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Holly e Gerry: belli, giovani, innamorati, felici. Quando Gerry muore all’improvviso, per Holly nulla sembra avere più senso: vedova a ventinove anni, si sente sola e sperduta. Ma Gerry, poco prima di andarsene per sempre, le aveva promesso che non l’avrebbe abbandonata. Un giorno Holly riceve una lettera proprio da lui, con un messaggio che la esorta a ritrovare la voglia di vivere e, soprattutto, con un dolcissimo “P.S. I love you” che spinge Holly, fra un pianto e un sorriso, ad aprirsi al domani. E così Holly si ritrova, quasi senza accorgersene, a vivere di nuovo. Un romanzo commovente e delicato che ha fatto emozionare milioni di lettori nel mondo. CECELIA AHERN, irlandese, ha scritto P.S. I love you nel 2004, a soli 20 anni. In brevissimo tempo è diventato un bestseller ed è stato tradotto in oltre 50 paesi. La Warner Bros ne ha tratto un film con Hilary Swank e Gerard Butler. Gli altri suoi successi, tutti disponibili in BUR, sono Scrivimi ancora, Se tu mi vedessi ora, Un posto chiamato qui e Grazie dei ricordi. Proprietà letteraria riservata © 2004 by Cecelia Ahern © 2004 RCS Libri S.p.A., Milano Lyrics to With a Little Help from My Friends, appearing on pages 108-9, Copyright © 1967 (Renewed) Sony/ATV Tunes LLC. All rights administrated by Sony/ATV Music Publishing, 8 Music Square West, Nashville, TN 37203. All rights reserved. Used by permission. ISBN 978-88-58-60196-9 Titolo originale dell’opera: PS, I Love You Traduzione di Olivia Crosio Prima edizione digitale 2010 da edizione BUR narrativa ottobre 2008 In copertina: foto © Jeffrey Coolidge/Getty Images Progetto grafico di Erica Heitman-Ford per Mucca Design Questo romanzo è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale. Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. P.S I LOVE YOU Grazie a mamma, papà, Georgina, Nicky e a tutta la mia famiglia e ai miei amici. Grazie a Marianne Gunn O’Connor Grazie ai miei editor di HarperCollins, Lynne Drew e Maxine Hitchcock A David 1 Holly affondò il viso nel golf di cotone blu e il profumo familiare fu come uno schiaffo, un dolore insopportabile che le serrò lo stomaco e le lacerò il cuore. Aghi e spilli le trafissero la nuca e il nodo in gola minacciò di soffocarla. Fu sopraffatta dal panico. A parte il ronzio del frigorifero e il gemito dello scaldabagno, la casa era immersa nel silenzio. Sola! La bile le salì in gola e lei corse in bagno, dove cadde in ginocchio davanti alla tazza del water. Gerry se n’era andato per sempre. Ecco come stavano le cose. Non avrebbe mai più passato le dita tra i suoi capelli setosi, mai più scambiato uno sguardo complice da una parte all’altra del tavolo a cena, non si sarebbe mai più fatta consolare dal suo abbraccio di ritorno dal lavoro, non avrebbe più condiviso il letto con lui, più aperto gli occhi al mattino svegliata dalla sua crisi di starnuti, mai più riso con lui fino ad avere mal di pancia, mai più litigato per chi doveva alzarsi a spegnere la luce della camera da letto. Le restavano solo i ricordi, tanti, e l’immagine del suo viso, che andava sbiadendo di giorno in giorno. Avevano avuto un unico, semplicissimo progetto: restare insieme per tutta la vita, un progetto che i loro amici avevano reputato realizzabile. Erano due tipiche anime gemelle, ecco l’opinione generale. E invece un bel giorno il destino aveva subdolamente cambiato idea. La fine era arrivata anche troppo presto. Dopo essersi lamentato per qualche giorno di un persistente mal di testa, Gerry aveva ascoltato il consiglio di Holly e si era fatto vedere dal medico. Era un mercoledì nell’intervallo di pranzo. Avevano pensato che si trattasse di stress o stanchezza, e si erano detti che alla peggio avrebbe avuto bisogno degli occhiali. Gerry era quasi scioccato all’idea di avere bisogno delle lenti. Ma si era preoccupato inutilmente, perché il problema non erano gli occhi: era il tumore che gli stava crescendo nel cervello. Holly tirò lo sciacquone, rabbrividì per il freddo che saliva dal pavimento di piastrelle e si alzò in piedi tutta tremante. Gerry aveva trent’anni. Non era l’uomo più sano di questa terra, ma stava abbastanza bene per... be’, per vivere una vita normale. Quando aveva cominciato a stare veramente male, aveva scherzato coraggiosamente su come si era sempre comportato in modo coscienzioso, mentre invece avrebbe dovuto drogarsi, ubriacarsi, viaggiare molto di più, saltare giù dagli aeroplani facendosi la ceretta alle gambe... una lista quasi infinita. Oh, lui scherzava, ma Holly vedeva il rimpianto nei suoi occhi: il rimpianto per tutte le cose che non aveva mai trovato il tempo di fare, i luoghi che non aveva mai visto, il futuro e le esperienze che non avrebbe mai vissuto. Rimpiangeva anche la loro vita insieme? Holly sapeva che lui l’amava, ma forse Gerry adesso pensava di aver perso del tempo prezioso, con lei. Tutt’a un tratto per Gerry la vecchiaia non era più stata una temuta ineluttabilità, ma qualcosa cui anelare. Da bravi giovani pieni di presunzione, non l’avevano mai considerata una conquista e una sfida: quanto volentieri avrebbero fatto a meno d’invecchiare, quando erano ancora entrambi sani! Piangendo grosse lacrime salate, Holly fece il giro della casa. Aveva gli occhi rossi e doloranti, e la notte sembrava non finire mai. Non trovò sollievo in nessuna stanza: fissava i mobili, e in risposta riceveva solo un silenzio ostile. Si aspettava quasi che il divano le tendesse le braccia, ma persino quello la ignorò. Gerry non sarebbe stato contento di lei, pensò. Respirò a fondo, si asciugò gli occhi e cercò di recuperare un po’ del suo abituale buon senso. Gerry non sarebbe stato per nulla contento. Dopo un’intera notte di pianto, Holly aveva gli occhi pesti e gonfi. Come sempre in quelle ultime settimane, era caduta in un sonno agitato alle prime ore del mattino. Al risveglio si ritrovava distesa scomodissimamente su qualche pezzo d’arredamento. Quel giorno era toccato al divano, e fu la telefonata di qualcuno in pensiero per lei a scuoterla dal sonno. Probabilmente pensavano che dormisse tutto il tempo. Dov’erano le loro telefonate quando lei vagava irrequieta per casa come uno zombie, andando di stanza in stanza alla ricerca di... che cosa? Già: di che cosa? “Pronto”, rispose assonnata. Aveva la voce roca per il pianto, ma da un pezzo ormai non si preoccupava più di fingersi coraggiosa a beneficio degli altri. Il suo migliore amico se n’era andato e nessuno voleva capire che non c’era cosmetico, aria fresca o shopping in grado di riempire il buco nel suo cuore. “Oh, cara, scusa tanto, ti ho svegliata?” chiese la voce preoccupata della madre. La chiamava ogni mattina, per sapere se era sopravvissuta alla nottata da sola. Era timorosa di svegliarla, ma sollevata di sentirla. E quando sapeva che sua figlia aveva sconfitto i fantasmi della notte, tirava un sospiro di sollievo. “Non fa niente, stavo solo sonnecchiando.” Sempre la stessa risposta. “Declan e tuo padre sono usciti e ho pensato a te, piccola.” Perché quella voce tranquillizzante e comprensiva le faceva venire ogni volta le lacrime agli occhi? Poteva quasi vedere la faccia preoccupata della mamma, la fronte corrugata. Ma non si sentiva affatto meglio: tutto questo le ricordava perché si agitavano tanto per lei, e perché non era giusto che lo facessero. Tutto sarebbe dovuto restare normale, con Gerry accanto a lei che roteava gli occhi cercando di farla ridere mentre Elizabeth, la madre, cicalava nel ricevitore. Quando non riusciva più a trattenersi, gli passava il telefono in fretta e furia e lui continuava a chiacchierare come se niente fosse, mentre lei per vendetta saltellava attorno al letto esibendosi in strane facce e buffi balletti. Ma non funzionava mai. Partecipò alla conversazione con degli “mmm” e degli “ah”, senza realmente ascoltare. “È una bella giornata, Holly. Ti farebbe proprio bene uscire un po’. Respirare una boccata d’aria fresca.” “Mmm.” Rieccola, l’aria fresca: la risposta a tutti i suoi problemi. “Potrei passare da te più tardi per fare due chiacchiere.” “No, grazie, mamma, sto benissimo così.” Silenzio. “Bene, come vuoi tu... Fammi uno squillo se cambi idea. Oggi sono libera.” “Okay.” Ancora silenzio. “Grazie comunque.” “Figurati... Abbi cura di te, tesoro.” “Lo farò.” Holly stava per riappendere, quando Elizabeth aggiunse qualcosa. “Oh, Holly, stavo quasi per dimenticarmene. C’è ancora qui quella busta per te. È sul tavolo della cucina. Forse ti conviene venirla a prendere. È qui da settimane, ormai, e potrebbe essere importante.” “Non credo proprio. Sarà un altro biglietto di condoglianze.” “Non mi sembra, tesoro. In alto a sinistra dice... Aspetta che vado a prenderla.” Il rumore secco della cornetta che veniva appoggiata, quello dei tacchi sulle piastrelle della cucina, la sedia che strisciava sul pavimento, i passi che tornavano, la cornetta che veniva di nuovo impugnata... “Sei ancora lì?” “Già.” “Ecco, dice ‘La Lista’. Forse viene dall’ufficio, tesoro. Secondo me vale la pena di dare un’occh...” Holly riappese. 2 “Gerry, spegni la luce!” Holly rise, guardando Gerry che ballava per la stanza esibendosi in uno striptease. Si stava slacciando i bottoni della camicia bianca. Inarcò maliziosamente un sopracciglio e lasciò scivolare la camicia giù dalle spalle, quindi la prese con una mano e se la fece roteare sopra la testa. Holly continuava a ridere. “Spegnere la luce? Vuoi perderti lo spettacolo?” domandò Gerry, flettendo maliziosamente un braccio. Non era vanitoso, ma secondo Holly aveva di che esserlo. Il suo corpo era forte e tonico, le gambe muscolose, il risultato di ore e ore di lavoro in palestra. Non era altissimo, ma il suo metro e settantatré era sufficiente a farla sentire al sicuro quando cingeva protettivo il metro e sessantacinque di Holly. E quando l’abbracciava la testa di lei gli finiva esattamente sotto il mento, cosa che a Holly piaceva moltissimo perché sentiva il suo alito tra i capelli. Il suo cuore ebbe un sussulto quando Gerry sfilò i boxer, li agganciò con le dita del piede e glieli lanciò, centrandole in pieno la testa. “Be’, per lo meno qui sotto è un po’ più buio”, disse lei ridendo. Gerry riusciva sempre a divertirla. Quando tornava stanca e arrabbiata dal lavoro, lui era sempre comprensivo e ascoltava paziente le sue lamentele. Non litigavano quasi mai, e quando succedeva era per le cose più stupide e finivano per riderci sopra, come quando lasciavano accesa per tutto il giorno la luce del portico o dimenticavano di puntare la sveglia. Finito lo strip-tease, Gerry si tuffò tra le lenzuola e le si rannicchiò vicino, infilandole i piedi gelati sotto le gambe per riscaldarli. “Aaaagh! Sei un cubetto di ghiaccio, Gerry!” Quella posizione voleva dire che non aveva più intenzione di muoversi, lo sapeva bene. “Gerry...” gli disse, in tono ammonitore. “Holly...” le fece il verso lui. “Non hai scordato qualcosa?” “No, non mi sembra.” “E la luce?” “Ah, già, la luce”, fece lui, e finse di russare sonoramente. “Gerry!” “Mi è già toccato ieri sera!” “Sì, ma fino a un secondo fa eri lì a un centimetro dall’interruttore!” “Sì, fino a un secondo fa...” ribatté lui. Holly sospirò. Odiava, dopo che si era già rannicchiata al calduccio, doversi alzare, camminare sul pavimento freddo e tornare indietro a tastoni nel buio. Emise un brontolio. “Non posso essere sempre io a spegnere, Hol. Un giorno potrei non essere qui, e allora come faresti?” “Manderei il mio nuovo marito”, rispose Holly, cercando di allontanare i suoi piedi gelati. “Ah!” “Oppure mi ricorderei di farlo io prima di mettermi a letto.” Gerry sbuffò. “Sì, figurati! Mi toccherà lasciarti un biglietto attaccato all’interruttore, prima di andarmene.” “Molto carino da parte tua, ma basta che mi lasci i tuoi soldi.” “E un biglietto sullo scaldabagno.” “Molto divertente.” “E uno sul cartone del latte.” “Sei spassosissimo, Gerry.” “Ah, e anche sulle finestre, per ricordarti di spegnere l’allarme prima di aprirle al mattino.” “Senti, se credi che senza di te sarei così persa, perché nel tuo testamento non mi metti una lista di cose da fare?” “Non è per niente una cattiva idea.” “Bene, allora posso andare a spegnere la maledettissima luce.” Holly scese brontolando dal letto, fece una smorfia quando mise i piedi sul pavimento gelido e spense la luce, quindi si fece strada a tastoni verso il letto. “Holly? Ti sei persa? C’è nessuno là fuori fuori fuori fuori?” ululò Gerry nell’oscurità. “Sì, sto... ahia ahia ahia!” gridò lei, dopo aver sbattuto l’alluce contro il piedino del letto. “Cazzo cazzo cazzo che male, brutto bastardo, cazzo!” Gerry ridacchiò sotto il piumino. “Numero due della lista: attenzione al piedino del letto.” “Oh, chiudi il becco, per favore, e smettila di essere così petulante!” scattò lei, prendendosi in mano il piede dolorante. “Vuoi che gli dia un bacetto, così guarisce?” “No, è passato. Se solo potessi metterlo qui per riscaldarlo un pochino...” “Aaaah! Ma sei un ghiacciolo!” E Holly tornò di buon umore. Ecco com’era nata la storia della lista. Era un’idea stupida e semplice che avevano subito condiviso con Sharon e John McCarthy, i loro migliori amici. Era stato John ad avvicinarla nei corridoi della scuola quando avevano quattordici anni e a pronunciare la famosa frase: “Il mio amico vuole sapere se ti va di uscire con lui”. Dopo giorni di interminabili discussioni e riunioni di emergenza con le amiche, Holly aveva finalmente accettato. “Dai, escici, Holly”, l’aveva esortata Sharon. “È così carino! E non ha nemmeno la faccia tutta foruncolosa come John.” Come invidiava Sharon, adesso! Si erano sposati tutti e quattro a pochi mesi di distanza. Gli altri tre avevano ventiquattro anni e Holly, la più piccola del gruppo, uno di meno. Qualcuno la considerava troppo giovane e non perdeva occasione per ripeterle che, alla sua età, avrebbe dovuto pensare solo a viaggiare e divertirsi. Invece Gerry e Holly avevano viaggiato e si erano divertiti insieme. Per loro aveva molto più senso stare vicini, perché quando non lo erano... be’, Holly si sentiva come se le mancasse un organo vitale. Il giorno del matrimonio non era certo stato il più bello della sua vita. Come tutte le ragazze, aveva sognato una cerimonia da favola, con un abito da principessa, un bel sole, una chiesetta romantica e tutte le persone a cui voleva bene. E il ricevimento sarebbe stato memorabile: avrebbe ballato con tutti gli amici, tutti l’avrebbero ammirata e lei si sarebbe sentita speciale. La realtà era stata molto diversa. Erano state delle grida selvagge a svegliarla: “Non trovo più la cravatta!” (suo padre) e “Così i capelli mi stanno da schifo!” (sua madre). Ma la migliore di tutte era stata: “Guardate, sembro una stronzissima balena! Non penserete davvero che mi presenti a questo cazzo di matrimonio vestita così! Sono un obbrobrio! Mamma, guarda come sono conciata! A Holly conviene trovarsi un’altra damigella, perché io così col cazzo che ci vengo. Ehi! Ridammi subito quel cazzo di fon, Jack. Non ho mica finito!” (Questa l’indimenticabile serie di affermazioni di Ciara, la sorella minore di Holly, che con una certa regolarità faceva scenate e si rifiutava di uscire di casa affermando di non avere niente da mettere nonostante il suo armadio fosse sempre strapieno. Attualmente viveva da qualche parte in Australia con degli estranei, e le sole comunicazioni che aveva con la famiglia erano delle e-mail che spediva a intervalli di settimane l’una dall’altra.) La famiglia aveva passato il resto della mattina tentando di far bere a Ciara che era la ragazza più bella del mondo, mentre Holly si era vestita da sola in silenzio sentendosi da schifo. Ciara aveva accettato di uscire di casa solo dopo che il padre, di solito calmissimo, le aveva gridato a piena voce, lasciando tutti di stucco: “Ciara, questa è la giornata di Holly, NON LA TUA! Tu VERRAI al matrimonio e ti divertirai e quando tua sorella scenderà quelle scale tu LE DIRAI quanto è bella e per tutto il resto della giornata NON VOGLIO PIÙ SENTIRE LA TUA VOCE!” Quando Holly aveva sceso le scale, era stato tutto un “ah” e “oh” di meraviglia, e Ciara, che sembrava una bambina di dieci anni subito dopo una bella ramanzina, l’aveva guardata con gli occhi lustri e con labbra tremanti aveva detto: “Come sei bella, Holly”. Quindi si erano stipati tutti e sette nella limousine (lei, i suoi genitori, i suoi tre fratelli e Ciara), e avevano coperto in un silenzio atterrito tutto il tragitto fino alla chiesa. Adesso l’intera giornata non era che un ricordo confuso. Aveva avuto a malapena il tempo di parlare con Gerry: erano stati subito trascinati in direzioni opposte per conoscere la prozia Betty, che chissà da dove diavolo sbucava e comunque Holly non vedeva dal giorno in cui era nata, e il prozio Toby, che veniva dall’America e nessuno aveva mai nominato finora ma tutt’a un tratto era un membro di spicco della famiglia. Nessuno le aveva detto che sarebbe stato così stancante. Alla fine della serata Holly aveva male alle guance a furia di sorridere ai fotografi, e i piedi in fiamme a forza di correre in giro nelle scarpette striminzite. Avrebbe dato qualunque cosa per sedersi alla tavolata degli amici, che si stavano chiaramente divertendo come matti. Tanto meglio per loro, aveva pensato. Ma appena entrata nella suite “Luna di miele” con Gerry, tutte le sue contrarietà erano svanite come d’incanto e lo scopo di tante fatiche era finalmente chiaro. Quando si accorse che stava sognando a occhi aperti per l’ennesima volta, ebbe di nuovo voglia di piangere. Restò seduta immobile sul divano, stringendo in mano il telefono. In quel periodo il tempo passava senza che avesse più cognizione dell’ora o del giorno. Era come vivere fuori dal corpo, insensibile a tutto tranne al dolore che sentiva al cuore, alle ossa, alla testa. Era così stanca... Sentì un brontolio allo stomaco e si rese conto di non ricordare l’ultima volta che aveva mangiato. Forse ieri? Ciabattò in cucina. Portava la vestaglia di Gerry e le sue pantofoline rosa preferite, quelle da “disco girl” che le aveva regalato lui il Natale precedente. “Tu sei la mia disco girl”, le diceva. E in effetti era sempre la prima a scendere in pista e l’ultima a uscire dai locali. Che fine aveva fatto quella ragazza? Holly aprì il frigo e fissò i ripiani vuoti: c’erano solo delle verdure e uno yogurt scaduto da secoli, che puzzavano a più non posso. Scosse il cartone del latte e sorrise debolmente. Vuoto. La terza voce sulla lista... Due Natali prima, Holly era andata con Sharon a comprarsi un vestito per il ballo che si teneva ogni anno al Burlington Hotel. Fare compere con Sharon era sempre pericoloso, e John e Gerry avevano scherzato su come anche stavolta, come risultato dei loro bagordi, sarebbero rimasti senza regali. Non si erano sbagliati di molto, e le ragazze li chiamavano i loro “poveri maritini trascurati”. Holly aveva speso un’enormità di denaro da Brown Thomas per un abito bianco, il più bello che avesse mai visto. “Merda, Sharon, questo farà affondare il mio bilancio”, aveva detto in tono colpevole, accarezzando la stoffa. “Non preoccuparti, lo ricucirà Gerry”, aveva replicato Sharon, con un’ignobile risata. “E smettila di chiamarmi ‘merda Sharon’. Lo fai ogni volta che usciamo. Se non stai attenta, comincerò a offendermi. Compralo e basta, Holly. È Natale, no? La stagione dei doni eccetera eccetera.” “Mi hai traviato anche stavolta. Non ci vengo più, a fare shopping con te. Questo vale metà del mio stipendio. Che cosa farò per le altre due settimane?” “Holly! Preferisci mangiare o essere una favola?” “Lo prendo”, aveva comunicato Holly, eccitatissima, alla commessa. Il vestito era molto scollato – il che valorizzava il suo piccolo seno – e aveva uno spacco fino alla coscia – che metteva in mostra le gambe slanciate. Gerry non le aveva tolto gli occhi di dosso un istante, ma non per via della sua bellezza: non riusciva a capire come un pezzo di stoffa così piccolo potesse costare così tanto. Al ballo, Miss Disco Girl aveva esagerato come al solito con gli alcolici, ed era riuscita a rovinarsi il vestito versandoci sopra del vino rosso. Holly aveva inutilmente tentato di trattenere le lacrime, mentre gli uomini al tavolo informavano le signore che la voce cinquantaquattro della lista avvisava di non bere vino rosso se si indossava un costoso abito bianco. Era stato deciso all’unanimità che la bevanda migliore in simili occasioni era il latte, che se si fosse rovesciato sul prezioso capo non lo avrebbe macchiato. Più tardi, quando Gerry aveva urtato la sua pinta facendola traboccare, e la birra era colata dal tavolo sul grembo di Holly, lei aveva dichiarato lacrimosamente, ma con convinzione, alla tavolata e ad alcuni tavoli vicini: “Vosce scinquantascinque della lista: MAI, MAI comprare un costoso abito bianco”. Anche qui l’approvazione era stata unanime, e Sharon si era risvegliata dal coma per uscire da sotto il tavolo, applaudirla e offrirle conforto morale. Dopo che uno stupefatto cameriere aveva servito loro un vassoio di bicchieri di latte, avevano brindato a Holly e alla sua grande dedizione alla Lista. “Mi dispiace per il tuo costoso abito bianco”, le aveva detto John, prima di cadere fuori dal taxi e di trascinarsi dietro Sharon fino alla porta. Possibile che Gerry avesse mantenuto la parola e prima di morire avesse davvero redatto la famosa lista? Gli era stata vicino ogni singolo istante fino alla morte e lui non aveva mai lasciato trapelare niente. Non si era mai nemmeno accorta che stesse scrivendo qualcosa. No, Holly, torna in te e non essere stupida, si disse. Lo voleva così disperatamente indietro che immaginava le cose più assurde. Gerry non poteva averlo fatto davvero. O sì? 3 Holly camminava in un campo di gigli tigrati. Soffiava un vento leggero; a ogni passo nell’erba alta e brillante i petali setosi le solleticavano la punta delle dita. Il terreno sotto i piedi nudi era soffice, elastico, e il suo corpo sembrava quasi fluttuare sopra la terra spugnosa. Tutto attorno, gli uccelli indaffarati fischiettavano allegramente le loro canzoni. Il sole nel cielo terso era così luminoso che Holly doveva schermarsi gli occhi, e a ogni folata il profumo dolce dei fiori le riempiva le narici. Si sentiva così... felice, così libera. Tutto a un tratto il cielo si oscurò: il sole caraibico era sparito dietro una minacciosa nube nera. Il vento rinforzò e l’aria divenne fredda. Intorno a lei i petali dei gigli turbinavano impazziti, confondendole la vista. Al posto del terreno spugnoso c’erano pietre affilate che a ogni passo le graffiavano e ferivano i piedi. Gli uccelli avevano smesso di cantare e se ne stavano appollaiati sui rami a guardare. Qualcosa non andava, e lei ebbe paura. Davanti a lei, in lontananza nell’erba alta, s’intravedeva una pietra grigia. Holly avrebbe voluto tornare in mezzo ai suoi bei fiori, ma sentiva il bisogno di sapere cosa c’era più avanti. Mentre si avvicinava prudentemente sentì BANG! BANG! BANG! Accelerò il passo mettendosi a correre sulle pietre aguzze, in mezzo all’erba dai bordi dentellati che le graffiava gambe e braccia. Arrivata alla lastra di pietra cadde in ginocchio, e nel rendersi conto di che cos’era lanciò un grido disperato: la tomba di Gerry. BANG! BANG! BANG! Lui stava cercando di uscire. La chiamava, Holly poteva sentirlo benissimo! Si svegliò di soprassalto: qualcuno stava bussando furiosamente alla porta. “Holly! Holly! Lo so che ci sei! Per favore, fammi entrare!” BANG! BANG! BANG! Confusa e mezzo addormentata, si fece strada fino all’ingresso. Sharon sembrava fuori di sé dall’ansia. “Hol! Cosa stavi facendo? Sono secoli che busso!” Non ancora del tutto sveglia, Holly diede un’occhiata fuori. C’era molta luce e faceva freschino: doveva essere mattina. “Allora? Non mi fai entrare?” “Ma certo, Sharon, scusa. Mi ero appisolata sul divano.” “Dio mio, hai un aspetto orribile!” Sharon la fissò per un attimo, poi la strinse in un grosso abbraccio. “Grazie tante!” rispose Holly, roteando gli occhi, e si girò per chiudere la porta. Sharon non parlava mai per allusioni, ma era proprio per questo che le voleva bene. Ed era anche il motivo per cui in quegli ultimi mesi l’aveva evitata: non voleva sentire la verità, non voleva sentirsi dire che doveva riprendere a vivere. Il suo unico desiderio era... oh, non lo sapeva nemmeno lei. Era contenta di sentirsi infelice. Le sembrava la cosa giusta. “Non si respira, qua dentro! Quando è stata l’ultima volta che hai aperto una finestra?” Sharon girò per tutta la casa spalancando vetri e raccogliendo piatti e tazze vuote. Li portò in cucina, dove li mise nella lavapiatti, e cominciò a pulire. “Oh, non devi farlo, Sharon!” protestò debolmente Holly.” Ci penso io...” “Quando? L’anno prossimo? Dobbiamo fingere di non vedere come ti stai lasciando andare? Senti, perché non vai di sopra a farti una doccia? Quando scendi ci beviamo una bella tazza di tè.” Una doccia. Quando si era lavata l’ultima volta? Sharon aveva ragione, doveva avere un aspetto disgustoso con i capelli unti, la ricrescita nera e la vestaglia sporca. La vestaglia di Gerry. Ma quella non l’avrebbe lavata mai. L’avrebbe tenuta esattamente come lui gliel’aveva lasciata. Purtroppo il suo odore non si sentiva quasi più: al suo posto c’era il puzzo inconfondibile di una persona sporca. “Okay, ma non c’è latte. Non ho ancora trovato il tempo di...” Holly era in imbarazzo, un po’ per lo stato pietoso della casa, un po’ per la propria persona. Non avrebbe lasciato per nessun motivo al mondo che Sharon guardasse in quel frigo: corne minimo l’avrebbe fatta ricoverare. “Ta-da!” esultò Sharon, mostrandole un sacchetto di cui Holly non si era nemmeno accorta. “Niente paura, ci ho pensato io. A guardarti si direbbe che non mangi da settimane.” “Grazie, Sharon.” Holly sentì un nodo in gola e gli occhi le divennero lucidi. La sua amica era tanto buona con lei. “Niente lacrime, oggi, mi raccomando! Solo risate e felicità, mia cara. Adesso la doccia. Fila!” Quando tornò da basso, Holly si sentiva già più umana. Aveva messo una tuta blu e i capelli biondi (con le radici scure) erano sciolti sulle spalle. Le finestre al piano terra erano tutte spalancate e la brezza fresca le spazzò il cervello, portandosi via tutti i pensieri cupi e le paure. Sorrise all’idea che sua madre potesse avere ragione, dopotutto. Improvvisamente uscì dalla trance e si guardò attorno stupita: non era stata via più di mezz’ora, ma Sharon aveva pulito e lustrato, passato l’aspirapolvere e sprimacciato, lavato e spruzzato un profumo per ambienti in ogni stanza. Holly seguì il suono sommesso della sua canzone e la trovò in cucina che strofinava i fornelli. I ripiani splendevano, i rubinetti cromati e il lavello scintillavano. “Sei un angelo, Sharon! Non riesco a credere che tu abbia fatto tutto questo! E in così poco tempo!” “Sei stata su più di un’ora, gioia. Cominciavo a pensare che fossi scivolata nello scarico. Magra come sei...” Un’ora? Holly si era lasciata nuovamente trasportare dai suoi sogni a occhi aperti. “Ho comprato un po’ di frutta e verdura. Lì ci sono degli yogurt e del formaggio, e il latte, naturalmente. La pasta e i cibi in scatola non so dove li tieni, quindi li ho appoggiati là. Ah, e ti ho messo in freezer delle cene da scaldare nel microonde. Dovrebbero bastarti per un po’, ma se continui così dureranno anche un anno. Quanti chili hai perso?” Holly si guardò. Il cordino dei pantaloni era stretto al massimo, ma la tuta le pendeva tristemente addosso e le scendeva sui fianchi. Non si era resa conto di essere dimagrita così tanto. La voce di Sharon la riportò alla realtà. “Quelli sono dei biscotti da mangiare con il tè. Jammie Dodgers, i tuoi preferiti.” I Jammie Dodgers furono la classica goccia di troppo, e Holly sentì una lacrima bollente correrle sulla guancia. “Oh, Sharon, grazie! Sei tanto carina con me e io sono stata una così pessima amica!” Si sedette al tavolo e strinse la mano di Sharon. “Non so come farei senza di te.” L’altra rimase seduta in silenzio, aspettando che lei continuasse. Questo era proprio quello che Holly temeva di più: sciogliersi in lacrime davanti alla gente in ogni occasione possibile e immaginabile. Ma non si sentiva in imbarazzo: Sharon sorseggiava il tè tenendole pazientemente la mano come se fosse del tutto normale. Alla fine le lacrime smisero di sgorgare. “Grazie.” “Sono la tua migliore amica, Hol. Se non ti aiuto io, chi può farlo?” Le diede una strizzatina alla mano e le fece un sorriso incoraggiante. “Forse dovrei farlo io.” “Ma va’! Quando sarai pronta. Non dar retta a chi ti dice che bisogna rimettersi in pista entro un mese. Anche abbandonarti alla sofferenza è un modo per aiutare te stessa.” Diceva sempre la cosa giusta. “Sì, be’, la sofferenza non me la sono certo fatta mancare. Credo di averla addirittura esaurita.” “Come”, esclamò Sharon, fingendosi scandalizzata, “con tuo marito sepolto da appena un mese?” “Oh, smettila! Ma ci sarà anche chi penserà questo, vero?” “Probabile, ma mandali a quel paese. Ci sono peccati peggiori che imparare a essere di nuovo felici.” “Forse hai ragione.” “Promettimi che mangerai.” “Prometto.” “Grazie per essere venuta, Sharon. Parlare con te mi ha fatto bene”, disse Holly, abbracciando con gratitudine l’amica. “Mi sento già molto meglio.” “Stare in mezzo alla gente fa sempre bene, Hol. Gli amici e la famiglia ti possono essere di grande aiuto, sai? Be’, ora che ci penso, forse non la tua famiglia”, scherzò Sharon. “Ma noi possiamo darti una mano.” “Adesso me ne rendo conto. Credevo di poter fare tutto da sola.” “Promettimi che ti farai viva. O almeno che ogni tanto metterai il naso fuori di casa.” “Te lo prometto. Però cominci a parlare come mia madre.” “Stiamo solo cercando di prenderei cura di te. Bene, ci vediamo presto”, disse Sharon, baciandola sulla guancia. “E mangia”, aggiunse, dandole un colpetto sulle costole. Holly salutò con la mano l’auto che si allontanava. Era quasi buio. Avevano passato tutta la giornata a ridere e scherzare sui vecchi tempi, poi a piangere un po’, poi di nuovo a ridere e scherzare, e infine di nuovo a piangere. Sharon le aveva fatto vedere la sua disgrazia da un’altra prospettiva: Holly non ci aveva pensato, ma in fondo lei e John avevano perso il loro migliore amico, i genitori di Holly il genero, quelli di Gerry il loro unico figlio. Ma lei era stata troppo presa a pensare a se stessa. Tornare tra i vivi, tralasciando per un momento i fantasmi del passato, le aveva fatto piacere. Domani sarebbe stato un nuovo giorno e intendeva cominciarlo passando a prendere quella busta. 4 Holly iniziò la giornata di venerdì alla grande, alzandosi presto. Ma per quanto si fosse coricata piena di ottimismo, eccitata dalle nuove prospettive, venne di nuovo colpita dalla dura realtà del calvario che ancora l’aspettava. Si era svegliata ancora una volta in un letto vuoto e in una casa silenziosa, ma aveva fatto un piccolo passo avanti: per la prima volta dopo più di un mese, non aveva avuto bisogno del trillo del telefono. Come ogni mattina, riabituò la mente al fatto che il sogno di lei e Gerry insieme, con il quale aveva giocato in quelle ultime dieci ore, era solo questo: un sogno. Si fece una doccia e si vestì con abiti comodi: i suoi jeans preferiti, scarpe da ginnastica e una maglietta rosa pallido. Sharon aveva ragione, era dimagrita parecchio: i jeans, una volta attillati, adesso le cadevano sui fianchi. Fece una smorfia al proprio riflesso nello specchio. Era brutta: aveva le occhiaie, le labbra screpolate e dei capelli disastrosi. La prima cosa da fare era andare dal parrucchiere e pregare che le trovasse un buco. “Diiio, Holly!” esclamò Leo, il suo stylist. “Ma guavdati come sei vidotta! Fate posto, gente! Fate posto! Ho qui una donna in condizioni cvitiche!” Le strizzò l’occhio e la fece sedere tirandola per un braccio. “Grazie, Leo. Mi sento molto più carina, adesso”, borbottò lei, cercando di nascondere il viso paonazzo. “Be’, sbagli, pevché sei pvopvio a pezzi.” Poi Leo cominciò a dare ordini, agitato come se stesse per eseguire un intervento chirurgico d’urgenza. E forse era proprio così. “Sandva? Pvepavami il solito. Colin? Povtami la stagnola. Tania? Mmm... Niente. Ah, e dite a Will di non sognarsi di andave a pvanzo, che deve fave la mia cliente di mezzogiovno.” “Mi dispiace, Leo! Non volevo crearti questo casino.” “Cevto che volevi, cava. Altvimenti pevché savesti piombata qui senza appuntamento un venevdì all’ova di pvanzo? Pev favovive la pace nel mondo?” Holly si mordicchiò colpevolmente il labbro. “Ah, tesovo, non lo favei pev nessun’altva!” Leo appoggiò il piccolo sedere rotondo sul banco davanti a Holly. Doveva essere sulla cinquantina, ma non dimostrava più di trent’anni. I capelli erano color miele, come la pelle, ed era sempre vestito perfettamente. Qualunque donna davanti a lui non poteva che sentirsi una megera. “Allova, come va?” “Da cani.” “Sì, si vede.” “Grazie.” “Be’, quando uscivai di qui almeno una cosa ce l’avvai a posto. Io faccio i capelli, non i cuovi.” Holly gli sorrise con riconoscenza. A suo modo, Leo le aveva lasciato intendere di aver capito. “Ma, Diiiio, Holly, quando sei entvata che pavola hai letto sull’insegna, mago o pavvucchieve? Come la tizia che si è pvesentata stamattina. Vestita di montone: sembvava una pecova. Ne aveva almeno sessanta. ‘Voglio che mi faccia così’, fa, e mi mette sotto il naso una copevtina con Jennifev Aniston.” La sua imitazione fece ridere Holly, “‘Diiiio’, faccio io, ‘sono un pavvucchieve, non un chivuvgo plastico. Se vuole davvevo sembvave così, l’unico modo è vitagliave la foto e incollavsela in faccia.’” Holly trasecolò. “No! Le hai detto davvero così? Non ci credo!” “Cevto che gliel’ho detto! Qualcuno doveva favlo. L’ho solo aiutata, cvedimi. Entvave qui vestita da sventolona come una vagazzina! Dovevi vedevla!” “Ma... che cosa ti ha risposto?” “Ho sfogliato la vivista finché non ho tvovato una bella foto di Joan Collins. ‘Questa sì che fa pev lei’, le ho detto. È stata tutta contenta.” “Non avrà avuto il coraggio di dirti che le faceva schifo.” “E chi se ne fvega? Io di amici ne ho già abbastanza.” Holly rise. “Amici? Possibile?” “Stai fevma”, le ordinò lui, poi divenne improvvisamente serio, e con le labbra strette per la concentrazione cominciò a separare le ciocche di Holly per la colorazione. Era troppo buffo, e Holly rise di nuovo. “E dai, Holly!” la rimproverò lui, esasperato. “Non riesco a trattenermi, Leo. Mi hai fatto cominciare e non so più fermarmi.” “L’ho sempre pensato, che evi buona pev il manicomio. Nessuno mai mi dà ascolto.” “Oh, scusa, Leo!” ululò lei. “Non so che cosa mi sia preso, ma ho proprio una crisi di riso!” Le altre clienti cominciavano a guardarla storto, ma Holly aveva aperto le dighe. Era come se stesse dando sfogo alla gioia mancata di quegli ultimi due mesi. Leo tornò ad appoggiarsi al banco e la guardò. “Non devi chiedeve scusa. Vidi puve finché vuoi, Holly. Fa bene al cuove, o almeno così dicono.” “Oh, era da un pezzo che non mi divertivo così!” “Be’, ultimamente non hai avuto molto da divevtivti, o sbaglio?” Leo sorrise malinconico. Anche Gerry gli era sempre stato simpatico: era scanzonato, aveva sempre la battuta pronta... Si riscosse dai suoi pensieri, arruffò affettuosamente i capelli di Holly e le piantò un bacio sulla fronte. “Ma vedvai che pvesto stavai bene, Holly Kennedy”, le assicurò. La sua tenerezza la calmò. “Grazie, Leo.” Lui riprese a lavorare sui suoi capelli, assumendo senza accorgersene quella buffa espressione concentrata, che provocò di nuovo l’ilarità di Holly, “Adesso vidi, ma vedvai quando pev sbaglio ti avvò fatto la testa a strisce!” “Come sta Joe?” Leo pompò con rabbia sul pedale della sedia, proiettando bruscamente Holly verso l’alto. “Mi ha mollato.” “Oh, mi dispiace tanto! Stavate così bene insieme!” “Be’, ova non più. Cvedo che lui esca già con qualcun altvo. Sai, penso che mettevò due sfumature di biondo, uno dovato e uno scuvo. Pvima che mi diventi giallo canavino. Quello lo visevvo alla mia clientela di pvostitute.” “Che sciocco, Joe! Se ha un pizzico di sale in zucca, si renderà conto di quello che si è perso.” “Secondo te ci vogliono più di due mesi, per vendevsene conto? Secondo me sta benone così. Ne ho fin qui, sai? Degli uomini, dico. Cvedo che cambierò pavvocchia.” “Questa è la cosa più stupida che abbia mai sentito...” Holly uscì dal negozio sentendosi leggera e contenta. Un paio di uomini si girarono a guardarla, cosa a cui non era avvezza in quanto aveva quasi sempre Gerry accanto. Sentendosi a disagio, si rifugiò in macchina e si preparò ad andare a casa dei suoi genitori. Finora la giornata era andata a gonfie vele. Il parrucchiere era stato un’ottima mossa: nonostante avesse anche lui il cuore infranto, Leo ce l’aveva messa tutta per farla divertire. Non se lo sarebbe dimenticato. Si fermò lungo il marciapiede fuori dalla casa dei suoi a Portmarnock e inspirò profondamente. Con grande sorpresa di sua madre, quella mattina Holly l’aveva chiamata appena sveglia, per sapere quando poteva farle visita. Erano le tre e mezzo, adesso, e lei rimase seduta in macchina con una morsa allo stomaco. A parte le visite dei suoi genitori in quell’ultimo mese, era da un pezzo che non trascorreva un po’ di tempo in famiglia. Non aveva voglia di essere al centro dell’attenzione, e neppure di passare il pomeriggio a sentirsi rivolgere domande impiccione su come si sentiva e che intenzioni aveva per il futuro, ma era arrivato il momento di superare anche quel blocco. In fondo era la sua famiglia. La casa era di fronte a Portmarnock Beach, dove sventolavano le bandiere blu a testimonianza della pulizia dell’acqua. Holly parcheggiò e guardò il mare dall’altra parte della strada. Aveva vissuto lì dal giorno in cui era nata a quello in cui aveva sposato Gerry. Le era sempre piaciuto svegliarsi con il rumore del mare che lambiva gli scogli e le grida eccitate dei gabbiani nel cielo. Era bello avere la spiaggia al posto del giardino, specialmente in estate. Sharon abitava proprio dietro l’angolo e da ragazzine, nelle giornate più calde, si avventuravano al di là della strada nei loro abitini estivi più sgargianti a fare commenti sui ragazzi più belli. Holly e Sharon erano diversissime tra loro: Sharon aveva i capelli castani, la pelle bianca e un petto prorompente, Holly era bionda, minuta e con la pelle