5. Un cuore di carne (Arianna Melis) «Sei perfetta

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5. Un cuore di carne (Arianna Melis) «Sei perfetta
5. Un cuore di carne
(Arianna Melis)
«Sei perfetta» disse l'uomo. Indossava occhiali dalle piccole lenti rotonde e un camice
bianco. Accarezzò il volto di Lina, paralizzata dalla paura, e le tolse il bavaglio dalla bocca.
«Figlio di puttana» disse la ragazza. La gola era secca e dolorante. Sentì stringersi lo
stomaco al pensiero che non avrebbe più sentito la sua voce cantare. Non si sarebbe più
commossa nell'avere di fronte un pubblico emozionato che accompagnava le sue note.
Niente più provini.
«Hai un carattere deciso. Mi piace. Su, non fare così, piccola mia».
La mano del dottore continuava ad accarezzarle i capelli. Lina non li lavava da giorni.
Sapeva di avere un odore terribile e si vergognava di lasciarsi toccare in questo modo.
Eppure le mani di quell'uomo la tranquillizzavano, come se fosse stato normale trovarsi
imbavagliata e inerme davanti a lui. Era come un film dell'orrore, con la differenza che ora
era lei a esserne protagonista, e quel dottore le ricordava quei porci di medici nazisti che
facevano esperimenti sulle vittime dei campi di sterminio.
Il dottore la liberò dalle corde, con la dolcezza che avrebbe potuto avere una donna che si
apprestava a lavare un neonato o un cadavere. Lina sentiva brividi in tutto il corpo, ma era
un'illusione. Era solo la sua mente a tremare. Era rimasta legata al letto per quanto? Due
giorni? Un mese? Nella stanza non entrava mai la luce del sole, solo quando la carceriera
che si occupava di lei entrava per portarle da mangiare. Una sgradevole luce al neon era
piazzata proprio sulla sua testa. Non aveva né caldo né freddo, ma si sentiva sporca e
appiccicosa. Ogni tanto la carceriera la trascinava in bagno, ancora legata, perché
potesse fare quello che doveva fare. Era una donna corpulenta che non parlava mai e
Lina aveva pensato che si doveva decolorare i baffi. Invece che divertirla, l'idea l'aveva
terrorizzata. Non c'era nulla di umano in quella donna e si preoccupava per i propri baffi.
Come poteva avere preoccupazioni così femminili?
Il dottore le tolse i vestiti e Lina si sorprese per la propria passività. Credeva che nel
momento in cui l'avessero slegata avrebbe combattuto. Il pensiero di fuggire era presente,
ma in fondo non le importava davvero andarsene.
«Mi hai drogata» disse la ragazza con la voce impastata. Non c'erano altre spiegazioni. Se
non fosse stato così, l'avrebbe graffiato, morso, calciato fino a farsi ammazzare.
«Ora non ti devi preoccupare. Dopo un bagno starai bene. Starai bene per sempre».
Il dottore prese Lina tra le braccia e la portò nel bagno, dove la carceriera aveva preparato
una vasca piena di acqua calda, e l'aiutò a entrarci dentro. L'acqua era della temperatura
giusta e profumava di erbe e di fiori. Il dottore la lavò delicatamente con una spugna. Era
nuda, ma non provava imbarazzo. Non provava più nulla.
Non era la prima volta che le facevano assumere droghe, ma quella volta era diversa dalle
altre. Non si sentiva né intontita né travolta da una sonnolenza che avrebbe portato solo
incubi e sogni agitati. Era calma e tranquilla, avvolta da una sensazione di pace, come se
non le importasse nulla di quello che sarebbe stato del suo corpo.
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Poi il dottore la fece uscire dalla vasca, ormai una scura pozza ricolma di sporcizia (sì, era
passato un tempo lungo, valutò con distacco Lina, ma ormai la sua attesa stava avendo
fine) e l'asciugò avvolgendola in un asciugamano candido, poi frizionò con un unguento
profumato i segni rossi che le corde avevano lasciato sul suo corpo. Lina non sentiva più
dolore. Entrarono due donne e la condussero fuori dalla squallida stanzetta con il bagno
che era stata la sua prigione. Lina sentì prima di ogni altra cosa il profumo dei fiori. Dolce,
intenso, quasi nauseante. L'odore di un cimitero.
Lasciò cadere l'asciugamano per terra e camminò in mezzo ai fiori.
“Regina della primavera,” mormorò il dottore. “La nostra regina”.
Le donne le intrecciarono i capelli e le misero sul capo una corona di margherite, poi le
fecero indossare un abito bianco lungo fino ai piedi. Lina rimase ad assaporare la
delicatezza della sensazione della seta sulla sua pelle. Aveva l'impressione di sentire
addosso la carezza dei raggi del sole, anche se qualcosa dentro di lei le gridava che era
notte e quello non era un campo. Quella era la sua tomba.
Camminò ancora e si trovò di fronte al dottore, che la strinse tra le braccia,
accarezzandola con un dito sulla schiena dove l'abito la lasciava scoperta fin quasi ai
fianchi. A quel punto Lina avrebbe dovuto urlare. Sapeva che avrebbe dovuto urlare.
Invece rimase lì, docile, del tutto passiva.
«Mangia». Il dottore le mise davanti una ciotola colma di una sostanza attaccaticcia che
assomigliava al miele. Le portò il cucchiaio alle labbra. Lina le socchiuse, lasciando che la
pappa chiara entrasse nella sua bocca.
“Sputala” tentò di dire a se stessa, ma dalla gola non uscì suono. Restò a guardarsi
impotente, senza potere fare nulla per fermarsi. L'altra Lina, la Lina di fronte a lei inghiottì
la sostanza. Erano in due ormai. Una ragazza che era ancora in possesso delle proprie
facoltà, che osservava il proprio corpo cedere. E cedere avrebbe significato morire. Ma il
cibo era dolce e Lina ne volle ancora e ancora. Il dottore si aggiustò gli occhialetti sul
naso.
«Brava bambina» le disse.
A qualche chilometro di distanza un uomo camminava velocemente nella notte,
guardandosi intorno per essere certo che nessuno lo stesse seguendo. Aveva mandato
già due segnali alla polizia. Era stato un rischio, un rischio non indifferente: una parola di
troppo e lo avrebbero scoperto. Con quelli non si poteva scherzare. Il Maestro non
accettava ripensamenti e il tradimento aveva conseguenze che andavano ben al di là della
morte del traditore.
L'uomo si strinse nella giacchetta di jeans, sentendo all'improvviso freddo. Forse era
meglio tornare indietro. Non aveva ancora fatto nessun errore decisivo, bastava fermarsi
adesso. Aveva inviato messaggi precisi alla polizia, certo che, tra tutti, almeno Felice
Vitaloni avrebbe saputo cogliere gl’indizi, ma non si era esposto troppo: nessuno avrebbe
potuto risalire a lui perché quando aveva iniziato a frequentare Lina Carrini, lo aveva fatto
sotto falso nome. Neppure Lina sapeva come si chiamasse davvero. La scheda sim che
aveva utilizzato per telefonarle nel periodo in cui si erano frequentati era stata distrutta:
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era andato tutto secondo i piani. Quello che non poteva prevedere era che si sarebbe
innamorato di lei.
Scosse la testa. Serviva un altro aiuto. Presto la ragazza sarebbe stata trasferita nel luogo
dell'esecuzione, un luogo segreto che conoscevano solo i membri di rango più elevato
nell'Organizzazione, e la polizia la doveva trovare quella notte. Il mattino seguente di lei
sarebbero rimaste solo le ceneri. E il cuore, naturalmente.
“Idiota di un Vitaloni” pensò.
Più chiaro di così non poteva essere. I tentacoli dell'Organizzazione si estendevano
ovunque, anche nella polizia. Chi s’impicciava dei loro affari o arrivava troppo vicino alla
verità, veniva punito. Come Vitaloni.
Anche l'uomo aveva una figlia, della stessa età di Lina. Una figlia bella e innocente, dal
volto perfetto e dalla voce dolce. Una studentessa di canto lirico: il suo ultimo canto
sarebbe stato simile a quello di un cigno prima di morire. Il Maestro non avrebbe esitato a
mettere le mani su di lui per punirlo. Il letto di rose bianche che attendeva Lina sarebbe
potuto essere il letto di morte di sua figlia, e l'uomo sapeva che il Maestro lo avrebbe
lasciato vivere per mostrargli le conseguenze delle sue azioni.
“Vitaloni, devi fare qualcosa” mormorò tra sé.
Un uomo gli passò accanto, senza fretta. Il lampione sopra di loro era rotto e l'uomo non
riuscì a vederne bene i lineamenti. L'idea che qualcuno lo avesse visto lì, dove non
avrebbe dovuto stare, non a quell'ora, lo fece sobbalzare. Era troppo lontano dalla sua
zona. Ma non poteva usare il telefono vicino alla base.
Entrò in una cabina, alzò la cornetta e digitò un numero che conosceva a memoria.
«Il segreto è il cuore. Guardatelo in controluce, vi mostrerà dove si nasconde il tesoro.
Guardate il cuore».
La voce, contraffatta dalla sciarpa che aveva annodato sulla cornetta, tremava. Aveva
parlato in modo troppo chiaro. Come poteva sapere che Vitaloni, per salvare l'altra figlia
che gli era rimasta, non avesse deciso di ostacolare le indagini e ignorare tutti i segnali?
«Chi sei?».
«Un amico».
«Sei l'assassino?».
«No. Non importa. Non c'è più tempo. Succederà stanotte».
Davanti alla cabina si era materializzato l'uomo dai lineamenti invisibili, ora alla piena luce
del lampione. L'uomo nella cabina sentì un improvviso freddo anche se la notte
primaverile era tiepida. Non ebbe neppure il tempo di giustificarsi.
Restò con la cornetta in mano mentre l'altro lanciava un fiammifero acceso nella sua
direzione e gli puntava contro una pistola, ammonendolo di non muoversi. La benzina che
aveva sparso intorno alla cabina prese subito fuoco. Sacrificio e rigenerazione. La regina
della primavera. Fu il suo ultimo pensiero, mentre il fumo gli faceva perdere i sensi. L'altro
restò a guardare il suo corpo diventare fiamme e cenere.
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Lina si guardò intorno. La stanza era svanita, erano rimasti soltanto il campo e i fiori, un
bianco tappeto di rose, gigli, margherite. Li raccolse in un grande mazzo e iniziò a cantare
una melodia senza parole. Non sentiva più dolore, nessun disagio. Lei era la regina della
primavera.
«Cosa le hai dato?».
Il dottore osservava la ragazza che cantava tra i fiori. Le candele si stavano spegnendo e
presto Lina sarebbe stata avvolta dall'oscurità.
«Un fungo con caratteristiche molto speciali» rispose il dottore. «Mio sire».
«Sarà consapevole dell'operazione?».
«La sua mente la trasformerà in un sogno, anche se forse per lei assomiglierà di più a un
incubo. Il rituale sarà perfetto».
«Così bella» disse il sire, «così perfetta».
Il canto fu interrotto da un bussare alla porta e si trasformò in un gemito.
«Cosa c'è, Matilde?» La voce del dottore si era fatta aspra.
«C'è stato un problema». La donna corpulenta che faceva da guardia a Lina era entrata di
corsa. «C'è Marcello al telefono».
«Cosa succede?» chiese il dottore afferrando la cornetta.
«Abbiamo una talpa» rispose la voce di Marcello. «Dovete andarvene subito. Antonio
Alessandrini ha parlato con la polizia».
Il dottore e l'uomo che lui aveva chiamato sire si guardarono. Di colpo avevano perso
colore.
Come poteva essere possibile? Antonio era uno dei seguaci più fedeli
dell'Organizzazione.
Non potevano fallire, non quella notte, non prima di avere completato il rituale. La statua
d'oro della regina della primavera doveva ricevere un nuovo cuore. Il cuore di Lina Carrini.
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