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Gabrielle Walker
Un oceano d’aria
Perché il vento soffia e altri misteri dell’atmosfera
Traduzione di Susanna Bourlot
EDIZIONI
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Per Fred e Hubert
Gabrielle Walker
Un oceano d’aria
Perché il vento soffia e altri misteri dell’atmosfera
Progetto grafico: studiofluo srl
Impaginazione: Maria Beatrice Zampieri
Redazione: Stefano Milano
Coordinamento produttivo: Enrico Casadei
Gabrielle Walker
An Ocean f Air
Why the Wind Blows and Other Mysteries of the Atmosphere
© 2007 by Gabrielle Walker
All rights reserved
© 2009 Codice edizioni,Torino
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-7578-131-6
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Io adorno la terra tutta.
Sono la brezza che nutre ogni viridità.
Incoraggio i boccioli a fiorire di frutti presto maturi.
Sono condotta dallo spirito ad alimentare le correnti più pure.
Io sono la pioggia che viene dalla rugiada
Che rallegra l’erba con la gioia della vita.
Ildegarda di Bingen, badessa del XII secolo
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Indice
XI
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Prologo
Parte I. Una coperta rassicurante
Capitolo 1
5
L’oceano sopra di noi
Capitolo 2
27
L’elisir della vita
Capitolo 3
59
Cibo e calore
Capitolo 4
87
123
Via col vento
Parte II. Protetti dal cielo
Capitolo 5
125
La storia del buco
Capitolo 6
155
Lo specchio del cielo
Capitolo 7
191
L’ultima frontiera
225
Epilogo
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Prologo
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231
245
253
Ringraziamenti
Note
Suggerimenti per ulteriori letture
Indice dei nomi e dei luoghi
16 agosto 1960, ore 7.00 del mattino
Trentadue chilometri a nord del New Mexico, Joe Kittinger si librava nel cielo. Per 11 minuti rimase lì, sospeso in una navicella scoperta che roteava lentamente sotto un immenso pallone aerostatico pieno d’elio. L’alba era passata da un pezzo, eppure l’aria circostante era
buia come a notte fonda. Lontano, molto più un basso, dove la superficie terrestre si curvava al confine con l’orizzonte, un alone azzurro
e luminoso si stagliava contro l’oscurità dello spazio.
Quel celeste era l’atmosfera, il più grande dono che il nostro pianeta possieda. Il meraviglioso colore azzurro della Terra non è dovuto agli oceani, ma al cielo, e gli astronauti che hanno visto quel delicato alone al loro ritorno hanno raccontato tutti la stessa storia: faceva apparire la Terra incredibilmente fragile, e incredibilmente bella.
Qui sulla superficie, lontano da quel punto d’osservazione privilegiato, tendiamo a dare la nostra atmosfera per scontata. Eppure l’aria è una delle sostanze più miracolose dell’Universo. Da sola, quella
sottile linea azzurra ha trasformato il nostro pianeta da un’arida massa di roccia a un mondo pieno di vita. Ed è l’unica barriera a dividere noi terrestri dall’ambiente mortale del cosmo.
Kittinger si era spinto troppo lontano. Lassù, al confine con lo
spazio, l’aria era talmente rarefatta che se la sua tuta pressurizzata
avesse smesso di funzionare, sarebbe morto nel giro di pochi minuti.
Dapprima la saliva avrebbe iniziato a schiumare, poi gli occhi sarebbero sgusciati fuori dalle orbite e lo stomaco si sarebbe gonfiato, e infine il sangue sarebbe andato in ebollizione. Di tutti i rischi che aveva corso nella sua vita – era un collaudatore dell’aeronautica militare
americana – questo era di gran lunga il peggiore.
Solo nella sua navicella, era perfettamente consapevole del pericolo. Quel quasi-vuoto sembrava stranamente palpabile, come un
manto imbevuto di veleno. Il buio lo innervosiva, come pure la
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cortina di nubi giù in basso che gli impediva di vedere casa. Chiamò via radio la base: «C’è un cielo ostile sopra di me», disse. «L’uomo non conquisterà mai lo spazio.Anche se ci vive, non lo conquisterà mai».
Si trascinò verso lo sportello della navicella, appesantito dalla settantina di chili di tuta, strumenti e apparecchiature video, e rimase
fermo per un istante, con la punta degli stivali che sporgeva dal bordo.Alcuni centimetri sotto i suoi piedi, un cartello recitava: «Il passo
più alto del mondo». Inspirò una boccata d’ossigeno puro all’interno
del suo casco ermetico. «Dio, abbi cura di me», disse. Poi saltò.
All’inizio, Kittinger non sentì di star precipitando.Vedeva i riccioli delle nubi temporalesche giù sotto i suoi piedi, ma non sembravano farsi più vicine.Attorno a lui l’aria era talmente rarefatta che non
c’erano né rumore, né vento, né qualsiasi altro segno che stesse tuffandosi nell’ambiente più ostile che un essere umano avesse mai affrontato. Come un’aquila ad ali spiegate, si sentiva quasi sereno. Gli
pareva di galleggiare su un mare di nulla.
Per quanto pericoloso, l’ambiente continuava a proteggerlo. La
mancanza di pressione non è l’unica insidia dello spazio; ci sono anche radiazioni a raffica, molte delle quali provenienti dal nostro sole.
Ogni giorno, oltre al calore e alla luce che ci permettono di vivere
sulla Terra, il sole irradia raggi X e luce ultravioletta dall’estremità
mortale del suo iride.
Grazie al nostro cielo, questa radiazione non raggiunge mai il suolo.
80 chilometri sopra la testa di Kittinger, pochi, rari atomi d’aria fungevano da sentinelle, intercettando e assorbendo quei raggi X letali. Durante il processo, gli atomi vengono smembrati e surriscaldati a temperature di 2000 gradi. Quegli atomi formano la ionosfera, una sottile regione dell’atmosfera in cui l’elettricità regna sovrana. Invisibili dalla
superficie terrestre, gigantesche lingue di fuoco bluastro guizzano fin
quassù dalla cima delle nubi temporalesche, come lampi verso l’alto.
Qui i meteoriti in arrivo dallo spazio vengono disintegrati, dando vita
alle gloriose fiammate di luce che chiamiamo “stelle cadenti”. Riempiono l’aria di strati di metallo galleggianti che permettono alle correnti elettriche di sfrecciare sopra la nostra Terra. È su questa superficie
elettrica che le onde radio si riflettono quando percorrono il globo.
Ancora più in alto, l’aria stava subendo un attacco persino più
violento, da una forza nota come “vento solare”. Flussi di particelle
elettricamente cariche provenienti dal sole si stavano precipitando a
rotta di collo verso la Terra, percorrendo più di un milione di chilo-
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XIII
metri all’ora, decise a strappar via la nostra atmosfera e spostarla dietro al pianeta, come la coda di una gigantesca cometa.
Ma, per farlo, il vento solare dovrebbe prima superare uno dei
nostri più fedeli difensori: il campo magnetico terrestre. Sulla superficie è difficile che ci accorgiamo di questo campo, se non quando
trascina l’ago della bussola verso il nord. Ma la sua influenza si estende per decine di migliaia di chilometri sopra di noi, e costringe il
vento solare a dividersi e mancarci, come l’acqua davanti alla prua di
una nave. Molto sopra la testa di Kittinger, quei protettivi archi magnetici stavano incanalando il vento solare così da renderlo innocuo.
Il campo è pressoché impenetrabile, e permette solo a poche particelle di filtrare nelle regioni polari, dove collidono con l’atmosfera
dando origine ai bagliori danzanti delle aurore australi e boreali.
Tuttavia, la nostra salvifica atmosfera si estende solo per qualche
miglio sopra la superficie terrestre, e quando Kittinger compì il suo
salto nel buio era quasi tutta sotto di lui. Dopo qualche secondo dal
lancio, Kittinger scalciò e roteò fino a trovarsi a testa insù. Ora riusciva a vedere la candida sfera della sua mongolfiera allontanarsi nel
buio a folle velocità. Come ben sapeva, si trattava di un’illusione. Il
pallone stava ancora fluttuando dolcemente là dove l’aveva lasciato.
Era lui a precipitare nel cielo a una velocità prossima a quella del
suono.
Kittinger si stava avvicinando a un altro dei nostri scudi protettivi: lo strato di ozono.Tutt’intorno a lui, i raggi ultravioletti che erano
riusciti a filtrare attraverso la ionosfera venivano assorbiti da una
nube diffusa di gas invisibile. L’ozono ha un che di miracoloso.Vicino alla superficie del nostro pianeta a volte viene creato dai fulmini e
da scariche elettriche. Puzza di cavi elettrici bruciati e vi toglie il respiro. Ma su nel cielo è una sentinella vigile e coriacea. Dopo esser
state separate dai raggi ultravioletti, le molecole di ozono attorno a
Kittinger si stavano lentamente rimettendo insieme. Come il roveto
ardente di Mosè, bruciano senza mai consumarsi.
20 000 metri. 18 000. Kittinger aveva superato il punto in cui anche il foro di uno spillo nella sua tuta gli avrebbe fatto bollire il sangue. Ma c’era ancora un pericolo: era arrivato alla parte più fredda
della sua discesa, dove la temperatura toccava i –72 gradi Celsius e gli
elementi termici della sua tuta diventavano essenziali.
Poi ci furono le nuvole, e il vento, e tutti i segnali che indicavano
l’approssimarsi della meta. 12 000 metri. 10 000. Stava per scendere al
di sotto dell’altitudine dell’Everest. Se un jet fosse passato da quelle
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Un oceano d’aria
parti, avrebbe visto un uomo vestito in modo strano sfrecciargli accanto. Le nuvole che aveva rimirato dalla navicella, e che gli avevano
impedito di vedere la Terra, ora gli stavano venendo incontro.Anche
se sapeva che erano solo goccioline d’acqua impalpabili, si preparò a
un impatto, abbracciando le ginocchia. Quando toccò le nubi, il paracadute si aprì e capì che sarebbe sopravvissuto. «Quattro minuti e 37
secondi di caduta libera!», esultò nel registratore. «Ahhhhhhhhhhh,
cavolo!».
Kittinger si trovava ormai nella parte più bassa dell’atmosfera, la
troposfera. Qui l’aria non è tanto uno scudo protettivo quanto un
trasformatore, una spessa, vitale coperta di aria, vento e agenti atmosferici che rendono il nostro pianeta la nostra casa. Dopo l’aridità
dello spazio, le particelle umide delle nuvole appannarono il viso di
Kittinger. Sentì lo strattone dell’aria ispessita. Ora il cielo era pieno
di vita, sebbene lui non potesse vederla.Trasportati dalle goccioline
delle nuvole, i batteri viaggiavano in cerca di nuove vittime lontano
da casa. Gli insetti volavano verso nuove terre ospitali e i semi verso
suoli più fertili.
E – grazie al cielo – due elicotteri di salvataggio volteggiavano
nelle vicinanze. Il suolo si faceva sempre più vicino e Kittinger tentò
di liberarsi della sua pesante strumentazione, nella speranza di un atterraggio morbido, ma un’ultima fune si oppose al suo coltello. Kittinger capitolò, alzò la visiera del casco e tirò una bella boccata d’aria
fresca. Non appena l’aria gli entrò nei polmoni, l’ossigeno saltò d’un
balzo le esili membrane delle cellule e le fece diventare di un bel rosso vivificante. (E un po’ di quell’ossigeno scatenò l’immancabile devastazione, cominciata quando Kittinger aveva tirato il primo respiro
della sua vita: quelle dispettose molecole avrebbero finito per solcargli il volto di rughe e per fiaccargli il corpo, in quel processo che
chiamiamo “invecchiamento”).
Alla fine, dopo un tempo di volo di 13 minuti e 45 secondi, Joe
Kittinger si schiantò senza tante cerimonie nella boscaglia, 27 miglia
a est di Tularosa, New Mexico. Il personale medico, lo staff di terra,
sostenitori e giornalisti si riversarono fuori dagli elicotteri e corsero
verso il paracadutista. Lui sorrise attraverso la visiera del casco. «Sono
molto felice di essere di nuovo qui con voi», disse. Sebbene il deserto
fosse tutt’altro che lussureggiante, all’uomo che si era spinto oltre
l’atmosfera le piante di yucca e artemisia tridentata parvero piene di
vita. «15 minuti fa ero sulla soglia dello spazio», proseguì. «E adesso
mi sembra di stare nel giardino dell’Eden».
Prologo
XV
Il capitano Joseph W. Kittinger Jr. dell’aeronautica militare degli Stati Uniti è l’uomo che cadde sulla Terra e sopravvisse. Nessuno è più
riuscito a emulare la sua impresa. Il suo viaggio dal limitare dello spazio fino a casa, dall’aria rarefatta a quella condensata, ci dice qualcosa
di straordinario sul nostro pianeta. Lo spazio è talmente vicino che
possiamo quasi toccarlo. Appena 32 chilometri sopra il nostro capo
c’è un ambiente terrificante e inospitale, che ci congelerebbe, ci arrostirebbe e ci farebbe bollire. Ma gli strati d’aria che circondano la
Terra ci proteggono talmente bene che neppure ci accorgiamo del
pericolo. Questo è il messaggio del volo di Kittinger, e di tutti quei
pionieri che tentarono per primi di capire la nostra atmosfera: noi
non solo viviamo nell’aria. Noi viviamo grazie all’aria.