prospettano cambiamenti importanti (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Quanto detto finora offre un quadro ancora provvisorio e preliminare sulle dinamiche riguardanti le organizzazioni rappresentative degli imprenditori. Il quadro si andrà certamente chiarendo soprattutto dopo che gli assetti dei nuovi governi saranno più definiti e verranno elaborate le politiche economiche da mettere in atto per affrontare le importanti sfide socio-economiche dei due paesi. Una questione importante è come evolveranno i rapporti tra organizzazioni imprenditoriali e potere politico, che certamente si riconfigureranno con più chiarezza nella fase post-elettorale. La composizione dei nuovi governi influenzerà sia le strategie economiche, in particolare quelle verso il settore privato, sia potrebbe favorire l’emergere di nuovi e molteplici gruppi di interesse. L’arrivo al governo di forze politiche nuove senza alcun legame con il vecchio sistema di potere, come è avvenuto in Tunisia, potrebbe, per esempio, portare all’emergere di nuovi gruppi di imprenditori non collusi con il precedente regime. In Egitto, se i militari continuassero a giocare un ruolo politico ed economico importante nella seconda fase di transizione post-elettorale, è possibile che emergano resistenze da parte di alcuni gruppi di imprenditori intenzionati a promuovere reali riforme economiche e che potrebbero rimettere in discussione i privilegi dei militari. Un ricambio della classe imprenditoriale dipenderà anche dalle decisioni prese dai nuovi governi in merito alle politiche economiche. Se queste politiche saranno orientate verso un processo di diversificazione e di innovazione delle economie, è possibile che si aprano nuove opportunità per il settore privato e quindi che emergano nuovi gruppi di imprenditori. Anche la ricostruzione libica potrebbe offrire nuove opportunità di sviluppo per il settore privato sia in Tunisia che in Egitto, anche se non si può escludere che i soliti imprenditori continuino a beneficiarne. Tutti questi fattori, generando nuovi gruppi di interesse, potrebbero portare, nel lungo termine, alla nascita di nuove organizzazioni che li rappresentano. Un’altra questione importante è se ed in che misura le organizzazioni imprenditoriali riusciranno a diventare strutture realmente rappresentative dei diversi gruppi di interesse presenti nei due paesi. Uno dei principali problemi all’epoca di Mubarak e Ben Ali è stata infatti la mancanza di rappresentatività delle organizzazioni imprenditoriali esistenti, che tendevano a trascurare gli interessi delle piccole e medie imprese, delle micro-imprese nell’economia informale, dei giovani imprenditori e delle donne. Al momento è certo che tutta quella parte di piccoli e medi imprenditori operanti nell’economia informale, molti dei quali giovani e donne, meno connessa ai passati regimi ha continuato, anche in questa fase post-rivoluzionaria, a non essere rappresentata nelle organizzazioni imprenditoriali esistenti. Tutto ciò riflette il fatto che queste piccole e medie imprese sono ancora deboli economicamente e finanziariamente, e dunque incapaci di organizzarsi efficacemente. Per quanto riguarda il ruolo delle donne imprenditrici, è indubbio che, almeno in Tunisia, il periodo post rivoluzionario abbia avuto effetti positivi, portando alcune di loro nei posti dirigenziali. E’ presto, comunque, per dire se tali risultati siano transitori, e se si tradurranno in un’effettiva e maggiore rappresentatività degli interessi delle donne imprenditrici. Concludendo con l’Algeria, le proteste di gennaio e la primavera araba in generale hanno avuto un impatto importante sulle dinamiche concernenti le organizzazioni imprenditoriali. Per la prima volta, infatti, a maggio, il Forum des Chefs d’Enteprise (FCE), l’unica organizzazione relativamente più critica delle politiche del governo, è stato chiamato a presiedere le prime negoziazioni tripartite dopo le proteste di gennaio. L’avvicinamento tra governo e FCE potrebbe riflettere un cambiamento nell’approccio del primo alle politiche economiche. Sotto la pressione delle proteste di gennaio e alla luce delle rivoluzioni egiziane e tunisine, il governo sembra voler ridare nuovo impeto al settore privato e alle riforme di liberalizzazione economica nella speranza di rilanciare l’economia e rispondere alla pressione sul mercato del lavoro (intervista dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Allo stesso tempo, si potrebbe interpretare questo avvicinamento come un tentativo da parte del governo di cooptare un’organizzazione che era diventata troppo critica delle politiche pubbliche. Quel che è certo è che il FCE è tra coloro che hanno maggiormente beneficiato 55 nelle ultime negoziazioni tripartite concluse a ottobre, ottenendo risposta a tutte le richieste fatte (Intervista dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Tali rivendicazioni sono state tradotte in molteplici misure micro-economiche volte a sostenere le imprese e agevolarne la creazione, migliorare il clima d’investimento, e promuovere il settore privato impegnato nell’esportazione di beni al di fuori degli idrocarburi.194 Se è vero che queste misure possono essere viste come il segnale di un maggior peso delle organizzazioni imprenditoriali sulle decisioni economiche del governo, tuttavia, l’assenza di sindacati indipendenti dei lavoratori al dialogo sociale ha fatto sì che la FCE, sostenuta dalle altre organizzazioni di imprenditori, riuscisse ad imporsi contro le richieste fatte dall’UGTA (relative all’innalzamento del salario minimo e all’abrogazione dell’articolo 87 bis) e l’estensione dei diritti sindacali al settore privato.195 3.4.4 Attivismo giovanile All’indomani delle rivoluzioni in Egitto e Tunisia, l’attivismo giovanile si è intensificato, esprimendosi attraverso una molteplicità di forme (gruppi giovanili, blogger, collettivi di informazione, partiti politici ecc). In Egitto, durante i giorni delle proteste contro Mubarak, diversi gruppi di giovani, tra i quali il Movimento 6 Aprile e i giovani della Fratellanza Musulmana, si sono uniti nella coalizione dei giovani della rivoluzione, la Revolution’s Youth Coalition (RYC), per dialogare con le altre forze politiche e chiedere le dimissioni di Mubarak. Nella fase post rivoluzionaria, i gruppi e le coalizioni di giovani in Egitto si sono moltiplicati, svolgendo un ruolo cruciale nelle prime fasi della transizione.196 Attraverso la continuazione delle proteste, hanno fatto pressioni sulle autorità ad interim affinché avanzassero sulla strada delle riforme politiche (vedi Paciello, 2011). Grazie alla pressione di questi gruppi, il Consiglio delle Forze Armate è stato costretto a fare concessioni sempre più ampie, che probabilmente non avrebbe fatto, come l’arresto dei due figli di Mubarak, la decisione di posticipare le elezioni parlamentari da settembre a novembre, la dissoluzione dell’ex partito di regime e, in occasione delle recenti proteste di novembre, lo scioglimento del governo di Essam Sharaf. Anche se alcune richieste centrali dei manifestanti sono rimaste disattese (come il passaggio della direzione del paese dalla giunta militare ad autorità civili, la riforma della costituzione prima delle elezioni parlamentari e la fine della legge d’emergenza), senza l’azione di questi gruppi, la transizione politica in Egitto avrebbe avanzato ancora più lentamente. Le recenti manifestazioni del 18 novembre, degenerate in scontri e represse con violenza dalle forze dell’ordine, mostrano chiaramente che i giovani non sono affatto disposti ad assistere in silenzio all’involuzione autoritaria che si prospetta nel paese e probabilmente rappresentano ad oggi le uniche forze nel paese che aspirano ad un profondo e radicale cambiamento politico del paese. Tra le loro richieste più urgenti, ci sono la fine del governo militare entro Aprile 2012 e la formazione di un governo di unità nazionale, oltre ad una seria riforma del Ministero dell’Interno. Oltre a scendere in piazza, i giovani si sono mossi su molteplici fronti. Gli studenti hanno protestato nelle università per chiedere le dimissioni dei presidi e di altri funzionari eletti dal vecchio regime, molti dei quali sono rimasti al loro posto dopo il rovesciamento di Mubarak. I giovani sono stati tra i principali animatori dei comitati popolari sorti in Egitto per rispondere al vuoto istituzionale seguito alle dimissioni di Mubarak, con il compito di garantire la sicurezza dei quartieri, fornire servizi pubblici non più erogati dalle municipalità e sensibilizzare la popolazione al cambiamento politico in corso.197 I giovani blogger hanno continuato a denunciare le pratiche autoritarie della Giunta Militare, ed alcuni di loro sono stati arrestati e processati davanti ai tribunali militari (Amnesty International, 2011). Oltre a protestare e a denunciare le violazioni delle autorità ad 194 Le Quotidien d'Oran, 1/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/eco/tripartite_gagnant.htm); Liberté, 1/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/eco/mesures_entreprise.htm). 195 Le Quotidien d'Oran, 1/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/eco/soc/snmg_augmente.htm); interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011. 196 Oltre alla RYC, le formazioni più importanti sono state il movimento 6 Aprile e la Union of the Revolution’s Youth (URY). 197 Vedi Alia Mosallam, “Popular Committees continue the revolution”, al Masry Al Youm, 18/06/2011; Interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011. 56 interim, i gruppi giovanili e diversi blogger si sono fatti promotori di iniziative di sensibilizzazione ed informazione. Tra le iniziative più interessanti, c’è quella denominata “Let’s write our constitution”, promossa dal centro Hisham Mubarak Law e dal giovane blogger Alaa Abdel Fatah, con l’obiettivo di coinvolgere la popolazione egiziana nel processo di stesura della costituzione. L’idea è stata quella di elaborare una carta popolare da redarre sulla base di un questionario rivolto alla gente per strada e su internet, da presentare poi al comitato incaricato di riscrivere la costituzione che verrà nominato dal nuovo parlamento.198 Inoltre, per ridurre la presenza dei dirigenti dell’ex partito di regime nel futuro parlamento, diversi gruppi giovanili, tra cui Shadow Government of the Coalition ed il movimento 6 Aprile, si sono mobilitati per redigere una “lista nera” degli ex parlamentari del regime di Mubarak così da aiutare gli elettori a riconoscere gli esponenti legati al vecchio partito e a Mubarak.199 Infine, come già detto, esponenti di vari gruppi giovanili hanno costituito la coalizione Revolution Continues e il partito al Adl per tentare di entrare nel futuro parlamento. In Tunisia, il quadro dell’azione giovanile è ugualmente variegato, anche se diverso rispetto a quello egiziano perché non dominato dalla presenza dei gruppi giovanili rivoluzionari. Alcune iniziative nate dopo la rivoluzione sono state animate dai giovani con l’intento di sensibilizzare ed informare l’opinione pubblica nel mutato contesto politico. Tra le più interessanti, per esempio, c’è quella del Collectif des Jeunes Indépendants Démocrates,200 un gruppo di giovani studenti di diverse discipline che attraverso il suo blog ha offerto un’analisi critica dei fatti politici nei primi mesi dopo la rivoluzione. Successivamente, durante la fase pre-elettorale, il Collettivo ha lanciato l’originale campagna ikhtiar per sensibilizzare la popolazione alla scelta degli innumerevoli partiti politici nati dopo la rivoluzione in modo da ridurre il rischio dell’astensionismo (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Come in Egitto, i giovani liceali e gli studenti universitari si sono mobilitati per far dimettere i presidi nominati da Ben Ali, mentre i giovani laureati disoccupati, molti dei quali organizzati nella già menzionata Union des Diplômés Chômeurs (UDC), hanno continuato le loro proteste ed i loro sit-in senza sosta in tutto il paese. L’UDC ha chiesto una riforma profonda del sistema dell’istruzione e l’introduzione di criteri meritocratici nei concorsi pubblici (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Diversamente dall’Egitto, i giovani in Tunisia sono riusciti ad accedere ad alcuni posti decisionali. Alcune organizzazioni di giovani esistenti già all’epoca di Ben Ali, come lo storico sindacato degli studenti tunisini l’UGETT e l’UDC, sono stati coinvolti nell’Alta Istanza, mentre il famoso blogger Slim Amamou, arrestato nei primi giorni delle proteste contro Ben Ali, è stato nominato segretario di stato alla gioventù e allo sport sotto il governo di transizione. A fine maggio, comunque, per ragioni poco chiare, il blogger si è dimesso. Infine, in previsione delle elezioni, sono nati alcuni partiti politici fondati da giovani, come il Mouvement des Jeunes Tunisiens Libres costituito da disoccupati laureati e il partito Rencontre Jeunes Libres, mentre l’UDC ha presentato cinque liste indipendenti con suoi rappresentanti. Tuttavia, nessuna di queste formazioni è riuscita a conquistare un seggio all’Assemblea Costituente. Uno degli elementi più interessanti del periodo post rivoluzionario è stato dunque il dinamismo giovanile nelle sue molteplici forme, che contrasta in maniera netta con quanto succedeva all’epoca di Mubarak e Ben Ali, quando le innumerevoli associazioni e comitati di giovani erano sotto il totale controllo del regime. Poichè oggi i giovani rappresentano probabilmente gli attori più vibranti e l’espressione più genuina del cambiamento politico, se ed in che misura, nei prossimi mesi, saranno in grado di influenzare i processi decisionali è di vitale importanza per il futuro politico di Egitto e Tunisia. La capacità dei giovani di influenzare il futuro del cambiamento politico ed 198 Heba Fahmy, “Rights group initiative aims to include people in writing the constitution”, Daily News, 15/06/2011 (http://www.thedailynewsegypt.com/human-a-civil-rights/rights-group-initiative-aims-to-include-people-in-writing-theconstitution.html). 199 Il 6 aprile ha lanciato la campagna "The White Circle and the Black Circle" (http://www.almasryalyoum.com/en/node/496825). Ahram Online 9/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/~/NewsContent/1/64/23618/Egypt/Politics-/Revolution-Youth-blacklistexposes-exregime-remnan.aspx). 200 Collettivo dei Giovani Indipendenti Democratici. 57 economico nei due paesi in parte dipenderà dalla misura in cui riusciranno ad organizzarsi in un movimento ben strutturato, con una chiara leadership, un largo consenso e una strategia coerente di lungo termine e di ampio respiro, che includa questioni politiche ed economiche. In queste prime fasi, il movimento giovanile sia in Egitto che in Tunisia è infatti rimasto frammentato in molteplici espressioni (gruppi giovanili, blogger, associazioni non governative, comitati di disoccupati, partiti politici ecc), per lo più non coordinate tra loro, divise da questioni ideologiche, strategiche e di appartenenza sociale. Il caso dei gruppi giovanili in Egitto illustra chiaramente i rischi legati ad un’eccessiva frammentazione del movimento giovanile nella prospettiva di avere un impatto sui processi decisionali. Secondo un recente studio condotto sull’Egitto da Dina Shehata, le principali caratteristiche dei gruppi giovanili su descritti sono: la struttura flessibile, fluida, fortemente decentralizzata; l’eterogeneità ideologica dei loro aderenti; e la dipendenza dalle nuove tecnologie per comunicare, organizzarsi e mobilitare le persone. 201 Queste caratteristiche sono state certamente i punti di maggiore forza nella fasi delle proteste di gennaio/febbraio 2011 e nei momenti delle ampie proteste post Mubarak poichè hanno permesso di coinvolgere un gran numero di giovani senza alcuna affiliazione politica e molto diversi ideologicamente, ma accomunati prima dalla rabbia contro il regime di Mubarak e poi dalla volontà di accelerare la rottura con il vecchio sistema di potere. Tuttavia, questi fattori di forza del movimento dei giovani possono nel lungo termine tramutarsi in fattori di debolezza. Le defezioni che, all’indomani della fuga di Mubarak, hanno colpito la RYC, soprattutto da parte del movimento 6 Aprile, a causa di divergenze sulle strategie, hanno indebolito fortemente l’azione dei giovani, il loro potere di contrattazione e la loro efficacia nel trattare con il Consiglio dei Militari, così come la loro credibilità (Paciello, 2011; interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011). I gruppi giovanili sono infatti entrati in disaccordo sulla strategia da adottare nei confronti dei militari: alcuni hanno optato per il dialogo, mentre altri hanno adottato un atteggiamento più critico e di rottura, come il movimento 6 Aprile (interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011). Sono apparsi divisi anche sulla questione del referendum costituzionale di marzo, sul riformare o meno la costituzione prima delle elezioni parlamentari, e sulla strategia da adottare in previsione delle elezioni parlamentari (quale partito sostenere, se presentare candidati indipendenti ecc).202 Dal canto loro, diversi blogger egiziani, come Isma al Fattah hanno considerato questi gruppi giovanili inefficaci e per niente rappresentativi dei giovani (Ibid). L’altra questione cruciale riguarda l’importanza di elaborare una chiara e coerente strategia di lungo termine, che includa rivendicazioni politiche ed economiche, necessaria per condurre una lobby efficace sui futuri governi. In Egitto, per esempio, i gruppi giovanili hanno per lo più concentrato la loro attenzione su rivendicazioni di natura politica a discapito delle questioni socio-economiche, benché negli ultimi mesi, alcuni di loro, come il movimento 6 Aprile, abbiano cominciato a fare proprie alcune richieste come l’indennizzo delle famiglie dei martiri e l’aumento del salario minimo.203 In Tunisia, l’UGET e l’UDC sembrano invece attivi su questioni specifiche che riguardano le categorie che rappresentano (studenti, disoccupati istruiti, ecc), a discapito di una visione più ampia delle questioni economiche e politiche. Infine, anche in Algeria, la primavera araba sembra aver dato un inaspettato impulso all’attivismo giovanile, come indica la nascita di nuovi gruppi e comitati di giovani (studenti, disoccupati e precari) e l’intensificazione delle loro azioni di protesta non violenta.204 La maggior parte di questi 201 Review: A Map of the New Youth Movements in Egypt, 6 Luglio, http://english.ahram.org.eg/NewsContent/18/62/15667/Books/Review/Review-A-Map-of-the-New-Youth-Movements-in-Egypt.aspx 202 Mohamed Abdel Baky, “Back to square one?”, al-Ahram Weekly, 31 March-6 April 2011, No. 1041 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1041/eg11.htm). Interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011. 203 Beinin (2011), “What have workers gained from Egypt’s revolution?” The Middle East Channel. Per le proteste studentesche, vedi “Thousands of Students March in Algiers”, Magharebia, 13/04/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/04/13/feature-02); “University System Causes Controversy in Algeria”, Magharebia 20/02/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/02/20/feature-01); “Sofiane Baroudi: Youth’s Dreams will Build Better Algeria”, Magharebia 11/04/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/04/12/feature-04) 204 58 gruppi si è concentrata su rivendicazioni sociali. Per esempio, il Comitato Nazionale dei Precari (Comité National des Travailleurs du Pré-emplois et Filet Social), nato a marzo, e fondato da una ragazza, Malika Fallil, ha chiesto la stabilizzazione dei precari nell’amministrazione pubblica. Il Comitato Nazionale per i Diritti dei Disoccupati (Comité National pour la Défense des Droits des Chômeurs) ha rivendicato un lavoro decente per tutti i disoccupati, l’aumento dell’indennità di disoccupazione, la possibilità di partecipare all’elaborazione delle politiche per l’impiego.205 Benché queste iniziative da parte dei giovani siano ancora ad uno stato embrionale, poco strutturate, concentrate su rivendicazioni specifiche a certe categorie (precari, disoccupati ecc) e senza un’agenda di lungo termine, presentano enormi potenzialità di cambiamento. Innanzitutto, canalizzando le frustrazioni dei giovani disoccupati e precari, questo movimento potrebbe rappresentare un antitodo all’esplosione della violenza tra i giovani.206 Soprattutto, l’efficacia e la forza di questi gruppi giovanili, per ora concentrati sulle loro richieste specifiche, dipenderanno dalla misura in cui convergeranno insieme ai sindacati indipendenti su una piattaforma condivisa di rivendicazioni dei diritti sociali e economici (Interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Per ora, tra questi gruppi, sembra esserci almeno la consapevolezza che questo passo sia importante (Ibid). Ciò potrebbe innescare un grande movimento di contestazione sociale con implicazioni politiche imprevedibili. Il governo, forse consapevole delle potenzialità di questo movimento di protesta, ha tentato di reprimerlo duramente, come indicano gli arresti e le intimidazioni a cui sono stati soggetti gli attivisti.207 3.4.5 Attivismo femminile Le donne sia in Egitto che in Tunisia hanno partecipato massivamente alle sollevazioni popolari di gennaio/febbraio 2011 e, nella fase post rivoluzionaria hanno continuato a mobilitarsi attraverso numerose organizzazioni della società civile (associazioni in difesa dei diritti delle donne, partiti politici, nuovi sindacati, associazioni rappresentative degli imprenditori ecc). Nonostante le grandi aspettative dei primi giorni delle proteste, la fase di transizione post-rivoluzionaria non sembra finora aver offerto alle donne le opportunità attese. Le donne sono rimaste ai margini dei processi decisionali, pur con importanti differenze tra il caso tunisino e quello egiziano, mentre hanno dovuto fare i conti con il riaffacciarsi delle intimidazioni da parte delle frange ultraconservatrici salafite (Paciello e Pepicelli, 2011). In controtendenza al grande dinamismo della società civile delineato finora, le associazioni femminili, ed in particolare le organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, sono apparse particolarmente deboli. A pesare maggiormente su queste organizzazioni, sia in Egitto che in Tunisia, è stato certamente il fatto che i precedenti regimi autoritari avessero strumentalizzato la questione dei diritti delle donne. Per questo, le concessioni fatte in tema di diritti delle donne dai passati regimi sono oggi viste con molto sospetto dalla maggior parte della popolazione. Già fortemente discreditate all’epoca dei precedenti regimi, le organizzazioni in difesa dei diritti delle donne stanno facendo molta fatica a riconquistare la loro credibilità. C’è poi la convinzione diffusa che, nella fase della transizione politica, la questione dell’eguaglianza di genere sia la meno urgente da affrontare (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Al di là di queste premesse comuni, esistono importanti differenze tra il caso egiziano e quello tunisino. Benché in Tunisia le donne siano rimaste pressocchè assenti nei tre governi di transizione, che hanno incluso soltanto due donne (una agli affari femminili e una alla sanità), sotto il terzo governo ci sono stati cambiamenti positivi. Due delle storiche organizzazioni femministe all’opposizione del regime di Ben Ali, l’Association Tunisienne des Femmes Démocrates (ATFD) e l’Association Femmes Tunisiennes pour la Recherche et le Développement (AFTURD), hanno partecipato all’Alta Istanza, contribuendo, tra le altre cose, ad influenzare il contenuto della legge 205 El Watan, 10/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342836). La Nation, 4/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/faiblesse_syndicats_autonomes.htm). 207 El Watan, 10/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342836). “Arrestation de Malika FALLIL”, 21/09/2011 (http://www.maisondessyndicats-dz.com/imag/ISP%20MALIKA%20(2).pdf). 206 59 elettorale in maniera più favorevole alle donne. Tra le decisioni più importanti, c’è stata quella di introdurre la quota sulla parità di genere nelle liste elettorali per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Inoltre, il governo di Essebsi, con l’appoggio del ministro degli affari delle donne e sotto la pressione di alcune organizzazioni di donne, ha tolto a settembre tutte le riserve della Tunisia alla Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne.208 Il governo ha inoltre lanciato una campagna video "I need to go" per convincere le donne ad andare a votare, dopo che ad agosto soltanto 1/5 delle donne aventi diritto si era registrato per votare.209 Nella fase post rivoluzionaria, l’ATFD e l’AFTURD insieme ad altre associazioni210 hanno inoltre riorganizzato le loro attività e lanciato nuovi progetti per adattarsi al mutato contesto politico. L’ATFD, per esempio, ha cominciato a espandersi oltre la capitale, creando nuove sezioni in altre città; ha condotto campagne di sensibilizzazione sui diritti delle donne nelle zone più povere; e ha creato una commissione di investigazione sulle violazioni commesse dalla polizia di Ben Ali, con particolare attenzione alle violenze subite dalle donne. In cooperazione con altre associazioni, l’ATFD ha elaborato un progetto di costituzione per garantire l’eguaglianza di genere, con proposte concrete da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Costituente e, nella fase pre-elettorale, ha inviato diverse delegazioni di donne presso i partiti politici al fine di sensibilizzarli all’alternanza uomo donna nelle liste elettorali (interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011). In Egitto, la situazione appare molto più preoccupante. Le donne sono state completamente escluse dai processi decisionali. Nessuna donna è stata nominata nella commissione di esperti incaricata di emendare la costituzione nonostante il vice presidente della corte costituzionale sia una donna, Tahani al Gebali. Soltanto una donna, tra l’altro legata al passato regime, Fayza Abul-Naga, ha fatto parte dei primi due governi di transizione. Inoltre, differentemente dalla Tunisia, per l’Egitto, si prevede che il numero di donne presenti in parlamento sarà molto basso. Il sistema di quote rose introdotto sotto Mubarak nel 2010 è stato infatti abolito e, benché la nuova legge elettorale imponga che ogni lista deve contenere almeno una donna, i partiti, con qualche eccezione, le hanno collocate agli ultimi posti, dove le opportunità di essere elette si riducono notevolmente.211 Benché alcune organizzazioni, quali la New Woman Foundation (NWF), Egyptian Center For Women's Rights (ECWR) e Network of Women’s Rights Organisation (NWRO), si siano mobilitate contro la persistente esclusione delle donne dai processi decisionali, per la dissoluzione del Consiglio Nazionale delle Donne, organo controllato dall’ex regime, e contro le intimidazioni salafite, le loro richieste sono rimaste completamente inascoltate.212 Queste associazioni, che si definiscono apertamente femministe, hanno un scarso seguito nella società egiziana, e dunque hanno un potere di contrattazione molto limitato nei confronti delle autorità di transizione. Inoltre le associazioni femminili sono apparse divise su numerose questioni: sulle quote rosa; sul ruolo della legge islamica nella futura costituzione; e sulla rilevanza da accordare alla questione dei diritti delle 208 Kristine Goulding, “Tunisia: Feminist Fall?” 25/10/2011 (http://www.opendemocracy.net/5050/kristine-goulding/tunisia-feministfall) 209 Magharebia 20/10/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/10/20/feature-02). 210 Tra queste: Collective Maghreb 25, International Federation of Human Rights presieduta da Souhayr Belhassen e Egalitè et Paritè. 211 “Which Egyptian parties represent women and Copts and young people? “, 15/11/2011 (http://democratizingegypt.blogspot.com/2011/11/which-egyptian-parties-represent-women.html) 212 Petizione firmata contro il comitato per la riforma della costituzione, che non include alcuna donna (AWID, http://www.awid.org/eng/Library/The-constitutional-committee-starts-working-while-neglecting-and-excluding-female-legalexperts); per la dissoluzione del Consiglio delle Donne, controllato dall’ex regime (http://www.wluml.org/node/7255); appello contro gli emendamenti costituzionali che escludono le donne dalla presidenza (http://www.asafeworldforwomen.org/womens-rights/wregypt/589-statement-from-the-egyptian-centre-for-womens-rights.html); appello per l’assenza di donne tra i nuovi governatori (http://www.awid.org/Library/The-Egyptian-Center-for-Women-s-Rights-Condemns-the-Exclusion-of-Women-from-BeingAppointed-as-New-Governors); contro le intimidazioni salafite (http://www.awid.org/News-Analysis/Women-s-Rights-in-theNews2/Press-Release-Egyptian-Center-for-Women-s-Rights-The-Law-of-the-Salafi-s-challenges-the-Law-of-the-State-and-terrifieswomen-in-Egypt). 60 donne nella fase post rivoluzionaria.213 Tali divisioni hanno dunque impedito che le diverse associazioni femminili arrivassero ad elaborare una strategia comune e condivisa per fare pressioni sulle autorità di transizione. Le differenze tra la Tunisia e l’Egitto sono da attribuire ad una combinazione di fattori: la diversa natura dei governi di transizione presenti nei due paesi; la diversa situazione legale e sociale della donna nel periodo antecedente le rivoluzioni; ed infine una diversa configurazione del panorama delle associazioni femminili durante i passati regimi. La Tunisia infatti presenta un contesto relativamente più favorevole all’integrazione delle donne nel processo di transizione: la guida del paese sin dall’inizio della transizione è stata in mano ad un governo di natura civile e non ad una giunta militare; la società tunisina è relativamente ben istruita e, sin dal periodo post indipendenza, è stata all’avanguardia rispetto agli altri paesi arabi per quanto riguarda la questione dei diritti delle donne, a cominciare dal codice della famiglia promulgato nel 1956, che tra gli altri diritti, ha concesso alle donne quello al divorzio e ha abolito la poligamia; ed infine, il movimento femminile è relativamente più forte con una lunga storia di attivismo e di resistenza al passato regime, e molto meno frammentato ideologicamente poichè Ben Ali, a differenza di Mubarak, represse violentemente l’opposizione islamista. Nei prossimi mesi, il rischio che la transizione politica in entrambi i paesi proceda nella direzione di un peggioramento della situazione delle donne sul piano legale, economico e politico è elevato. Anche in Tunisia, dove la situazione appare relativamente più favorevole, il processo di riforma della costituzione sarà difficile e faticoso. Nonostante l’introduzione del sistema di quote femminile nelle liste per l’Assemblea Costituente, le donne sono riuscite a conquistare un numero di seggi inferiore alle aspettative, 55 su 217 seggi, corrispondente al 34% del totale. La presenza delle donne è inoltre concentrata in un numero limitato di partiti. La maggior parte proviene naturalmente da al Nahda (39 su 55 eletti), il partito che ha ottenuto il maggior numero di voti, ed il resto soltanto da quattro partiti - Ettakatol (3 donne), il PDP (3 donne) ed il Pôle démocratique moderniste (2 donne). La seconda formazione politica dopo al Nahda, il CPR ha solo due donne. Questo significa che, anche in una società come quella tunisina, esistono ancora forti resistenze alla presenza delle donne in posti decisionali importanti.214 La presenza di donne nell’ampio spettro delle associazioni della società civile (sindacati, gruppi giovanili, partiti politici, gruppi in difesa dei diritti umani, associazioni di imprenditori ecc) è cruciale per promuovere un cambiamento di genere in queste strutture e nella società più in generale. L’azione delle organizzazioni in difesa dei diritti delle donne nei prossimi mesi è anch’essa fondamentale per far sì che le donne non vengano emarginate dalla fase di transizione politica ed economica. Nei prossimi mesi, per esempio, quando verrà riformata la costituzione in entrambi i paesi, le organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, in collaborazione con altre associazioni dei diritti umani, avranno il compito di supervisionare il processo di riforma costituzionale, e sensibilizzare le forze politiche, l’opinione pubblica e gli osservatori internazionali. L’azione delle associazioni femminili dovrebbe estendersi anche alla sfera delle politiche economiche e sociali affinché i futuri governi integrino una prospettiva di genere. E’ interessante, in tal senso, il fatto che l’AFTD in Tunisia si sia posta come priorità per i prossimi mesi proprio quella di allargare il suo raggio d’azione alla questione dei diritti sociali ed economici delle donne. Tra le iniziative previste, ci sono: quella di creare un Osservario sull’Eguaglianza delle Opportunità e della Cittadinanza che, tra le sue funzioni principali, abbia proprio quella di fare lobbying sui governi e sulle istituzioni locali per politiche pubbliche sensibili all’eguaglianza di genere; quella di realizzare dei centri locali per aiutare le donne a trovare un’occupazione; e di sensibilizzare le donne ai loro diritti sociali ed economici, in primis quello sindacale (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Un maggior coinvolgimento delle associazioni femminili sulle 213 Per esempio sulla questione delle quote rosa, vedi “Sharaf seems responsive to women’s demands”, Pathways Middle East Hub. (2011). 214 Kristine Goulding, “Tunisia: Feminist Fall?” 25/10/2011 (http://www.opendemocracy.net/5050/kristine-goulding/tunisia-feministfall) 61 questioni socio-economiche potrebbe richiedere tra le altre cose che queste comincino a cooperare in maniera costruttiva con altri attori chiave della società civile, gruppi giovanili, sindacati e associazioni di imprenditori. Le organizzazioni si trovano comunque a dover affrontare numerose sfide, tra cui certamente un contesto politico ostile, il loro scarso radicamento sul terreno, che le rende poco credibili, ed il limitato coinvolgimento delle giovani generazioni. Una delle sfide più grandi è poi rappresentata dalla forte frammentazione dell’associazionismo femminile, soprattutto su basi ideologiche e programmatiche, che ha finora inibito la possibilità per le donne di costituire un movimento compatto e credibile, più che mai necessario nella fase post-rivoluzionaria. Sebbene questo sia un problema che finora ha riguardato soprattutto l’Egitto, anche in Tunisia il panorama dell’associazionismo femminile potrebbe nel tempo divenire più frammentato ideologicamente, con l’emergere di associazioni femminili collocabili nel quadro dell’Islam politico, finora assenti nel paese ma adesso in fase di crescita. Comunque, non bisogna sottovalutare il ruolo che le donne all’interno dei movimenti o partiti islamisti potrebbero svolgere nei prossimi mesi, soprattutto alla luce del successo di al Nahda in Tunisia e di una possibile vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto. Come è noto, la presenza femminile, soprattutto di giovani donne, in questi movimenti, sia alla base che in posizioni di leadership, si è ampliata notevolmente negli anni (Pepicelli, 2010). E’ prevedibile che, nel mutato contesto politico, le donne di al Nahda si esprimano più esplicitamente su alcune questioni rilevanti per i diritti delle donne, offrendo interpretazioni alternative o discordanti da quelle maschili. Accanto a figure controverse come Suad Abdel Rahim, deputata senza velo di al Nahda, criticata recentemetne per le sue affermazioni sulle donne madri, ci sono altre donne del partito come Mehrezia Laabidi, eletta vice-presidente dell’Assemblea Costituente, e nota per le sue interpretazioni riformiste dell’Islam e per aver criticato quelle più rigoriste.215 Iniziare un dialogo tra le donne di diversi orientamenti, secolariste e islamiste, potrebbe essere un primo passo per rompere diffidenze reciproche e capire i punti su cui eventualmente poter cooperare. Tornando all’Algeria, la situazione delle donne non soltanto rimane preoccupante, ma per certi aspetti sembra aver subito un’involuzione. Nell’ambito delle attese riforme politiche, il parlamento ha rifiutato all’ultimo momento la controversa proposta contenuta nel progetto sulla legge elettorale che proponeva una quota femminile del 30% nelle liste elettorali. Nel contesto della crescente contestazione politica e sociale post primavera araba, la questione dei diritti delle donne sembra essere passata in secondo piano nei programmi del governo, anche per evitare il rischio di aggiungere instabilità alla già precaria situazione politica. Anche dal punto di vista delle organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, nulla è cambiato. Oltre ad operare in un contesto autoritario, che ha ridotto al silenzio tutte le associazioni della società civile, le organizzazioni di donne in Algeria rimangono particolarmente deboli. Oltre a condividere con Egitto e Tunisia, le stesse debolezze su menzionate (divisioni ideologiche e assenza di ricambio generazionale) (Gray, 2009), le associazioni di donne in Algeria sono numericamente poche a causa della deciminazione indotta dalla guerra civile, che spinse molte militanti di sinistra e leader femministe ad emigrare, e hanno seri problemi di risorse materiali e finanziarie (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Inoltre, con qualche eccezione come Sos Femmes Detresse, la maggior parte di queste associazioni è stata cooptata dal regime e dunque non intende rimettere in discussione lo status quo (Interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Le prospettive per queste organizzazioni di aver un impatto sulla vita politica e sulle questioni di genere rimangono quindi molto limitate. 215 Business News, 24-11-2011 (http://www.businessnews.com.tn/Tunisie---Mehrezia-La%C3%A2bidi-contre-les-niqab-et-lesbarbes-!,520,27826,1). 62 Conclusioni Nell’ultimo ventennio, si è assistito in Algeria, Egitto e Tunisia ad un progressivo peggioramento della situazione del mercato del lavoro e delle condizioni di vita di ampi strati della popolazione. La disoccupazione tra i giovani istruiti e le donne ha registrato un aumento vertiginoso, mentre il lavoro precario e in nero si è diffuso soprattutto tra i giovani. Nell’ultimo decennio, nonostante la buona crescita economica, questi problemi si sono acutizzati. La crisi finanziaria mondiale ha ulteriormente aggravato un quadro del mercato del lavoro già drammatico. Accanto a questo deterioramento del mercato del lavoro, si è assistito ad una crisi profonda del sistema di welfare, mentre il potere d’acquisto di una parte crescente della popolazione è diminuito a causa dell’aumento dei prezzi dei beni alimentari e della stagnazione dei salari. Questi problemi, che sono stati all’origine dell’ondata di proteste che ha scosso il Nord Africa, sono andati peggiorando nel periodo successivo alle rivolte in Egitto e Tunisia, a causa delle ripercussioni negative delle sollevazioni sulle economie interessate, delle risposte inefficaci dei governi di transizione, che hanno riproposto le stesse ricette del passato, e delle incertezze che hanno accompagnato il cambiamento politico. Anche se l’Algeria sembra godere, almeno nel breve termine, di una situazione relativamente più favorevole rispetto a Tunisia e Egitto, nel lungo termine le misure socio-economiche messe in atto dal governo algerino per contenere le proteste di gennaio non affrontano i problemi strutturali del paese e appaiono difficilmente sostenibili. I problemi sociali appena descritti sono stati il risultato di politiche pubbliche fallimentari e inefficaci che non sono riuscite a generare uno sviluppo sostenibile, inclusivo e generatore di occupazione. Nonostante la buona crescita economica e le riforme di mercato, le economie dei tre paesi, pur con le importanti differenze documentate nel rapporto, continuano a soffrire di numerose debolezze strutturali: la scarsa diversificazione, la dipendenza da fattori esogeni (rimesse, turismo, esportazioni di idrocarburi ecc), la conseguente vulnerabilità agli shock esterni, e il basso livello di investimenti privati, domestici e esteri. Anche laddove gli investimenti diretti esteri sono aumentati, hanno generato poche opportunità di lavoro perché sono cresciuti in coincidenza con l’accelerazione delle privatizzazioni o si sono rivolti a settori intensivi di capitale (es. idrocarburi). A causa di queste debolezze, le economie dei tre paesi non sono riuscite a rispondere alla crescente offerta di lavoro proveniente soprattutto da giovani istruiti e hanno generato per lo più opportunità di lavoro mal pagate, precarie e adatte a manodopera poco qualificata. Anche le politiche attive del mercato del lavoro messe in atto dai governi dei tre paesi si sono rivelate inadeguate per risolvere i problemi del mercato del lavoro perchè spesso hanno offerto soluzioni temporanee e precarie o finanziariamente insostenibili (nel caso dei programmi di microcredito), oppure poco mirate. Infine, i progressivi tagli alla spesa sociale in settori chiave come la sanità e l’istruzione hanno portato a un deterioramento della qualità dei servizi e della loro effettiva copertura, con implicazioni sulla spesa delle famiglie, sul loro benessere e sulle prestazioni del sistema universitario. A causa del peggioramento della qualità, il sistema pubblico universitario ha prodotto una generazione di giovani laureati con competenze inadeguate per rispondere alle reali esigenze del mercato, una delle cause dell’elevata disoccupazione giovanile. Continuare a seguire le stesse politiche economiche e sociali inefficaci del passato non può che portare ad un ulteriore e continuo peggioramento della situazione sociale dei tre paesi, con esiti imprevedibili e catastrofici. Per poter affrontare le drammatiche sfide sociali ed economiche evidenziate per i tre paesi, occorre innanzitutto un profondo ripensamento della strategia di sviluppo verso un modello sostenibile ed inclusivo, che si ponga i seguenti obiettivi: Diversificare la struttura produttiva e il ventaglio dei partner commerciali, al fine di garantire una crescita economica sostenibile, perché meno vulnerabile agli shock esterni, e generatrice di opportunità di lavoro per giovani istruiti e qualificati. 63 Mettere l’agenda del lavoro dignitoso proposta dall’OIL al centro delle future politiche economiche e delle politiche del lavoro per fermare la crescente precarizzazione e informalizzazione del mercato del lavoro, che colpisce soprattutto i giovani. Per i governi in carica, ciò significa creare nuova occupazione garantendo redditi dignitosi, stabilità e protezione ai lavoratori, ratificare le Convenzioni Internazionali in materia di diritti dei lavoratori, riformare la legislazione nazionale conformemente a tali Convenzioni e garantirne l’effettiva applicazione, ed infine promuovere un dialogo sociale reale e trasparente con tutti i rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori. Migliorare il sistema pubblico dell’istruzione e della formazione professionale per adattarlo alle reali esigenze del mercato, eventualmente favorendo una maggiore cooperazione tra mondo universitario e imprese. Integrare una prospettiva giovanile e di genere nelle politiche economiche e sociali a tutti i livelli, privilegiando politiche macro-economiche che generino prospettive di lavoro non precarie per i giovani, uomini e donne; creando strutture, a livello di ogni ministero, che contribuiscano a incorporare tali prospettive nell’elaborazione delle politiche pubbliche, oppure valutando l’impatto di genere e sui giovani delle misure economiche e sociali messe in atto, incluse quelle che non si rivolgono specificatamente e direttamente a queste categorie. Migliorare la qualità e l’accesso dei servizi sociali nella direzione di un ampliamento della copertura verso le regioni svantaggiate, i lavoratori nell’economia informale ecc. Ciò richiede, tra le altre cose, una radicale riforma del sistema di tassazione per aumentare gli introiti fiscali con cui finanziare la spesa sociale. Favorire l’emergere di un settore privato autonomo e dinamico in modo da generare maggiori opportunità di lavoro e contribuire al processo di diversificazione della struttura produttiva. Ciò comporta la messa a punto di misure rivolte specificatamente alle piccole e medie imprese, che rappresentano una parte consistente del tessuto produttivo dei tre paesi, con l’obiettivo di facilitarne il graduale passaggio verso l’economia formale. E’ inoltre necessario affrontare seriamente tutti quei problemi che hanno finora scoraggiato gli investimenti locali, soprattutto da parte delle piccole e medie imprese, tra cui l’accesso al credito bancario e la scarsa trasparenza delle istituzioni. Occorre poi ripensare il sistema degli incentivi alle imprese, possibilmente agevolando quelle che decidano di operare nelle zone più svantaggiate e creino opportunità di lavoro per manodopera qualificata, adeguatamente remunerate e protette. Un ripensamento delle strategie di sviluppo non può avvenire senza un reale cambiamento politico. Le politiche pubbliche adottate finora nei tre paesi si sono rivelate inefficaci ad affrontare i problemi socio-economici su esposti per ragioni di natura essenzialmente politica. Le riforme economiche attuate nell’ultimo ventennio hanno offerto opportunità di arricchimento all’elite di potere, ad una cerchia ristretta di imprenditori vicini ai regimi e, nel caso di Egitto e Algeria, anche ai militari. Allo stesso tempo, tali riforme sono servite ai regimi al potere per cooptare importanti segmenti del settore privato al fine di ampliare o rafforzare la loro base di consenso. In cambio di sostegno politico, questi imprenditori hanno potuto perseguire i loro interessi economici nella più totale assenza di trasparenza. Questo tipo di gestione economica, profondamente radicato in un sistema autoritario e repressivo, ha impedito l’emergere di un settore imprenditoriale dinamico ed indipendente realmente capace di generare opportunità di lavoro e un profondo cambiamento economico, favorendo il dilagare della corruzione e delle pratiche predatorie, del nepotismo, ed il perpetuarsi di inefficienze nell’economia. 64 Nel periodo-post rivoluzionario, in Egitto e in Tunisia, il fatto che i governi di transizione abbiano esitato a rompere con il vecchio sistema di potere, anche se con differenze tra Egitto e Tunisia, ha impedito un ripensamento profondo delle strategie di sviluppo. Anche nel caso dell’Algeria, è evidente che, al fine di uscire dall’attuale crisi socio-economica, c’è bisogno di un profondo cambiamento degli assetti politici ed istituzionali. Un reale cambiamento politico è dunque condizione indispensabile per smantellare i passati rapporti tra economia e politica, favorire progressivamente l’emergere di una classe di imprenditori indipendenti e dinamici, e creare le condizioni affinché, contrariamente a quanto finora successo, la nuova strategia di sviluppo sia il frutto di un processo condiviso, trasparente e partecipativo in cui possano essere coinvolte le forze politiche e sociali nei tre paesi. Benché il futuro politico dei tre paesi appaia più che mai incerto e pieno di incognite, la direzione che prenderà la transizione politica in Egitto e in Tunisia, e lo scenario politico che si materializzerà in Algeria, saranno determinanti nel definire l’entità e la natura del cambiamento economico. Infine, il futuro ruolo della società civile e la sua effettiva capacità di influenzare i processi decisionali contribuiranno a determinare la direzione del cambiamento nei tre paesi. All’indomani della fuga di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, la società civile ha subito una vera e propria esplosione, con la legalizzazione di numerosi partiti politici, la nascita di molte altre associazioni, tra cui i sindacati di lavoratori, e l’intensificarsi dell’attivismo giovanile. Anche in Algeria, la primavera araba sembra aver dato un rinnovato impulso alla nascita di nuovi gruppi giovanili e sindacati dei lavoratori nel settore privato, anche se il margine di azione della società civile è rimasto molto limitato. In Egitto e in Tunisia, il grande dinamismo della società civile che ha contraddistinto le prime fasi post-rivoluzionarie ha potenzialità enormi per il futuro dei due paesi. L’emergere di organizzazioni sindacali indipendenti e rappresentative potrebbe contribuire ad avviare un dibattito serio su come affrontare le sfide socio-economiche, di breve e lungo termine, elaborare politiche sociali ed economiche più inclusive e migliorare la condizione dei lavoratori. Allo stesso modo, l’apparire di organizzazioni realmente rappresentative delle varie categorie di imprenditori e, diversamente dal passato, autonome dal potere politico, potrebbe aiutare a far emergere le potenzialità del settore privato e spingere i governi a elaborare politiche più sensibili alle esigenze delle piccole e medie imprese anche nell’economia informale. In presenza di sindacati e organizzazioni di imprenditori autonome e rappresentative, il dialogo sociale potrebbe rappresentare uno strumento efficace per superare le tensioni sociali e costruire un consenso sulle politiche nazionali. Infine, una maggiore presenza di giovani e donne nelle varie organizzazioni della società civile (sindacati, organizzazioni di imprenditori, gruppi giovanili, partiti politici ecc) potrebbe favorire l’integrazione di una prospettiva giovanile e di genere nelle future politiche economiche e sociali così come ridurre il rischio che vengano emarginati dal processo di transizione politica. Se il dinamismo della società civile scaturito dalla primavera araba si trasformerà o meno in una reale opportunità di cambiamento dipenderà in parte da come evolveranno questi attori emergenti. Affinché il pluralismo sindacale sia vantaggioso per i lavoratori, occorre che le organizzazioni sindacali in Egitto e Tunisia diventino strutture forti, credibili, rappresentative e indipendenti. Per quanto riguarda le associazioni di imprenditori, il processo di riorganizzazione ha proceduto molto lentamente, soprattutto in Egitto, dove il panorama delle associazioni imprenditoriali ha continuato ad essere dominato dalle stesse organizzazioni operanti all’epoca di Mubarak, legate al vecchio sistema di potere. In Tunisia, benché ci siano stati alcuni segnali di cambiamento come mostra la ristrutturazione interna all’UTICA e la nascita di CONECT, non è chiaro ancora quali saranno i rapporti tra queste organizzazioni imprenditoriali e il potere politico e di quali interessi si faranno realmente portavoce. Per entrambi i paesi, una questione importante è se i piccoli e medi imprenditori riusciranno a organizzarsi per far sentire la loro voce. Infine, la capacità dei giovani di influenzare il futuro del cambiamento politico ed economico nei due paesi in parte dipenderà dalla misura in cui riusciranno ad organizzarsi in un movimento ben strutturato, con una chiara 65 leadership, un largo consenso e una strategia coerente di lungo termine e di ampio respiro, che includa questioni non soltanto politiche ma anche economiche. Per quanto riguarda l’Algeria, le prospettive per un cambiamento politico, e dunque anche economico, dipenderanno da come evolverà la contestazione sociale in atto. Se l’azione dei sindacati indipendenti e dei movimenti giovanili continuasse a crescere, le autorità algerine potrebbero scegliere di avviare le riforme politiche attese, e dunque un cambio di rotta nelle politiche economiche. Ma perchè ciò avvenga, occorre che le diverse forze sociali e politiche di contestazione presenti nel paese superino divergenze e rivalità, convergendo in un fronte comune contro il regime, così da creare una forte pressione interna al cambiamento. Bibliografia Abbaci N. (2009), “Traitement du chômage en Algèrie. Evolution, fonctionnement et tendances actuelles”, in Myriam Catusse, Blandine Destremau, Eric Verdier, L'Etat face aux débordements du social au Maghreb. Formation, travail et protection sociale, Karthala. Achcar, G. (2009), “Egypt’s Recent Growth: An ‘Emerging Success Story’?”, Development Viewpoint, SOAS (http://eprints.soas.ac.uk/7332/1/DevelopmentViewpoint22.pdf.) AFDB (2009), Egypt Private Sector Country Profile, African Development Bank, http://www.afdb.org/fileadmin/uploads/afdb/Documents/Project-andOperations/Brochure%20Egypt%20Anglais.pdf al Din Arafat A. (2009), The Mubarak Leadership and Future of Democracy in Egypt, Palgrave Macmillan. Alexander, C. 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