1 “Se dio tollera che vi siano religioni diverse, non oseremo noi

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1 “Se dio tollera che vi siano religioni diverse, non oseremo noi
“Se dio tollera che vi siano religioni diverse, non oseremo noi
imporne una sola” Flavio Magno Cassiodoro, Variæ
“A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre,
se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma
ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate
dunque nelle opere buone, chè a Dio tutti tornerete, e allora egli vi
informerà di quelle cose per le quali oggi siete in discordia”
Il
Corano, V. La Sura della Mensa
“…benché nei tempi antichi i Massoni fossero tenuti in ogni paese ad
essere della religione di quel paese o nazione, quale che essa fosse,
oggi è stato considerato più opportuno obbligarli a quella religione su
cui tutti gli uomini concordano, lasciando a ciascuno le proprie
opinioni…”
Costituzioni di Anderson (1723)
“Gli astri che miriamo sono gli stessi, comune è il cielo, un unico
universo ci circonda: che importa allora se per vie diverse ognuno
cerca la verità? Per una sola via non è possibile pervenire ad un
mistero tanto grande” Quinto Aurelio Simmaco, L’Altare della
Vittoria
Interculturalità e consenso etico
Gian Mario Cazzaniga
Le ragioni della convivenza sulla terra sono oggi di nuovo in discussione. Per riflettere su
quali siano i termini di questa discussione, proviamo a partire da due dibattiti recenti: diritti
dell’uomo e relativismo. I diritti dell’uomo si sono affermati a partire dalla fine della seconda
guerra mondiale, si veda la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’ONU del 1948, su cui peraltro
non tutti i paesi afroasiatici erano d’accordo, e si sono imposti, dopo la fine dell’URSS, come la
nuova religione occidentale, dove il singolo, l’individuo, il figlio del moderno, è il nuovo Sovrano
e dove la tutela dei diritti mette in discussione la sovranità nazionale, ultimo baluardo del
pluralismo delle nazioni e delle comunità prima della globalizzazione.
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Tre istituti ne mostrano le diverse forme di tutela: da una parte la Corte Europea dei Diritti
Umani, espressione del Consiglio d’Europa, a Strasburgo e la Corte di Giustizia delle Comunità
Europee a Lussemburgo, organo dell’Unione Europea, dall’altra la Corte Penale Internazionale
(International Criminal Court) per i crimini di guerra e contro l’umanità all’Aja, espressione
formalmente autocefala dell’ONU. I primi due istituti sanciscono il diritto di contenzioso fra
cittadino e Stato nazionale nell’ambito europeo, e quindi in qualche modo sanciscono la
superiorità dei diritti dell'uomo su quelli del cittadino, conferendo al singolo degli straordinari
droits de cité che vanno oltre lo stato-nazione e che risultano prevalenti su di esso. È interessante
rilevare che prima è stata elaborata una dichiarazione dei diritti e varato un istituto conseguente,
poi, decenni dopo, è stata realizzata con la Carta di Nizza la sua costituzionalizzazione [Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea, sottoscritta e proclamata dai Presidenti di Parlamento
europeo, Consiglio e Commissione in occasione del Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre
2000].
Il secondo istituto in teoria afferma un analogo principio a livello mondiale, in pratica
sancisce una nuova fase imperiale nella storia dell'ecumène. Stati Uniti d’America e NATO infatti
utilizzano questo nuovo istituto in funzione di guerre esterne che configurano come operazioni di
polizia internazionale, con esautoramento delle sovranità nazionali, operazioni praticate da propri
soldati che peraltro, nel caso degli Stati Uniti, vengono dichiarati non soggetti alla Corte in
questione.
In questo contesto è sorta la nuova categoria etico-politica di ‘guerra umanitaria’, un
singolare ossimoro con cui si passa da ‘dio lo vuole’ a ‘difendiamo i diritti violati’, con qualche
incertezza su “chi” sia tenuto o legittimato a certificare la violazione dei diritti e a difenderli anche
con le armi fra ONU, NATO e Stati Uniti. È evidente che questa incertezza rende difficile in un
mondo pluriculturale e pluriconfessionale l’emergere di ragioni condivise della convivenza.
La polemica sul relativismo invece è espressione del pensiero tradizionale che rivendica la
subordinazione dei comportamenti umani ad un presupposto ordine cosmico ed ai legami
biologico-naturali come base dell'interrelazionalità legittima fra umani, con una versione
eterodiretta delle norme morali o etiche. Le religioni universalistiche, in particolare i monoteismi
abrahamici, propugnano l’unicità del genere umano e, al suo interno, rapporti di fratellanza che
fanno discendere da una comune paternità divina, ma tendono poi ad oscillare fra tolleranza e
repressione nei confronti degli umani di altra confessione o senza chiesa o di comportamenti non
conformi a quelli da esse legittimati. Nel contesto abrahamico solo piccole minoranze propugnano
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il pluralismo religioso come valore primario, ciò che talora già fu per il paganesimo politeista e
per culture buddistiche non monoteiste.
Esiste un rapporto fra questi due dibattiti? È possibile definire un comportamento giusto e
condiviso che discenda da entrambi questi presupposti, i diritti individuali come connotato della
sovranità del singolo e il fondamento cosmico-naturale dell’agire umano? Apparentemente no, per
quanto il diritto naturale moderno, figlio metaconfessionale del diritto naturale cristiano, abbia
tentato di farlo e in alcuni momenti abbia dato l’illusione di riuscirci. Tuttavia, per fermarci alla
dogmatica cattolica, che per noi latini è la rappresentanza più familiare delle posizioni antirelativistiche, va rilevato che vi sono state in questi ultimi anni prese di posizione da parte della
chiesa romana a favore dei diritti umani e delle organizzazioni internazionali che ne proclamano la
validità e, in occasione della guerra della NATO contro la Serbia, un sostanziale consenso al
principio della ‘guerra umanitaria’. È dunque possibile un incontro di fatto fra queste due
posizioni, anzi ciò è già avvenuto in qualche caso, per quanto a giudizio nostro si trattasse nello
specifico di casi non ottimali.
Facciamo ora un passo indietro. Non c’è dubbio che diritti dell’uomo, libertà dei culti e
sovranità popolare come fondamento del potere e della normazione, in particolare di quella legge
fondamentale che chiamiamo Costituzione, siano figli delle rivoluzioni moderne. Ma non sempre
ciò che viene prodotto nella storia è conseguenza coerente di ciò che è stato voluto dagli uomini
che questa storia hanno fatto, dal che deriva qualche problema, teorico e non solo teorico.
Nella rivoluzione inglese non furono pochi a sostenere che non all’uomo, dunque alla legge
civile, ma a dio, dunque alla sua parola contenuta nel testo sacro, l’uomo deve obbedienza. Questa
posizione antinomiana non prevalse e, almeno a partire dal 1688, la sovranità venne individuata
nell’accoppiata ‘re & parlamento’, da cui
alcuni diritti individuali
riconosciuti in linea di
principio per tutti i cristiani. Ma l’unione fra il potere politico e la chiesa di Stato rimase, e
formalmente rimane tuttora, ragion per cui cattolici e dissenters dovettero aspettare a lungo per
potere anch’essi fruire di diritti di libertà.
Apparentemente diversa fu l’esperienza degli Stati Uniti, che riconobbero la libertà di culto.
Ciò fu dovuto non alle idee illuministiche e massoniche di coloro che diressero la guerra di
indipendenza e scrissero poi la Costituzione (1787) e il Bill of Rights (1791), ma alle diverse
maggioranze confessionali esistenti nelle tredici colonie (ora anglicane, ora calviniste, ora
quacchere), cui si aggiungevano consistenti minoranze luterane, cattoliche e battiste, una diversità
che rendeva improponibile una religione di Stato. Il comune sentire tuttavia risultò riformato e di
tendenza millenaristica, a partire dai Pilgrim Fathers, il cui puritanesimo era antinomiano. Questa
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ambiguità fra pluralismo dei culti legittimato dalla Costituzione e comune sentire riformato in
chiave di Nuovo Israele, figlio di una teologia federalistica, ricorre in tutti i momenti di crisi della
storia statunitense, in cui il Presidente, in quanto rappresentante legittimo del popolo eletto,
dunque del patto fra uomo e dio, si pone al di sopra della legge ordinaria e dei trattati
internazionali proprio in nome di questa superiore legittimazione. La storia dell’ultima presidenza
ne è conferma.
Vi è un ricorrente ricorso a fonti divine nella storia occidentale per giustificare l’obbligazione
politica di cui tendiamo a dimenticarci, considerando riduttivamente il Gott mit Uns dei
nazionalsocialisti germanici come un incidente di percorso. Ma non è così. Nei paesi ortodossi la
chiesa ha sempre sacralizzato lo Stato, che è stato in genere lieto di ricambiare: anche Stalin lo
fece durante la “grande guerra patriottica”. La polemica recente fra chiesa e Stato in Grecia sulla
carta d’identità ne è conferma in negativo, e ci ricorda anche che la nascita dello Stato moderno è
recente, essendo sua premessa l’anagrafe, nata in Francia solo nel 1792. Non troppo diversa è la
posizione dei paesi luterani, basti ricordare che in Svezia la religione di Stato è stata abrogata solo
nel 2000. In Olanda abbiamo gli arminiani, che sono da annoverare fra i padri del liberalismo
moderno, ma di solito hanno prevalso i gomaristi. In Italia una storia diversa è cominciata solo con
lo Statuto Albertino, ma viviamo tuttora in regime concordatario, per cui nella scuola di Stato si
insegna una sola verità religiosa.
Potremmo rilevare che diversa è stata l’esperienza francese, ma anche qui le cose non sono
così semplici. In una prima fase i costituenti videro nella chiesa cattolica un complemento della
direzione rivoluzionaria, necessario per spiegare al popolo dal pulpito le nuove tavole della legge.
In una seconda fase venne tentata la costruzione di nuovi culti rivoluzionari, non senza qualche
successo. In una terza terza fase il concordato napoleonico piegò la chiesa a strumento del regime,
con una sorta di divinizzazione dell’imperatore. Per una effettiva costruzione giuridica della laicità
dello Stato dovremo aspettare le leggi del 1905.
Non è dunque frequente né facile trovare conferme storiche alla via del pluralismo e della
libertà dei culti, né le migrazioni e i conflitti culturali indotti dalla globalizzazione semplificano la
questione. Il ritorno di dio, di cui si torna a parlare agli inizi del XXI secolo, è il ritorno di un dio
della guerra giusta, in cui non si fanno prigionieri. Quando un arcivescovo nella crociata
antialbigese ordinò lo sterminio di tutta la gente di Tolosa, a chi obiettava: “Ci sono anche dei
buoni cattolici”, rispose: “Dio saprà riconoscere i suoi”. Di questa storia europea e cristiana siamo
ancora figli.
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In discussione oggi, in un contesto di interculturalità e di interconfessionalità, è la possibilità di
individuare un consenso etico al fine di garantire la possibilità di convivenza nella pace.
Preliminare a questo consenso è l’individuazione di una comune fonte di senso. La storia delle
istituzioni e delle culture dell’ecumène ci sembra indicare tre sole vie:
- la via del confronto come accettazione della diversità in una compresenza culturale
gerarchizzata, ciò che comporta religione di Stato e tolleranza di culti altri: è la soluzione degli
imperi, siano essi islamici, oppure buddisti o, con un bilancio storico di minore tolleranza,
cristiani. Ma la tolleranza non solo è una concessione che sancisce un rapporto fra diseguali, ma è
in genere delimitata. Quando negli Stati Uniti il governo federale impose manu militari ai
mormoni la cessazione della poligamia, o quando in molte legislazioni statali vigenti troviamo
pene carcerarie per atti sessuali non riproduttivi fra adulti consenzienti, abbiamo una conferma del
“comune sentire riformato” cui facevamo prima riferimento come legge fondamentale non scritta,
al cui interno la libertà teorica di culto diventa delimitazione pratica della tolleranza. Il Patriot Act
[USA PATRIOT Act, acronimo per “Uniting and Strengthening America by Providing
Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism”] viene da lontano;
- la via del dialogo come riconoscimento e accettazione dell’Altro, in un contesto di eguaglianza
formale di tutte le identità culturali da parte di uno Stato che, andando oltre la tolleranza,
riconosce e protegge la libertà di culto come diritto dell’individuo nella sua sfera privata: è la via
delle costituzioni liberali europee, di cui Risorgimento e unità d’Italia sono parte. Ma questa via
oggi appare in crisi non solo per il risorgere di intolleranze da parte di influenti comunità
confessionali e di populismi locali, conseguenti alla crescita traumatica di flussi migratori
provenienti da culture altre, ma anche perchè la rivoluzione mediatica e l’ingegneria genetica
mettono in crisi la distinzione fra pubblico e privato e la stessa costituzione dell’individuo come
forma compiuta su cui è venuto costituendosi il moderno. La generalizzazione della forma politica
dello spoils system, estesa di recente al sistema italiano con adesione bipartisan, sembrerebbe
superare la questione privatizzando il pubblico. Ma anche i colleghi libertarians non sembrano
entusiasti di questa soluzione;
- la via dell’amicizia, il riconoscimento dell’altro come parte di sè, in un contesto di eguaglianza
reale, da cui la possibilità di una comunità fondata su consenso etico e rapporti amicali, dove
consenso si coniuga con pluralità possibile e legittima di scelte di vita e di ricerca della verità. È
questa la via che vorremmo propugnare. Che i nostri interlocutori monoteisti siano o meno
consapevoli delle implicazioni della loro via, il
loro fondamento
della convivenza è
la
fratellanza. Si tratta di un vincolo forte, tanto forte che non lo si può rifiutare. “Sois mon frère ou
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je te tue” diceva Chamfort, che ben conosceva la storia dei cristiani e di quella nuova setta
ereticale cristiana che ai suoi tempi veniva chiamata giacobina, dal nome del convento in cui si
riuniva, una setta che puntualmente uccise chi di essere fratello per forza aveva poca voglia.
Noi pluralisti laici, figli dei Lumi, del neostoicismo rinascimentale e prima ancora del
politeismo pagano, scegliamo vincoli meno forti, più soggetti a libera condivisione, regolati
soltanto dall’etica del dono e passibili d’essere sciolti ad ogni istante, anche se li vorremmo
sempiterni. Si tratta di un work in progress in cui il soggetto e modello di riferimento non può che
essere la chiesa invisibile di lessinghiana memoria. Occorrono molte buone opere che rendano
superflue le opere buone, faceva dire Lessing a Falk in Dialoghi per massoni. Per questo occorre
una azione concorde di uomini e donne di buona volontà che riconoscano l’Altro come parte di sé
e che non abbiano bisogno di premî né di vite future per fare ciò che ritengono giusto.
Queste azioni virtuose, in cui la virtù è fine e premio a se stessa, identificano il
comportamento di uomini e donne che, consapevoli della propria natura ragionevole, agiscono in
conformità ad essa, come il mondo classico e qualche umanista ci hanno insegnato, e di queste
azioni è intessuta la rete che sostanzia la chiesa invisibile. Ma per ritessere oggi questa rete
occorre fare in fretta. Troppi sono stati gli strappi che ha subìto, troppi gli affratellamenti forzosi
recenti, fra religioni politiche del XXo secolo e fondamentalismi monoteistici del XXIo, cui
disinvoltamente si accodano oggi ideologie laiche, o sedicenti tali, in cerca di un nemico con cui
sostanziare la propria identità, che sentono debole e insicura. Occorre fare in fretta. La casa
comune brucia…
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