Quaderni economico giuridici - Biblioteca Economico

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Quaderni economico giuridici - Biblioteca Economico
Quaderni
economico
giuridici 5
Le implicazioni della riforma
del diritto societario
nelle banche
Stefano Dell’Atti
(a cura di)
a cura della biblioteca
economico-giuridica
“Felice Chirò”
www.bibliobancapulia.it
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Presidente
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Professore Emerito
Università Commerciale
“L. Bocconi” di Milano
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Stefano Dell’Atti
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Le implicazioni della riforma del
diritto societario nelle banche
Una versione preliminare dei saggi pubblicati in
questo quaderno è stata presentata nel corso del
Convegno organizzato presso la Sala Convegni della
biblioteca economico-giuridica “Felice Chirò” il 15
settembre 2005
Le implicazioni della riforma del diritto societario nelle banche
Autori
Stefano Dell’Atti
Professore straordinario di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli
Studi di Foggia
Bruna Ecchia
Ricercatore di Finanza Aziendale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Antonia Martellotta
Assegnista di Ricerca di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli
Studi di Foggia e Dottoranda di ricerca in Gestione Bancaria e Finanziaria
nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
Annalisa Postiglione
Assegnista di Ricerca di Diritto Commerciale nell’Università degli Studi di Foggia
Fabio Pizzutilo
Ricercatore di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli Studi di Bari
Alma Agnese Rinaldi
Dottore di Ricerca in Diritto Pubblico dell’Economia nell’Università degli Studi di Bari
Valeria Roncone
Ricercatore di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli Studi di Bari
2
Indice
Stefano Dell’Atti
La riforma del diritto societario nelle banche:
spunti di riflessione
pag.
5
Bruna Ecchia
I patrimoni destinati ad uno specifico affare.
Gli aspetti di rilievo per le imprese bancarie
pag.
7
pag.
15
Annalisa Postiglione
Gli apporti di capitale ed i finanziamenti dei soci nella
valutazione del merito creditizio
pag.
39
Fabio Pizzutilo
I gruppi bancari cooperativi paritetici. Riflessioni alla luce
della riforma del diritto societario
pag.
49
Alma Agnese Rinaldi
Attività di direzione e coordinamento nel gruppo bancario
e nel gruppo societario in generale
pag.
57
Valeria Roncone
La nuova finanza societaria e l’impatto sul rapporto
banca-impresa
pag.
79
Antonia Martellotta
Le azioni correlate: opportunità per le banche
3
4
Stefano Dell’Atti*
La riforma del diritto societario nelle banche: spunti di riflessione
Dopo oltre 60 anni dalla promulgazione del Codice Civile del 1942, con l’adozione del
decreto legislativo n. 61 del 17 gennaio 2003, si introducono nuove regole di diritto
societario che arrecano profonde innovazioni alla disciplina delle società di capitali e
cooperative.
La riforma, ispirata ai principi generali fissati nella legge delega, è volta a favorire la
nascita delle imprese ed a soddisfarne le esigenze di crescita e di maggiore competitività2.
Il presente quaderno di ricerca tratta il tema della riforma del diritto societario con particolare riferimento alle banche.
In realtà, è prematuro esprimere dei giudizi sull’efficacia delle soluzioni normative introdotte dalla riforma, in quanto è difficile prevedere l’operatività di molti istituti e capire
quale sarà il gradimento da parte del mercato rispetto alle nuove possibilità offerte dal
legislatore.
Gli istituti introdotti trovano applicazione nei confronti delle banche sia in quanto la
banca è una società direttamente coinvolta dalle nuove norme sia in quanto la banca,
svolgendo la funzione di intermediazione tra datori e prenditori di fondi, è controparte
delle imprese. Pertanto, gli aspetti rilevanti della riforma del diritto societario per le banche riguardano le implicazioni sulla struttura di governance (banca come società) e gli
effetti sull’operatività delle banche (banca come controparte delle imprese).
Le principali novità proposte dal nuovo testo legislativo possono essere ricondotte:
•
all’ampliamento dell’autonomia statutaria;
•
all’aumento delle tipologie di strumenti finanziari da offrire agli investitori;
•
alle implicazioni che la costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare
ha sui criteri e sulle metodologie di concessione degli affidamenti da parte delle
banche.
Con riferimento al primo punto, il nuovo diritto societario offre alle società per azioni la
possibilità di scegliere tra tre differenti modelli di amministrazione e controllo:
•
modello tradizionale, formato dal consiglio di amministrazione (o amministratore unico) e dal collegio sindacale;
•
modello dualistico, ispirato al modello tedesco e fondato sul consiglio di gestione e sul consiglio di sorveglianza;
•
modello monistico, ispirato al modello anglo-americano e costituito dal consiglio
di amministrazione e da un comitato per il controllo sulla gestione interno al CdA.
Per le banche, sottoposte ad una disciplina speciale di vigilanza prudenziale, la previ-
* Straordinario di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli Studi di Foggia.
1 “Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001,
n. 366”.
2 La legge delega, oltre a definire l’obiettivo prioritario della riforma, fissa ulteriori principi generali, individuabili nel:
• valorizzare il carattere imprenditoriale delle società e definire con chiarezza e precisione i compiti e le responsabilità
degli organi sociali;
• semplificare la disciplina delle società, tenendo conto delle esigenze delle imprese e del mercato concorrenziale;
• ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti;
• adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese, anche in considerazione della composizione
sociale e delle modalità di finanziamento, escludendo comunque l’introduzione di vincoli automatici in ordine all’adozione di uno specifico modello societario;
• nel rispetto dei principi di libertà di iniziativa economica e di libera scelta delle forme organizzative dell’impresa, prevedere due modelli societari riferiti l’uno alla società a responsabilità limitata e l’altro alla società per azioni, ivi compresa la variante della società in accomandita per azioni, alla quale saranno applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni in materia di società per azioni;
• disciplinare forme partecipative di società in differenti tipi associativi, tenendo conto delle esigenze di tutela dei soci,
dei creditori sociali e dei terzi;
• disciplinare i gruppi di società secondo principi di trasparenza e di contemperamento degli interessi coinvolti.
Cfr. art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366, “Delega al governo per la riforma del diritto societario”.
5
sione di nuovi modelli di amministrazione e controllo pone il problema della conciliazione dei principi della libertà statutaria sanciti dalla riforma del diritto societario con i
principi ispiratori dell’attività di vigilanza.
Né la riforma, né la legislazione bancaria lasciano intendere che la scelta del modello
amministrativo sia preclusa alle banche, purché tale scelta non risulti di ostacolo
all’esercizio dell’attività di vigilanza ed al rispetto del principio di sana e prudente
gestione.
Le Autorità di Vigilanza, specie per le banche quotate, sono chiamate, quindi, ad effettuare un’attenta valutazione del modello di amministrazione e controllo adottato dalle
banche, in virtù anche dell’importanza attribuita dal Nuovo Accordo di Basilea alla corporate governance.
La scelta del modello di amministrazione dovrà riflettere le specificità di ogni banca e
rientra nel novero delle scelte strategiche legate al tipo di attività, alla dimensione, alle
caratteristiche dell’azionariato, ecc. Il modello più adatto per le imprese bancarie,
comunque, sembra essere il modello tradizionale.
L’aumento dell’autonomia statutaria è ravvisabile in molti altri istituti introdotti dalla
nuova normativa. La riforma, infatti, riconosce ai redattori degli statuti delle società di
capitali un’ampia autonomia nella definizione delle regole attinenti partecipazioni,
finanziamenti, organizzazione, svolgimento e modificazioni del rapporto sociale. In
generale, dato che l’ordinamento finanziario può porre dei vincoli alla disciplina di diritto comune, si sollevano ulteriori problemi legati all’incertezza su come si concilia la
disciplina di diritto comune con quella di settore. Esempi concreti possono essere individuati, oltre che nel governo societario, nella disciplina della raccolta del risparmio tra
il pubblico e nei controlli sugli assetti proprietari degli intermediari bancari, considerata la maggiore autonomia concessa alla società nell’accedere ai mercati interni ed internazionali dei capitali e nel configurare la propria struttura finanziaria.
Le Autorità di Vigilanza sono chiamate ad adottare strumenti di controllo che siano in
grado di analizzare i differenti aspetti che questa maggiore autonomia riveste negli
ambiti oggettivi di operatività.
La seconda novità della riforma attiene l’incremento delle tipologie di strumenti finanziari che le banche possono emettere, con conseguente ampliamento delle modalità di
finanziamento sia con capitale di rischio che di debito.
Le nuove norme accrescono la possibilità di graduare i diritti patrimoniali ed amministrativi delle azioni, introducono nuove categorie di strumenti finanziari diversi dalle
azioni ed ampliano la libertà di raccolta mediante obbligazioni. Ad oggi, il grado di accoglimento dei nuovi strumenti finanziari da parte del mercato non è ancora riscontrabile.
Tra le fonti di finanziamento, assumono particolare rilevanza i patrimoni di destinazione, terzo istituto innovativo della riforma. La riforma concede alle banche la possibilità
di costituire i patrimoni destinati ad uno specifico affare, nelle due forme del patrimonio destinato e del finanziamento destinato. La disciplina in oggetto consente di dar vita
alla segregazione patrimoniale all’interno della stessa società, senza ricorrere ad un
soggetto giuridico appositamente costituito.
L’introduzione di tale istituto impone alle banche di affinare le metodologie di analisi in
quanto la valutazione riguarderà sì l’impresa nel suo complesso, ma nello specifico la
singola iniziativa.
In conclusione, possiamo ritenere che la struttura di governance della banca può beneficiare di un miglioramento in ragione delle innovazioni introdotte dalla riforma se si
raggiunge un punto di equilibrio tra i nuovi istituti accolti dalle banche e l’azione
dell’Autorità di Vigilanza. Dal lato dell’operatività delle banche, le novità sono in grado
in incidere positivamente sul rapporto tra imprese e banche finanziatrici. La possibilità
offerta alle imprese non finanziarie di ricorrere in misura maggiore al mercato del capitale di rischio e di debito rappresenta per le banche l’occasione di arricchire la gamma
di servizi finanziari ad alto valore aggiunto a favore delle imprese.
6
Bruna Ecchia*
I patrimoni destinati a uno specifico affare
Gli aspetti di rilievo per le imprese bancarie
Le imprese bancarie sono interessate dalla riforma societaria sia in relazione alla loro
forma giuridica societaria, che le rende destinatarie anch’esse delle innovazioni contenute nella normativa (ma solo nei limiti in cui siano compatibili con il testo unico bancario), sia in relazione all’attività di finanziamento da esse svolta nei confronti delle
imprese clienti costituite in forma societaria. Questa attività:
a) da un lato viene ridimensionata nei suoi aspetti tradizionali in conseguenza della
forte apertura che la riforma consente alla “finanza di mercato”, cioè alle forme di provvista finanziaria diretta delle imprese sul mercato, anche se di fatto ciò varrà ad evitare che il finanziamento delle imprese avvenga presso le banche ma non anche ad evitare che passi attraverso intermediari mobiliari che per lo più fanno comunque parte di
gruppi bancari3;
b) dall’altro viene a configurarsi diversamente dal passato nella misura in cui al tradizionale finanziamento all’impresa in quanto tale, cioè nella sua interezza, va ad abbinarsi il finanziamento a particolari settori di attività dell’impresa se non addirittura a “specifici affari”, con evidenti innovazioni in tema di profili di rischio che la banca va ad
assumere. Per la verità, già da tempo qualcosa di molto simile al finanziamento di uno
specifico affare avveniva, e in maniera marcata, con il Project Financing. Ma si finanziava un’iniziativa imprenditoriale a sé stante, non uno specifico affare nell’ambito della
più ampia attività dell’impresa. La finanza di progetto riguarda, cioè, una soluzione
esterna all’impresa, qui, invece, siamo all’interno.
Questo mio intervento è limitato proprio ad esaminare i rischi e le opportunità che la
riforma societaria prospetta alle banche con l’introduzione di quella particolare separazione patrimoniale, all’interno della società, realizzata con il nuovo istituto rappresentato dai patrimoni destinati. Si tratta di un punto profondamente innovativo della Riforma
e alquanto originale visto che detta separazione (istituto di per sé non nuovo), per come
viene a configurarsi in ambito aziendale secondo la nuova impostazione legislativa, non
sembra trovare riscontro negli altri ordinamenti europei ed anglosassoni4. In questi ultimi, peraltro, non se ne avverte neppure la necessità dato che in quei sistemi è largamente diffusa la prassi di costituire, piuttosto, un trust per il perseguimento di fini analoghi. Tali fini sono principalmente quelli di sottrarre alla responsabilità sociale nei confronti dei creditori della società una parte dell’attivo patrimoniale destinata allo svolgimento di una ben specificata attività per il perseguimento di un ben determinato obiettivo, senza che i risultati di tale attività specifica vadano confusi con quelli ottenuti dall’azienda con la restante operatività. In altri termini quella parte dell’attivo patrimoniale viene attribuita ad uno scopo o funzione anziché ad un soggetto5.
Secondo l’interpretazione corrente, dalla lettura degli articoli della sezione XI della
legge di riforma (sezione titolata appunto “Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare) ed in particolare dagli artt. 2447-bis c.c., lett. a) e b) e 2447-decies si desumono due
distinte fattispecie di patrimoni destinati a specifici affari:
quella della lettera a) dell’art. 2447-bis, comma 1, che prevede la costituzione di uno o
più patrimoni (ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico affare) i
* Ricercatore di Finanza Aziendale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
3 Le banche, o più spesso i gruppi bancari, continueranno così a mantenere il controllo anche sul finanziamento delle imprese sul mercato, visto che saranno per lo più aziende specializzate del gruppo a svolgere il servizio di collocamento dei titoli
sul mercato. A livello di gruppo si ridurranno i ricavi per interessi su impieghi creditizi delle banche e si amplieranno i proventi di altre società del gruppo.
4 Un istituto analogo pare si possa rinvenire solo in una legge del Belize. In proposito si veda P. Spada, Responsabilità patrimoniale e articolazione del rischio, Relazione per il Convegno “Principi civilistici nella riforma del diritto societario”, Imperia
26-27 settembre 2003, p. 3, nota 2, citato da L. Salamone, Sui patrimoni destinati a specifici affari, in Atti del Convegno su
“Profili patrimoniali e finanziari della riforma”, Cassino, 9 ottobre 2003, pubblicati su Quaderni di giurisprudenza commerciale, n. 262, a cura di C. Montagnani, Giuffrè Editore, Milano, 2004, p. 101.
5 Sul tema cfr. L. Salamone, Op.cit., p. 98. Anche se l’istituto dei patrimoni destinati, almeno nella configurazione assunta
nella legge di riforma societaria in Italia, è misconosciuto agli ordinamenti europei, nondimeno i profili concettuali dello stesso erano già chiari da moltissimo tempo in certa parte della dottrina. In materia già si esprimeva nel 1873 Bekker (Zur Lehre
vom Rechtssubiekt: GenuB un Verfugung; Zwecksatzungen Zweckvermogen und juristiche Personen, in Jherings Jahrbucher,
12 (1873), p.1 e ss, citato dallo stesso Salamone.
7
quali, secondo quanto prescrive il comma 2 dello stesso articolo, non possono complessivamente eccedere il 10% del patrimonio netto della società;
quella della lettera b) dell’art. 2447 bis, comma 1, che fa invece riferimento al contratto di “finanziamento” di uno specifico affare e che stabilisce che in tale contratto la
società può convenire che al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo
siano destinati i proventi dell’affare stesso, o parte di essi; disposizione confermata,
quasi ma non del tutto identicamente, dall’art. 2447- decies, dove si legge che “il contratto….può prevedere che al rimborso totale o parziale del finanziamento siano destinati, in via esclusiva, tutti o parte dei proventi dell’affare stesso”6.
Nella prima fattispecie di patrimonio destinato siamo evidentemente di fronte ad una
decisione di procedere ad una articolazione in parti diverse dell’attivo patrimoniale dell’impresa che viene sancita, come viene chiarito dall’art. 2447 ter, con una deliberazione - adottata dall’organo amministrativo7, a maggioranza assoluta dei suoi membri - di
destinazione ad un certo affare di una parte del patrimonio della società, con solo eventuale coinvolgimento di terzi e parimenti eventuale emissione di strumenti finanziari.
Nella seconda fattispecie, invece, ci troviamo di fronte all’ipotesi del ricorso a contratti
di finanziamento – rientranti a maggior ragione che nel primo caso nella competenza
dell’organo amministrativo8 - direttamente per finanziare lo specifico affare, senza quindi passare attraverso l’enucleazione dal patrimonio esistente di una sua quota da destinare a tale affare.
Come la stessa Relazione di accompagnamento alla legge evidenzia, si tratta di “…due
modelli che, pur uniti al vertice da un fenomeno di separazione nell’ambito di un patrimonio facente capo ad un unico soggetto, si differenziano notevolmente tra loro per
quanto attiene al contenuto della disciplina e la funzionalità pratica”. Nel primo modello (patrimonio destinato) la separazione è strumentale al perseguimento di finalità di
tipo “produttivo e operativo” ossia è volta a consentire alla società di svolgere una
determinata attività limitando il rischio; nel secondo (finanziamento destinato) la separazione è invece funzionale all’ottenimento di finanziamenti da parte di terzi.9 “Il patrimonio destinato corrisponde, quindi, a un modello operativo; il finanziamento destinato a un modello finanziario.” 10
Secondo autorevoli Studiosi11 il primo modello è stato elaborato soprattutto per il perseguimento di obiettivi “a rischi elevati”, che la società è disposta ad affrontare solo
entro i limiti ristretti rappresentati da una quota modesta del proprio patrimonio; il
secondo modello è invece diretto a consentire la realizzazione di obiettivi “ad alta soglia
d’investimento” di capitale, tale da richiedere un massiccio contributo di risorse finanziarie di terzi da garantire con i proventi dell’affare. Il che peraltro non necessariamente esclude, a mio parere, che anche ad investimenti realizzati in base a questo secondo
modello, specie se complessi, possa essere talora associato un “sistema” di rischi elevato, quindi un’alta volatilità dal “ritorno” atteso, sia pure in modo non caratterizzante
come nel primo caso.
Tenuto conto di queste diverse caratterizzazioni possiamo esaminare i riflessi per l’operatività bancaria di questo innovativo istituto nelle due configurazioni previste dalla
legge.
Vengono subito in evidenza le conseguenze, per le banche, che scaturiscono dalla costituzione di patrimoni destinati da parte delle aziende clienti, ma non minore rilievo assu6 Secondo alcuni studiosi la legge di riforma prevederebbe, in realtà, con la lett. d) dell’art. 2447 ter, anche una terza soluzione per la costituzione di patrimoni destinati, ed esattamente una soluzione che “potremmo definire di natura <<mista>>,
in quanto contempla la possibilità di un investimento del terzo destinato in via specifica ed esclusiva al patrimonio dedicato
industriale [cioè al patrimonio della prima fattispecie n.d.A.]. La norma, infatti, stabilisce che la deliberazione costitutiva del
patrimonio dedicato di cui alla lett. a) dell’art. 2447 bis deve indicare <<gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo
sulla gestione e di partecipazione agli utili dell’affare>>.” G. Manzo e G. Scionti, Patrimoni dedicati e azioni correlate: <<cellule>> fuori controllo?, in Le Società, n. 10/2003, pp. 1329-1330.
Comunque venga costituito, il patrimonio destinato dev’essere mantenuto del tutto distinto dal restante patrimonio, quale
pre-requisito per far valere la distinzione dei diritti e delle obbligazioni che ad esso fanno capo.
7 Consiglio di amministrazione, salvo che la società non abbia optato per un’altra delle forme di governo societario oggi consentite dalla legge e mutuate dall’esperienza tedesca e anglosassone.
8 F. Di Sabato, Sui patrimoni destinati, in C. Montagnani (a cura di), Op. cit., p. 57.
9 Cfr. F. Terrusi, I patrimoni delle s.p.a. destinati a uno specifico affare: analisi della disciplina e verifica degli effetti, su
www.tidona.com. oppure www.judicium.it.
10 Ibidem.
8
11 G. Bozza, Patrimoni destinati, partecipazioni statali, S.A.A., in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, vol. 7,
Milano 2003, p.10; F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia,
diretto da Galgano, XXIX, Padova 2003, p. 18.
mono gli aspetti connessi al caso in cui siano le banche a costituire, esse stesse, patrimoni destinati nei limiti in cui, come vedremo, la legge consente simili iniziative a tale
categoria di aziende.
Caso dei patrimoni destinati costituiti dalle aziende clienti delle banche
Notevoli appaiono le combinazioni di rischi e di opportunità che si aprono per le banche in relazione a strategie delle aziende clienti di costituzione di patrimoni separati del
primo o del secondo tipo.
E’ stato rilevato in dottrina12 che la posizione della banca finanziatrice viene diversamente influenzata a seconda che la stessa si venga a trovare in una piuttosto che in
un’altra delle seguenti situazioni:
a) di creditore della società anteriore alla costituzione del patrimonio;
b) di “creditore del patrimonio” (si dica impropriamente ma efficacemente) in relazione al fatto che la banca ha finanziato la società ma in funzione della realizzazione dello
specifico affare. In tal caso si verserà nell’ipotesi del “finanziamento destinato”;13
c) di partecipazione alla realizzazione dello “specifico affare” attraverso (v. art. 2447 bis
lett. d) un “apporto” di mezzi al patrimonio destinato (della prima fattispecie), “con ciò
eventualmente rendendosi anche attributaria degli strumenti finanziari di partecipazione all’uopo eventualmente emessi”14 ex art. 2447-bis, lett. e.
Nella ipotesi in cui la banca si configuri come “creditore anteriore” della società, le probabilità di recupero del credito potrebbero ridursi a seguito della costituzione di un
patrimonio destinato da parte della società affidata in conseguenza della diminuzione
del patrimonio della società debitrice rappresentativo di una sia pur generica garanzia
ex art. 2740 cod. civ.
Il pregiudizio alle ragioni di credito della banca potrebbe accentuarsi se la società selezionasse la parte dell’attivo patrimoniale da costituire come patrimonio destinato in
funzione non già dell’utilità effettiva della combinazione delle diverse componenti per
la realizzazione dello specifico affare ma piuttosto in vista di sottrarre alle pretese dei
creditori gli attivi di maggior valore. A tutela della banca (come di qualunque altro creditore anteriore alla costituzione del patrimonio) è comunque prevista la possibilità di
esercitare il diritto di opposizione entro sessanta giorni dall’iscrizione della delibera di
costituzione del patrimonio separato “e – ricorrendone i presupposti - la possibilità di
un’azione revocatoria ordinaria o fallimentare.”15
Nell’ipotesi, invece, in cui la banca finanzi direttamente lo specifico affare16 - sia esso
della prima o della seconda fattispecie - la stessa dovrà valutare attentamente l’effettivo valore, rispettivamente del patrimonio e dei proventi,17 a garanzia del finanziamento, e il grado di effettiva aggredibilità degli stessi.18
12 Cfr. G. Falcone, I patrimoni destinati ad uno specifico affare ed il rapporto banca-impresa nel finanziamento delle attività
poste in essere per l’esecuzione di uno specifico affare, ne “Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario”, Giuffrè,
Milano, 2004, p. 169.
13 Si potrebbe, naturalmente, anche ipotizzare un intervento della banca diretto a finanziare lo specifico affare senza l’osservanza dei criteri e delle condizioni poste dall’art. 2447-decies (ipotesi ventilata dallo stesso Falcone, ibidem), il che peraltro,
a mio parere, non impedirebbe alla banca di poter fare affidamento, per il rimborso, su parte dei “proventi” dell’affare (che
rappresentano il patrimonio destinato”) in quanto l’art. 2447-decies, primo comma, non prescrive che al rimborso del finanziamento debbano essere destinati necessariamente tutti i proventi dell’affare.
14 Ibidem.
15 G. Marano, I patrimoni destinati in una prospettiva di analisi giuseconomica, Banca d’Italia, Quaderni di ricerca giuridica,
n. 57, giugno 2004, p. 89
16 Non si può fare a meno di notare come negli artt. 2447-bis e 2447-decies non si faccia alcun esplicito riferimento a una
banca o a un altro intermediario finanziario. È peraltro evidente come la fattispecie dei ‘finanziamenti dedicati’ trovi una sua
concreta realizzazione proprio a fronte di un finanziamento erogato da un intermediario bancario ovvero da un intermediario finanziario (Cfr. G. Falcone, Op. cit., p. 183).
17 Per vero pare del tutto scontato che “sia nell’ipotesi in cui la banca conceda un “finanziamento dedicato” - o comunque
conceda linee di credito legate alla realizzazione dell’affare – sia nell’ipotesi in cui partecipi all’affare attraverso l’apporto di
mezzi al patrimonio destinato, (la banca dovrà)… procedere, oltre che ad un’ accurata analisi di ciascuna tipologia di patrimonio destinato, ….a un’attenta valutazione delle caratteristiche economiche, finanziarie e di rischio dello specifico affare
(come, peraltro, gia avviene per operazioni quali, ad esempio, di project financing o di cartolarizzazione)”. Cfr. Consiglio
Nazionale Dottori Commercialisti, Commissione nazionale finanza ed economia degli intermediari finanziari, Il sistema delle
informazioni aziendali alla luce di Basilea 2 e del nuovo diritto societario, 2004, p. 18.
18 G. Marano, Op. cit., p. 88. Così prosegue l’A.: “In particolare per quanto riguarda il primo modello, il regime di responsabilità è molto variabile e la responsabilità sussidiaria del patrimonio generale della società può essere variamente modulata:
verosimilmente non sarà sufficiente una lettura attenta del bilancio e dei rendiconti separati, ma sarà indispensabile una scrupolosa analisi della delibera costitutiva per avere contezza dell’architettura complessiva dell’operazione”.
9
In particolare, con riguardo alla fattispecie dei finanziamenti dedicati, “andrà chiarito
quanta parte dei proventi è destinata al rimborso del finanziamento; se tali proventi
sono destinati al rimborso totale o parziale dello stesso; se il soggetto finanziatore rilascia garanzie per il rimborso”19. Notevole attenzione va riservata anche alla determinazione del tempo massimo di rimborso, tenuto conto del fatto che, decorso il termine,
nulla è più dovuto al finanziatore20.
Ben si comprende, quindi, l’importanza, per la banca, di interpretare appieno il piano
economico-finanziario dell’affare e il campo di variabilità dei possibili scostamenti
rispetto ai risultati attesi. Ciò che comporta competenze di finanza aziendale che non
sempre sono adeguatamente presenti nelle aziende bancarie, almeno quando sono di
piccola dimensione.
Anche in presenza di simili competenze, poi, occorrono pur sempre alla banca adeguati input informativi e non solo quelli che vengono attinti direttamente presso l’azienda
cliente21 ma anche quelli ausiliari che al momento sono disponibili, ma in forma generica, quando si tratta di finanziare non già uno specifico affare bensì l’azienda nel suo
complesso, ossia quegli input che provengono dalla Centrale dei Rischi bancari e che
dovrebbero essere dettagliati, come è stato ben sostenuto22, con riferimento appunto
anche all’esistenza di patrimoni e di finanziamenti destinati.
Ritengo, infine, che il finanziamento da parte della banca di specifici affari possa presentare interessanti prospettive di analisi sotto il profilo dei riflessi sulle tecniche di
gestione del portafoglio prestiti. La grande varietà dei possibili specifici affari può comportare talora una correlata difficoltà di standardizzazione delle caratteristiche economico-tecniche dei finanziamenti non cartolari degli stessi. Ove ciò accada sembra da
escludere la possibilità di tecniche di portfolio selection per la gestione di simili impieghi, visto che il portafoglio che si verrebbe a creare non sarebbe rapidamente suscettibile di modificazioni in relazione all’evoluzione delle opportunità d’investimento per la
banca. Infatti, a differenza del portafoglio titoli (per il quale fu originariamente elaborata la famosa teoria della selezione di Markowitz), la mancanza di standardizzazione nuocerebbe alla negoziabilità di tali investimenti, necessaria per le modificazioni di cui
sopra. Invece, interessanti prospettive al riguardo si aprirebbero nel caso di finanziamento attraverso la sottoscrizione di titoli e questi fossero suscettibili di smobilizzo sul
mercato. Tale eventualità di smobilizzo non è però consentita dall’attuale formulazione
della legge per i finanziamenti destinati mentre non sembra sussistano preclusioni al
riguardo per i patrimoni destinati della prima fattispecie. Il problema sembra che meriti maggiore approfondimento considerando, oltretutto, che la normativa dovrebbe
avere un periodo, per così dire, “di prova”, che consenta di valutare gli opportuni
aggiustamenti successivi.
In definitiva, l’istituto dei patrimoni e dei finanziamenti destinati sembra offrire interessanti prospettive per le banche sul lato degli impieghi, anche per dare proficuo utilizzo
alle ampliate possibilità di raccolta con nuovi strumenti finanziari quali consentiti
anch’essi dalla legge di riforma23. Tuttavia devono essere prese in attenta considerazione le preoccupazioni che emergono in sede giuridica in ordine a talune incertezze interpretative relative alla disciplina del nuovo istituto per i riflessi in termini di rischi legali
(i quali fanno oggi parte di quello che la regolamentazione prudenziale dell’attività bancaria definisce “rischio operativo”). E non si è qui accennato ai rischi che insorgono a
seguito della differenziazione - e spesso della contrapposizione - di interessi tra le varie
categorie di stakeholders e i connessi problemi di governance dell’impresa, che poi si
riflettono sulla solidità della stessa e anche dello specifico affare, e quindi sulle possibilità di remunerazione e di rientro dei capitali investiti dalla banca24.
In conclusione, quello dei patrimoni destinati è un istituto che va inquadrato nello scenario più ampio dell’evoluzione del rapporto banca-impresa. Come è stato osservato al
19 Id., p. 89.
20 Circostanza, questa, che induce parte della dottrina a ravvisare nel finanziamento da parte della banca i caratteri di un’associazione in partecipazione, piuttosto che i caratteri del mutuo.
21 Poiché la capacità di valutazione da parte della banca “dipende anche dal livello di asimmetria informativa tra prenditore e datore di fondi, l’intermediario dovrà sollecitare la società a fornire la più ampia e completa rappresentazione del progetto che intende sviluppare.” G. Marano, Op. cit., p. 88.
22 Id., pp. 90-91.
23 Cfr. F. M. Frasca, Nuovo diritto societario ed intermediari bancarie e finanziari, in F. Capriglione (a cura di), Nuovo diritto
societario ed intermediazione bancaria e finanziaria, Cedam, Padova, 2003, p. 279.
10
24 Cfr. G. Marano, Op. cit., p. 90.
riguardo, le “nuove tecniche di separazione patrimoniale segnano il passaggio da un
sistema fondamentalmente basato sul “chi” riceve credito, ad uno che annette rilevanza al “cosa” riceve credito (ovvero lo specifico affare da finanziare); conseguentemente spostano il focus della valutazione dell’intermediario dalla consistenza patrimoniale
del soggetto, cui si associa la dazione delle tradizionali garanzie personali o reali, alla
bontà del progetto e alla sua autonoma capacità di produrre reddito; sollecitano un più
articolato e particolareggiato flusso informativo dalla società alla banca, funzionale alla
valutazione del progetto; enfatizzano l’importanza dell’assetto di governance delle
imprese come fattore determinante per l’accesso al credito e più in generale al mercato dei capitali; prefigurano un ampio e variegato ventaglio di opzioni di rapporti patrimoniali e amministrativi di partecipazione delle banche a specifici affari, anche diversi
dal tradizionale rapporto creditizio”25. Con la costituzione ad opera della clientela di
patrimoni destinati (della prima e della seconda fattispecie) dovrebbe essere altresì possibile rapportare maggiormente il pricing del finanziamento al rischio specifico di ciò
che si finanzia, ma certamente si prospettano anche possibili “coinvolgimenti” della
banca di grado superiore a quello inerente ai finanziamenti tradizionali.
Caso dei patrimoni destinati costituiti dalle stesse banche: limiti e relative motivazioni
Qualche accenno vorrei fare anche in tema di costituzione di patrimoni destinati da
parte delle stesse banche. Al riguardo occorre subito premettere che dal testo della
legge emerge solo la possibilità per la banca di costituire patrimoni destinati del secondo tipo, cioè, in realtà, di far ricorso a “finanziamenti destinati”. Tanto si evince dall’art.
2447 bis ultimo comma, che statuisce che i patrimoni destinati del primo tipo (quelli di
cui alla lett. a dello stesso art. 2447) non possono essere costituiti per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali (e tale, appunto, è l’attività bancaria) 26. Merita allora spendere qualche parola sui probabili motivi per cui alla banca è
invece consentito di costituire patrimoni destinati del secondo tipo (visto che nessun
divieto in materia traspare dalla legge) cioè far ricorso essa stessa al finanziamento di
terzi per un proprio specifico affare e, si noti, senza quei limiti rappresentati da una percentuale del proprio patrimonio sociale che vigono invece per i patrimoni del primo
tipo. Qual è la ratio sottostante a tale implicito consenso? forse sta nel fatto che nel
rischio inerente a simili finanziamenti destinati non verrebbero coinvolti i risparmi dei
creditori “deboli” della banca, cioè i minuti depositanti? Ciò sarebbe certamente plausibile se il funding da parte della banca fosse effettuato esclusivamente e specificamente con titoli rappresentativi di finanziamenti subordinati in termini di remunerazione e
rimborso, rivolti ad investitori capaci di apprezzarne il relativo rischio. In tal caso, e solo
in tal caso, la raccolta prettamente “fiduciaria” delle banche non sarebbe coinvolta in
operazioni che potrebbero talora anche assumere profili complessivi di rischio particolari (superiori a quelli mediamente connessi all’ordinaria operatività bancaria)27, mentre in maggiore o minor misura lo sarebbe nel caso in cui al finanziamento destinato
concorressero indistintamente tutte le forme di provvista finanziaria della banca, dal
capitale proprio e quindi a rischio pieno, al capitale a rischio attenuato, alle obbligazioni bancarie, fino ai depositi delle varie specie28.
25 Id., p. 91.
26 Per la verità, l’effettiva portata del divieto in base al quale i patrimoni destinati del primo tipo <<non possono comunque
essere costituiti per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali>> è oggetto di un acceso dibattito dottrinario, tuttavia sembra condivisibile l’interpretazione di Pellegrino secondo cui la norma citata consente alle banche
“di costituire patrimoni separati solo per lo svolgimento di attività connesse e strumentali all’attività bancaria, non coperte
da riserva”, così da impedire che “un’eccessiva liberalizzazione operativa degli intermediari finanziari possa incidere negativamente sul sistema, consentendo agli appartenenti al settore di aggirare i limiti posti a protezione degli interessi pubblici
coinvolti”. M. Pellegrino, I <<patrimoni destinati>> a uno specifico affare: limiti e prospettive, in F. Capriglione (a cura di), Op.
cit., pp. 172-173.
27 Si ribadisce qui l’osservazione fatta poc’anzi anche se appare fuori linea rispetto alle tesi, prima menzionate, secondo cui
la struttura del finanziamento destinato è finalizzata più alla provvista di ingenti capitali che non di capitali idonei ad investimenti ad alto rischio. Infatti i rischi cui faccio qui cenno sono complessivi, cioè non sono necessariamente limitati al rischio
di credito (cui la banca è istituzionalmente attrezzata a far fronte). Se, ad esempio, il finanziamento destinato fosse posto in
essere dalla banca per far provvista di fondi per finanziare investimenti non particolarmente rischiosi una volta realizzati e
quindi entrati nella fase gestionale, ma piuttosto prima, cioè nella fase preparatoria, per la complessità delle fasi procedurali e di raccordo tra le stesse, per le competenze richieste, per i rapporti con la Pubblica Amministrazione (come potrebbe accadere quando il finanziamento destinato rappresenta la soluzione interna alternativa a quella esterna di un Project Financing),
alcuni rischi di particolare rilevanza potrebbero essere inerenti alla complessità del progetto da attuare. Si tratta di rischi in
larga parte appartenenti al novero di quelli cosiddetti “operativi”, ma che in simili fattispecie possono assumere notevole
peso, tanto da ritenere, appunto, che debba essere bensì accettata in linea generale, ma con riserve e comunque con molta
cautela in ordine a casi particolari, la tesi che il finanziamento destinato sia funzionale ad investimenti ad alta soglia di capitale più che ad alta soglia di rischio.
28 In altri termini, il coinvolgimento anche della raccolta fiduciaria in senso stretto avrebbe luogo tutte le volte in cui non vi
fosse isolamento del rischio a una o poche specifiche forme di provvista finanziaria, destinate a restare enucleate dal resto
della struttura finanziaria e dirette a finanziare investimenti il cui esito, se negativo, non ricadrebbe comunque sugli altri portatori di ragioni di credito nei confronti della banca.
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Il fatto è che l’art. 2447-decies, così come l’art. 2447 bis, lett. b), nulla dispongono
riguardo alla forma tecnica di questo funding, se non che “fuori dall’ipotesi di cartolarizzazione previste dalle leggi vigenti, il finanziamento non può essere rappresentato da
titoli destinati alla circolazione”.
Indubbiamente, anche se solo implicitamente il dettato legislativo fa ben intendere che
le sottoscrizioni di simili titoli - titoli appunto non destinati alla circolazione e quindi al
grande pubblico di investitori, spesso non pienamente consapevoli – sia riservata ad
investitori esperti, in grado di valutare l’investimento cui quel finanziamento sarà destinato e i relativi rischi, ossia, presumibilmente, in grado di ottenere informazioni di
buona qualità e dotati dell’expertise necessaria per un’appropriata ponderazione delle
stesse. Ciò fuga gran parte dei dubbi sull’opportunità di consentire alle banche i “finanziamenti destinati”.
Qualche perplessità, però, permane in ordine alla mancanza di un divieto (di un divieto
esplicito, s’intende) per le banche di fare funding, per i finanziamenti destinati, anche
attraverso altre forme di raccolta che non siano titoli a circolazione molto ristretta (con
le incognite che con altre forme si aprirebbero in ordine ai riflessi sulla tutela dei depositanti). E’ vero che un divieto di tal genere appare appropriato non tanto in una legge
che ha valenza generale per le varie categorie di aziende, ma piuttosto a livello di normativa secondaria, più idonea a tener conto della specificità delle aziende bancarie; tuttavia, a un divieto abbastanza drastico, con l’evidente intento primario di tutelare i
depositanti, il legislatore non ha esitato a far ricorso quando, come si è rilevato, si è trattato dei patrimoni destinati della prima fattispecie.
Evidentemente qui il rischio che i patrimoni destinati di tale tipo potessero rappresentare il veicolo per consentire alle banche di assumere, sia pure in via distaccata dal resto
dell’attività, rilevanti interessenze in imprese (soprattutto in quelle già clienti), così ripristinando pericolosi intrecci e conflitti d’interesse tra banche e clienti, è stato maggiormente avvertito dal legislatore. Come del resto è tradizione in Italia dopo l’esperienza
della banca mista.
La differenza di trattamento per le due fattispecie di patrimoni può essere un punto su
cui riflettere ma ciò non deve indurre a considerare opportuna una maggior parificazione con l’estensione alle banche della possibilità di costituire anche patrimoni destinati
della prima fattispecie. Anzi, poiché gli elementi pro e contro sono molteplici e certamente non possono essere qui considerati, ritengo per il momento opportuna, in attesa di maggiori approfondimenti da parte della dottrina, la soluzione restrittiva adottata
dal legislatore e, semmai, anzi, riterrei opportuna qualche ulteriore precisazione restrittiva da parte dello stesso in ordine al “funding” delle banche per i “finanziamenti destinati”. Sia per gli uni che per gli altri penso inoltre che l’attuale stesura della legge debba
essere sottoposta al test dell’esperienza che si andrà a cumulare nei prossimi anni in
ordine alle performance di tali patrimoni. La capacità di adeguamento di questi nuovi
strumenti alle diverse combinazioni di rischi e opportunità che si profileranno per
banche ed aziende clienti suggeriranno certamente, se del caso, gli opportuni
“aggiustamenti” della normativa, come del resto è nella logica di uno scenario molto
più complesso e mutevole che nel passato e che pertanto dev’essere disciplinato non
in via definitiva e immutabile ma in termini di tempestiva eliminazione del gap che
tende costantemente a manifestarsi tra l’incessante evoluzione del contesto e la normativa pro tempore vigente.
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13
14
Antonia Martellotta*
Le azioni correlate: opportunità per le banche.
1. La struttura finanziaria delle società per azioni ante riforma
del diritto societario
Il codice civile del 1942 si caratterizzava per la presenza di norme imperative che concedevano limitato spazio all’autonomia privata e modesta possibilità di scelta dei mezzi
di finanziamento per le imprese. Nella società per azioni la normativa civilistica prevedeva sostanzialmente due distinti e contrapposti modelli di ricorso al capitale: le azioni,
tramite le quali le imprese avevano la possibilità di acquisire mezzi propri, e le obbligazioni, fonti di raccolta a titolo di capitale di debito. Dal lato degli investitori, si presentavano due sole possibilità di investimento del proprio denaro, ancorate (nel caso di
socio) o meno (nel caso di creditore) alle sorti dell’impresa.
Nel corso degli anni si è sempre più avvertita l’esigenza di superare la tradizionale rigidità della struttura finanziaria delle società per azioni29. La risposta fornita dal legislatore è stata, a partire dalla metà degli anni Settanta, l’introduzione di forme di raccolta
intermedie ai due tradizionali estremi; si pensi, tra l’altro, alle azioni di risparmio (introdotte nel 1974) o alle obbligazioni convertibili ed indicizzate (introdotte nel 1974-75)30.
Le varianti introdotte, affievolendo la netta distinzione tra le azioni e le obbligazioni,
hanno dato la possibilità alle imprese di meglio rispondere alle mutate esigenze dei
risparmiatori, i quali possono investire le proprie risorse in capitale di rischio, interferendo in misura minore nella gestione societaria e sopportando rischi inferiori, o in
capitale di debito, ma con l’opportunità di conseguire risultati reddituali caratterizzati da
rischi superiori rispetto a quelli cui è esposto un obbligazionista ordinario. Va ricordato
che l’art. 2348, c.c., concedeva la possibilità di creare, nei limiti legislativi, categorie di
azioni fornite di diritti diversi; gli operatori, però, si sono limitati ad utilizzare quelle già
esemplificate dal legislatore (privilegiate, di risparmio, di godimento, a favore dei prestatori di lavoro)31.
Nonostante la possibilità di ricorrere a tecniche di raccolta intermedie, la struttura finanziaria delle imprese italiane appariva meno variegata rispetto a quella dei paesi finanziariamente più sviluppati32. In tali paesi, le imprese avevano la possibilità di emettere
una gamma di strumenti di raccolta – sia partecipativi che di debito – più ampia e meno
costosa rispetto al credito bancario; ciò consentiva loro un più agevole reperimento di
capitale con mezzi alternativi al finanziamento bancario ed a costi minori rispetto a
quelli sopportati dalle imprese italiane, strettamente legate al sistema bancario33.
In seguito allo sviluppo dei processi di globalizzazione e di integrazione dei mercati
finanziari, che espongono le imprese alla competizione internazionale, il sistema di
* Assegnista di Ricerca di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli Studi di Foggia e Dottoranda di Ricerca
in Gestione Bancaria e Finanziaria nell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
29 Cfr. A. PISANI MASSAMORMILE, “Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi”, in Rivista delle Società, n. 6, 2003, p. 1269;
M. NOTARI, “Azioni e strumenti finanziari: confini delle fattispecie e profili di disciplina”, in Banca, borsa e titoli di credito, vol.
LVI, n. 5, 2003, p. 543; M. NOTARI, “Le categorie speciali di azioni e gli strumenti finanziari partecipativi”, in AA.VV., Il nuovo
ordinamento delle società, Ipsoa, Milano, 2004, p. 47.
30 Cfr. S. PREDA, L. ANDERLONI, C. PORZIO, “L’innovazione finanziaria in Italia: un’analisi empirica”, in Preda S. (a cura di) ,
L’innovazione finanziaria in Italia, Edizioni Unicopli, Milano, 1986, p. 100.
In generale, negli ultimi trent’anni il mercato italiano è stato caratterizzato da un profondo processo di innovazione finanziaria che ha dato vita ad una serie di prodotti collocabili lungo la linea che mette in comunicazione le azioni con le obbligazioni. Sui fondamenti dell’innovazione finanziaria cfr. S. PREDA (a cura di) , L’innovazione finanziaria in Italia, Edizioni Unicopli,
Milano, 1986, A. CARRETTA, I. BASILE, L. MUNARI, L’innovazione finanziaria. Aspetti teorici, origini e diffusione, Giuffrè Editore,
Milano, 1987 e E. MONTI, M. ONADO, Il mercato monetario e finanziario in Italia, Il Mulino, Bologna, 1985.
31 Cfr. P. GROSSO, “Categorie di azioni, assemblee speciali, strumenti finanziari non azionari: le novità della riforma”, in Le
società, n. 10, 2003, p. 1309.
32 Cfr. S. PERUGINO, “Gli strumenti finanziari alla luce della riforma del diritto societario”, in Le Società, n. 8, 2004, p. 942; A.
PISANI MASSAMORMILE, “Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi”, op. cit., p. 1269; RABITTI BEDOGNI C., “Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni”, in Diritto della banca e del mercato finanziario, n. 2, 2004, p. 186.
33 Il sistema di finanziamento della s.p.a. italiane contenuto nel codice civile presupponeva, da un lato, che i mezzi di finanziamento della società fossero forniti innanzitutto dai soci interessati all’esercizio dell’impresa (i c.d. soci imprenditori) e che,
dall’altro, le società potessero ricorrere al finanziamento bancario, al fine di reperire quanto i soci (o comunque l’impresa in
sede di autofinanziamento) non fossero in grado di procurare. Cfr. U. TOMBARI, Nuovi strumenti di finanziamento nella s.p.a.:
gli “strumenti finanziari non partecipativi e partecipativi dotati di diversi diritti patrimoniali ed amministrativi” (art. 4, sesto
comma, lettera c), tratto dal sito internet www.associazionepreite.it/ Asp/utility/visualize.asp?id=62 e S. PERUGINO, “Gli strumenti finanziari alla luce della riforma del diritto societario”, in Le Società, n. 8, 2004, p. 941.
15
finanziamento all’impresa previsto dal codice civile del 1942 è entrato in crisi e si è
posta in evidenza la necessità di allineare l’ordinamento italiano a quello dei paesi più
evoluti. Tutto questo ha indotto ad una riflessione sulla struttura finanziaria delle società e sugli strumenti finanziari da queste emessi, tema sul quale il legislatore della riforma del diritto societario ha apportato importanti novità.
2. Le implicazioni della riforma del diritto societario sulla struttura finanziaria delle imprese
La risposta del legislatore ad una non competitiva struttura finanziaria delle imprese italiane34 rispetto a quelle internazionali è stata quella di dar vita ad una riforma del diritto societario, introdotta con il D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 (“Riforma organica della
disciplina delle società di capitali e società cooperative”), con la quale, tra l’altro, si è
cercato di rendere più flessibili le modalità di reperimento di capitale da parte delle
imprese, tramite l’introduzione di nuove forme di raccolta che ampliano il novero di
strumenti finanziari, partecipativi e non, che le imprese possono emettere.
In generale, la riforma si pone come obiettivo prioritario il “favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese anche attraverso il loro accesso ai mercati interni e
internazionali dei capitali” (art. 2, primo comma, lett. a della legge 3 ottobre 2001 n. 366,
“Delega al governo per la riforma del diritto societario”). Ulteriori obiettivi, intermedi
rispetto all’obiettivo finale, sono individuabili nel: valorizzare il carattere imprenditoriale delle società e definire con chiarezza e precisione i compiti e le responsabilità degli
organi sociali; semplificare la disciplina delle società; ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria; adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese;
rispettare i principi di libertà, di iniziativa economica e di libera scelta delle forme organizzative dell’impresa; prevedere due modelli societari riferiti l’uno alla società a
responsabilità limitata e l’altro alla società per azioni, ivi compresa la variante della
società in accomandita per azioni; disciplinare forme partecipative di società in differenti tipi associativi; disciplinare i gruppi di società (art. 2, primo comma, lett. b-h della
legge 3 ottobre 2001 n. 366, “Delega al governo per la riforma del diritto societario”).
Tutto ciò al fine di “svecchiare” una normativa oramai obsoleta.
La disciplina ante riforma introdotta negli anni ’40 e innovata solo in alcune sue parti,
infatti, si caratterizzava da una serie di limiti riconducibili alla presenza di regole sulle
società di capitali inefficienti e non idonee a rispondere alle esigenze degli operatori: si
pensi, oltre alla limitata possibilità di accedere a fonti esterne di finanziamento, alla rigidità dei modelli legali, a modesti spazi concessi all’autonomia statutaria nelle scelte di
governo societario.
La riforma del diritto societario introduce elementi di novità in tutti gli istituti fondamentali del diritto societario, disciplinando le società di capitali in generale: costituzione,
conferimenti, organi amministrativi e di controllo, struttura finanziaria, diritti dei soci,
bilancio, operazioni straordinarie.
Con particolare riferimento alla struttura finanziaria delle imprese, appare evidente
come il legislatore abbia voluto ampliare i limiti legali ed i margini rimessi all’autonomia privata sia riguardo alle azioni che alle obbligazioni.
Per quanto riguarda lo strumento azionario, con l’entrata in vigore della riforma, 1° gennaio 2004, le società per azioni possono:
16
-
escludere l’emissione dei titoli azionari;
-
prevedere diverse tecniche di legittimazione e circolazione;
-
emettere azioni senza indicazione del valore nominale;
-
assegnare le azioni ai soci in misura non proporzionale ai conferimenti effettuati;
-
inserire nello statuto limitazioni alla circolazione delle azioni;
-
emettere nuove categorie di azioni.
34 I limiti dell’attuale sistema di finanziamento sono riconducibili alla debolezza dei circuiti di mercato, alla prevalenza dei
circuiti creditizi e, in particolare, di quelli bancari a breve termine, nonché alla cattiva qualità delle relazioni banca-impresa,
dovuta ad una scadente qualità informativa. Cfr. G. FORESTIERI, Il nuovo diritto societario. Un commento dal punto di vista
della finanza, tratto dal sito internet www.associazionepreite.it/ Asp/utility/visualize.asp?id=94.
In materia di emissione di titoli obbligazionari, si prevede:
-
l’attribuzione agli amministratori del potere di deliberare l’emissione;
-
l’innalzamento dei limiti all’emissione di obbligazioni;
-
il riconoscimento dell’emissione di prestiti subordinati;
- la possibilità di emettere obbligazioni “indicizzate”, per le quali i tempi e l’entità
del rimborso del capitale e del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società.
Per effetto delle nuove regole, inoltre, la società per azioni può emettere strumenti
finanziari “atipici” dotati di diritti patrimoniali o amministrativi, con la sola esclusione
del voto nell’assemblea generale degli azionisti, anche a favore di soci o soggetti terzi
che apportano opere o servizi nonché strumenti finanziari di partecipazione al patrimonio dedicato ad uno specifico affare.
Uno degli aspetti più innovativi della riforma riguarda la possibilità, attribuita all’autonomia statutaria, di creare speciali categorie di azioni caratterizzate da una diversa combinazione dei diritti partecipativi e patrimoniali. Lo Statuto può liberamente determinare il contenuto delle azioni appartenenti a tali categorie, nell’ambito dei limiti imposti
dalla legge, purché all’interno di ciascuna categoria sia osservata la parità dei diritti.
Con riferimento ai diritti amministrativi, è consentita la possibilità di emettere azioni
prive del diritto di voto, a voto limitato (anche su specifici argomenti) o subordinato al
verificarsi di determinati eventi, senza dover concedere maggiori benefici patrimoniali.
Per quanto riguarda i diritti patrimoniali, le imprese possono emettere azioni privilegiate, postergate nelle perdite ed azioni correlate all’andamento di uno specifico settore
dell’attività aziendale. Un posto a sé è riservato alle azioni riscattabili, le quali riconoscono al socio la possibilità, qualora si verifichino determinati eventi o situazioni, di
uscire dalla compagine azionaria, con riscatto a carico della società o dei soci. In generale, si può ritenere che la riforma, rendendo massimo il margine di operatività dell’autonomia statutaria grazie all’accresciuta possibilità di graduare i diritti patrimoniali e
amministrativi, sancisce il principio di atipicità delle speciali categorie di azioni.
Tra le categorie azionarie che le imprese possono emettere, una importante innovazione è rappresentata dalle azioni correlate ovvero, secondo il nuovo testo dell’art. 2350,
comma 2° c.c., “azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore”. Tale categoria speciale di azioni rappresenta, insieme agli
strumenti finanziari emessi a fronte di patrimoni destinati ad uno specifico affare ex art.
2447 bis c.c., un utile strumento per accedere a finanziamenti finalizzati35.
La nuova disciplina codicistica trova applicazione anche nei confronti delle banche e
degli intermediari finanziari36. Questi, infatti, in quanto imprese organizzate in forma
societaria, possono giovarsi delle opportunità offerte dal nuovo quadro normativo che,
come precedentemente ricordato, si pone come obiettivo l’accrescimento del ricorso al
mercato dei capitali e quindi l’ampliamento delle possibilità di finanziamento37.
L’opportunità concessa alle banche di emettere gli strumenti finanziari introdotti dalla
riforma del diritto societario è sancita all’art. 3 del d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 3738 – decreto coordinante le nuove norme introdotte dalla riforma del diritto societario con la disciplina, contenuta nel TUF e nel TUB, riservata agli intermediari finanziari, bancari e non
35 Cfr. Relazione ministeriale al d.lgs. n. 6 del 2003, sub par. 4.2 e G. MANZO, G. SCIONTI, “Patrimoni dedicati e azioni correlate: cellule fuori controllo?”, in Le Società, vol. 22, fasc. 10, 2003, p. 1335.
36 Per approfondimenti sull’applicazione della riforma del diritto societario alle banche, cfr. ABI, La riforma del diritto societario e le banche, Bancaria Editrice, Roma 2004 e O. CAPOLINO, L. DONATO, “Le banche e la riforma del diritto societario”, in
Fondazione Rosselli. Nono rapporto. La competitività dell’industria bancaria. Intermediari e regole nel mercato italiano ed
europeo, Edibank, Roma, 2004.
37 Cfr. F.M. FRASCA, “La riforma del diritto societario impatti sul sistema bancario e sull’ordinamento del credito e della finanza”, in Ferrarini G, Frasca F.M., Colombo A., Il nuovo diritto societario, Interventi tenuti nell’ambito del Seminario su:
“Intermediari, Mercati Finanziari e Ciclo Economico Internazionale” S. Marco - Perugia, 22 marzo 2003, Associazione per lo
sviluppo degli studi di Banca e Borsa, Quaderno n. 206, p. 31-32.
38 D.Lgs 6 febbraio 2004, n. 37 – Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi numeri 5 e 6 del 17 gennaio 2003, recanti
la riforma del diritto societario, nonché al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1° settembre 1993, e al testo unico dell’intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998 – Articolo 3 (Norme di coordinamento con il Testo Unico della Finanza), art. 9.48 (modifiche dell’art. 1 del d.lgs. n.
58 del 1998). Per approfondimenti su tale decreto, cfr. A. COLAVOLPE (commento di) “Il decreto di coordinamento del TUF con
la riforma: un primo commento (D.Lgs 6 febbraio 2004, n. 37)”, in Le Società, n. 8, 2004, p. 1031; A. COLAVOLPE (commento
di), “Il decreto di coordinamento del TUF con la riforma: un primo commento (D.Lgs 6 febbraio 2004, n. 37)”, in Le Società,
n. 9, 2004, p. 1153.
17
bancari, ed alle società quotate –, il quale modifica l’art. 1, comma 2 del TUF inserendo tra gli strumenti finanziari quelli negoziabili sul mercato dei capitali previsti dal codice civile.
Scopo del presente lavoro è l’analisi delle azioni correlate nell’ambito degli intermediari finanziari, al fine di valutare i limiti e le opportunità dell’emissione di tale categoria
speciale di azioni.
3. Le azioni correlate: principali caratteristiche
Le azioni correlate sono una classe speciale di azioni ordinarie i cui diritti patrimoniali
(diritto agli utili ed alla quota di liquidazione) sono legati alla performance economicofinanziaria di uno specifico settore.
Il concetto di “settore” non è esplicitato dalla normativa. Parte della letteratura ritiene
che tale espressione debba presentare i connotati del ramo d’azienda39 o di una divisione operativa dell’impresa40. Altri autori, tralasciando l’aspetto organizzativo e incentrandosi su quello strategico, collegano il termine “settore di attività” alla nozione di
business unit e, pertanto, lo considerano una porzione circoscritta dell’attività imprenditoriale caratterizzata da omogeneità produttiva o dall’intervento in un determinato
ambito di mercato e per il quale sia possibile costruire un’autonoma rendicontazione
contabile41. Alcuni, infine, ritengono che le azioni correlate possano riflettere i risultati
di una particolare società controllata (c.d. subsidiary shares)42.
Le azioni correlate, essendo collegate al fenomeno della diversificazione, sono emesse
da società conglomerate o multidivisionali caratterizzate dalla presenza di più business
tutti facenti capo ad un’unica struttura organizzativa43.
Nel panorama internazionale sono conosciute come tracking stocks (azioni traccianti) o
targeted stocks (azioni mirate) o ancora come action reflet (azioni riflettenti), ed è proprio a queste che il nostro legislatore si è ispirato.
Le tracking stock sono nate negli Stati Uniti negli anni ’80. La prima operazione finanziaria che ha avuto come oggetto l’emissione di azioni correlate è stata effettuata nel
1984 dalla General Motors al fine di finanziare l’acquisto di Electronic Data System, settore molto diverso dal core business della GM. In Europa è stata la Francia, con la
Alcatel, la prima nazione a sperimentare tale nuova tecnica finanziaria.
Analizzando le azioni correlate da un punto di vista giuridico, è importante evidenziare
come queste, pur attribuendo un diritto agli utili ed alla quota di liquidazione commisurato ai risultati di un determinato settore e non dell’impresa nel suo complesso, rappresentino comunque una partecipazione al capitale sociale dell’impresa emittente. Il soggetto titolare delle azioni in esame – dato che il comparto “tracciato”, non essendo giuridicamente separato dalla società emittente, rimane sotto la responsabilità e la gestione del management di quest’ultima – è considerato azionista dell’intera società.
Si ritiene che l’emissione di azioni correlate implichi una separazione “debole”44, ossia
non giuridico-patrimoniale bensì economico-finanziaria e contabile, i cui contorni sono
affidati all’autonomia statutaria. Il risultato del settore “tracciato”, infatti, viene calcolato sulla base di appositi conti divisionali – racchiudenti costi e ricavi imputabili al setto-
39 Il Codice Civile all’art. 2112 definisce una “parte dell’azienda” come un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata.
40 Cfr. A. S. D’ALCONTRES, “Art. 2350”, in Niccolini G, D’alcontres A. S., Società di capitali, Jovene, 2004; G.M. NICELLI, A.
SALVATI, G. PEZZULLO, “Tracking Stock e Creazione di Valore”, in Milano Finanza, 14 luglio 2001. Con riferimento al considerare il settore come un ramo d’azienda cfr. A. PISANI MASSAMORMILE, “Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi”, op. cit.,
pp. 1304-1305; in senso contrario si è espresso F. MARTORANO, “Commento art. 2350 c.c.”, in Sandulli M. Santoro V. (a cura di)
La riforma delle società, Giappichelli, Torino 2003, pp. 144-145.
41 Cfr. M. COTUGNO, Nuova finanza societaria: patrimoni dedicati, finanziamenti destinati e tracking, in “Amministrazione &
finanza”, 19/2004, p. 44-45; I. CAPELLI, I nuovi strumenti finanziari dopo la riforma del diritto delle società di capitali, Working
Paper 20/2004, tratto dal sito internet eco.uninsubria.it/dipeco/Quaderni/files/QF2004_20.pdf.
42 Cfr. A. ZOPPINI, “Le azioni correlate, le azioni riscattabili e le azioni senza valore nominale”, in Fiducia e Trust, allegato a
Il fisco, n. 20, 4 agosto 2003, p. 140; VIANDIER, “Les actions reflet”, in RJDA (Revue de Jurisprudence de Droit des Affaires),
2001, Chronique, n. 10, p. 4; G. QUATRARO, “Le categorie di azioni”, in Pante’ F.G., Quatraro G., Azioni, Obbligazioni ed altri
strumenti finanziari partecipativi, Edizioni Sistemi Editoriali, 2004, p. 91; L. ENRIQUES, G. SCASSELLATI SFORZOLINI, Adeguamenti
statutari: scelte di fondo e nuove opportunità nella riforma societaria, in “Notariato”, n. 1, 2004, p. 79.
43 Cfr. G. QUATRARO, “Le categorie di azioni”, op. cit, p. 87.
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44 M. SARALE, Azioni obbligazioni e altri strumenti finanziari, Relazione Villa Gualino 20-21 ottobre 2003, tratto dal sito internet http://www.finpiemonte.it/pdf/convegno_diritto_societario/sarale_titoli_azionari_e_altri_strumenti.pdf.
re – che hanno una valenza puramente interna; si tratta di operazioni di rendicontazione contabile che non danno vita ad alcuna segregazione patrimoniale. Ciò comporta
l’esposizione di tutti i comparti dell’attività imprenditoriale ai debiti della società – la
separazione contabile, pertanto, non è efficace nei confronti dei creditori della società –
e di ciascuna unità organizzativa alle perdite prodotte dalle altre45. Con riferimento a
quest’ultimo punto, la disciplina codicistica prevede che non possono essere pagati
dividendi se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società (art. 2350, 3°
comma, del c.c.); pertanto, l’azionista correlato avrà diritto alla corresponsione del dividendo solamente nel caso in cui sia la società che il settore hanno prodotto utili46. La
finalità di tale disposizione è quella di evitare, nei casi in cui un solo settore produca utili
e gli altri comparti subiscano delle perdite, il rischio che una divisione aziendale in settori possa favorire forme di indebitamento patrimoniale della società nel suo complesso47.
Come precedentemente ricordato, il compito di definire la struttura dell’operazione di
emissione di azioni correlate spetta allo statuto. Il legislatore della riforma riconosce
ampia autonomia alla compagine societaria, prevedendo all’art. 2350, 2° comma del c.c.
che lo statuto debba definire: i criteri di individuazione dei costi e dei ricavi imputabili
al settore; le modalità di rendicontazione; i diritti attribuiti a tali azioni; eventuali modalità e condizioni di conversione in azioni di altra categoria (si pensi alla cessione del
comparto cui sono correlate o alla quotazione in Borsa).
Degna di nota è la possibilità concessa all’autonomia statutaria di articolare in diverse
maniere, nei limiti previsti dalla disciplina codicistica, i diritti patrimoniali e amministrativi attribuiti ai titolari delle azioni correlate (art. 2348 c.c.). Dal lato dei diritti patrimoniali, ad esempio, l’incidenza delle perdite sulle azioni correlate può essere graduata in
maniera diversa dalle azioni ordinarie48. Dal dato dei diritti partecipativi, possono essere stabilite delle limitazioni al diritto di voto – concedendo tale diritto alle sole delibere
attinenti il settore correlato o subordinandolo al verificarsi di particolari condizioni – o
lo stesso potrebbe non essere concesso; si ritiene, però, diversamente da quanto accade nella prassi anglosassone, che il diritto di voto non possa essere legato all’andamento del prezzo di mercato delle azioni in esame (cd. floating voting rights o voto fluttuante)49.
Da ultimo, la gestione dei differenti settori di attività, dato il mantenimento di un unico
soggetto dotato di personalità giuridica, deve essere affidata agli amministratori della
società, ad eccezione del caso in cui vengano costituiti appositi “comitati di controllo”
con il compito di prevenire eventuali conflitti endosocietari50.
3.1 L’emissione di azioni correlate per le banche: aspetti strategico-organizzativi
La riforma del diritto societario ha concesso anche alle banche, in quanto costituite
sotto forma di società per azioni o di società cooperativa per azioni a responsabilità
limitata, la possibilità di emettere la nuova categoria di azioni in esame. Da un punto di
vista giuridico, non è stata emanata una apposita disciplina per l’emissione di azioni
correlate da parte delle banche: le norme di coordinamento con la disciplina di settore51 hanno incluso nella definizione di strumenti finanziari quelli introdotti dalla riforma
del diritto societario; valgono, pertanto, anche per le banche le considerazioni generali
fatte nel paragrafo precedente.
45 Cfr. G.B. PORTALE, “Dal capitale assicurato alle tracking stocks”, in Rivista delle Società, n. 1, 2002, p.164.
46 Non saranno corrisposti dividendi ai titolari di azioni correlate qualora il settore ha realizzato un risultato negativo, indipendentemente dalla circostanza che il bilancio della società sia in utile o meno, e nel caso in cui il settore è in utile ma dal
bilancio della società si registrano delle perdite.
47 Cfr. M. LAMANDINI, “Nello statuto i destini delle azioni correlate”, in Il Sole 24 Ore del 12/10/ 2002.
48 Cfr. G. QUATRARO, “Le categorie di azioni”, op. cit, p. 91.
49 Cfr. A. COLAVOLPE, La nuova disciplina delle categorie di azioni, in Le Società, vol. 22, fasc. 12, 2003, p. 1597; G.B. PORTALE,
“Dal capitale assicurato alle tracking stocks”, op. cit, p. 164.
50 Cfr. G.B. PORTALE, “Dal capitale assicurato alle tracking stocks”, op. cit, p. 165.
51 D.Lgs 6 febbraio 2004, n. 37 – Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi numeri 5 e 6 del 17 gennaio 2003, recanti
la riforma del diritto societario, nonché al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo n. 385 del 1° settembre 1993, e al testo unico dell’intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998 – Articolo 3 (Norme di coordinamento con il Testo Unico della Finanza), art. 9.48 (modifiche dell’art. 1 del d.lgs. n.
58 del 1998).
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Ciò che preme mettere in luce sono gli aspetti strategico-organizzativi52 legati all’emissione di azioni correlate da parte di una banca.
Come precedentemente ricordato, le azioni in esame, poiché collegate alla performance di un particolare settore, vengono emesse da imprese diversificate, ossia da imprese che operano in diversi comparti dell’attività imprenditoriale.
Da un punto di vista strategico, la banca è un’impresa multibusiness, ossia può operare in diverse aree di attività. Essa, infatti, ha l’opportunità di essere attiva nel comparto
dell’intermediazione creditizia e mobiliare, nonché svolgere attività distributiva in quello assicurativo e previdenziale, offrendo in ciascun mercato un’ampia e differenziata
gamma di prodotti e servizi finanziari a clienti con caratteristiche e necessità difformi.
La banca, pertanto, nasce già come un’impresa diversificata53, con un diverso grado di
correlazione a seconda della possibilità di utilizzare per le diverse linee di prodotto/servizio funzioni produttive, distributive e amministrative comuni.
Al pari di altri operatori economici, anche alle banche viene applicato il concetto di aree
strategiche di affari (strategic business unit), definite come singole o multiple combinazioni prodotto/mercato che consentono di individuare aree di reddito relativamente
autonome e che si differenziano da un punto di vista strategico, operativo e organizzativo. Tale definizione si avvicina a quella data dalla letteratura al “settore di attività” la
cui performance è riflessa nel risultato delle azioni correlate, ossia una porzione circoscritta dell’attività imprenditoriale caratterizzata da omogeneità produttiva o dall’intervento in un determinato ambito di mercato e per il quale sia possibile costruire un’autonoma rendicontazione contabile: si può, pertanto, ritenere che le banche possono
emettere azioni correlate alle diverse aree strategiche di affari in cui operano. In particolare, per la banca è possibile costruire una matrice delle combinazioni prodotti/segmenti di clientela per le tre aree dell’intermediazione finanziaria, che consente una doppia modalità di lettura delle SBU. In verticale, è possibile definire le aree d’affari secondo le forme di intermediazione – stesso prodotto per diversi segmenti di clientela –
mentre in orizzontale si classificano le aree di business sulla base dei segmenti di clientela – si fa riferimento all’aggregazione di più prodotti offerti ad un particolare segmento di clientela. Nel primo caso, si identificano modelli semplificati di banche che possono operare nell’area dell’intermediazione creditizia – comprendente l’intera operatività
in termini di strumenti di finanziamento, di investimento e di pagamento – o dell’intermediazione mobiliare – al cui interno è possibile distinguere l’investment banking, il
merchant bancking, il corporate finance e l’asset management. Nel secondo caso, le
aree d’affari vengono scelte sulla base della classificazione della clientela in macrosegmenti: retail (privati con reddito basso e piccoli operatori economici), private (privati
con patrimonio e reddito di una certa entità), corporate (imprese non finanziarie di
dimensione medio-grande), institutional (enti pubblici e privati, istituzioni senza fini di
lucro, intermediari finanziari). La possibilità di estendere le aree strategiche d’affari può
essere vista sia come l’ingresso di una banca svolgente la tradizionale attività di intermediazione creditizia in aree di intermediazione innovative (intermediazione mobiliare
e assicurativa) sia come l’ampliamento dei segmenti di clientela a cui rivolgersi.
La segmentazione dell’intermediazione finanziaria in aree di attività è un momento
importante al fine di formulare la strategia sia a livello di banca (definire le aree in cui
operare, selezionare il portafoglio di attività e scegliere la modalità di allocazione tra le
diverse unità di business) che di business (determinare il comportamento competitivo
dell’impresa all’interno di un settore al fine di perseguire dei vantaggi, rispetto agli
avversari, sostenibili nel tempo)54.
La decisione relativa alla scelta delle aree in cui operare (c.d. missione della banca) –
scelta importante in termini di individuazione del posizionamento di mercato che con-
52 Per una disamina delle problematiche attinenti lo studio della strategia e dell’organizzazione della banca cfr. M. BARAVELLI,
Strategia e organizzazione della banca, Egea, Milano, 2003.
53 Per approfondimenti sulla teoria della diversificazione nelle banche cfr. P. MOTTURA, “Evoluzione della banca verso forme
innovative di intermediazione finanziaria: la diversificazione”, in AA.VV, Diversificazione e organizzazione dei gruppi creditizi,
Egea, Milano, 1996.
20
54 E’ importante ricordare che esiste un terzo livello di strategia, riguardante le politiche a livello di funzioni aziendali (produzione, distribuzione, marketing, finanza, R&S, controllo, organizzazione, personale) elaborate e attuate operativamente dai
responsabili delle unità organizzative funzionali, ma comunque individuate dalle strategie di business e, per alcuni aspetti,
dalle strategie a livello aziendale. La strategia corporate fa capo al vertice aziendale (CdA e alta direzione) mentre le strategie di business sono gestite dai responsabili divisionali. Cfr. M. BARAVELLI, Strategia e organizzazione della banca, op. cit.
senta i migliori rendimenti e legata alla strategia a livello di corporate – spetta all’alta
direzione, la quale dovrà, per l’appunto, optare tra la specializzazione (operare in uno
specifico campo di attività definito da una determinata combinazione prodotto/mercato, differenziando la propria offerta) e la diversificazione (estendere le aree di operatività dall’interno o per acquisizione) e, nell’ambito di ciascuna area di attività, alla diversificazione produttiva. Le variabili interne che condizionano tali scelte sono la dimensione della banca, il tipo di attività svolta, il grado di correlazione sia organizzativa che economico-finanziaria tra business unit, nonché la fungibilità delle risorse in eccesso; i fattori esterni che influenzano la scelta specializzazione/diversificazione sono l’evoluzione
delle caratteristiche della domanda dei servizi finanziari, le tensioni dal dato dell’offerta e, quindi, l’aumento di competitività dei mercati, l’innovazione tecnologica e la regolamentazione.
Ai fini dell’emissione di azioni correlate, si è precedentemente sottolineato come l’alta
direzione della banca deve aver adottato una strategia di diversificazione. In generale,
in tutti i principali sistemi finanziari, mentre le piccole banche, al fine di valorizzare e salvaguardare il proprio core business hanno dovuto adottare il modello della banca specializzata o aderire a sistemi consortili o a rete, le banche di dimensione medio-grande
hanno mirato ad una strategia di crescita dimensionale che le ha orientate verso la
diversificazione. Pertanto, l’emissione di azione correlate interessa le banche di dimensioni maggiori che mirano, tra l’altro, a perseguire un vantaggio competitivo in termini
di economie di costo (di scala e di produzione congiunta) e di miglioramento dei livelli
di efficienza tecnico-operativa, nonché ad offrire un servizio più completo alla clientela
con un’assistenza stabile e personalizzata e, quindi, a rafforzare ed intensificare la
customer relationship55.
Da un punto di vista organizzativo, l’approdo delle grandi banche diversificate è il
modello divisionale, che, grazie alla differenziazione degli organi di direzione strategica
da quelli di gestione operativa, consente di superare i limiti che il modello funzionale
presenta al crescere delle dimensioni, della diversificazione geografica e produttiva,
delle pressioni competitive e, quindi, al crescere della complessità della guida aziendale56. Il modello divisionale, in linea generale, consente ad ogni area strategica d’affari di
essere gestita operativamente da una specifica divisione57, caratterizzata da autonomia
nelle decisioni operative e dall’attribuzione della responsabilità dei risultati reddituali
prodotti da particolari business unit58; la direzione generale, invece, sarà investita di
compiti di indirizzo strategico dell’impresa considerata nel suo complesso e dei diversi
business59.
Fatte queste considerazioni di carattere generale sulle diverse aree di operatività delle
banca e sulla struttura organizzativa che l’adozione di una strategia di diversificazione
comporta, l’emissione di azioni correlate da parte della banca consente di preservare
l’assetto strategico-organizzativo preesistente. La banca, infatti, dato il mantenimento
di un unico soggetto giuridico grazie alla mera separazione contabile del settore dal
resto dell’impresa, continua ad operare nel settore “tracciato” e, pertanto, a gestire le
interrelazioni tra i fattori della catena del valore delle varie attività, conseguendo i vantaggi competitivi in termini di economie di costo e/o di differenziazione che rappresentano l’essenza della diversificazione, a beneficiare degli eventuali risultati reddituali prodotti nonché a mantenere i rapporti con la clientela interessata ai prodotti/servizi relativi alla business unit “tracciata”.
55 Cfr. M. ORIANI, “Le principali configurazioni organizzative degli intermediari bancari: elementi distintivi e profili di criticità”, in De Angeli S. (a cura di), Banca universale o gruppo creditizio?, Bancaria Editrice, Roma, 2005, p. 11-48.
56 Il modello organizzativo di tipo funzionale attribuisce al vertice aziendale il potere di decidere gli aspetti strategico-operativi dell’azienda, la responsabilità dei profitti e la gestione delle attività di back office ed è, pertanto un modello che si attaglia alle imprese caratterizzate da un basso grado di complessità.
57 L’assetto organizzativo (divisione) può discostarsi da quello strategico (business unit). Può accadere che ad una divisione facciano capo più business, così come più divisioni possano contenere al loro interno un solo business. Cfr. M. COTUGNO,
Nuova finanza societaria: patrimoni dedicati, finanziamenti destinati e tracking, op. cit., p. 45.
58 Le divisioni sono considerati centri di reddito nella misura in cui l’autonomia concessa loro imponga l’adozione di meccanismi di coordinamento e controllo basati sull’attribuzione di obiettivi e sulla valutazione dei risultati. Ciò consente di rendere flessibile la gestione delle divisioni e di controllarne l’efficacia sulla base dei risultati conseguiti. Cfr. M. BARAVELLI,
L’organizzazione della banca, Egea, Milano, 1989, p. 288-289.
59 Una netta separazione tra gestione operativa e gestione strategica potrebbe compromettere la sopravvivenza e lo sviluppo della business unit poiché è indispensabile, per una corretta formulazione e gestione della strategia a livello di business,
la conoscenza dei problemi operativi della stessa. Pertanto, è opportuno che anche le divisioni partecipano alla formulazione della strategia relativa all’area di business presidiata. Cfr. M. BARAVELLI, Strategia e organizzazione della banca, op. cit., p.
285-286.
21
4.
Vantaggi perseguibili con l’emissione di azioni correlate
Il management di un’impresa, mediante la strutturazione di un’operazione di emissione di azioni correlate, può perseguire una serie di vantaggi: maggiore flessibilità nella
raccolta di capitale di rischio; allineare la performance del comparto “tracciato” dell’impresa al suo “fair value”; più efficace sistema di remunerazione dei manager del settore; utilizzo come “currency” in operazioni di finanza straordinaria; misura difensiva contro scalate ostili.
Maggiore flessibilità nella raccolta di capitale di rischio. In risposta all’esigenza evidenziata dalla legge delega di ampliare i canali di finanziamento, le imprese, emettendo
azioni correlate, possono raccogliere ulteriore capitale di rischio, attraendo, oltre agli
investitori interessati al core business dell’imprese emittente, i risparmiatori attirati
dalla performance economico-finanziaria dello specifico settore “tracciato”.
Allineare la performance di un comparto dell’impresa al suo “fair value”. Secondo la
teoria del “diversification discount”, le imprese diversificate vedono il proprio valore di
mercato sottovalutato poiché i settori ad alto profilo, in una valutazione d’insieme,
rimangono offuscati;60 ciò in seguito alla difficoltà degli analisti finanziari di valutare le
imprese operanti in più settori.61 Emettendo azioni correlate ai risultati di un determinato settore, si dà vita ad una separazione contabile dei differenti comparti in cui si articola l’impresa e grazie alla predisposizione di diversi rendiconti si stimolano gli analisti
finanziari dotati di expertise sulle singole aree di business a seguire e monitorare più
attentamente il comparto “tracciato”. Il tutto dovrebbe consentire di migliorare il controllo del merito creditizio e ottenere un costo del capitale più favorevole rispetto a quello dell’intera società62, sbloccandone il “valore nascosto”.63
Più efficace sistema di remunerazione dei manager del settore. L’emissione di azioni
correlate consente alle imprese, tramite l’implementazione di piani di incentivazione del
personale del tipo targeted stock option, di collegare i compensi del management alla
performance della linea di business “tracciata”, nella misura in cui i manager assolvano a funzioni non solo operative ma anche strategiche64. La più stretta connessione tra
valore dell’unità gestita e sistemi di remunerazione dei dipendenti può costituire un
modo efficiente di motivare e stimolare l’interesse del management – che ha la responsabilità del settore – nei confronti dell’andamento del valore di mercato del comparto
tracciato ed inoltre può avere un impatto positivo sull’assunzione di personale altamente qualificato. Tali effetti sono maggiori nella misura in cui i profitti del settore sono
meno correlati ai profitti della impresa emittente65.
Utilizzo come “currency” in operazioni di finanza straordinaria. Le azioni correlate possono essere utilizzate nelle acquisizioni societarie come corrispettivo dell’operazione
(acquisition currency). Le imprese acquirenti hanno la possibilità di pagare l’acquisizione non solo con risorse finanziarie ma anche con carta, ossia con azioni di compendio;
ciò non è però sufficiente a risolvere il problema del “seller’s remorse”66 di cui soffro60 Cfr. G. MIGNONE, “Tracking shares e action reflect come modelli per le nostre azioni correlate”, in Banca, borsa e titoli di
credito, vol. LVI, n. 5, 2003, p. 612.
61 La letteratura anglosassone ritiene che l’aumento del numero di aree di attività in cui opera un’impresa sia accompagnato da una riduzione del numero di analisti dedicati (analyst following). Questi, infatti, sono generalmente specializzati in un
solo settore e, pertanto, la formulazione di previsioni sugli utili e sull’andamento del valore di mercato delle azioni dell’impresa diversificata diviene più complessa. L’emissione di azioni correlate consente di alleviare questo problema fornendo un
“pure play” in singoli settori; ciò dovrebbe consentire di incrementare il numero di analisti che seguono l’impresa emittente le azioni correlate. Cfr. R. BHUSHAN., “Firm characteristics and analyst following”, in Journal of Accounting and Economics,
n.11, 1989 e J. D’SOUZA, J. JACOB, “Why firms issue targeted stock”, in Journal of Financial Economics, n. 56, 2000, p. 477.
62 Cfr. G. MARANO, I patrimoni destinati in una prospettiva di analisi giuseconomica, Quaderni di ricerca giuridica della consulenza legale, Banca d’Italia, Roma 2004, p. 29 e P. DE BIASI, “Burro e cannoni: le alphabet stock”, in Le Società, vol. 21, fasc.
7, 2002.
63 Le azioni correlate sono considerate un mezzo per “unlock the hidden value”, nella misura in cui consentono di ottenere
una valutazione di mercato più alta per il business “tracciato” rispetto a quella che si sarebbe realizzata qualora il comparto
fosse considerato come una parte indistinta dell’impresa, ossia non contabilmente separata. Cfr. BAKER & MCKENZIE, Tracking
Shares v Spin-Offs, Newsletter of the Baker & McKenzie Mergers & Acquisitions Practice Group, Australia, November 2001,
in www.bakerinfo.com, p. 1.
64 “Per implementare un meccanismo di incentivazione del personale di tipo tarketed stock option è essenziale mettere il
management in condizione di creare valore a livello di business e questo è realizzabile solo attraverso una forte delega oltre
che di semplici funzioni operative anche di quelle strategiche. La condivisione della strategia, una struttura organizzativa
adeguatamente impostata al suo perseguimento insieme ad una allocazione di capitale allocato congrua, sono gli altri prerequisiti per poter implementare un sistema di incentivazione del tipo targeted stock option”. Cfr. M. COTUGNO, Nuova finanza societaria: patrimoni dedicati, finanziamenti destinati e tracking, op. cit., p. 45-46.
65 Cfr. T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, June
2000, in http://papers.ssrn.com.
22
66 Il “seller’s remorse” è un problema che attaglia gli azionisti dell’impresa acquisita, i quali temono di aver venduto le proprie azioni ad un prezzo basso. Cfr. J.J. HAAS, How Quantum, DLJ and Ziff-Davis Are Keeping on Track with “Tracking Stock”,
September 1999, in http://papers.ssrn.com, p. 5.
no gli azionisti dell’impresa target. Questi, infatti, sono riluttanti a scambiare le azioni
possedute con azioni ordinarie dell’impresa acquirente poiché ritengono che in queste
ultime vengano diluiti gli effetti positivi di un possibile rialzo del prezzo delle proprie
azioni67. Grazie all’emissione di azioni correlate ai risultati della società rilevata ed alla
distribuzione di queste ai soci dell’impresa target al posto delle azioni ordinarie dell’acquirente, gli azionisti della società acquisita vedrebbero risolto il problema del “seller’s
remorse” in quanto continuerebbero a beneficiare degli utili della vecchia società, di cui
conoscono la storia e le potenzialità.68 Allo stesso modo, le azioni in esame favoriscono operazioni di fusione.69
Misura difensiva contro scalate ostili. Le azioni correlate rappresentano una ulteriore
classe di azioni emesse da una società e costituiscono per il titolare delle stesse una
partecipazione nel capitale sociale dell’impresa nel suo complesso; ciò comporta maggiori difficoltà nella realizzazione di scalate ostili aventi ad oggetto sia l’impresa nel suo
complesso che il settore di attività. Nel primo caso, sarà necessario acquistare un maggior numero di azioni per acquisire il controllo della società. Qualora un potenziale
acquirente volesse acquisire il controllo del comparto “tracciato”, poiché il controllo e
la proprietà dell’impresa rimangono unitari, non sarebbe sufficiente acquistare la maggioranza delle azioni correlate, bensì si renderebbe necessaria una più costosa scalata
all’intera impresa emittente.70
Una volta decisa la “separazione” di un settore è importante che l’impresa valuti i vantaggi realizzabili con l’emissione della categoria di azioni in esame rispetto alle alternative operazioni di equity restructuring71 consistenti nella emissione di nuove categorie
di azioni, ossia spin-off e equity carve-out.
Lo spin-off consiste nel trasferimento della proprietà di un particolare settore di
attività agli existing shareholder della società, sotto forma di dividendo pagato in azioni e, quindi, senza alcun tipo di finanziamento esterno. A seguito della ristrutturazione,
il settore trasferito diventa una entità giuridicamente separata, con propri CdA e management team. Generalmente la società cede il controllo del settore, mantenendo o
meno partecipazioni di minoranza. Data la mancanza di connessione tra le due società
a livello sia operativo che di controllo, l’unità spun-off ha piena indipendenza nelle
decisioni.72
L’equity carve-out comporta la vendita al pubblico di azioni aventi diritti di proprietà sui
cash flow generati da un particolare settore dell’impresa, senza però perderne il controllo. E’ paragonabile ad una IPO di azioni della unità oggetto della ristrutturazione (è
anche definita come partial IPO). Poiché la società che effettua l’operazione conserva il
controllo dell’unità, questa, pur essendo un’entità giuridicamente indipendente ed
avendo pertanto un proprio management e CdA, non ha piena autonomia nelle decisioni operative e strategiche.
Con riferimento alla comparazione dei vantaggi perseguibili attraverso l’emissione di
azioni correlate con quelli legati alle operazioni di equity restructuring analizzate,
la letteratura anglosassone73 individua delle ragioni comuni che spingono alla loro
realizzazione.
67 Cfr. M. T. BILLETT, D. C. MAUER, “Diversification and the value of internal capital markets: the case of tracking stock”, in
Journal of Banking & Finance, n. 24, 2000, p. 1462.
68 Cfr. M. COTUGNO, Nuova finanza societaria: patrimoni dedicati, finanziamenti destinati e tracking, op. cit., p.46-47 e G.
QUATRARO, “Le categorie di azioni”, op. cit, p. 89-90.
69 Cfr. A. ZOPPINI, “Le azioni correlate, le azioni riscattabili e le azioni senza valore nominale”, op. cit., p. 140.
70 Cfr. G.M. NICELLI, A. SALVATI, G. PEZZULLO, “Tracking Stock e Creazione di Valore”, op. cit.
71 Una ulteriore operazione di equity restructuring è il divestiture (conosciuto anche come asset sell-off), che comporta la
vendita del patrimonio o di una sua parte (divisione dell’impresa) ad una società che ne acquisisce il controllo. Il corrispettivo viene generalmente reinvestito in nuovi asset o distribuito agli azionisti sotto forma di dividendo. Le ragioni che spingono alla realizzazione di tale operazione sono diverse: vendita di asset che possono avere un maggior valore, in termini di
minor rischio o maggior rendimento, per l’acquirente, dovuto ad un più efficiente utilizzo degli stessi o allo sfruttamento di
sinergie con i business esistenti; necessità di contante per far fronte alle esigenze di liquidità; focalizzarsi sul core business,
liberandosi di settori di attività non a questo collegati.
Cfr. D. ASWATH, Corporate finance: theory and practice, Seconda edizione, Wiley International Edition, Stern School of
Business, New York University, 2003. Tale operazione non sarà oggetto del confronto con l’emissione di azioni correlate.
72 Cfr. T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op.
cit., p. 2-3.
73 Cfr. D. ASWATH, Corporate finance: theory and practice, op. cit, T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock?
Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op. cit., p. 7-15, M. T. BILLETT, D. C. MAUER, “Diversification and the
value of internal capital markets: the case of tracking stock”, op. cit, p. 1462-1463, D. HAUSHALTER, W. MIKKELSON, An
Investigation of the Gains from Specialized Equity: Tracking Stock and Minority Carve-Outs, University of Oregon, May 29,
2001, in http://papers.ssrn.com, p. 9-11.
23
La ristrutturazione rende disponibili nuove informazioni sul comparto “separato”,
migliorando le asimmetrie informative; ciò dovrebbe ridurre il costo di valutare una
particolare emissione azionaria, così come l’intera impresa e comportare l’aumento del
numero di analisti specializzati in un particolare ambito di operatività che seguono l’impresa. Le operazioni di equity restructuring oggetto di analisi, quindi, consentirebbero
di “sbloccare il valore nascosto” del settore separato, facendo riflettere nel prezzo di
mercato delle azioni il suo maggior valore e allo stesso tempo di migliorare il valore
delle azioni della società ristrutturata. Tutto questo, attraverso l’allineamento dei compensi e degli incentivi percepiti dal management ai risultati dello specifico settore,
potrebbe spingere i manager ad operare e gestire in maniera più efficiente il
comparto di cui sono responsabili, migliorandone la performance operativa. Inoltre, le
equity restructuring operation creano nuova moneta da utilizzare in operazioni di
acquisizione.74
Ciò che contraddistingue la costituzione di settori contabilmente separati cui sono collegati i rendimenti delle azioni correlate rispetto alle altre operazioni di equity restructuring che danno vita, invece, a più entità dotate di personalità giuridica è il mantenimento delle sinergie e dei benefici della diversificazione, nonché il sostenimento di
minori costi75.
La strutturazione di un’operazione di emissione di azioni correlate consente di preservare l’internal capital market che sarebbe altrimenti distrutto se i settori dell’impresa
fossero giuridicamente e patrimonialmente separati. In tal modo l’impresa, dato il mantenimento di un unico soggetto guidato dallo stesso management team, potrebbe continuare ad allocare liberamente le risorse tra le varie linee di business, preservando le
sinergie operative – potrebbe, ad esempio, utilizzare i cash flow generati dal settore
“tracciato” per sovvenzionare operazioni di altri comparti – e, d’altro canto, il settore
tracciato potrebbe attingere dalle risorse dell’impresa. Ancora, poiché gli asset dell’unica persona giuridica continuano a garantire il servizio del debito, il settore vede inalterata la capacità di debito, beneficiando degli effetti co-assicurativi della diversificazione;
nel caso dello spin-off e dell’equity carve-out, invece, il costo del finanziamento riflette
il nuovo status di impresa indipendente e di più piccole dimensioni. Infine, l’emissione
di azioni correlate rende possibile per il settore “tracciato” il sostenimento di minori
spese generali rispetto all’equity carve-out e allo spin-off – si pensi, tra l’altro, ai costi
legati al personale, ai servizi intra-aziendali o alle spese di R&S – grazie all’opportunità
di distribuirli in una impresa diversificata e di dimensioni maggiori, amministrata e
gestita da un unico CdA e management team.
4.1. Vantaggi perseguibili dalle banche che emettono azioni
correlate
Le considerazioni precedentemente fatte sui vantaggi perseguibili da una qualsiasi
impresa valgono anche per le banche.
In particolare, per la banca l’opportunità di raccogliere ulteriore capitale di rischio tramite l’emissione di una speciale categoria di azioni i cui risultati riflettono la performance di una particolare business unit è importante alla luce del conseguente rafforzamento patrimoniale. Come ben noto, le banche sono assoggettate ad una normativa di vigilanza prudenziale che lega la capacità di assumere rischi – concedere finanziamenti,
investire in valori mobiliari, emettere obbligazioni, crescere territorialmente, ecc. – alla
disponibilità patrimoniale della banca. Sono fissati, infatti, una serie di vincoli gestionali – requisiti patrimoniali e limiti all’operatività – connessi all’ammontare del patrimonio
74 Uno studio condotto da Irem Tuma sulle 606 operazioni di equity restructuring realizzate negli USA tra il 1984 (data in cui
viene realizzata la prima emissione di tracking stock) e il 2000 – 29 di tracking stock, 106 di spin-off e 471 di equity carve out
– ha evidenziato come le imprese vi abbiano ricorso al fine di emettere nuove azioni in settori caratterizzati da una valutazione relativamente più alta, in modo da “unlock the hidden value”, di creare “new currency” da utilizzare in operazioni di
acquisizione e come compensi per il management nonché per ridurre le asimmetrie informative riguardanti il settore. Cfr. I.
TUNA, Determinants and Consequences of Equity Restructurings: How are tracking stocks different to equity carve-outs and
spin-offs?, Job talk paper, January 2002.
24
75 Cfr. J.J. HAAS, How Quantum, DLJ and Ziff-Davis Are Keeping on Track with “Tracking Stock”, op. cit, p. 4, M. T. BILLETT,
D.C. MAUER, “Diversification and the value of internal capital markets: the case of tracking stock”, op. cit, p. 14631464 e T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op.
cit., p. 12.
di vigilanza76, con il fine di preservare la stabilità senza comprimere eccessivamente
l’autonomia degli operatori. Si pensi al coefficiente di solvibilità, ai requisiti patrimoniali sui rischi di mercato nonché ai vincoli all’attività condotta riguardanti l’operatività
oltre il breve termine, la concentrazione dei rischi e le partecipazioni detenibili.
Pertanto, diviene importante per l’operatività della banca ricercare modalità di reperimento di risorse finanziarie che consentano di rispettare i requisiti imposti dalla vigilanza e allo stesso tempo di ridurne il costo.
Le soluzioni percorribili per aumentare il patrimonio di vigilanza sono l’autofinanziamento, l’emissione di nuovo capitale di rischio e/o di strumenti di patrimonializzazione
che presentano delle caratteristiche intermedie tra il capitale di rischio e di debito (strumenti innovativi di capitale, strumenti ibridi di patrimonializzazione e passività subordinate). I dati relativi al sistema bancario nazionale evidenziano come dal 1999 al 2004 il
patrimonio di vigilanza sia cresciuto di circa il 35% grazie soprattutto all’incremento del
patrimonio supplementare e, in modo particolare, delle passività subordinate, cresciute dell’82%. Se si considera il periodo successivo al 2002, però, il rafforzamento patrimoniale è riconducibile principalmente all’autofinanziamento e agli aumenti di capitale
e, in misura inferiore, alle passività subordinate77.
L’emissione di azioni correlate rappresenta per la banca una ulteriore modalità di reperimento di capitale di rischio e ciò, grazie al rafforzamento patrimoniale derivante dall’aumento di capitale, consente di ampliare l’operatività e, quindi, la capacità reddituale dell’azienda di credito.
Un altro vantaggio particolarmente rilevante per le aziende di credito è quello di offrire
un “nuovo” strumento finanziario in grado di attrarre risparmiatori interessati alla performance di un particolare settore di attività della banca. L’elasticità della struttura
finanziaria delineata dalla riforma, infatti, offre anche alle banche l’opportunità di
ampliare la platea di investitori interessati a partecipare all’impresa, soddisfacendo,
così, le esigenze di investimento di una più ampia schiera di risparmiatori. In tal modo,
offrendo una gamma di prodotti/servizi ancora più vasta le grandi banche diversificate
creano o consolidano ulteriormente il rapporto con clientela e ciò, nell’ambito di una
strategia orientata alle relazioni, permette di ottenere un vantaggio competitivo basato
sulla differenziazione dell’assistenza fornita al cliente.
Le azioni correlate, inoltre, possono essere utilizzate come moneta nelle operazioni di
M&A che stanno interessando il sistema finanziario anche in ambito cross-border.
Nell’ultimo ventennio le banche hanno subito profonde trasformazioni ed un radicale
processo di consolidamento di portata molto vasta dovuto all’impatto di numerosi fattori, tra cui: i processi di deregolamentazione normativa dei sistemi finanziari, i processi di liberalizzazione dell’attività creditizia, il processo di globalizzazione dell’economia
e dei mercati, lo sviluppo dell’ICT nonché l’innovazione finanziaria78. Una delle principali conseguenze dei cambiamenti avvenuti nel sistema finanziario è il crescente ricor-
76 Il patrimonio di vigilanza, primo presidio a tutela della stabilità della banca, è costituito dalla somma algebrica di una serie
di elementi positivi e negativi che possono entrare nel calcolo dell’aggregato in oggetto nel rispetto di particolari regole e di
limiti di computabilità. E’ composto da:
• patrimonio di base (Tier 1), che include il capitale sociale versato, le riserve, il fondo rischi bancari generali e gli strumenti innovativi di capitale al netto di azioni proprie, avviamento, immobilizzazioni immateriali, perdite registrate in
esercizi precedenti e in quelli in corso;
• patrimonio supplementare primario (Tier 2), che include le riserve di rivalutazione, gli strumenti ibridi di patrimonializzazione, le passività subordinate, i fondi rischi su crediti e le plusvalenze nette su partecipazioni al netto di minusvalenze nette su titoli e su partecipazione e di altri elementi negativi;
• patrimonio supplementare secondario (Tier 3), che include i prestiti subordinati con durata originaria pari o superiore ai
due anni.
Il patrimonio supplementare è ammesso entro il limite massimo del patrimonio di base.
Dalla somma del patrimonio di base e di quello supplementare vanno dedotti le partecipazioni, gli strumenti ibridi di patrimonializzazione e i prestiti subordinati detenuti nei confronti di banche e società finanziarie.
77 Cfr. TAB 1, 2 e 3 in Appendice.
78 Cfr. M.R. NAPOLITANO, La gestione dei processi di acquisizione e fusione di imprese, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 169170 e S. PALMIERI, Fusioni e acquisizioni in Europa. Le conseguenze economiche e sociali, Ediesse, Roma, 2004, pp. 52-72.
Oltre a determinanti di natura ambientale – ridefinizione dei confini geografici dei mercati finanziari, creazione della moneta
unica, evoluzione della domanda, apertura dei modelli proprietari ma soprattutto deregulation del sistema bancario e tecnologia – la spinta alle concentrazioni del sistema finanziario è spiegabile da determinanti strategiche legate a fattori di ordine
aziendale, manageriale, organizzativo ed economico come acquisire un posizionamento strategico su nuovi mercati (strategic), difendere quote di mercato (defensive), gestire situazione di crisi (crisis); ciò al fine di acquisire vantaggi competitivi o
colmare gap di posizionamento relativamente, tra l’altro, alla possibilità di accesso a nuovi mercati, alla diversificazione delle
gamma d’offerta, all’aumento della redditività, delle quote di mercato e del potere di price making. Cfr. P. SCHWITZER,
“Concorrenza, concentrazioni e ristrutturazioni nel sistema finanziario”, in Anderloni L., Basile I., Schwitzer P., Nuove frontiere delle concentrazioni e ristrutturazioni, Bancaria Editrice, Roma, 2001, pp. 25-36.
25
so ad operazioni di fusione ed acquisizione79, che hanno aumentato il grado di concentrazione del sistema bancario italiano.
Nel periodo 1990-200480, il numero delle banche italiane è sceso da 1156 a 778, corrispondente ad una riduzione del 32,7% dovuta, in termini di numerosità, ad operazioni
di fusione ed incorporazione (437 fusioni ed incorporazioni contro 192 operazioni a
valere sulle quote di maggioranza del capitale). Se si considerano, invece, i fondi intermediati in percentuale dell’intero sistema, sino al 1994 predominano le operazioni di
fusione ed incorporazione81, mentre nel periodo successivo si ha una prevalenza delle
acquisizioni della maggioranza del capitale. Dopo l’accelerata mostrata a partire dalla
seconda metà degli anni Novanta82, dal 2001 il processo di concentrazione del settore
bancario è rallentato a seguito della maggiore attenzione alle attività di ristrutturazione/razionalizzazione volte a mettere a punto il modello organizzativo più idoneo alle
strategie della banca e all’assetto proprietario83.
79 Le fusioni e le acquisizioni sono operazioni di finanzia straordinaria che consentono all’impresa di perseguire finalità di
crescita esterna. L’acquisizione consiste nel divenire proprietari, dietro pagamento di un corrispettivo, di una quota parte del
capitale di un’altra impresa. Con la realizzazione di tale operazione, l’impresa acquirente e l’impresa acquisita conservano la
propria identità giuridica ed economica. La fusione, invece, comporta una perdita dell’individualità delle imprese, le quali
confluiscono in un’unica struttura organizzativa.
Da un punto di vista tecnico, le operazioni di acquisizione e di fusione possono avvenire secondo diverse modalità.
Con riferimento all’acquisizione è possibile distinguere:
- l’acquisizione tout court, attraverso la quale un’impresa, fuori dal mercato borsistico, trasferisce la proprietà di una
quota di controllo o di un ramo d’azienda ad un soggetto compratore. Il pagamento avviene generalmente in denaro,
ma può anche effettuarsi mediante la cessione di una quota dell’azienda acquirente ai venditori dell’acquisita, le quali
conservano l’autonomia;
- il leverage by out (LBO), tecnica nata negli USA negli anni Settanta consistente nell’acquisire una impresa che dispone
di liquidità, capacità di credito e flussi di reddito tali da ridurre al minimo l’esborso di capitale di rischio. L’impresa acquirente, infatti, potrà ottenere finanziamenti dal sistema bancario sulla base della consistenza patrimoniale e delle potenzialità finanziarie dell’impresa e rimborsare il finanziamento utilizzando i flussi di cassa generati dalla gestione aziendale. Anche qui, l’operazione, data la complessità, avviene tramite la stipula di un contratto e pagamento in denaro.
Qualora sia il management dell’impresa a guidare l’operazione, si parla di management by out (MBO);
- l’offerta pubblica di acquisto (OPA) consensuale, che ha la finalità di far acquisire, nel mercato borsistico, quote di partecipazione di controllo. L’operazione si realizza in due momenti: in un primo momento l’acquirente rileva un consistente pacchetto azionario della società da acquisire da un soggetto identificato e successivamente lancia l’OPA sul mercato alle condizioni definite con il primo acquirente. L’offerta è irrevocabile ed è caratterizzata da un’ampia disclosure;
- l’offerta pubblica di acquisto (OPA) aggressiva, che si distingue dall’OPA consensuale per il non chiedere il consenso per
l’acquisizione al soggetto che detiene il controllo dell’impresa. Tale operazione si esegue lanciando al mercato un’offerta pubblica irrevocabile ad un prezzo generalmente superiore del 20% al prezzo di mercato. Il prezzo dell’offerta può
subire dei rialzi nel caso in cui l’impresa oggetto dell’OPA lanci una contro-offerta ad un prezzo superiore;
- l’offerta pubblica di acquisto e di scambio (OPAS), che si distingue dalle OPA poiché il pagamento avviene non in denaro ma in parte in denaro ed in parte in titoli;
- l’offerta pubblica di scambio (OPE), operazione di acquisizione realizzata nel mercato borsistico avente ad oggetto titoli e la cui modalità di pagamento è costituita non da denaro ma da altri titoli;
- il ramassage o rastrellamento, finalizzato ad acquisire nel mercato di borsa quote di partecipazione minoritarie.
L’operazione si realizza tramite il frazionamento degli acquisti, aventi ad oggetto ciascuno un numero limitato di azioni,
finalizzato al possesso di un numero consistente delle stesse;
- la permuta, operazione realizzata in ambito contrattuale avente ad oggetto immobilizzazioni tecniche e finanziarie e la
cui modalità di pagamento è rappresentata da altre immobilizzazioni;
- il prestito obbligazionario a conversione programmata, operazione di acquisizione effettuata fuori dal mercato borsistico mediante la sottoscrizione di obbligazioni convertibili emesse da un terzo, in genere un istituto di credito. I titoli, fino
a conversione avvenuta, rimangono nella disponibilità del venditore, il quale cede al compratore occulto il diritto di
voto.
Per la realizzazione di operazioni di fusione le tecniche più utilizzate sono:
- la fusione per incorporazione, per mezzo della quale l’impresa acquisita, dietro conferimento all’azionista/socio di azioni/quote dell’acquirente, viene incorporata nell’impresa acquirente, perdendo la propria identità giuridica ed economica;
- la fusione in senso proprio o fusione per concentrazione, in seguito alla quale due o più imprese danno vita ad una
nuova società, perdendo la propria individualità. L’ingresso dei soci delle società partecipanti nella compagine sociale
del soggetto risultante dall’operazione avviene mediante l’assegnazione di un numero di azioni calcolato in base al rapporto tra il numero delle azioni delle società oggetto di fusione e l’ammontare di titoli della nuova società.
Cfr. M.R. NAPOLITANO, La gestione dei processi di acquisizione e fusione di imprese, op. cit., pp. 22-29.
80 Cfr. TAB. 4 dell’Appendice.
81 La merger wave verificatasi sino al 1994 è stata condizionata dai benefici fiscali previsti dalla legge Amato, Carli (legge
218/1990) e successivamente estesi dalla Amato bis (legge 489/1993). Cfr. F. POLI, L’evoluzione del sistema bancario italiano e
gli assetti organizzativi dei gruppi creditizi, in De Angeli S. (a cura di), Banca universale o gruppo creditizio?, Bancaria Editrice,
Roma, 2005, p. 92.
82 L’intensa attività di ristrutturazione che ha interessato il sistema bancario italiano ha assunto dimensioni superiori a quelle riscontrate negli altri paesi dell’Unione europea. Secondo i dati raccolti da Thomson Financial, nel quinquennio 1997-2001
le operazioni di fusione e di acquisizione riguardanti intermediari bancari italiani hanno raggiunto un valore complessivo di
oltre 70 miliardi di euro, l’ammontare più elevato nel confronto con gli altri sistemi bancari europei, pari a circa il 22 per cento
del valore complessivo delle operazioni riguardanti le banche dell’Unione europea. Nello stesso periodo il numero delle banche in Italia si è ridotto dell’11 per cento; di converso, la rete degli sportelli ha continuato a espandersi a un ritmo elevato (20
per cento in cinque anni). La capacità del sistema bancario italiano, misurata in base al numero di abitanti serviti in media da
uno sportello bancario, tende a convergere sui livelli medi dell’Unione europea. Cfr. BANCA D’ITALIA, Relazione annuale, 2002,
p. 344.
26
83 Cfr. F. POLI, L’evoluzione del sistema bancario italiano e gli assetti organizzativi dei gruppi creditizi, op. cit., p. 99.
In un contesto caratterizzato da un continuo ricorso delle banche italiane alle operazioni di finanza straordinaria, le azioni correlate rappresentano uno strumento in grado di
facilitare la realizzazione di operazioni di fusione ed acquisizione nella misura in cui vengono offerte agli azionisti dell’impresa target; in tal modo, questi, pur assumendo la
qualifica di azionista della banca che effettua la scalata, continuano a beneficiare dei
risultati conseguiti dall’impresa oggetto dell’operazione. Allo stesso tempo, la speciale
categoria di azioni in esame può ostacolare il buon esito di scalate ostili effettuate nei
confronti di banche che hanno emesso azioni correlate ad una business unit, dato l’aumento di capitale generato dall’emissione, oppure aventi ad oggetto il settore “tracciato”, dal momento che si renderebbe necessaria una ben più costosa scalata all’intera
banca.
Così come qualsiasi altra impresa, anche le aziende di credito che emettono azioni correlate, in quanto imprese di grandi dimensioni e diversificate, hanno la possibilità di
valorizzare e rendere più visibili sul mercato singole business unit dell’attività aziendale con ampie prospettive di crescita, allineandone la performance al “fair value”.
Infine, le banche possono utilizzare le speciali categorie di azioni in esame come un efficace strumento per motivare i manager che assolvono a compiti di indirizzo strategico
e gestionale del settore, grazie al collegamento dei compensi percepiti dal management
alla performance della linea di business “tracciata”.
5. Limiti associati all’emissione di azioni correlate84
Dopo aver analizzato i benefici perseguibili dall’emissione di azioni correlate non devono essere tralasciati gli aspetti critici che tale “nuova” tipologia di strumento finanziario pone in evidenza: la nascita di conflitti di interesse all’interno dell’impresa emittente, l’impossibilità, per l’azionista, di vantare qualsiasi pretesa di tipo patrimoniale sugli
asset del settore e di incidere in maniera diretta sulla gestione degli stessi85, la debole
“leggibilità” da parte del mercato se l’attività “tracciata” non è correttamente identificata nonché i costi aggiuntivi legati alla tenuta di un’apposita contabilità di comparto.
Nascita di conflitti di interesse all’interno dell’impresa emittente. Il mantenimento di un
unico organo amministrativo responsabile del governo della società comporta la presenza di significativi conflitti di interesse86 fra le diverse categorie di azionisti e fra questi e gli amministratori, sollevando rilevanti questioni in ordine all’adempimento dei
doveri fiduciari (fiduciary duties) da parte degli amministratori. Secondo la regola generale questi ultimi devono gestire la società nell’interesse di tutti gli azionisti87.
Tuttavia, nel caso di emissione di azioni correlate, gli interessi delle diverse categorie di
azionisti divergono: si pensi alla decisione che gli amministratori devono prendere circa
l’allocazione, tra i differenti settori, di risorse ed opportunità di profitto che si presentano all’impresa, al fine di perseguire economie di diversificazione tra le attività. Per le
banche, in particolare, possibili situazioni di discriminazione tra i diversi settori e, quindi, tra le diverse categorie di azionisti possono aversi non solo con riferimento al perseguimento e alla gestione delle sinergie tra i vari settori, ma anche in sede di applicazione della normativa di vigilanza; gli amministratori, per il perseguimento della stabilità, possono assumere decisioni che si traducono in oneri patrimoniali o finanziari
diversamente restrittivi per i singoli settori, determinando una disparità di trattamento
tra le aree di attività. Inevitabilmente, quindi, gli amministratori prenderanno delle decisioni che non soddisferanno tutte le classi di azionisti. E’ possibile individuare una ana-
84 Nel presente paragrafo, poiché non ci sono aspetti negativi legati in particolare all’emissione di azioni correlate da parte
delle banche, si analizzano gli aspetti negativi legati l’emissione di azioni in esame per l’impresa in generale e, quindi, anche
per la banca. Pertanto, quando si utilizza il termina impresa ci si riferisce anche alla banca.
85 Alcuni individuano la presenza di ulteriori inconvenienti: la debole leggibilità da parte del mercato se l’attività “tracciata”
non è correttamente identificata e i costi aggiuntivi legati alla tenuta di un’apposita contabilità di comparto. Cfr. G. QUATRARO,
“Le categorie di azioni”, op. cit, p. 93 e G.B. PORTALE, “Dal capitale assicurato alle tracking stocks”, op. cit, p. 165.
86 Secondo la dottrina statunitense i conflitti di interesse sorgono quando gli amministratori devono decidere circa: l’allocazione, tra i diversi business group, di risorse, beni e opportunità della banca; la dichiarazione e la distribuzione dei dividendi; il compimento di negoziazioni interne alla società; l’esercizio di opzioni di scambio o di conversione delle azioni correlate; successivi aumenti di capitale; quali politiche pubbliche o disposizioni normative incentivare o scoraggiare attraverso i
canali delle lobbies aziendali. Per una dettagliata discussione sulle principali situazioni di potenziale conflitto d’interesse derivanti dell’emissione di tracking stock individuate dalla dottrina statunitense cfr. J.J. HAAS, “Directional fiduciary duties in a
tracking stock equity structure: the need for a duty of fairness”, in Michigan Law Review, n.94, 1996 e J. SCHICK, “Toward transaction-specific standards of directional fiduciary duty in the tracking-stock context”, in Washington Law Review, n. 4, 2000.
87 Cfr. G. MARANO, I patrimoni destinati in una prospettiva di analisi giuseconomica, op. cit.
27
logia tra i conflitti di interesse che sorgono all’interno di una società con settori contabilmente separati e la tematica del conflitto d’interesse nei gruppi88, relativamente ai
conflitti tra azionisti della capogruppo e azionisti di minoranza delle società controllate.
Questi ultimi possono vedere gli interessi della società subordinati all’interesse generale del gruppo, con una distribuzione delle risorse create all’esterno della società. Nel
caso delle banche, l’Organo di Vigilanza afferma che l’attività di direzione e coordinamento della capogruppo deve essere improntata a criteri di equità e ragionevolezza89.
La situazione si complica qualora gli amministratori intraprendano le decisioni esclusivamente al fine di soddisfare interessi personali; ciò può verificarsi nel caso in cui i
membri del CdA detengano un numero rilevante di azioni correlate in un determinato
settore e non in un altro, oppure solo azioni ordinarie e non correlate, o viceversa90.
Le soluzioni percorribili per la limitazione dei suddetti conflitti di interesse possono
essere diverse: affidare la gestione del segmento ad un amministratore esterno alla
compagine sociale91; inserire in consiglio rappresentanti degli azionisti “correlati”92;
definire prima dell’emissione delle azioni correlate le politiche di gestione dell’impresa
attinenti alle situazioni che possono generare conflitti di interesse come, ad esempio,
l’allocazione di beni e risorse o le negoziazioni intra-societarie93; costituire appositi
“comitato di controllo” con la funzione di prevenire eventuali conflitti endosocietari94.
Impossibilità, per l’azionista, di vantare qualsiasi pretesa di tipo patrimoniale sugli asset
del settore e di incidere in maniera diretta sulla gestione degli stessi. Come precedentemente ricordato, gli azionisti “correlati” detengono partecipazioni nel capitale dell’impresa considerata nel suo complesso ed è importante che siano adeguatamente informati su tale caratteristica. Questi, infatti, non possono vantare alcuna pretesa di tipo
patrimoniale sul settore, i cui asset rimangono di proprietà della società. Ciò implica
che qualsiasi problema relativo ad un business group dell’impresa si rifletterà sulle
altre aree di operatività95; anche in caso di liquidazione o bancarotta, gli asset del settore “tracciato” potranno essere utilizzati per soddisfare i debitori della società. Gli azionisti correlati, inoltre, sempre perché azionisti dell’intera società, non hanno un controllo diretto nella gestione del settore di attività96; pertanto, non beneficeranno di alcun
takeover premium, monetizzabile in caso di scalate97.
Debole “leggibilità” da parte del mercato se l’attività “tracciata” non è correttamente
identificata. La strutturazione di un’operazione di emissione di azioni correlate può presentare delle difficoltà nel delimitare con precisione la business unit e, in particolare,
nell’imputare le relative attività. Nel caso in cui il settore “tracciato” non sia correttamente individuato e non gli venga data una concreta ed effettiva visibilità sul mercato,
potrebbe esserci uno scarso riscontro da parte degli investitori nell’acquisto delle azioni correlate, data la difficoltà di valutare la bontà dell’operazione in termini di
rischio/rendimento.
Costi aggiuntivi legati alla tenuta di un’apposita contabilità di comparto. La normativa
civilistica attribuisce la determinazione delle modalità di rendicontazione separata allo
statuto. Questo, pertanto, dovrà impostare un processo di produzione di dati relativi al
rendimento prodotto dalla business unit, ma anche ai rischi sopportati, in grado di fornire indicazioni precise sia al management che agli investitori. Nel caso in cui il settore
88 Cfr. G. MIGNONE, “Tracking shares e action reflect come modelli per le nostre azioni correlate”, op. cit., p. 619.
89 Cfr. M. BARAVELLI, Strategia e organizzazione della banca, op. cit., p. 266.
90 Si ritiene sicuramente applicabile, in tali circostanze, l’art. 2391 del Codice Civile. Cfr. G. MIGNONE, “Tracking shares e
action reflect come modelli per le nostre azioni correlate”, op. cit., p. 619.
91 Cfr. R. RANALLI, “I nuovi statuti societari delle SRL e delle SPA – le clausole opzionali”, in Il nuovo diritto societario nelle
SPA e nelle SRL, 16 ottobre 2003, tratto dal sito internet:
http://www.cndc.it/CNDC/Documenti/Eventi/Evento1/relazioni/E-dispensa_CNDC16102003_ok.pdf.
92 Cfr. G. MIGNONE, Tracking shares e action reflect come modelli per le nostre azioni correlate, op. cit., p. 613, nota 14.
93 Cfr. BAKER & MCKENZIE, Tracking Shares v Spin-Offs, op. cit, p. 6.
94 Cfr. G.B. PORTALE, “Dal capitale assicurato alle tracking stocks”, op. cit., p. 165.
95 I business group dell’impresa e le azioni a questi correlate soffrono della “Siamese twin” sindrome: se un business group
versa in stato di difficoltà, questa si rifletterà sulle altre aree di operatività e sulle tracking stock legate alla loro performance. Cfr. J.J. HAAS, How Quantum, DLJ and Ziff-Davis Are Keeping on Track with “Tracking Stock”, op. cit., p. 6.
96 Si ritiene che non sia possibile attribuire loro il diritto di nominare né amministratori preposti alla gestione del settore né
uno o più gestori che svolgano compiti operativi o che, sotto il controllo e la direzione del CdA, curino la gestione del settore. Cfr. A.S. D’ALCONTRES, “Art. 2350”,op. cit., p. 300.
28
97 Il risultato della perdita del premio di controllo e che le tracking stock sono quotate con uno sconto del 10-20% sul prezzo delle ordinarie. Cfr. G. FERRARINI, Finanza e governo d’impresa nella riforma del diritto societario, Centro di diritto e finanza, Working Paper Series 2, 2003, p. 4.
“tracciato” coincide con una divisione operativa dell’impresa configurata come centro
di reddito, si potrà utilizzare il sistema di contabilità divisionale utilizzato dall’impresa
con mero rilievo interno. Costi aggiuntivi dovranno sostenersi qualora l’assetto organizzativo si discosti da quello strategico, ossia quando ad una divisione fanno capo più
business unit oppure quando più divisioni contengono al loro interno un solo business98; in tal caso sarà necessario costruire un apposito sistema di computo dei costi e
dei ricavi attribuibili alla business unit. In generale, un supporto allo statuto nel fissare
le modalità di rendicontazione del settore può derivare da quanto previsto dallo IAS 14
sull’informativa di settore99.
6. Dimensione del fenomeno
Dal 1984 al 2001 sono state effettuate 34 operazioni di emissione di tracking stock da
parte di 27 società100. Le protagoniste principali sono state nella misura maggiore
imprese statunitensi operanti in settori caratterizzati da un alto contenuto tecnologico,
legati all’e-commerce e, più in generale, ai servizi offerti tramite internet. L’unica operazione realizzata avente ad oggetto un’impresa operante in ambito finanziario è stata
quella della Donaldson, Lufkin e Jenrette (DLJ), investment e merchant bank che nel
1999 ha emesso tracking stock su DLJdirect ondine-brokerage.
In ambito internazionale sono stati condotti numerosi studi sulle tracking stock operation al fine di spiegare, sulla base delle operazioni effettivamente realizzate, gli effettivi
benefici che le impresa hanno tratto con l’emissione di azioni correlate.
Sono state individuate tre differenti tipologie di emissione di tracking stock:
-
distribution transaction, le azioni sono state emesse per riflettere la performance
di settori di imprese conglomerate e distribuite agli azionisti di queste ultime;
-
IPO transaction, le azioni sono state distribuite a nuovi investitori al fine di reperire risorse finanziarie;
-
acquisition transaction, le azioni sono state utilizzate come moneta per acquisire
imprese indipendenti.
La maggioranza delle impresa ha effettuato distribution transaction101.
Le ricerche condotte hanno analizzato gli effetti delle tracking stock operation in termini di riduzione delle asimmetrie informative e miglioramenti nella performance.
98 Cfr. M. COTUGNO, Nuova finanza societaria: patrimoni dedicati, finanziamenti destinati e tracking, op. cit., p. 45.
99 Lo IAS 14 “Informativa di settore”, rivisto nella sostanza nel 1997, sostituisce il principio contabile internazionale IAS 14
“Comunicazione economico-finanziaria di settore” (approvato nel 1994). Lo IAS 14 (rivisto nella sostanza) è entrato in vigore a partire dai bilanci degli esercizi con inizio dal 1° Luglio 1998 o da data successiva e prevede che la presentazione dell’informativa di settore sia obbligatoria per le imprese quotate (o che intendono quotarsi), mentre per le altre ne raccomanda
l’adozione.
L’informativa di settore, intesa quale indicazione dell’andamento della gestione nei diversi settori di attività o aree geografiche nei quali operano l’impresa e il gruppo di appartenenza, rappresenta, senza dubbio, una significativa opportunità di
miglioramento del globale processo informativo. Tale informativa nasce e si sviluppa in relazione alla programmazione e al
controllo della gestione, ma assume anche importanza in riferimento alla comunicazione esterna d’impresa. La finalità dello
IAS 14 è quella di fornire un insieme di regole per ampliare l’informativa di bilancio, arricchendola con l’illustrazione dell’andamento gestionale nei principali segmenti di attività (prodotti e servizi) e geografici in cui l’impresa opera. Ciò al fine di agevolare i lettori del bilancio: nella comprensione dei risultati passati dell’impresa; nella determinazione dei rischi e della redditività dell’impresa; nel dare giudizi più aggiornati sull’andamento dell’impresa. In effetti, talune imprese producono gruppi
di prodotti (servizi) o operano in aree geografiche che sono soggette ad indici di redditività, opportunità di sviluppo, prospettive future e rischi diversi. L’informativa sui diversi tipi di prodotti e servizi dell’impresa e sulle sue attività in diverse aree
geografiche (cosiddetta informativa di settore) è quindi importante per determinare i rischi e la redditività di un’impresa
diversificata o multinazionale oltre che per soddisfare le esigenze degli utilizzatori del bilancio.
L’informativa di settore può essere presentata con riferimento al settore di attività (business segment) o al settore geografico (geographical segment). Per “settore di attività” s’intende quella parte dell’impresa, distintamente identificabile, che fornisce un singolo prodotto o servizio o un insieme di prodotti e servizi collegati, ed è soggetta a rischi e a benefici diversi da
quelli degli altri settori d’attività d’impresa. Il “settore geografico” è invece una parte dell’impresa distintamente identificabile nell’ambito di un territorio circoscritto ed omogeneo che fornisce un singolo prodotto o servizio o un insieme di prodotti e servizi collegati, ed è soggetta a rischi e benefici diversi da quelli relativi ad altri paesi/regioni nei quali pure si svolge l’attività dell’impresa.
Cfr.
www.consrag.it/summa/summit/22/047_050.pdf,
www.iasplus.com/standard/ias14.htm.
www.dialogoonline.it/principi_contabili/IAS/ias.htm
e
100 Cfr. TAB. 5 dell’Appendice, elaborazione dell’Appendix 2 di I. TUNA, Determinants and Consequences of Equity
Restructurings: How are tracking stocks different to equity carve-outs and spin-offs?, op. cit, p. 48-49.
101 Da una ricerca realizzata da Clayton e Qian è risultato che delle 31 operazioni di emissione di tracking stockanalizzate tra
quelle negoziate negli USA tra il 1984 al 2001: 16 sono state distribution transaction , 7 IPO transaction e 8 acquisition transaction. Cfr. M.J. CLAYTON, Y. QIAN, Wealth gains from tracking stocks: Long-run performance and ex-date returns, University
of Iowa, November 2003, in http://papers.ssrn.com.
29
I risultati degli studi realizzati hanno evidenziato un minor diversification discount delle
imprese che emettono tracking stock rispetto alle imprese con lo stesso grado di diversificazione nonché una positiva reazione del prezzo delle azioni dell’impresa all’annuncio dell’emissione delle targeted stock (positivo effetto annuncio).102
Le ricerche condotte, inoltre, hanno mostrato come l’emissione di targetd stock porti,
grazie alle nuove informazioni rese disponibili durante e dopo l’operazione, ad un
aumento del numero di analisti che seguono l’impresa ristrutturata e, quindi, ad un
aumento del livello aggregato di informazioni103. Nonostante ciò, non sono stati riscontrati miglioramenti nel livello di asimmetrie informative104.
Con riferimento alla performance, non si sono registrati miglioramenti nella performance operativa dell’impresa, del settore e della combined firm (impresa emittente più settore)105 ed inoltre la long-run performance dell’impresa emittente, sia prima che dopo
l’annuncio, nonché del settore e della combined firm nei tre anni successivi all’emissione non differiscono significativamente da zero106.
In conclusione, il positivo effetto annuncio che caratterizza l’emissione di tracking stock,
così come la diminuzione del diversification discount, non è spiegato né da riduzioni
nelle asimmetrie informative né da miglioramenti nella performance. Pertanto, ciò che
guida le imprese a ricorrere all’emissione di tale strumento finanziario è il desiderio di
veder meglio riflesso il maggior valore del settore nel prezzo di mercato dell’impresa107,
continuando a sfruttare le sinergie e i benefici derivanti dal mantenere i diversi settori
dell’impresa sotto un unico “corporate umbrella”108.
7. Considerazioni conclusive
In ambito internazionale, considerato l’arco temporale 1984-2001, l’emissione di azioni
correlate da parte delle banche ha riscontrato uno scarso successo. E’ stata solo la
Donaldson, Lufkin e Jenrette (DLJ), investment e merchant bank, ad emettere nel 1999
azioni correlate; ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che i prodotti/servizi offerti dalle
banche si caratterizzano da un elevato grado di correlazione che potrebbe rendere non
semplice l’individuazione di un particolare settore.
Nonostante ciò, la possibilità offerta dalla riforma del diritto societario di emettere azioni correlate rappresenta per le banche italiane un’interessante opportunità di creazione
del valore e potrebbe contribuire all’evoluzione del mercato dei capitali.
Negli ultimi anni le banche di maggiori dimensioni hanno puntato alla diversificazione
dell’attività bancaria entrando in aree innovative dell’intermediazione finanziaria (si
102 Dagli studi condotti è risultato che il positivo effetto annuncio (rendimento anomalo cumulativo registrato in un dato
intervallo temporale) delle tracking stock è simile a quello dello spin-off e superiore rispetto all’equity carve-out. Cfr. M.T.
BILLETT, D.C. MAUER, “Diversification and the value of internal capital markets: the case of tracking stock”, op. cit, p. 1478-1483,
J. D’SOUZA, J. JACOB, “Why firms issue targeted stock”, op. cit., p. 465-469, T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking
Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op. cit., p. 18-20, J. ELDER, P. WESTRA, “The Reaction of
Security Prices to Tracking Stock Announcements”, in Journal of Economics and Finance, vol. 24, n. 1, 2000, p. 36-55, D.
HAUSHALTER, W. MIKKELSON, An Investigation of the Gains from Specialized Equity: Tracking Stock and Minority Carve-Outs, op.
cit., p. 8-9 e S. ZUTA, Diversification discount and targeted stock: theory and empirical evidence, University of Maryland,
Working paper n. 17, 2002, p.31-33.
103 Tale aumento si riscontra, pur se in misura inferiore anche nel caso di equity carve-out e spin-off. Cfr. T.J. CHEMMANUR, I.
PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op. cit., p. 23-24 e S. ZUTA,
Diversification discount and targeted stock: theory and empirical evidence, op. cit., p.34-35.
104 Lo stesso vale per altre due operazioni di equity restructuring. Cfr. T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock?
Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op. cit., p. 20-23 e D. HAUSHALTER, W. MIKKELSON, An Investigation
of the Gains from Specialized Equity: Tracking Stock and Minority Carve-Outs, op. cit., p. 24. Diverso è il risultato dello studio condotto da D’Souza e Jacob, dal quale non si evidenziano cambiamenti statisticamente significativi nel numero di analisti; gli stessi, però, sottolineano i limiti della metodologia di ricerca e sostengono che, pur senza mutamenti nel numero di
analisti, l’emissione di tracking stock potrebbe essere vista come una novità positiva da un punto di vista dell’informazione
fornita agli investitori. Cfr. J. D’SOUZA, J. JACOB, “Why firms issue targeted stock”, op. cit.
105 Cfr. T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs, op.
cit., p. 27 e D. HAUSHALTER, W. MIKKELSON, An Investigation of the Gains from Specialized Equity: Tracking Stock and Minority
Carve-Outs, op. cit., p. 12 e 24.
106 La long-run performance dell’impresa emittente è simile, nel periodo antecedente all’emissione, a quella delle imprese
che realizzano uno spin-off , mentre nel periodo successivo a quella delle imprese che danno vita all’equity carve-out o al
non focus-increasing spin-off. Per il settore la long-run performance si avvicina maggiormente all’equity carve-out o al non
focus-increasing spin-off che al focus-increasing spin-off. Per la combined firm si hanno risultati simili al non focus-increasing spin-off. Cfr. M.J. CLAYTON, Y. QIAN, Wealth gains from tracking stocks: Long-run performance and ex-date returns, op.
cit.
107 L’aumento del numero di analisti riscontrato dalle indagini condotte a livello internazionale sulle tracking stock operation
realizzate consente il miglior riflesso dell’hidden value nel valore di mercato dell’impresa.
30
108 Cfr. T.J. CHEMMANUR, I. PAEGLIS, Why Issue Tracking Stock? Insights from a Comparison with Spin-offs and Carve-outs,
op. cit., p. 31-32 e S. ZUTA, Diversification discount and targeted stock: theory and empirical evidence, op. cit., p. 36-38.
pensi al settore dell’asset management o dell’investment banking): le azioni correlate
potrebbero consentire alla banca di valorizzare tali settori, senza togliere il rafforzamento patrimoniale derivante dall’emissione di tale strumento. Ancora, l’elevato ricorso ad
operazioni di M&A potrebbe indurre le banche ad utilizzare il “nuovo” strumento finanziario in esame per facilitare tali operazioni.
D’altro canto, affinché ci sia un positivo riscontro da parte degli investitori, soprattutto
dopo il calo di fiducia dei risparmiatori dovuto agli scandali finanziari degli ultimi anni,
è necessario garantire adeguati meccanismi di tutela dell’azionista/investitore, nonché
un elevato livello informativo.
Infine, non deve essere tralasciato il ruolo che le banche potrebbero avere nell’attività
di consulenza alle imprese che volessero ricorrere all’emissione di tale categoria speciale di azioni.
31
Appendice
TAB. 1
Struttura del patrimonio di vigilanza del sistema bancario nazionale
Patrimonio di base
diff. con
anno prec.
crescita % risp. anno
precedente
89.430
91.419
97.434
98.828
104.356
1.989
6.015
1.394
5.528
2,22
6,58
1,43
5,59
112.887
8.531
8,17
Periodi
Consistenza
1999
2000
2001
2002
2003
2004
Patrimonio supplementare
Periodi
Consistenza
1999
25.589
2000
2001
2002
2003
2004
33.021
39.180
40.272
41.558
42.380
diff. con
anno
prec.
crescita %
risp. anno
prec
7.432
6.159
1.092
1.286
822
29,04
18,65
2,79
3,19
1,98
di cui passività subordinate
Consistenza
diff. con
anno prec.
crescita
% risp.
anno prec
6.729
6.386
1.798
1.067
1.355
31,78
22,89
5,24
2,96
3,65
21.171
27.900
34.286
36.084
37.151
38.506
Patrimonio di vigilanza
crescita % risp. anno
precedente
110.258
118.607
8.349
7,57
129.217
134.385
139.829
149.157
10.610
5.168
5.444
9.328
8,95
4,00
4,05
6,67
Consistenza
1999
2000
2001
2002
2003
2004
TAB. 2
Crescita percentuale del PUV e delle sue componenti
Periodi
Patrimonio di
base
2004-1999
2003-1999
2002-1999
2001-1999
2000-1999
26,23
16,69
10,51
8,95
2,22
TAB. 3
32
diff. con
anno prec.
Periodi
Patrimonio
supplementare
di cui passività
subordnate
65,62
81,88
62,41
75,48
57,38
70,44
53,11
61,95
29,04
31,78
Patrimonio
di vigilanza
35,28
26,82
21,88
17,20
7,57
Consistenza delle fonti di crescita del PUV
Periodi
Accantonamenti a
patrimonio di viginanza
Aumenti di
capitale
Passività
subordinate
1999
2000
2001
2002
2003
2004
4.643
7.189
5.660
3.625
3.229
7.248
3.807
4.661
4.428
864
2.546
1.670
n.p.
6.729
6.386
1.798
1.067
1.355
Fonte: Elaborazione propria di Banca d’Italia, Relazione Annuale, anni vari.
TAB. 4
Fusioni, incorporazioni e trasferimenti del controllo del sistema
bancario italiano.
Anno
Numero
di banche
operative
1990
Fusioni e incorporazioni
Acquisizioni magg.
capitale
Numero
di
operazioni
Fondi
intermediati
Numero
di
operazioni
1156
19
1,06
4
0,37
1991
1108
33
0,45
5
0,37
1992
1073
20
3,04
1
0,01
1993
1037
38
0,63
6
1,5
1994
994
42
1,59
10
1,9
1995
970
47
1,57
19
4,5
1996
937
37
0,47
19
1,08
1997
935
24
0,8
18
3,42
1998
921
28
2,65
23
11,02
1999
876
36
0,39
28
14,35
2000
841
34
1,51
24
4,86
2001
830
31
0,08
9
1,55
2002
814
18
0,06
12
5,06
2003
788
20
0,2
7
1,47
2004
778
10
0,04
7
0,35
Totale
437
Fondi
intermediati
192
Fonte: Banca d’Italia, Relazione Annuale, anni vari.
33
TAB. 5
34
Operazioni di emissione di tracking stock realizzate
Società
Emissione di tracking stock
Data di emissione
General Motors
EDS
19/10/1984
General Motors
Hughes
14/11/1985
USX
Marathon
15/04/1991
USX
Delhi
25/09/1992
Ralston Purina
Continental Baking
17/06/1993
Pittston Company
Minerals
06/07/1993
Fletcher Challenge
Forest
12/12/1993
Genzyme
Tissue Repair
16/12/1994
CMS Energy
Consumer Gas
21/07/1995
Tele-Comm. Inc
Liberty Media
11/08/1995
US West
Media
01/11/1995
Pittston Company
Brinks, Burlington
31/01/1996
Fletcher Challenge
Paper, Building, Energy
25/03/1996
Inco, Ltd.
Voisey’s Bay
09/09/1996
Circuit City
CarMax
04/02/1997
Tele-Comm. Inc
Venture
17/09/1997
Georgia-Pacific
Timber
17/12/1997
Conectiv
Atlantic Energy
03/03/1998
Genzyme
Molecular Oncology
17/11/1998
Sprint
PCS
24/11/1998
AT&T
Liberty
10/03/1999
Ziff-Davis
ZDNet
31/03/1999
PE Corp
Celera
28/04/1999
DLJ
DLJDirect
25/05/1999
Genzyme
Surgical Products
28/06/1999
Quantum
Hard Disk Drive
04/08/1999
Snyder
Circle.com
29/10/1999
Disney
Go.com
17/11/1999
AT&T
Wireless
26/04/2000
Apollo Group
University of Phonenix Online
28/09/2000
Alcatel
Optronics
24/10/2000
Cablevision
Rainbow Media
Sony
Sony Communications Network
19/06/2001
MCI
Consumer Long Distance
06/08/2001
30/03/2001
Fonte: elaborazione dell’Appendix 2 di I. TUNA, Determinants and Consequences of Equity
Restructurings: How are tracking stocks different to equity carve-outs and spin-offs?, Job talk
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Annalisa Postiglione*
Gli apporti di capitale ed i finanziamenti dei soci nella valutazione del merito creditizio.
1. Premessa
La riforma del diritto societario introdotta dal legislatore con il D.Lgs. 17 gennaio 2003,
n. 6 e successive modifiche e integrazioni, ha dotato la società a responsabilità limitata
di una fisionomia significativamente differente rispetto a quella delineata nel codice del
1942, emancipandola dalla società per azioni, che sino ad allora era stata il prototipo
delle società di capitali. Al fine di avvicinare la società a responsabilità limitata alle omologhe società degli altri stati europei, il legislatore ha così dettato una specifica normativa applicabile direttamente alle s.r.l., abbandonando il ricorso all’interpretazione analogica delle norme dettate per le s.p.a., che aveva caratterizzato l’applicazione della
disciplina codicistica del ’42.
In questo procedimento innovativo, il legislatore ha previsto, tra le altre, due rilevanti
novità volte, l’una, ad ampliare gli strumenti di raccolta di mezzi finanziari da parte della
società tramite l’emissione di titoli di debito, l’altra, a disciplinare, almeno parzialmente, un fenomeno che tipicamente caratterizza, ora come nel vigore della previgente
disciplina, le società a più ristretta partecipazione, ossia la tendenza dei soci a finanziare la società tramite l’apporto di fondi non destinati a capitale sociale.
Ed è questa seconda novella che sarà oggetto del mio intervento, in considerazione
delle importanti ricadute che essa potrebbe avere nella concessione del credito bancario alle società di minori dimensioni, che costituiscono l’elemento centrale del tessuto
economico italiano.
Il nuovo articolo 2467 c.c., rubricato Finanziamenti dei soci, come anticipato, è stato dettato nell’ambito di una riforma che assegna alla società a responsabilità limitata una
conformazione per molti versi innovativa, con elementi tipici della maggiore società di
capitali (si pensi, ad esempio, alle norme a tutela del capitale sociale e alla possibilità
di emettere titoli di debito, sia pure collocabili esclusivamente presso investitori istituzionali) e tratti delle società di persone (come ad esempio l’ampia libertà in materia di
conferimenti e la derogabilità del metodo collegiale).
E non a caso il legislatore ha inteso disciplinare un fenomeno che spesso si registra non
solo nelle società di persone dove, a causa dell’autonomia patrimoniale imperfetta che
le caratterizza, appare addirittura fisiologico, ma anche nelle società a responsabilità
limitata, come conseguenza di un sistema più personalistico di partecipazione e di
gestione della società, che spesso ha bisogno dei finanziamenti dei soci per poter svolgere l’attività d’impresa.
In effetti, l’esistenza di un più stretto rapporto fiduciario tra i soci e la generale sottocapitalizzazione delle s.r.l. fanno sì che molto spesso i soci finanzino direttamente la società, sia a medio che a lungo termine, senza modificare il capitale sociale, ma apportando di volta in volta le somme necessarie a far fronte alle esigenze della società.
Per rispondere all’esigenza di disciplinare, almeno parzialmente, l’indebitamento societario nei confronti dei soci, l’art. 2467 c.c. stabilisce ora che il rimborso dei finanziamenti dei soci effettuati in un’epoca in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento oppure la società evidenziava un eccessivo squilibrio tra indebitamento e mezzi propri, è
postergato alla soddisfazione degli altri creditori e che esso, se avvenuto nell’anno che
precede il fallimento, deve essere restituito.
L’innovazione era quanto mai opportuna, sebbene il risultato della previsione legislativa, mi permetto di anticiparlo, non sia pienamente soddisfacente. Tuttavia non poteva
essere diversamente, a meno di non irrigidire notevolmente la struttura finanziaria della
società.
* Assegnista di Ricerca di Diritto Commerciale nell’Università degli Studi di Foggia.
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La norma solleva comunque numerosi dubbi. E ciò non solo perché la previsione normativa non fornisce una puntuale indicazione sulla natura degli apporti di denaro da
parte dei soci, ma anche perché l’aver disciplinato il rimborso dei finanziamenti effettuati in specifiche circostanze, probabilmente consentirà alla magistratura di valutare
diversamente la situazione patrimoniale e finanziaria della società a seconda del rilievo
attribuito ai singoli valori ed alle modalità di stima degli stessi.
2. I versamenti in conto capitale e quelli a copertura di perdite
Il finanziamento della società a responsabilità limitata da parte dei soci con fondi non
imputati a capitale sociale è, come detto, una prassi consolidata, che trova ragione nella
maggiore facilità di restituzione degli apporti finanziari temporaneamente concessi e
nella necessità di fornire i mezzi per svolgere l’attività di impresa a società che quasi
sempre risultano non sufficientemente capitalizzate. Come noto, infatti, il capitale sociale della società a responsabilità limitata non deve essere inferiore a diecimila euro e può
essere costituito da ogni elemento suscettibile di valutazione economica, con la conseguenza che si potrebbe costituire una s.r.l. il cui capitale sia formato esclusivamente da
conferimenti in natura o, addirittura, da prestazioni d’opera, con la possibile conseguenza che la società, pur dotata di un patrimonio sufficiente, non abbia le disponibilità liquide necessarie allo svolgimento dell’attività.
La scelta di non imporre il conferimento di un capitale sociale adeguato rispetto all’oggetto sociale o quanto meno rispetto all’impresa effettivamente esercitata viene inoltre
mantenuta anche dopo la costituzione, poiché anche qualora la società si fosse costituita con un capitale superiore al limite legale di diecimila euro, l’art. 2482 c.c. consente la
riduzione del capitale sino a tale limite, con conseguente possibile sottocapitalizzazione
della società nel corso della vita della stessa. Ed a ciò si aggiunga che la norma consente di ridurre volontariamente il capitale sociale sulla scorta di una autonoma valutazione delle esigenze della società e non più, come nella previgente disciplina, qualora vi
sia la comprovata eccedenza dei mezzi propri rispetto all’attività di impresa.
In questa sede la disciplina sui finanziamenti dei soci interessa sotto un duplice profilo:
in primo luogo, essa può incidere sulla valutazione da effettuare al momento della concessione del credito bancario, in secondo luogo, poiché sussiste l’eventualità che l’obbligo di restituzione prevista dal legislatore possa in qualche modo coinvolgere la
banca creditrice.
Sotto il primo profilo la banca, in sede di istruttoria per la concessione di un prestito,
nell’analizzare i dati di bilancio, deve effettuare una distinzione in relazione alle somme
di denaro apportate dai soci tra versamenti a titolo di conferimento, più o meno espressamente dichiarato, e versamenti a titolo di finanziamento, essendo applicabile solo a
questi ultimi la disciplina dettata dall’art. 2467 c.c.. Facendo riferimento ai finanziamenti, infatti, la norma è applicabile alle somme concesse con vincolo di restituzione e non
a quelle apportate definitivamente al patrimonio della società.
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Sicuramente non sono qualificabili come finanziamenti i versamenti effettuati dai soci
in conto futuro aumento capitale sociale, poiché essi si sostanziano in una sottoscrizione anticipata dell’aumento del capitale sociale, destinato a perfezionarsi con la successiva delibera assembleare. Si tratta, in effetti, di un’inversione cronologica delle fasi di
attuazione dell’aumento di capitale che normalmente prevede prima l’assunzione della
decisione e poi l’esecuzione della stessa. Nella prassi societaria questo tipo di apporto
finanziario viene spesso giustificato da esigenze di prontezza nei versamenti da parte
dei soci i quali, prima di passare attraverso il più complesso iter della modifica dell’atto costitutivo, forniscono alla società i mezzi finanziari richiesti. Con molta probabilità,
per lo meno in questo caso, la riforma intervenuta nelle società a responsabilità limitata dovrebbe condurre ad una riduzione di questa prassi, poiché la delegabilità della
competenza all’organo amministrativo e la possibilità di prevedere statutariamente una
formalità di convocazione dell’assemblea meno rigida di quella prevista per le società
per azioni potrebbero ridurre notevolmente i tempi tecnici per l’operazione, fermo
restando, comunque, il rispetto del termine riconosciuto per l’esercizio del diritto di sottoscrizione e la necessità della redazione del verbale da parte del notaio. Ed ancora,
spesso questo genere di finanziamento viene richiesto quando la società, a seguito
della partecipazione ad una gara d’appalto, ovvero per la presentazione di una domanda per l’ottenimento di contributi da parte di istituzioni locali o europee, è tenuta a capi-
talizzare la società per un periodo di tempo limitato. In tal caso, tuttavia, non sembra
che la semplificazione introdotta dalla riforma del 2003 comporterà il superamento
della prassi illustrata, in quanto il finanziamento non vincolante, spesso non proporzionale, da parte dei soci viene considerato dalla società uno strumento più agile e meno
oneroso.
Nel tentativo di comprendere quali apporti finanziari siano qualificabili come finanziamenti, c’è un altro dato sul quale mi sembra si possa concordare: non sono finanziamenti i versamenti in conto copertura perdite. Tali versamenti, infatti, pur non determinando un immediato incremento del capitale sociale, hanno una causa diversa da quella del mutuo o del prestito, piuttosto assimilabile a quella del conferimento, ossia al
capitale di rischio, in quanto è estranea a tale versamento la finalità di ricollegarvi
un’obbligazione di restituzione. I versamenti dovranno essere iscritti in bilancio in
un’apposita riserva utilizzabile per contenere gli effetti della perdita sul capitale sociale,
e il loro impiego si realizzerà mediante l’azzeramento del fondo a copertura delle perdite.
La disciplina dei finanziamenti dei soci non sembra dunque direttamente applicabile
agli apporti di somme in conto futuro aumento capitale sociale e in conto coperture perdite, in quanto la loro assimilabilità ai conferimenti comporta, almeno ad una prima
analisi, un vincolo di indisponibilità sulle somme stesse, le quali non potrebbero essere restituite ai soci, se non in sede di liquidazione.
Ed in tal senso sembrano orientate le banche quando istruiscono le pratiche per la concessione del credito, poiché nella riclassificazione del bilancio, ed in particolare del
patrimonio netto, sia i conferimenti in conto futuro aumento capitale sociale che quelli
in conto copertura perdite vengono pienamente assimilati ai mezzi propri.
Anche per tali somme, tuttavia, potrebbe porsi un problema di diritto dei soci alla restituzione e di facoltà di diverso utilizzo da parte della società, questioni che inevitabilmente interessano l’istituto erogante e che sono risolvibili solo a seguito della puntuale individuazione della loro natura. La banca, infatti, deve valutare la possibile riduzione del patrimonio netto non solo riguardo al capitale sociale, ma anche rispetto alle
riserve ed ai fondi che lo compongono, con l’aggravio del fatto che l’eventuale restituzione ai soci dei versamenti in conto futuro aumento capitale sociale o in conto copertura perdite non passa attraverso il procedimento di riduzione del capitale sociale, che,
quale modifica dell’atto costitutivo, è sottoposto al regime di pubblicità e di opposizione da parte dei creditori sociali109.
A ciò si aggiunga che qualora l’operazione non sia stata effettuata entro il termine previsto, ovvero nessun termine fosse stato fissato, il socio potrebbe in ogni momento
chiedere la restituzione delle somme apportate, senza la necessità di una specifica delibera assembleare che la disponga, ovvero diritto di opposizione da parte dei creditori
sociali in applicazione della disciplina sulla riduzione volontaria del capitale sociale.
L’opinione non è univoca, ed anzi, la libera restituzione delle somme precedentemente
apportate ed imputate al patrimonio della società per volontà delle parti non può non
lasciare perplessi. Tuttavia in assenza di una specifica norma e considerati gli scarsi
mezzi utilizzabili per inibire al restituzione degli apporti, è auspicabile un atteggiamento che tenga conto della dubbia natura di tali conti.
Appare evidente, allora, come un’attenta valutazione del merito creditizio debba tener
conto di questa duplice anima e ciò soprattutto in sede di rinnovo delle linee di credito,
ovvero di verifica periodica della situazione patrimoniale della società, in quanto consistenti variazioni di tali poste potrebbero incidere sulla solvibilità del soggetto affidato,
al pari di una riduzione del capitale sociale.
3. Gli apporti di denaro privi di una specifica causa
Questioni più articolate sorgono in relazione ai versamenti effettuati in assenza di una
specifica causa per i quali, già nel vigore della previgente disciplina, le opinioni erano
contrastanti.
109 Spesso queste somme vengono lasciate nel patrimonio della società per un tempo determinato, secondo le modalità
stabilite tra le parti con la conseguenza che, al decorrere del termine, la società rimborserà le somme ai soci.
41
La soluzione al problema relativo al diritto dei soci alla restituzione delle somme, nonché all’utilizzo delle stesse per uno scopo contestato dai soci, veniva individuata nella
causa che si riteneva naturalmente sottesa all’apporto di denaro. Ed in particolare, chi
riteneva che, nel silenzio delle parti, la causa tipica fosse quella del conferimento, tendeva a considerare versamenti in conto futuro aumento capitale sociale tutti i versamenti per i quali non risultava una diversa volontà del socio. Chi, viceversa, considerava prevalente lo scopo di finanziamento, assimilava i versamenti ad un prestito e, pertanto, riteneva che sugli stessi i soci vantassero un diritto alla restituzione.
E la qualificazione, ancora una volta, interessava anche le banche, le quali nell’analisi
del valore e della composizione del patrimonio netto spesso escludevano gli apporti di
capitale privi di una specifica causa poiché, prudentemente, prediligevano la natura di
finanziamento, con vincolo di restituzione. E ciò a prescindere dal nome assegnato alla
posta di bilancio della società – debito verso i soci o riserva di patrimonio netto - in
quanto la natura giuridica dell’apporto non può essere definita dal nomen attribuito
dalle parti, ma dalla volontà negoziale sottesa all’operazione.
Conseguentemente, in assenza di una comprovata volontà di concedere ed accettare le
somme a titolo definitivo e con la finalità di aumentare successivamente il capitale
sociale, ovvero di limitare gli effetti di eventuali perdite di esercizio sul capitale, una
prudente valutazione del merito creditizio della società avrebbe dovuto farle assimilare
ad un finanziamento110.
Se quella brevemente ricostruita era la situazione prima della riforma del 2003, le modifiche apportate dal legislatore sollevano questioni che ancora una volta interessano le
banche. Occorre infatti domandarsi se l’eventuale concordata restituzione da parte della
società delle somme concesse specificatamente per un futuro aumento del capitale
sociale, ovvero a copertura di eventuali perdite, oppure concesse senza una causa specifica e imputate dalla società a tali conti, possa essere assoggettata alla disciplina di
cui all’art. 2467 c.c. e pertanto, sempre che ne ricorrano i presupposti, l’eventuale rimborso delle somme concesse debba essere postergato agli altri debiti e, se avvenuto
nell’anno precedente il fallimento, debba essere restituito al patrimonio della società. E
la questione non è di poco conto.
La restituzione dei versamenti in conto futuro aumento capitale sociale e in conto
copertura perdite, nonché degli altri fondi privi di una specifica causa, non soggiace alla
disciplina della riduzione del capitale sociale per quanto attiene alla procedura e alla
opposizione dei creditori sociali, per cui se si escludesse anche l’applicabilità dell’art.
2467 c.c. si finirebbe per consentire un evidente paradosso: proprio le somme che per
molti aspetti possono essere assimilate al capitale sociale, nel momento della restituzione, si caratterizzano per una disponibilità maggiore di quella riconosciuta ai generici finanziamenti dei soci. Per superare questa immotivata disparità di trattamento o si
deve assumere che la decisione dei soci di restituire le somme imputate al conto copertura perdite o al conto futuro aumento capitale sociale debba essere assoggettata alla
disciplina dell’art. 2482 c.c. sulla riduzione facoltativa del capitale sociale, la qual cosa
lascia evidentemente perplessi, poiché presupporrebbe la piena qualificazione di tali
apporti come capitale di rischio, ovvero, come sembra preferibile, bisogna ritenere che
anche tali somme, ricorrendone i presupposti, debbano essere assoggettati alla disciplina sui finanziamenti dei soci, con i conseguenti vincoli alla restituzione, di cui si è
detto.
4. I presupposti della disciplina
Per risolvere la questione accennata e per comprendere la portata dell’innovazione
introdotta, il primo aspetto su cui riflettere è cosa si intenda per finanziamenti e come
si debbano interpretare le condizioni imposte dal legislatore per postergare il rimborso
di tali somme.
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110 Giova tuttavia ricordare che, un consolidato orientamento giurisprudenziale, ritiene che l’accoglimento della domanda
con la quale il socio di una società di capitali chieda la condanna della società a restituirgli somme da lui in precedenza versate alla società medesima richiede la prova che detto versamento sia stato eseguito per un titolo che giustifichi la pretesa
di restituzione; prova che deve essere tratta dal modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, dalle finalità pratiche
cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi. Ma cosa ben diversa è il contenzioso tra società e soci per
la restituzione delle somme prestate, rispetto alla valutazione del patrimonio della società da parte della banca al momento
della concessione del credito, che deve privilegiare un’interpretazione prudente e che tenga conto della durata del finanziamento concesso.
Fermo restando quanto già anticipato in relazione ai versamenti assimilati al capitale
sociale, per finanziamenti la norma intende certamente le operazioni che hanno ad
oggetto la messa a disposizione da parte del socio, in forma diretta o indiretta, di
somme di denaro e dunque, principalmente, il mutuo e l’apertura di credito.
La norma, però, può più ampiamente riferirsi a qualunque operazione avente natura
finanziaria, quindi anche all’ipotesi in cui il socio, essendo creditore nei confronti della
società per la cessione di un bene o per la prestazione di servizi, rinunci, anche di fatto,
alla restituzione del credito, presti la garanzia per l’acquisizione di un mutuo presso un
terzo, conceda dilazioni di pagamento non giustificabili con il normale rapporto di fiducia che caratterizza i rapporti commerciali.
La disciplina introdotta con la riforma, facendo generico riferimento ai finanziamenti
concessi dai soci è applicabile, infatti, sia ai finanziamenti diretti, ossia gli apporti di
capitale di credito che i soci versano nelle casse della società, o lasciano nel patrimonio
rinunciando al proprio credito, sia ai finanziamenti indiretti, ossia alla prestazione di
garanzia nei confronti dei creditori della società111, in quanto sia gli uni che gli altri consentono alla società di acquisire fondi per il tramite diretto e determinante dei suoi soci.
Fissato cosa il legislatore sembra aver inteso facendo generico riferimento ai finanziamenti, non tutti gli apporti di denaro così qualificabili possono essere assoggettati alla
disciplina introdotta con la ormai nota riforma delle società di capitali.
Il secondo comma dell’art. 2467 c.c. precisa quali siano le circostanze che possano giustificare la postergazione o addirittura la restituzione; ossia che i finanziamenti siano
stati effettuati in un’epoca in cui, tenuto conto anche del tipo di attività esercitata, la
società manifestava uno squilibrio patrimoniale o una situazione finanziaria tale per cui
sarebbe stato ragionevole procedere all’apporto di nuovi conferimenti. Il rinvio all’attività esercitata dalla società sembra dettata dalla volontà di suggerire che nell’analisi
della ricorrenza dei presupposti si debba tener conto del fatto che non esiste un valore
unico della leva finanziaria applicabile a tutte le società e a tutte le imprese112.
E’ noto, infatti, che il perdurare di un rilevante squilibrio patrimoniale non è mai sintomo di solidità ed affidabilità della società, tuttavia, come ormai acquisito dalla dottrina
aziendalistica e fallimentare, non è tanto il valore assoluto dell’indebitamento a fornire
indicazioni sulla solidità patrimoniale della società, quanto piuttosto il rapporto tra l’indebitamento e le attività della stessa e la capacità reddituale dell’impresa.
Non sembra comunque che la norma possa spingersi sino al punto di valutare dell’eventuale stato di insolvenza della società, né richiedere un’analisi della redditività
volta a valutare la probabilità che la società ha di adempiere alle obbligazioni assunte.
Dal tenore della norma è evidente che sul piano teorico le due condizioni – quella patrimoniale e quella finanziaria - sono alternative, con la conseguenza che anche il solo
squilibrio di uno dei due elementi è idoneo a qualificare i finanziamenti di cui all’art.
2467 c.c. Nella realtà aziendale, tuttavia, le due situazioni tendono a manifestarsi contemporaneamente o in rapida successione per l’inevitabile interrelazione tra gli eventi
patrimoniali e quelli finanziari della società. Il legislatore ha inteso allora sottolineare
che anche un solo sintomo di quelli segnalati sia idoneo a postergare il credito, consapevole della maggiore facilità di individuare almeno uno dei presupposti, in considerazione del fatto che spesso l’evidenza di uno solo di essi li lascia presupporre entrambi.
Per valutare se all’epoca in cui i soci hanno proceduto al finanziamento della società
questa si trovava in una delle condizioni richieste per l’applicazione dell’art. 2467 c.c.
occorre ricostruire quale fosse la situazione patrimoniale e finanziaria della società al
momento in cui l’operazione fu compiuta. La postergazione e la revocabilità delle
somme concesse in prestito, infatti, dipende non solo dalla natura dell’apporto, come
più volte accennato, ma anche dalle circostanze che hanno necessitato l’operazione.
Conseguentemente, qualora gli amministratori della società non abbiano provveduto a
redigere un apposito bilancio infrannuale che consenta di verificare quale fosse la situazione della società al momento della concessione del credito, occorrerà che in sede giu-
111 Ed è proprio questa la fattispecie che maggiormente interessa le banche, le quali spesso concedono prestiti alla società di minori dimensioni garantendo il proprio credito con garanzie reali o personali dei soci.
112 Nonché del fatto che l’eventuale stagionalità dell’attività di impresa, può incidere sulla struttura finanziaria della
società.
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diziaria o fallimentare venga elaborato tale documento avuto riguardo dei valori all’epoca riscontrabili. Proprio la difficoltà di elaborare ex post un bilancio relativo ad un periodo precedente e non necessariamente coincidente con la chiusura dell’esercizio rende
indispensabile che gli amministratori predispongano, già al momento della concessione del finanziamento, tutta la documentazione idonea a provare che la società non si
trovi in una delle ipotesi indicate.
E anche la banca, nella concessione del credito, deve fare riferimento al patrimonio
della società così come risulta al momento della valutazione del merito creditizio, nella
consapevolezza che i finanziamenti dei soci, pur qualificabili come debiti, a causa del
vincolo di parziale indisponibilità, e quindi di una natura per certi versi ibrida, possono
costituire una maggiore garanzia nell’affidamento da parte della banca.
Quanto alla documentazione che la società deve produrre alla banca in sede di istruttoria non mi sembra possano assumere uno specifico valore le eventuali attestazioni di
non postergazione dei debiti verso i soci. Diversamente, mi sembra che la banca possa
e debba chiedere dettagli sulla composizione del patrimonio netto, sull’epoca in cui i
soci hanno finanziato la società, sull’esistenza di eventuali accordi formali in merito a
quegli apporti, nonché sulla composizione della generalità dei debiti e dei crediti esposti in bilancio.
5. La postergazione del credito
La postergazione del credito che i soci vantano verso la società suscita numerose perplessità poiché la norma non specifica rispetto a quali crediti il rimborso ai soci sia
postergato.
Ciò che si può ritenere con sufficiente certezza è che il legislatore non ha imposto un
divieto assoluto di rimborso, bensì solo una temporanea indisponibilità del credito nel
caso in cui al momento della restituzione delle somme vi siano dei creditori sociali non
ancora soddisfatti, lasciando così irrisolto il problema interpretativo al quale ho accennato.
Se si trattasse di un divieto di rimborso, bisognerebbe concludere che il legislatore ha
assoggettato i finanziamenti dei soci ad una disciplina più rigorosa di quella prevista
per i conferimenti. Il capitale sociale, infatti, potrebbe essere ridotto ai sensi dell’art.
2482 c.c., con conseguente restituzione ai soci di parte dei conferimenti, mentre in nessun caso gli stessi potrebbero ottenere il rimborso del proprio credito, il che sembra
illogico, oltre che giuridicamente inammissibile. Una prima possibile interpretazione
vede nell’art. 2467 c.c. una norma di carattere esclusivamente fallimentare, con la conseguenza che al di fuori della procedura concorsuale, la società potrebbe procedere al
pagamento dei debiti secondo le scadenze previste, mentre nel caso di fallimento i crediti dei soci sarebbero postergati al pagamento dei debiti nei confronti dei terzi. A sostegno di tale interpretazione depone il fatto che l’obbligo di restituzione, del quale si dirà,
riguarda solo le somme rimborsate nell’anno che precede il fallimento, lasciando presupporre che al di fuori di questo termine le somme possano essere liberamente rimborsate. Secondo tale interpretazione la postergazione potrebbe svolgere la sua funzione esclusivamente nel caso in cui ci siano dei creditori in concorso tra loro, con la finalità di escludere i soci dal concorso e garantire l’utilizzo del patrimonio per soddisfare
in primo luogo i creditori non soci. Tale interpretazione, tuttavia, non pare comprendere sino in fondo la portata del vincolo di postergazione introdotto dal legislatore e in
assenza di un’univoca interpretazione del dato letterale si può prospettare una possibile diversa soluzione.
In particolare, mi sembra di poter sostenere che la norma possa applicarsi anche quando la società è in bonis, senza per questo trasformarsi in un divieto di rimborso.
La norma può suggerire ancora tre possibili interpretazioni: che i crediti dei soci siano
postergati solo rispetto a quelli già esistenti al momento della concessione del finanziamento da parte dei soci, ovvero solo rispetto a quelli sorti successivamente a tale finanziamento, ovvero rispetto ad entrambi.
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La prima alternativa, ossia che i finanziamenti siano postergati ai soli crediti già esistenti, finirebbe per limitare la portata applicativa della norma, la quale ha indubbiamente
la finalità di scoraggiare il finanziamento da parte dei soci a favore di società che mani-
festano l’esigenza di acquisire capitale di rischio. La norma, infatti, non si limita a dire
che in presenza di finanziamenti da parte dei soci gli amministratori devono rispettare
l’ordine di scadenza dei crediti, ovvero preferire quelli sorti precedentemente, bensì
impone una postergazione legale rispetto ai crediti dei terzi, per cui sembra improbabile che il diritto alla preventiva soddisfazione spetti solo a chi era già creditore.
La stessa riflessione può valere rispetto alla seconda alternativa, ossia la postergazione
rispetto ai soli creditori di data successiva a quella della concessione del credito da
parte dei soci. E’ vero, infatti, che tali soggetti probabilmente hanno concesso credito
considerando la specificità del debito della società nei confronti dei soci, ma assicurare
un diritto di prioritaria soddisfazione solo a chi ha concesso credito in un momento in
cui la società aveva già contratto un debito con i soci, per i finanziamenti da questi
apportati, comporterebbe una ingiusta disparità di trattamento rispetto a chi era già creditore quando la società ha acquisito i finanziamenti dei soci. Si può allora ritenere che
il diritto alla prioritaria soddisfazione del proprio credito spetti sia ai creditori che sono
tali per un titolo sorto prima della concessione del finanziamento da parte dei soci, sia
a coloro che siano diventati creditori prima della scadenza del debito nei confronti dei
soci113. Solo tale interpretazione, infatti, coglie la rilevanza dell’innovazione legislativa:
un consistente ampliamento degli strumenti a tutela dei creditori sociali nel pieno
rispetto della natura capitalistica della società.
Un problema di ordine applicativo nasce piuttosto dal fatto che la maggior parte dei
finanziamenti dei soci non vengono erogati in un’unica soluzione, ma in maniera continuativa o sistematica, o comunque ogni qualvolta la società lo necessiti. Anche il dato
acquisito dalla banca nella riclassificazione del bilancio della società alla quale eroga
credito, potrebbe essere il risultato di ripetute variazioni in aumento e in diminuzione
del valore dei finanziamenti concessi dai soci. Diventa allora difficile individuare puntualmente il momento in cui il finanziamento è stato concesso per valutare se la società si trovasse in una delle situazioni individuate dal legislatore, ma non sembra che la
norma lasci spazio ad una valutazione complessiva che prescinda dal momento puntuale in cui l’apporto è stato effettuato. E’ evidente che la vitalità dell’attività economica
impone una valutazione complessiva sulla società nel periodo in cui i soci hanno effettuato il finanziamento nei confronti della società, ma si tratta comunque di un periodo
definito e circoscritto.
6. La restituzione delle somme rimborsate
Come già accennato, il secondo comma dell’art. 2467 c.c. prevede che se la restituzione ai soci dei finanziamenti concessi è avvenuta nell’anno che precede il fallimento
della società le somme devono essere restituite al patrimonio della stessa e ciò a prescindere da ogni elemento soggettivo sulla conoscenza dello stato di insolvenza da
parte del socio. La ratio della norma è quella di consolidare il patrimonio della società
nel periodo nel quale solitamente la società comincia a manifestare i sintomi dello stato
di insolvenza, dando così piena applicazione al vincolo di postergazione introdotto dalla
riforma. Ed anche questo rilevante aspetto della nuova disciplina potrebbe interessare
le banche poiché, per il modo in cui essa è costruita e per la sua possibile applicazione,
le somme che la banca avesse acquisito dai soci, sia direttamente sia per il tramite della
società partecipata, qualora fossero qualificate come finanziamenti e qualora ricorressero i presupposti dettati dall’art. 2467 c.c. potrebbero rischiare di essere interessati dall’obbligo di restituzione disposto dalla disciplina recentemente introdotta, sebbene, è
opportuno anticiparlo, con effetti non necessariamente allarmanti.
L’ipotesi tipica è quella della banca che concedendo un prestito alla società si garantisca con la costituzione di un pegno su titoli o libretti di deposito intestati ai soci. Nel
caso di mancato pagamento da parte della società la banca soddisfa il proprio credito
sui titoli a garanzia facendo così nascere un diritto di credito di questi ultimi nei confronti della società, il quale, con molta probabilità, sarà assoggettato alla disciplina dettata dall’art. 2467 c.c.
113 Giova tuttavia osservare che la citata prassi di finanziare la società “all’occorrenza” e senza la stipula di un formale accordo di concessione del credito, rischia di dilatare l’applicazione della norma oltre l’interpretazione che qui si ritiene più opportuna. Nel caso in cui i soci finanzino la società senza stabilire la durata del prestito, infatti, il rimborso delle somme sarà
postergato rispetto a tutti i creditori sociali rispetto ai quali non si riesca a dimostrare che siano sorti quando il credito dei
soci era già scaduto.
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Come già anticipato, infatti, non vi è alcuna ragione di ritenere che i finanziamenti cui
fa riferimento il legislatore siano esclusivamente le effettive dazioni di denaro e non,
piuttosto, ogni utilità che il socio apporta, compreso l’impegno ad adempiere ad una
obbligazione assunta dalla società. Ciò che qualifica la fattispecie non è la modalità con
cui l’operazione viene effettuata, quanto la circostanza che proprio a seguito del fatto,
diretto o indiretto, del socio, la società acquisisce una somma di denaro a titolo di credito, con vincolo di restituzione a scadenza o a richiesta del creditore.
Pertanto, il pagamento del debito nell’interesse della società, è certamente qualificabile come finanziamento, e inoltre viene effettuato in un momento in cui la società sicuramente mostra una situazione finanziaria nella quale sarebbe opportuno un conferimento di capitale e probabilmente anche uno squilibrio patrimoniale che suggerirebbe
di effettuare la stessa operazione. E’ molto raro, in effetti, che una società pur potendo
adempiere all’obbligazione assunta, si rifiuti di pagare, lasciando che la banca si soddisfi sul patrimonio concesso dai soci a titolo di garanzia dell’obbligazione principale.
L’assoggettamento alla disciplina prevista per i finanziamenti dei soci comporterà allora che il pagamento del debito verso i soci sia postergato rispetto agli altri debiti e che
se lo stesso fosse pagato entro l’anno antecedente la dichiarazione di fallimento, la
somma dovrebbe essere restituita alla società.
Non mi sembra tuttavia ci si possa spingere oltre. Vale a dire che, in assenza di una specifica previsione in tal senso, non sembra ipotizzabile un obbligo di restituzione in capo
alla banca la cui soddisfazione sia di fatto passata per la concessione alla società di un
finanziamento da parte dei soci.
La previsione normativa, infatti, non prevede la possibilità di revocare il pagamento
effettuato nei confronti del terzo, ma semplicemente consente di ampliare la responsabilità patrimoniale del socio sino ad un valore concorrente con la somma prestata alla
società e, se la restituzione è avvenuta nell’anno antecedente la dichiarazione di fallimento, di obbligare il socio a versare nelle casse sociali la somma concessa in prestito.
L’eventuale revoca del pagamento del debito nei confronti della banca da parte del
socio, sarà assoggettata esclusivamente alle regole della revocatoria fallimentare e,
pertanto, potrà essere resa inefficace nei confronti dei creditori sociali solo qualora
ricorrano gli specifici presupposti dettati per tale disciplina. Diversamente, l’obbligo di
restituzione, che è qualcosa di più del già noto istituto della revocatoria, è indubbiamente un provvedimento di natura eccezionale che non può essere applicato al di là della
specifica previsione normativa, che si limita al rapporto tra soci e società e non a quello tra soci e creditori sociali, con la conseguenza che l’obbligo di restituzione non può
riguardare direttamente la banca.
7. La possibile applicazione analogica della norma
Superata la qualificazione della società a responsabilità limitata come società per azioni senza azioni, che caratterizzava la disciplina previgente, e che per molti versi decretava la subordinazione della s.r.l. alla s.p.a., con conseguente difficoltà di applicazione
a quest’ultima di eventuali – e comunque rarissime - norme dettate per la prima, e attribuita autonomia tipologica alla s.r.l., ci si può fondatamente domandare se sia possibile applicare la disciplina di cui all’art. 2467 c.c. alle società per azioni, con ricadute applicative di indubbio interesse.
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E la risposta sembra essere negativa. A parte il carattere eccezionale che mi sembra si
possa riconoscere alla norma e che la renderebbe non estensibile analogicamente ad
altre società, anche l’interpretazione sistematica della stessa sembra condurre alla
medesima conclusione. Il carattere personalistico della partecipazione nelle società a
responsabilità limitata, la fisiologica sottocapitalizzazione del suo patrimonio, la possibilità di conferire prestazioni d’opera e la manifesta volontà del legislatore di costituire
un tipo sociale nuovo rispetto sia alla società per azioni che alle società di persone,
sembrano essere la ratio che ha indotto il legislatore a riformare le società a responsabilità limitata, ed in tale logica si pone anche la disciplina sui finanziamenti dei soci. Pur
senza superare la qualificazione della s.r.l. come società di capitali e senza infrangere il
principio dell’autonomia patrimoniale, la disciplina sui finanziamenti dei soci si colloca
tra le norme che hanno indotto i primi commentatori a definire la s.r.l. come una “società di persone a responsabilità limitata”, e tale definizione, pur con le dovute cautele che
la semplificazione necessita, sembra giustificare l’introduzione di una norma non riproponibile nelle altre società di capitali.
8. Conclusioni
Per concludere, sia consentita una breve riflessione sulla portata della norma rispetto
al sistema bancario.
La riforma dell’art. 2467 c.c., pur con i limiti che si sono sottolineati, costituisce indubbiamente una rilevante novità che potrà incidere sulla prassi di finanziare le società a
responsabilità limitata da parte dei soci, i quali valuteranno il fatto che le somme da loro
apportate al patrimonio sociale saranno postergate rispetto ai crediti vantati dagli altri
creditori sociali. Quanto alla posizione della banca, la minore disponibilità nel rimborso
e l’obbligo di restituzione delle somme, sia pure nel circoscritto periodo dell’anno che
precede il fallimento, consentiranno alle banche di assimilare i finanziamenti alle riserve disponibili del patrimonio netto che, sebbene non forniscano alcuna garanzia di
assoluta solvibilità della società affidata, ne aumentano fondatamente la probabilità114.
Si può tuttavia ipotizzare che la concreta applicazione della disciplina dettata dall’art.
2467 c.c. possa incidere anche negativamente sulla posizione della banca. La prassi
bancaria degli anni recenti, infatti, mostra come spesso le banche abbiano costituito
una sorta di postergazione convenzionale sulle somme concesse alla società dai soci a
titolo di prestito, ampliando così l’ammontare a garanzia del proprio credito, pertanto il
fatto che il legislatore abbia previsto una postergazione legale potrebbe finire col vanificare la previsione pattizia intercorsa tra la banca e la società, ponendo l’istituto creditore nella stessa posizione degli altri creditori sociali. Certo, la maggiore forza contrattuale delle banche rispetto a quella che solitamente, ma non necessariamente, caratterizza gli altri creditori sociali, potrebbe indurre i soci a concedere garanzie di carattere
personale, come per altro la prassi bancaria già segnala, ma ciò dovrà avvenire direttamente e non per il tramite del patrimonio della società.
114 Non da ultimo va sottolineato come le banche, proprio per la professionalità con la quale svolgono la loro attività economica sono tenute ad acquisire ogni informazione utile a conoscere l’effettiva situazione patrimoniale della società affidata
ed a valutare il merito creditizio della stessa non solo alla luce dei valori nominali esposti in bilancio, ma anche della natura
e della composizione degli stessi.
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Fabio Pizzutilo*
I gruppi bancari cooperativi paritetici. Riflessioni alla luce della
riforma del diritto societario.
1. L’art. 2545 septies del Codice civile, introdotto dal D. Lgs. 6/2003, consente di dar vita
anche all’interno del nostro ordinamento giuridico al gruppo cooperativo paritetico,115
ossia ad un gruppo “orizzontale” costituito per contratto da più società cooperative, ad
una o più delle quali sono attribuite le funzioni di direzione e coordinamento di cui alla
disciplina generale dell’art. 2497 cod. civ. comma 1.
Il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia prevede, art. 14, che le banche
possano essere costituite sotto forma di società per azioni o società cooperative per
azioni a responsabilità limitata, riservando, art. 28, alle banche popolari e alle banche di
credito cooperativo l’esercizio dell’attività bancaria sotto forma giuridica di società cooperativa.
Si vuole valutare in questa relazione la possibilità che, alla luce delle modifiche al diritto societario, banche popolari e bcc possano aggregarsi in un gruppo bancario cooperativo paritetico.
L’intervento sarà suddiviso in tre parti. Nella prima ci si soffermerà sulla disciplina del
gruppo cooperativo paritetico introdotta del D. Lgs 6/2003. Successivamente si valuterà la possibilità di applicazione dell’art. 2545 septies anche alle banche cooperative.
Infine si analizzeranno i possibili effetti, specie in termini di mercato e di efficienza operativa, della creazione di gruppi paritetici di banche cooperative.
2. Fermo restando il dettato dell’art. 2359 (società controllate e società collegate), la
riforma del diritto societario individua, art. 2497 e ss., la fattispecie fondante del gruppo aziendale nel concetto di direzione e coordinamento, ossia in quella che dovrebbe
essere (il legislatore si astiene deliberatamente sia dal definire il gruppo aziendale sia
dal precisare il contenuto del potere di direzione e coordinamento) la funzione, perdurante nel tempo e svolta dalla capogruppo, di definizione unitaria e trasmissione alle
altre società del gruppo di direttive, indirizzi strategici ed operativi e di controllo dell’attività eseguita e dei risultati raggiunti (per inciso si ricorda come il concetto di direzione e coordinamento non è nuovo nel nostro ordinamento trovando riscontro proprio
nel diritto finanziario116 - art. 61 comma 4 del T.U.B. ed art. 12 comma 2 T.U.F. - e che lo
stesso art. 2497 sexies cod. civ. individua alcune fattispecie al verificarsi delle quali si
presume, salvo prova contraria, l’esistenza di un potere di direzione e coordinamento
su altre società). Tuttavia, mentre nel capo IX del titolo V del libro V del cod. civ. il legislatore ha volutamente evitato di menzionare la parola “gruppo” (lo stesso capo è intitolato “direzione e coordinamento di società”), l’art. 2545 septies definisce il “gruppo
cooperativo paritetico”, fondandone anche in questo caso la fattispecie sul concetto di
direzione e coordinamento.
Il vincolo di subordinazione delle cooperative facenti capo ad un gruppo paritetico non
può che essere di natura contrattuale dato il principio del voto capitario (sostanzialmente si è nella fattispecie di controllo prevista dall’art. 2359 cod. civ. numero 3)117. L’art.
* Ricercatore di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli Studi di Bari.
115 L’art. 2545 septies del Codice civile così recita: “(Gruppo cooperativo paritetico). – Il contratto con cui più cooperative
appartenenti anche a categorie diverse regolano, anche in forma consortile, la direzione e il coordinamento delle rispettive
imprese deve indicare:
1) la durata;
2) la cooperativa o le cooperative cui è attribuita direzione del gruppo, indicandone i relativi poteri;
3) l’eventuale partecipazione di altri enti pubblici e privati;
4) i criteri e le condizioni di adesione e di recesso dal contratto;
5) i criteri di compensazione e l’equilibrio nella distribuzione dei vantaggi derivanti dall’attività comune.
La cooperativa può recedere dal contratto senza che ad essa possano essere imposti oneri di alcun tipo qualora, per effetto
dell’adesione al gruppo, le condizioni dello scambio risultino pregiudizievoli per i propri soci.
Le cooperative aderenti ad un gruppo sono tenute a depositare in forma scritta l’accordo di partecipazione presso l’albo delle
società cooperative.”
116 Oltre che nella disciplina sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.
117 Art. 2359: “Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti
esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza
dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. (…) OMISSIS”
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2545 septies prevede che possa essere stipulato un contratto che attribuisca ad una
cooperativa o a più cooperative (parrebbe anche ad un consorzio di cooperative, dato il
richiamo del primo comma alla forma consortile; sul punto, tuttavia si registrano in dottrina posizioni non concordi) il potere di direzione e coordinamento delle altre cooperative. Il contratto deve definire, fatta ovviamente salva la possibilità di rinnovo, la durata (è controverso se sia ammissibile una durata illimitata) e deve esplicitamente indicare i poteri del soggetto cui è attribuita la direzione del gruppo. Il punto 3 consente la
partecipazione al gruppo cooperativo paritetico anche di altri non meglio specificati enti
pubblici e privati, cui tuttavia il dettato dell’articolo di Legge non riserva la possibilità di
assumere le funzioni direttive. La struttura di gruppo disegnata dall’art. 2545 septies
risulta, tuttavia, alquanto instabile data la possibilità concessa a ciascuna cooperativa
aderente di recedere, in qualsiasi momento e senza oneri, qualora ritenga che dalla partecipazione possano derivare pregiudizi ai propri soci. Quest’ultima norma, dettata per
tutelare i principi mutualistici che ispirano le società cooperative e valorizzare il carattere paritetico del gruppo, rende di fatto debole il vincolo partecipativo ed il potere di
direzione e coordinamento attribuito alla capogruppo. All’accordo, a norma dell’ultimo
comma, deve essere data pubblicità mediante deposito presso l’Albo delle società cooperative. E’ controverso se sia anche applicabile l’art. 2497 bis cod.civ. che impone di
indicare nella corrispondenza la soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento.
In un gruppo cooperativo paritetico, quindi, l’unità economica e produttiva non è assicurata dal controllo esercitato, in funzione della partecipazione detenuta, dalla capogruppo, ma discende dall’accordo tra le cooperative che, in misura paritetica, concorrono al governo comune ed integrato delle proprie aziende oppure volontariamente delegano i poteri di direzione e coordinamento ad una o alcune di loro. Tra l’altro il legislatore non sembra aver posto limiti, sia in senso restrittivo che in senso estensivo, all’intensità dei poteri di direzione e coordinamento che possono essere assegnati alla struttura di vertice, delegando tale aspetto all’autonomia contrattuale delle parti. I poteri
della cooperativa (o delle cooperative) di comando dovranno, ovviamente, essere esercitati nel pieno rispetto degli accordi e soprattutto senza arrecare pregiudizio ad alcuna
delle cooperative del gruppo o ai loro soci (giustificando in tal caso il recesso della cooperativa stessa dal gruppo a norma dell’ultimo comma dell’art. 2545 septies). L’esercizio
del potere di direzione e coordinamento dovrebbe essere attento all’interesse dei soci
delle cooperative ed ispirato al perseguimento di vantaggi mutualistici.
Dal punto di vista organizzativo il legislatore lascia ampia discrezionalità all’accordo tra
le parti, ammettendo anche che non venga creata alcuna struttura autonoma dedita alla
direzione e coordinamento del gruppo. Tali attività, infatti, possono essere assegnate ad
una cooperativa (che può essere appositamente costituita tra le società aderenti o essere una tra le cooperative esistenti) o a più cooperative contemporaneamente. Le prima
soluzione sembra da preferirsi in quanto l’organo di direzione e coordinamento avrebbe una propria personalità giuridica e potrebbe, pertanto, più efficacemente agire verso
l’esterno per conto delle cooperative del gruppo. Nel caso in cui il potere di direzione e
coordinamento fosse attribuito a più cooperative contemporaneamente (esercizio congiunto del potere di direzione) sembra inevitabile l’istituzione di una sorta di comitato
direttivo di gruppo, formato da esponenti delle cooperative aderenti ed investito dei
poteri di direzione e coordinamento delle varie cooperative. E’ controverso, come già si
accennava in precedenza, se, dato il richiamo del primo comma dell’art. 2545 septies
alla forma consortile, il potere di direzione e coordinamento possa essere attribuito
anche ad un consorzio di cooperative.
Il gruppo cooperativo paritetico non è, di regola, finalizzato ad una integrazione di breve
durata o limitata, distinguendosi, dunque, da altre forme di integrazione orizzontale
(joint ventures ad esempio). La struttura che si viene a creare con un gruppo cooperativo paritetico è, infatti, una struttura duratura volta a disciplinare una collaborazione di
lungo termine e di ampio respiro tra le cooperative aderenti, secondo orientamenti strategici e gestionali uniformi. In sostanza il gruppo cooperativo paritetico è un modello
organizzativo caratterizzato dall’obiettivo di pervenire ad una guida sinergica delle attività delle imprese del gruppo e presuppone un adeguato coordinamento organizzativo,
tecnico, informatico, gestionale e produttivo.
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3. Chiarite funzioni, struttura e disciplina giuridica di un gruppo cooperativo paritetico
occorre verificare nel nostro ordinamento sia ammissibile che anche le banche costituite sotto forma di società cooperativa possano organizzarsi in un gruppo bancario
cooperativo paritetico. La questione non è di poco conto se si considera:
-
che il gruppo bancario (cui facciano o meno capo società cooperative) è disciplinato dal T.U.B. e dalla regolamentazione di vigilanza emanata dalla Banca d’Italia;
-
che la riforma del diritto societario ha introdotto nelle “Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie” (R.D. 30 marzo 1942, num 318),
l’art. 223 terdecies che prevede, al secondo comma: “alle banche popolari, alle
banche di credito cooperativo ed ai consorzi agrari continuano ad applicarsi le
norme vigenti alla data di entrata in vigore della legge n. 366 del 2001”, ossia le
disposizioni in vigore ante legge delega per la riforma.
La struttura di gruppo bancario disegnata dal testo unico e dalle istruzioni di vigilanza
è essenzialmente preordinata a disciplinare un gruppo di tipo verticale, in cui le banche
popolari o le bcc non possono che assumere ruolo di capogruppo (stante i vincoli di
voto in assemblea). Tuttavia l’art. 23 T.U.B., per rimando dell’art. 59, prevede, comma 2,
che il controllo sia configurabile quale influenza dominante qualora sussistano rapporti di carattere finanziario ed organizzativo che permettano di attuare un “coordinamento della gestione dell’impresa con quella di altre imprese ai fini del perseguimento di
uno scopo comune” ovvero comportino “assoggettamento a direzione comune in base
alla composizione degli organi amministrativi o per altri concordanti elementi”. Si ritiene, pertanto, che il vigente diritto bancario non solo non vieti esplicitamente che un
gruppo bancario possa costituirsi quale paritetico, ma preveda anche la possibilità che
i poteri di direzione e coordinamento possano essere attribuiti alla società di controllo
per via contrattuale. Resterebbe semmai preclusa, in base al combinato disposto degli
artt. 59, 60 e 61 T.U.B., la possibilità di strutturare il gruppo di banche cooperative attribuendone i poteri di direzione e coordinamento a più cooperative contemporaneamente mediante l’istituzione di un organo di direzione collegiale non dotato di personalità
giuridica. Il T.U.B., infatti, prevede che società capogruppo di un gruppo bancario possa
essere una banca o una società finanziaria che rispetti le caratteristiche imposte dallo
stesso Testo unico e dalla normativa secondaria Bankitalia. La società al vertice del
gruppo bancario cooperativo paritetico risulterebbe assoggettata alla disciplina sulle
capogruppo bancarie e sulla vigilanza consolidata118. Il gruppo cooperativo paritetico
dovrà ovviamente essere iscritto nell’Albo dei gruppi bancari (art. 64 T.U.B.).
Sarebbe, comunque, auspicabile un intervento volto a disciplinare, magari solo a livello di istruzioni di vigilanza, in misura specifica la costituzione, il funzionamento e la vigilanza dei gruppi paritetici di banche cooperative, anche se questo equivarrebbe ad una
sorta di avallo dell’organo di vigilanza al loro ingresso nel panorama finanziario nazionale. La questione presenta aspetti di una certa delicatezza e non può prescindere da
una attenta ponderazione di vantaggi e punti di criticità che ne potrebbero derivare. Al
riguardo si intende fornire un utile contributo nella parte conclusiva di questo
intervento.
La riforma del diritto societario ha volutamente escluso dall’applicazione delle nuove
norme le banche costituite sotto forma di società cooperative. Tralasciando i problemi
interpretativi ed applicativi, su cui si registrano molti interventi critici della dottrina,
occorre stabilire se, indipendentemente dalla sopravvivenza della normativa previgente, sia comunque possibile la costituzione di gruppi bancari paritetici tra banche cooperative. Il gruppo paritetico è fondato su un contratto, autonomamente concordato e stipulato tra le parti, che ne disciplina i vari aspetti organizzativi, strategici, gestionali, ecc.
Nell’ambito della propria autonomia contrattuale, non certo introdotta con la riforma
del diritto societario, sembra, pertanto, plausibile, indipendentemente dal disposto dell’art. 223 terdecies delle “Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni
transitorie”, che popolari e bcc possano dotarsi di una struttura (per motivi di compati118 “L’art. 61, comma 4, del T.U. definisce i compiti della capogruppo, riconoscendole il ruolo di referente della Banca d’Italia
ai fini della vigilanza consolidata. In relazione a questa funzione la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento che le è propria, emana nei confronti delle componenti il gruppo bancario le disposizioni necessarie per dare
attuazione alle istruzioni di carattere generale e particolare impartite dalla Banca d’Italia nell’interesse della stabilità del gruppo. Dette disposizioni possono indirizzarsi alle singole società componenti il gruppo. La capogruppo richiede alle società
componenti il gruppo bancario notizie, dati e situazioni rilevanti ai fini dell’emanazione delle disposizioni sopra richiamate.
La capogruppo verifica l’adempimento da parte delle singole componenti delle disposizioni emanate su istruzioni della Banca
d’Italia per assicurarne il rispetto; ciò con particolare riguardo alla vigilanza informativa e alla vigilanza regolamentare riferita all’adeguatezza patrimoniale, alle partecipazioni detenibili, al contenimento del rischio, all’organizzazione amministrativocontabile e ai controlli interni. Gli amministratori delle società controllate sono tenuti a dare attuazione alle disposizioni emanate dalla capogruppo in esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia nell’interesse della stabilità del gruppo. Gli
amministratori delle società controllate sono tenuti a fornire ogni dato e informazione alla capogruppo per l’emanazione delle
disposizioni da parte di quest’ultima.” Cfr. Banca d’Italia, Istruzioni di Vigilanza per le banche, Titolo I, Capitolo 2, Sezione III.
51
bilità con il diritto bancario dotata di personalità giuridica) cui deleghino il potere di
direzione e coordinamento delle proprie attività. In ciò si concorda con il parere di diversi insigni autori.
Non pare, dunque, sussistano vincoli legislativi o regolamentari all’istituzione di gruppi paritetici tra banche cooperative, pur se una loro specifica regolamentazione potrebbe risultare utile sia ai fini processuali che a quelli di vigilanza.
Il modello del gruppo bancario cooperativo paritetico verrebbe a differenziarsi da quello del gruppo bancario verticale sia per una minore intensità del potere di direzione
della capogruppo sia, soprattutto, perché sono le stesse cooperative del gruppo che, in
maniera democratica e non gerarchica, concorrono alla definizione delle scelte strategiche, competitive, gestionali, operative, ecc., del gruppo stesso ed all’individuazione
della capogruppo.
4. Quali vantaggi potrebbe apportare alle singole banche partecipanti ed al sistema
finanziario nazionale la possibilità di costituire gruppi bancari cooperativi paritetici?
Prima di affrontare l’ultimo punto di questa relazione è d’obbligo una breve premessa
sulla struttura del credito popolare e cooperativo in Italia119. Al 31 dicembre 2004 erano
iscritte all’Albo 37 banche popolari e 439 banche di credito cooperativo, su un totale di
778 banche (242 le banche sotto forma di Spa e 60 le succursali di banche estere). Le
banche costituite sotto forma di società cooperativa costituiscono pertanto il 61,2% del
numero di banche presenti nel sistema bancario italiano (le sole bcc rappresentano il
56,4%). 18 banche popolari e solo 11 bcc sono incluse in un gruppo bancario (ovviamente quali capogruppo). A livello di sportelli e di volumi intermediati la struttura del
sistema bancario italiano è notevolmente differente: il numero di sportelli di bcc è pari
al 10,9% del totale degli sportelli bancari in Italia, mentre quelli delle popolari all’11,4%
(il 10,1% fanno capo a popolari incluse in gruppi bancari); gli impieghi al netto delle sofferenze ammontano per le bcc al 6,7% del totale nazionale e per le popolari al 9,9%; il
totale attivo delle bcc è il 5,9% del totale del sistema bancario nazionale, mentre per le
banche popolari è pari al 16,9%. Anche a livello di indicatori di efficienza si nota una
netta disomogeneità: sul totale attivo, i costi operativi rappresentano il 2,62% per le bcc
ed il 2,20% per le popolari (1,97% per le banche Spa) ed il risultato di gestione è pari
all’1,3% del totale attivo per le bcc ed all’1,69% per le popolari (1,45% per le banche
Spa) . Di conseguenza anche il cost/income ratio ed il ROE delle bcc risultano sensibilmente peggiori rispetto alle banche popolari:
ROE
Cost/income ratio
Banche di Credito Cooperativo
7,5%
66,9%
Banche Popolari
9,6%
57,5%
11,4%
57,6%
Banche Spa
La struttura del sistema bancario pugliese non è molto dissimile120. Nel 2004 le banche
operanti in Puglia con almeno uno sportello erano 70; di queste 31 (44,3%) hanno sede
nella regione (3 sono le popolari e 23 le bcc; sul totale delle banche operanti in Puglia,
quindi, le banche cooperative residenti rappresentano il 37,1% mentre le sole bcc il
32,9%). Gli sportelli bancari operativi nella regione erano, al 31.12.04, 1354, di cui 393
di banche aventi sede nella regione (29%) e 85 di banche di credito cooperativo (6,3%).
La quota di mercato delle banche di credito cooperativo nel comparto prestiti è salita
nel corso del 2004 dal 5,0% al 5,4% soprattutto per effetto della crescita della quota di
prestiti alle imprese; la quota di mercato delle altre 8 banche locali è del 17,3%. Dal lato
della raccolta le bcc detengono una quota di mercato pari all’8,1%, mentre il resto delle
banche pugliesi il 22,2%. Dal 2002 tre nuove banche di credito cooperativo pugliesi
hanno iniziato la loro attività.
Il sistema italiano delle banche cooperative (e di riflesso quello pugliese) si presenta,
dunque, formato da un lato da un ristretto numero di banche popolari di media dimen-
119 Tutti i dati di seguito riportati sono stati desunti dalla relazione della Banca d’Italia per il 2004.
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120 I dati di seguito riportati sono tratti da: Banca d’Italia, Note sull’andamento dell’economia della Puglia nel 2004.
sione e dall’altro da un rilevante numero di bcc di piccola dimensione fortemente radicate nel territorio che fanno registrare indici di efficienza e redditività inferiori al resto
del sistema bancario italiano (a quest’ultimo gruppo si possono affiancare le pochissime banche popolari di piccola dimensione, il cui numero tuttavia, in confronto alle bcc
è trascurabile). Non è questa la sede per approfondire le ragioni che sono alla base della
non adeguata efficienza del sistema delle bcc italiane. La loro dimensione è, tuttavia,
uno, se non il principale, tra i fattori che sembra aver negativamente influito, specie a
seguito della deregolamentazione del sistema bancario italiano degli ultimi anni e della
maggiore apertura alla concorrenza. Prova anche ne è che le banche spa e le popolari
che negli ultimi anni hanno recuperato margini di efficienza lo hanno principalmente
fatto attraverso il taglio del personale, la riorganizzazione interna e la crescita dimensionale (specie attraverso operazioni di merger & acquisition).
La moderna gestione della banca, in un contesto di libero mercato e di internazionalizzazione dei mercati finanziari, impone lo svolgimento di diverse attività, non solo di
natura finanziaria, ma anche amministrativa, legale, promozionale, contabile, ecc., i cui
costi incidono pesantemente qualora i volumi intermediati non sono elevati.
L’aggregazione tra più imprese bancarie è spesso risultata la strada ottimale per lo svolgimento in misura più efficiente di queste attività (il riferimento ai numerosi esempi di
matrimoni tra banche non solo in Italia ma nel resto d’Europa è d’obbligo).
La strada dell’aggregazione tra bcc (o banche popolari di piccola dimensione) presenta, tuttavia, diversi aspetti frenanti:
1) Il principio del voto capitario impone che una bcc non possa essere capogruppo
di un’altra;
2) le capacità finanziarie delle bcc non sono elevate: il numero (e la dimensione) di
operazioni di fusione che può essere portato a termine è minimo;
3) le bcc sono fortemente radicate nel territorio: notevoli sono le resistenze che la
base societaria in genere pone ad eventuali aggregazioni, per quanto realizzate
con criteri paritetiche, con altre bcc; inoltre la dimensione della nuova banca
potrebbe rendere meno stretto il legame con il territorio.
In questo contesto si affaccia l’ipotesi di costituzione di un gruppo bancario cooperativo paritetico. Nel prosieguo della relazione si farà diretto riferimento alle bcc in quanto
sembrano rappresentare la tipologia di banca cooperativa cui il ricorso al gruppo paritetico sembra più opportuno; le considerazioni che si svolgeranno, tuttavia, con i distinguo del caso, sono valide anche per le banche popolari, specie per quelle di piccola
dimensione, che tra l’altro, nulla vieta possano anche far parte, insieme a bcc, di un
gruppo bancario cooperativo paritetico.
Uno degli elementi caratterizzanti il contratto costitutivo di un gruppo paritetico è l’ampia autonomia lasciata alle parti nella determinazione del contenuto dei poteri di direzione e coordinamento da assegnare alla società posta al vertice del gruppo. L’intensità
dell’azione di direzione della capogruppo (come si diceva in precedenza in un gruppo
bancario paritetico non è ammissibile l’ipotesi che siano più cooperative contemporaneamente a guidare il gruppo) può pertanto essere circoscritta solo ad alcuni aspetti
strategici e gestionali, purché, come anche previsto dalle istruzioni di vigilanza (Titolo I,
capitolo 2), sia ravvisabile una struttura integrata o strategica, ossia una struttura organizzativa che “si caratterizza per il comune disegno imprenditoriale, per la forte coesione al proprio interno e per la sottoposizione a direzione unitaria“. Nella costruzione del
gruppo paritetico, quindi, le bcc potrebbero delegare a livello di capogruppo la direzione ed il coordinamento delle aree in cui è possibile recuperare margini di efficienza,
lasciando alle singole bcc ampia autonomia nella gestione delle altre aree, nell’ambito,
comunque, di un comune disegno strategico ed imprenditoriale e di una certa unità
economica. In tal maniera appare possibile combinare le economie di scala derivanti
dallo svolgimento comune di talune attività con l’esigenza di non veder ridotto il grado
di radicamento nel territorio.
Si pensi alla gestione della liquidità e della tesoreria (un servizio centralizzato permetterebbe di ridurre le riserve di liquidità detenibili, i costi di trasferimento della moneta
tra le varie agenzie, i costi di contazione, consentirebbe di ottimizzare le politiche di
investimento delle eccedenze di liquidità, ecc.); al coordinamento della pianificazione
strategica; all’implementazione delle strategie di marketing (una politica di comunicazione comune, oltre a ridurne i costi, ne aumenterebbe l’efficacia in quanto potrebbe
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essere attuata su scala più ampia e promuoverebbe non solo la singola banca ma il
complessivo sistema del credito cooperativo del territorio; il coordinamento delle strategie di marketing, inoltre, permetterebbe di razionalizzare le politiche di prezzo e la
struttura territoriale delle diverse bcc); al risk management (le bcc potrebbero permettersi, anche nell’ottica della nuova regolamentazione di Basilea, di sviluppare a livello
di gruppo un sistema interno di rating e di misurazione dell’esposizione al rischio operativo, oltre che implementare sistemi di value at risk e di allocazione efficiente delle
risorse); alle politiche di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale; alla gestione
del personale (riduzione dei costi amministrativi, ottimizzazione dell’attività di formazione ed aggiornamento); alla gestione delle posizioni problematiche e del contenzioso
(un’unica struttura centralizzata sarebbe utile ad una riduzione dei costi amministrativi
e legali e potrebbe favorire un miglioramento delle azioni di recupero); al credito al consumo (comparto in rapida crescita negli ultimi tempi, fonte di rilevanti introiti ma caratterizzato da un maggiore grado di rischio e di complessità organizzativa) allo sviluppo
di sistemi informatici comuni; all’operatività con l’estero per conto della clientela (si
potrebbe, infatti, creare una struttura centrale specializzata ed altamente professionale,
che permetta di ridurre i tempi di conclusione delle operazioni ed i costi, si otterrebbero, inoltre, sensibili economie dalla gestione in comune delle posizioni in valuta); all’accentramento delle funzioni di internal audit (con evidenti risparmi di costo e miglioramenti in termini di efficacia dell’azione di monitoraggio interno); alla realizzazione di
operazioni di finanza strutturata (quali ad esempio le cartolarizzazioni per la cui effettuazione occorrono volumi di asset che spesso le singole bcc non possiedono); all’istituzione di fondi chiusi di venture capital per il finanziamento delle iniziative ad alto contenuto innovativo del territorio; alla gestione del patrimonio immobiliare e degli
approvvigionamenti di materiale informatico e di consumo (con evidenti economie di
scala conseguibili); ecc.
L’organizzazione di un gruppo orizzontale di bcc radicate in territori contigui potrebbe,
inoltre, permettere di meglio fronteggiare la crescente concorrenza delle banche di
media dimensione, dei grandi gruppi bancari nazionali e delle banche estere che, direttamente ed indirettamente, tendono a limitare le possibilità operative delle piccole banche locali. Le banche si trovano oggi ad affrontare un mercato aperto, notevolmente differente da quello dei decenni scorsi in cui non si può prescindere dal raggiungimento
di elevati standard di efficienza. L’istituzione di un gruppo paritetico di bcc può, dunque,
permettere, innanzitutto di migliorare il grado di efficienza delle banche partecipanti; al
tempo stesso può consentire loro di assumere quella dimensione che le possa permettere di competere, ovviamente nell’ambito del territorio di riferimento, con le grandi
banche anche nei segmenti corporate e private e di assumere posizione di leadership
nei comparti dello small business e del retail. Anche per la stessa Banca centrale, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, il conseguimento di una elevata efficienza di
gestione delle singole banche è visto come una delle principali condizioni per garantire la stabilità del complessivo sistema bancario nazionale. In quest’ottica la rimozione
di alcuni dei vincoli regolamentari all’istituzione di gruppi bancari cooperativi paritetici
può apparire utile.
Il ricorso su ampia scala da parte delle bcc al gruppo paritetico potrebbe, dunque, determinare un sostanziale riassetto organizzativo e gestionale del sistema italiano del credito cooperativo, con effetti anche sulla struttura competitiva dell’intero settore bancario nazionale.
A livello di governance la soluzione più ovvia pare quella di porre a vertice del gruppo
paritetico una cooperativa di nuova istituzione (costituita come banca di credito cooperativo o semplicemente quale società svolgente attività finanziaria ai sensi dell’art. 59
T.U.B.), partecipata da tutte le banche del gruppo (nel caso in cui la capogruppo sia
costituita come banca di credito cooperativo occorre rispettare i limiti minimi di capitale e numero di soci), il cui Consiglio di amministrazione sia espressione di tutte le realtà bancarie del gruppo ed il cui direttore generale sia dotato di elevate competenze e
professionalità. Delegare, invece, il potere di direzione e coordinamento ad una delle
bcc del gruppo potrebbe far sorgere conflittualità tra le stesse banche partecipanti. Al
fine di rafforzare l’unicità di indirizzo del gruppo e rafforzare i poteri di direzione e coordinamento della struttura di vertice potrebbe anche risultare utile riservare alla capogruppo la nomina di almeno un consigliere di amministrazione nei board delle singole
banche ed il diritto di veto su alcune delibere di fondamentale importanza, quali ad
esempio la nomina dei direttori generali delle società del gruppo o le variazioni statu54
tarie.
A livello di estensione territoriale nulla vieta che il gruppo bancario cooperativo possa
assumere dimensione nazionale, con ciò potendo ampliare la scala delle economie realizzabili. Sembra, tuttavia, più logico che, quantomeno inizialmente, i gruppi bancari
cooperativi mantengano una forte connotazione locale e si formino, ad esempio, nell’ambito delle Federazioni locali delle banche di credito cooperativo.
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Alma Agnese Rinaldi*
Attività di direzione e coordinamento nel gruppo bancario e nel
gruppo societario in generale
Sommario: Le novità della riforma in tema di direzione e coordinamento nella relazione di gruppo. - Nozione di direzione e coordinamento. - Coordinamento tra la nuova disciplina e il Tub nel
gruppo bancario. - La fattispecie di responsabilità nella nozione
di attività e coordinamento. - Responsabilità della holding e dei
suoi amministratori. - Diritti dei soci di minoranza. - Specificità
della direzione e coordinamento nei gruppi bancari: la responsabilità della banca capogruppo. - Tutela dei soci e dei creditori nel
gruppo. - La motivazione obbligatoria delle decisioni nelle società soggette a direzione e coordinamento. - Il contemperamento
degli interessi come parametro di responsabilità. -
Le novità della riforma in tema di direzione e coordinamento
nella relazione di gruppo
Una delle più interessanti innovazioni apportate dal legislatore della riforma societaria
è stata quella di prevedere, per la prima volta nel nostro ordinamento, una disciplina
organica di carattere sistematico, specifica dei gruppi di imprese (di diritto e di fatto)121.
Il carattere inedito della disciplina in argomento, rileva in prevalenza sotto il profilo
della organicità, poiché determinate aree del fenomeno relativo al collegamento societario, rispondente ad un modello peraltro assai praticato e diffuso nel sistema capitalistico italiano, erano già state interessate da interventi normativi di vario livello, in ambiti tuttavia solo settoriali122.
La riforma, dunque, muove dal riconoscimento non più solo settoriale, ma generale,
della direzione e coordinamento come fattispecie fondante la relazione del gruppo;
secondo quanto si legge nella Relazione di accompagnamento, l’art. 2497 si riferisce
alla direzione ed al coordinamento come ad un fatto, ad un evento cioè, di cui il legislatore, secondo il metodo dell’economia, prende atto e che consiste nella definizione e
trasmissione alle società di gruppo, da parte della holding, di direttive e indirizzi di politica strategica e gestionale i quali riguardino sia l’impresa di gruppo, sia singole fasi di
essa o singole imprese o singoli rami aziendali del gruppo, sia infine singoli eventi della
vita societaria delle componenti il gruppo.
Nel dare riconoscimento al fatto, tuttavia, il legislatore definitivamente sancisce, al
tempo stesso, che la eterodeterminazione della volontà sociale e dell’attività imprenditoriale non è di per sé contraria ai principi di corretta gestione societaria, legittimando
così la fattispecie, ma richiedendo un esercizio diligente del potere.
Inoltre, poiché non si è accolta una visione del gruppo in cui l’unificazione patrimoniale è accentuata (come ad es. nel gruppo di diritto tedesco) e, conseguentemente, è consentita l’imposizione di comportamenti pregiudizievoli all’interesse della singola cellula del gruppo, si è ribadito, in linea con i più moderni indirizzi interpretativi della nostra
giurisprudenza, con la teoria dei vantaggi compensativi già accolta da parte del d. lgs.
* Dottore di Ricerca in Diritto Pubblico dell’Economia nell’Università degli Studi di Bari.
121 Sul tema dei gruppi di imprese, cfr. U. Tombari, Riforma del diritto societario e gruppo di imprese, in Giur. comm., 2004,
I, p. 61 ss. e bibliografia in esso contenuta.
122 Fra i principali, A. Irace, Sub art. 2497, in (a cura di) Sandulli – Santoro, La riforma delle società, Le nuove leggi del diritto dell’economia, Torino, 2003, p. 314, indica gli artt. 2359 e ss. c.c.; le norme in materia di bilancio consolidato ai sensi del
d. lgs. n. 127/1991; l’art. 93 del d. lgs. n. 58/1998; le disposizioni dettate dal d. lgs. n. 385/1993; le norme dettate in materia di
antitrust ex L. n. 287/1990, nonché la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza ai sensi del d. lgs. n. 270/1999.
123 D. Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma
dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366”, in G. U., n. 88 del 15 aprile 2002.
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n. 61 del 2002123, che l’eterodeterminazione non può imporre comportamenti pregiudizievoli dell’interesse sociale individuale adottati, come espresso dall’art. 2497, “nell’interesse imprenditoriale della controllante o altrui”124.
Il legislatore non ha ritenuto opportuno dare o richiamare nel codice civile una qualunque nozione di gruppo122 o di controllo126, preferendo utilizzare la dizione di società o
enti che “esercitano attività di direzione e coordinamento” per indicare quei soggetti
che nella realtà economico-sociale sono individuati come società o enti capogruppo o
holding, giustificando tale scelta, sulla base di due motivazioni; è chiaro che le innumerevoli definizioni di gruppo esistenti nella normativa di ogni livello sono funzionali a
problemi specifici; ed è altrettanto chiaro che qualunque nuova nozione si sarebbe
dimostrata inadeguata all’incessante evoluzione della realtà sociale, economica e giuridica”.
Ha, piuttosto, previsto una disciplina della responsabilità per l’esercizio di attività di
direzione e coordinamento all’interno del gruppo, fondata sulla naturale manifestazione ed esteriorizzazione di un gruppo, facendo proprie le nozioni esistenti nella disciplina del Gruppo bancario127.
Più precisamente, la legge delega enunciava princìpi e criteri direttivi tali che, se adeguatamente sviluppati in tutte le coerenti implicazioni, potevano ben tradursi in un diritto dei gruppi allargato a disposizioni attente a variegati e compositi aspetti della formazione, dell’organizzazione e del funzionamento del gruppo e delle relative componenti
costitutive.
Si è evitato, pertanto, di confinare in figure tipiche la rilevanza di fenomeni di gestione
unitaria di più società e si è scelto di attribuire rilievo giuridico ad una situazione di fatto
determinata dall’esercizio “dell’attività di direzione e coordinamento” di una società da
parte di un diverso soggetto, sia esso proprio una società od un ente128.
Nozione di direzione e coordinamento
Gli artt. 2497 e ss. utilizzano la nozione di “direzione e coordinamento” recependo, dunque, un’espressione già utilizzata dal Testo Unico Bancario (d. lgs. 1 settembre 1993, n.
385; d’ora in avanti: Tub), e dal Tuf (d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), proprio per qualificare l’attività della capogruppo, rispettivamente nel gruppo bancario ed in quello fra
intermediari finanziari129.
Le nuove norme non definiscono il contenuto dell’attività di direzione e coordinamento, ma si limitano a fissare le modalità di esercizio della medesima attività, sancendo
una responsabilità della capogruppo per un esercizio del relativo potere non rispettoso
di tali modalità.
Tale nozione sembra a sua volta richiamare quella di “direzione unitaria” che ricorre
negli studi dottrinari da molti anni, quale elemento qualificante del fenomeno dei grup-
124 Cfr. M. Lamandini, Gruppi societari e bancari, in La riforma del diritto societario e le banche, Nuovi modelli nuovi strumenti: opportunità e criticità, Bancaria ed., 2004, p. 45 ss.
125 Il gruppo societario è un’aggregazione di imprese formalmente autonome e indipendenti l’una dall’altra, ma assoggettate tutte ad una direzione unitaria. Tutte sono infatti sotto l’influenza dominante di un’unica società (capogruppo o societàmadre) che direttamente o indirettamente le controlla ed in fatto coordina e dirige secondo un disegno unitario la loro attività di impresa per il perseguimento di uno scopo economico unitario e comune a tutte le società del gruppo (interesse di
gruppo). Tale fenomeno può assumere differenti configurazioni ed articolazioni: gruppi a catena (nei quali la società A controlla la società B che a sua volta controlla e dirige C), gruppi a raggiera o stellari (nei quali la società A controlla e dirige tutte
le altre società) o gruppi nei quali ci sia una società capogruppo e diverse sub-holding di settore che controllano imprese o
altre organizzazioni societarie operanti in specifici segmenti di competenza. Cfr. G.F. Campobasso, La riforma delle società di
capitali e cooperative, 2004, Utet.
126 Sul tema, cfr. P. Marchetti, Note sulla nozione di controllo nella legislazione speciale, in Riv. soc., 1992, p. 3 ss. Il numero considerevole di nozioni di controllo presenti nel nostro sistema è stato accuratamente ordinato secondo quattro criteri e
precisamente: i) le definizioni “speciali” di controllo richiamanti l’art. 2359 c.c. (la norma che contempla le fattispecie del controllo interno, contrattuale e indiretto, che è stata, quanto meno per lungo tempo, la norma cardine della materia e che non
è stata direttamente interessata dalla riforma del diritto societario) e la clausola dell’influenza dominante; ii) le definizioni
“speciali” di controllo richiamanti il solo art. 2359 c.c.; iii) le definizioni “speciali” di controllo prescindenti dall’art. 2359 c.c.;
iv) le nozioni di controllo non corredate da specifici elementi definitori né rinvianti a definizioni preesistenti. Cfr. F. Galgano,
La nuova disciplina dei gruppi nella riforma del diritto societario, Atti del Convegno di Milano, 27-28 maggio 2003.
127 Sul tema si veda G. La Rocca, Impresa e società nel gruppo bancario, in Quaderni di giur. comm., n. 162, Giuffrè, 1995.
128 Si tratta di una disciplina c.d. Rechtsformneutral, che prescinda, cioè, dal tipo societario assunto dall’impresa. Cfr. U.
Tombari, Il conflitto d’interessi degli amministratori in una società per azioni appartenente ad un gruppo. Prime considerazioni alla luce della riforma del diritto societario, consultabile a sito www.notarlex.it/news.
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129 Cfr. F.M. Frasca, Nuovo diritto societario e intermediari bancari e finanziari, in (a cura di) F. Capriglione, Nuovo diritto
societario ed intermediazione bancaria e finanziaria, Padova, 2003, p. 269 ss.
pi, ed è stata positivamente sancita, fra l’altro, quale presupposto della responsabilità
nell’amministrazione straordinaria (art. 90, d. lgs. n. 270/99)130.
Si è detto che il legislatore non ha avvertito l’esigenza di innovare, ma al contrario ha
inteso riferirsi ad una nozione sufficientemente ampia ed elastica, idonea, se vogliamo,
a ricomprendere le numerose sfaccettature nelle quali si scompone il fenomeno della
direzione unitaria, nella realtà e nella letteratura giuridica degli anni passati; alla base
della responsabilità doveva esserci il semplice fatto della eterodeterminazione delle
scelte gestionali di una società131.
Ecco, quindi, che le parole “direzione e coordinamento” si riferiscono a qualunque attività di governo della società proveniente da un soggetto estraneo alla stessa; il minimo
comune denominatore sembra essere la mera provenienza delle scelte gestionali da
tale soggetto132.
Le nuove disposizioni in materia di gruppi societari realizzano, inoltre, un compromesso tra due linee di politica legislativa.
Il gruppo è considerato come un fatto, coincidente con l’attività di direzione e coordinamento, rispetto al quale si pongono particolari esigenze di disciplina esclusivamente
sotto il profilo della tutela dei soci di minoranza e dei creditori della società dipendente133, ma anche un’organizzazione di imprese - ognuna delle quali può essere considerata un distinto centro d’imputazione di attività d’impresa sostanzialmente unitaria,
anche se frazionata in fasi distinta perché imputate a soggetti giuridici diversi - motivo
per il quale il legislatore ha introdotto disposizioni normative che incidono sullo statuto organizzativo delle società attraverso le quali l’attività di gruppo viene esercitata.
Un ulteriore ausilio alla definizione dello “statuto organizzativo” dell’attività di direzione e coordinamento, proviene dall’applicazione di tutte le altre disposizioni del codice
che risultano idonee a regolamentare le società di capitali, tanto nella loro versione di
società “non raggruppate”, quanto in quella di società dirette e coordinate ovvero che
dirigono e coordinano.
Emerge, dall’analisi complessiva di tali principi, la volontà del legislatore di offrire una
soluzione duttile e realistica alla questione centrale dei gruppi di società134, costituita
dalla contrapposizione tra l’unicità economica del gruppo e l’indipendenza giuridica
soggettiva di ogni società o ente che del gruppo faccia parte, ispirandosi ad un criterio
di ragionevole elasticità nell’impostazione delle scelte di politica del diritto135, cercando
di individuare un punto di contatto tra la necessità di tutelare le posizioni degli azionisti di minoranza e dei creditori sociali e la volontà di riconoscere, comunque, ad ogni
gruppo, la possibilità di operare con flessibilità e dinamismo136.
130 In tal senso cfr. P. Montalenti, Le linee della riforma, in Atti del Convegno di Torino 29 ottobre 2001, p. 49; Id., Gruppi e
conflitto di interessi nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2002, I, p. 627. Sul tema, cfr. anche G. Consolo,
L’amministrazione straordinaria delle aziende bancarie e gruppo creditizio, Bancaria, 1990; A. Maffei Alberti, Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, in A.A.V.V., Commentario breve alla legge fallimentare,
Padova, 2000, p. 1086 ss.
131 Si afferma che la scelta di non fornire alcuna nozione e/o definizione dell’attività di direzione e coordinamento sarebbe
coerente con la funzione tipica delle norme giuridiche “che non è quella di dare definizioni e nozioni, ma quella di prescrivere o vietare condotte”: così V. Salafia, La responsabilità della holding nei confronti dei soci di minoranza delle controllate, in
Soc., 2003, 2 bis, p. 390.
132 E’ questo un’importante profilo di differenza rispetto al modello legislativo tedesco, il quale prevede una disciplina specifica solo per le società per azioni ed in accomandita per azioni e lascia alla giurisprudenza teorica e pratica il compito di elaborare un Konzernrecht per la società a responsabilità limitata e per la società di persone. Sul punto, cfr. U. Tombari, Il conflitto di interessi degli amministratori in una società per azioni appartenente ad un gruppo. Prime considerazioni alla luce
della riforma del diritto societario, cit.; V. Cariello, Direzione e coordinamento di società e responsabilità: spunti interpretativi iniziali per una riflessione generale, in Riv. soc., n. 6, 2003, p. 1230 ss.
133 Cfr., ad esempio, P. Ferro-Luzzi, I patrimoni “dedicati” ed i “gruppi”nella riforma societaria, in Riv. del Not., 2002, p. 275
ss. A conferma di questa valutazione basti considerare la centralità attribuita alla disposizione sulla “Responsabilità” (art.
2497), la quale è posta in apertura del Capo dedicato alla “Direzione e coordinamento di società”; una chiara esplicitazione
di questa scelta si ritrova nella Relazione ministeriale: “… si è ritenuto che il problema centrale del gruppo fosse quello della
responsabilità della controllante nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata”. Si è, altresì, ritenuto che l’esercizio di attività di direzione e coordinamento di una società da parte di un diverso soggetto “sia del tutto naturale e fisiologico da parte di chi è in condizioni di farlo e che non implica il riconoscimento di particolari poteri”. Sottolineano come la nuova
disciplina dei gruppi si caratterizzi quale “diritto di tutela” anche B. Libonati, Prefazione, in AA.VV. Diritto delle società di capitali, Milano, 2003, p. XIII; F. D’Alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata”. Ovvero: esiste
ancora il diritto societario?, in Riv. soc., 2003, p. 45 ss.
134 Così N. Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, in Giur. comm.,
2002, I, p. 617.
135 Tale criterio è stato anche accolto in Francia da la Cour de Cassation per il caso Rozenblum; un’impostazione del tutto
analoga alla valutazione qui ribadita si rinviene nelle proposte del Forum Europaeum sul diritto dei gruppi di società (cfr. Un
diritto dei gruppi di società per l’Europa, in Riv. soc., 2001, p. 341 ss., specie p. 384).
136 Cfr., sul punto, A. Lupoi, Gruppo bancario e unità d’impresa, in Quaderni di giur. comm., Giuffrè, 2003, p. 75 ss.
59
Resta, dunque, fermo nel nostro ordinamento il principio cardine della distinta soggettività e della formale indipendenza giuridica delle società del gruppo; il che comporta
degli svantaggi ma anche alcuni vantaggi.
L’indipendenza formale porta, infatti, ad escludere che la capogruppo sia responsabile
per le obbligazioni assunte dalle controllate in attuazione della politica di gruppo; essa
comporta, però e nel contempo, che la capogruppo non può legittimamente imporre
alle società figlie il compimento di atti che contrastino con gli interessi delle stesse
separatamente considerate137.
Contro eventuali abusi dell’influenza dominante della capogruppo restano perciò azionabili i rimedi previsti in via generale dalla disciplina societaria138, e cioè, essenzialmente, le norme in tema di conflitto d’interessi dei soci (art. 2373) e soprattutto degli amministratori (art. 2391)139; nonché quelle che regolano la responsabilità degli amministratori per i danni da essi arrecati al patrimonio sociale (artt. 2392-2395)140.
Di questa situazione prende atto la riforma del 2003, che per un verso legittima il perseguimento dell’interesse di gruppo141 e per altro verso introduce specifici strumenti di
tutela a favore degli azionisti di minoranza e dei creditori delle società controllate destinati a fungere da limiti all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento da parte
della capogruppo.
La scelta del complesso di norme introdotto è apparsa, in buona sostanza, condivisibile e coerente con la nostra tradizione giuridica142.
Non pretende di ancorare la fattispecie ad una definizione rigida di gruppo; sia pure in
termini di clausola generale, prevede una disciplina “tale da assicurare che l’attività di
direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo143, delle
società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime”; prevede un obbligo di trasparenza e di motivazione144 dell’interesse del gruppo, essenziale non solo per un’idonea informazione ma anche per un adeguato sindacato di ragionevolezza, esperibile
solo in presenza di una “procedimentalizzazione” delle decisioni.
Non si può, tuttavia, non rilevare che l’intervento riformatore è stato estremamente pru-
137 Sul tema, cfr. G. Minervini, La capogruppo e il “governo” del gruppo, in A.A.V.V., I gruppi di società, Atti del convegno
internazionale di studi. Venezia, 16-18 novembre 1995, vol. II, Milano, 1996, p. 1566 ss.
138 Concepita in un senso così lato e generale, la nozione di “direzione e coordinamento” tende a sovrapporsi con altre elaborate in dottrina e rappresentate nella legislazione speciale, quali quella di “direzione unitaria” o quella di “influenza dominante”. Quest’ultima, fra l’altro, ora utilizzata dall’art. 2341 bis, per indicare una categoria di patti parasociali; su tale concetto, indicato come elemento qualificante della fattispecie del controllo, si veda M. Lamandini, Il “controllo”, nozioni e “tipo”
nella legislazione economica, Milano, 1995, partic. p. 55 ss. Ciò che interessa, ai fini della responsabilità ex art. 2497, è l’esercizio effettivo, non solo potenziale, di un’influenza, di un indirizzo nelle scelte gestionali di altra società, in modo sistematico
o duraturo.
139 Cfr., sul tema, L. Enriques, La disciplina del conflitto d’interessi degli amministratori di s.p.a.: novità e raccordo con le
disposizioni in tema di obbligazioni degli esponenti aziendali di banche, in Dir. delle banche e del mercato fin., 2003, n. 3, p.
419 ss.; F. Gianni, Il conflitto d’interessi degli amministratori: analisi della casistica, indebiti prelevamenti, pagamenti non
dovuti, l’utilizzo di operazioni vantaggiose, operazioni infragruppo, divieto di concorrenza, in La nuova disciplina dei gruppi
nella riforma del diritto societario, Paradigma, 2003.
140 Cfr. A. Pavone La Rosa, La responsabilità degli amministratori della controllante nella crisi del gruppo societario, in Riv.
soc., 2002, p. 802 ss.
141 Una delle conseguenze più gravi delle carenze di questa disciplina risiede nella difficoltà di individuazione, e successivamente di inquadramento, dell’interesse di gruppo, di cui pure la dottrina, che mostra di approvare la nuova disciplina, fa uso
costante, supponendolo alla base di essa ma al tempo stesso negando che il potere della capogruppo abbia un fondamento
di diritto – nonostante l’espressa disciplina che la legge ne fa - e affermando, invece, che la sua fonte sia tuttora di mero fatto,
discendendo dalla proprietà delle azioni, senza dunque che possa considerarsi una prerogativa naturale, propria della capogruppo nascente dal controllo Cfr. F. Barca, Il gruppo nei modelli di proprietà delle imprese: profili teorici, verifiche empiriche e spunti per una riforma, in I gruppi di società, Atti del convegno internazionale di studi. Venezia, 16-17-18 novembre
1995, Milano, 1996, I, p. 87 e 105 ss., il quale da un lato rimarca gli aspetti positivi che questa forma di organizzazione realizza rendendo possibile una separazione della “proprietà” dal “controllo”, dall’altro tiene a sottolineare la necessità di una
soluzione del problema della tutela dei soci c.d. esterni. L’assenza di una definizione e di un riconoscimento di un interesse
di gruppo - inteso come interesse trascendente quello delle singole unità - determina difficoltà d’individuazione dei doveri
degli amministratori delle controllate, stretti tra gli obblighi di perseguire l’oggetto sociale da un lato e di attuare le direttive
rinvenienti dalla capogruppo dall’altro. Cfr. M. Perassi, Gruppi societari e bancari. Brevi riflessioni sui progetti di riforma del
diritto societario, Associazione Disiano Preite, Verso un nuovo diritto societario, a cura di P. Benazzo – F. Ghezzi – S. Patriarca,
Bologna, 2002, p. 263 ss.
142 Cfr. P. Montalenti, Gruppi e conflitto d’interessi nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2002, I, p. 625 ss.
143 Cfr. L. Enriques, Vaghezza e furore. Ancora sul conflitto d’interessi nei gruppi di società in vista dell’attuazione della delega per la riforma del diritto societario, consultabile al sito www.associazionepreite.it/, nel quale sostiene, diversamente, che
l’interesse da contemperare sia quello della società al vertice del gruppo. “La legge delega ammette che i soci di controllo
impongano operazioni dannose, purché la società al vertice del gruppo, direttamente o indirettamente, ricavi dalla complessiva gestione unitaria del gruppo, un vantaggio maggiore del danno che questa gestione arreca alle singole controllate”. In
altri termini, sono i soci di controllo che determinano le politiche di gruppo ed è irrealistico pensare che essi massimizzino
qualcosa di diverso dal proprio utile.
60
144 Sempre L. Enriques, Vaghezza e furore. Ancora sul conflitto d’interessi nei gruppi di società in vista dell’attuazione della
delega per la riforma del diritto societario, cit., p. 5 giudica la disposizione come “atta…ad accrescere la domanda di servizi
di consulenza giuridica”.
dente: non solo la mancata definizione di gruppo, ma anche la previsione degli altri concetti nei quali si articola la disciplina della responsabilità contenuta nel 2497 si avvale
di clausole generali e principi, nelle quali è dato sì scorgere la traccia di una evoluzione
dottrinale e giurisprudenziale, ma non una soluzione appagante di tutti i dubbi che presentava il tema della responsabilità dei gruppi145.
Coordinamento tra la nuova disciplina e il Tub nel gruppo
bancario
Anche nel Tub manca una chiara definizione del termine gruppo; l’art. 60 del citato
decreto legislativo, aprendo la sezione dedicata al Gruppo bancario, infatti, sembra presupporne la conoscenza, stabilendo direttamente quale sia la composizione del gruppo
bancario e disponendo che questo è composto, alternativamente: “a) dalla banca italiana capogruppo e dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate;
b) dalla società finanziaria capogruppo e dalle società bancarie, finanziarie e strumentali da questa controllate, quando nell’ambito del gruppo abbia rilevanza la componente bancaria…”146.
In sostanza la disciplina dettata dal Tub postula che la capogruppo abbia il controllo
delle società componenti del gruppo e assume che la capogruppo possa esercitare nei
confronti di tali società “attività di direzione e coordinamento”.
Si può osservare, allora, come il termine gruppo, ai sensi del Tub, non identifichi l’aggregazione economica nella sua totalità, bensì soltanto una porzione di essa, dal
momento che la norma predetta ne definisce i limiti soggettivi ed oggettivi: dal punto
di vista soggettivo, infatti, il gruppo bancario è solo e soltanto quello costituito dalle
società di capitali che abbiano ad oggetto l’esercizio di attività bancaria, finanziaria o
strumentale, nonché dalla società capogruppo che su di esse esercita il controllo147; dal
punto di vista oggettivo, poi, è altresì necessario che la capogruppo (art. 61 Tub) sia una
banca avente sede legale in Italia oppure una società finanziaria avente sede legale nel
nostro paese, purché in tal caso, nel gruppo sia rilevante la “componente bancaria”, in
conformità delle disposizioni del CICR.
Solo in questi casi, quindi, saranno applicabili gli articoli 98 e seguenti del Tub, che prevedono l’applicazione della normativa in tema di crisi bancaria che si caratterizza –
come è noto – per il rilevante intervento dell’Autorità pubblica alla quale è riconosciuto un potere discrezionale per giungere all’eliminazione dal mercato delle imprese bancarie in crisi148.
E’ interessante rilevare che non vi è coincidenza fra il gruppo civilistico e quello bancario, non solo perché a capo di quest’ultimo può essere solo una società che risponda ai
requisiti dell’art. 61, ma anche perchè di esso, ai sensi dell’art. 59, possono far parte,
oltre a quelle bancarie, soltanto le società strumentali, intese nel senso definito dalla
lett. c) dell’articolo in parola.
Possono, pertanto, aversi casi nei quali una società non strumentale, (ad esempio una
società di mediazione creditizia che ai sensi delle Istruzioni di Vigilanza non può far
parte del gruppo bancario), sia controllata da una banca o da una società finanziaria e
che, quindi, potrebbe far parte del gruppo ai fini del codice, ma non del Tub, con conseguente applicazione delle sole norme del primo.
Verosimilmente, tuttavia, rilevando il controllo ai fini della comprensione nel gruppo
civilistico come fonte della presunzione di cui all’art. 2497 sexies, le banche o le società finanziarie che vi partecipano, pur potendo detenerne il controllo, dovrebbero esplicitamente rinunciare all’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento, così supe-
145 La genericità della nozione di “direzione e coordinamento” e di “correttezza nella gestione” sono stati indicati come un
“disincentivo forte all’organizzazione delle imprese in forma di gruppo”: v. osservazioni ABI del 27 novembre del 2002. Non
manca, peraltro, chi sostiene che proprio l’ampiezza dei concetti utilizzati, e quindi il rischio del contenzioso, dovrebbe fungere da incentivo all’adozione di misure preventive, ed in primis al bilanciamento degli interessi in sede di decisione, rafforzando anche l’obbligo di motivare le decisioni e quindi la trasparenza nella gestione dei gruppi: cfr. P. Marchetti, Colpo di
freno alle scatole cinesi, in Il Sole-24ore del 10 ottobre 2002.
146 Cfr. A. Brozzetti, Sub artt. 60-61, in (a cura di) F. Belli, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, I, Bologna,
2003, p. 965 ss.
147 In argomento, cfr. G. Mucciarelli, La definizione di controllo, in A.A.V.V., (a cura di) P. Marchetti – L.A. Bianchi, La disciplina delle società quotate nel testo Unico della Finanza, Milano, 1999, p. 55 ss.
148 Si veda sul tema, G. Bavetta, La crisi del gruppo bancario, in Il diritto della banca e della borsa. Studi, n. 23, Giuffrè, 1997.
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rando la presunzione prevista dalla legge civile per le stesse ragioni che impediscono
l’inclusione nel gruppo bancario; ragioni genericamente di vigilanza e di tutela della stabilità.
Una parte della dottrina, quindi, attenta alla circostanza che la figura del gruppo è presa
in considerazione dal Tub nell’ambito della vigilanza consolidata, afferma che tale potere è limitato alle esecuzioni emanate dalla Banca d’Italia “nell’interesse della stabilità
del gruppo” e, pertanto, tende a contenere i poteri della capogruppo all’attuazione delle
istruzioni di vigilanza149.
Sarebbe, d’altra parte, del tutto singolare che la capogruppo bancaria esercitasse nei
confronti di queste società, per legittimazione civilistica, gli stessi poteri che esercita nei
confronti delle altre controllate, invece comprese nel gruppo, eludendo così di fatto la
disposizione dell’art. 59 Tub.150
Il punto di maggiore rilevanza è, tuttavia, quello connesso all’applicabilità delle norme
del codice anche al gruppo bancario per quanto concerne, ad esempio, l’obbligo di
motivazione delle decisioni influenzate dalla capogruppo - come si vedrà più avanti - o
la disciplina del recesso, o quella relativa alla responsabilità della capogruppo, il tutto
con la possibile ulteriore complicazione legata all’ipotesi in cui la capogruppo sia una
banca cooperativa.
Tale applicazione deve, senza dubbio, tener conto della natura particolare di questo
gruppo e, come è ovvio, dei principi desumibili dalla disciplina specifica, la cui applicazione comporta una lettura specifica dell’art. 2497.
Vi sono inoltre le disposizioni in materia di pubblicità, previste dall’art. 2497 bis che si
cumuleranno con quelle previste dal Tub, con le diversità e gli adattamenti derivanti
dalle disposizioni specifiche per i bilanci bancari e con qualche interrogativo relativamente alle modalità di applicazione della previsione dell’ultimo comma, soprattutto
nella parte in cui fa obbligo agli amministratori della controllata di indicare i rapporti
intercorsi con la capogruppo e gli effetti che essi hanno avuto sull’esercizio e sui suoi
risultati151.
La fattispecie di responsabilità nella nozione di attività e
coordinamento
Il riconoscimento generalizzato di una lecita eterogestione delle società appartenenti al
gruppo rappresenta, forse, l’aspetto di maggior rilievo del novellato 2497, sul piano
sistematico, posto che sul piano dei suoi effetti pratici la norma non sembra apportare
rilevanti innovazioni rispetto alle posizioni sulle quali si era assestato il dibattito precedente alla riforma152.
La fattispecie dettata dall’art. 2497, e in particolare la condotta che oggettivamente
genera la responsabilità, è definita in due concetti fondamentali: l’esercizio del governo
del gruppo, definito come “attività di direzione e coordinamento di società”, ed il non
corretto bilanciamento degli interessi dei soggetti coinvolti nel gruppo, valutato nel
“risultato complessivo” dell’attività di governo153.
I dibattiti non hanno risparmiato la stessa nozione di gruppo, ossia il presupposto
primo della responsabilità, fra chi la identificava con la fattispecie del controllo, descritta nelle formule del 2359154, e chi ravvisava l’elemento qualificante nella c.d. direzione
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149 Ma non è questa l’interpretazione seguita dall’autorità di vigilanza; le istruzioni di vigilanza e i regolamenti di gruppo
adottati dalla massima parte dei gruppi bancari italiani considerano il gruppo bancario come un “gruppo integrato o strategico, che si caratterizza per il comune disegno imprenditoriale, per la forte coesione al proprio interno e per la sottoposizione a direzione unitaria”. Cfr. Istruzioni di vigilanza, titolo I, cap. 2, sez. I, n. 1.
150 Si veda, in argomento, anche M. Cera, Capogruppo bancaria e nuovo diritto societario. Prime valutazioni, in Dir. della
banca e del mercato fin., 2004, n. 2, p. 171 ss.
151 Sul tema, cfr. F. Capriglione, Applicabilità del nuovo diritto societario agli intermediari bancari e finanziari: problemi e
prospettive, cit., p. 48 ss.
152 Cfr. A. Badini-Confalonieri, Sub art. 2497 , in (diretto da) G. Cottino - G. Bonfante - O. Cagnasso - P. Montalenti, Il nuovo
diritto societario, Zanichelli, 2004, p. 2152 ss.
153 Sul punto, cfr. G. Cocco, I confini tra condotte lecite, bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice nelle relazioni economiche all’interno dei gruppi di società, in Riv. trim. dir. penale dell’econ., 2003, n. 3, 1021 ss.
154 Cfr. G. Scognamiglio, Gruppi di imprese e diritto delle società, Roma, 1986, p. 32 ss.; N. Rondinone, I gruppi di imprese
tra diritto comune e diritto speciale, Milano, 1999, p. 109 ss.
155 In argomento, si vedano, P. Abbadessa, I gruppi di società nel diritto italiano, Bologna, 1982, passim; P.G. Jaeger, La disciplina dei gruppi. Direzione unitaria di gruppo e responsabilità degli amministratori, in Riv. soc., 1985, p. 817.
unitaria, ossia nell’esercizio effettivo di un’attività gestoria di altre società, quantomeno
ai fini della responsabilità, quale possibile sorgente di abusi155.
Particolarmente dibattuti erano i presupposti normativi, nonché la natura dell’ipotizzata responsabilità della capogruppo e/o dei suoi amministratori.
Gli studi si incentravano sull’art. 2362, che nel testo ante riforma stabiliva la responsabilità illimitata dell’unico azionista156, in caso di insolvenza e per le obbligazioni sorte
nel periodo di unica appartenenza delle azioni157, e sull’art. 3, ult. co., della l. 3 aprile
1979, n. 95 (c.d. legge Prodi), disciplinante l’amministrazione straordinaria delle grandi
imprese in crisi, oggi trasposto nell’art. 90, d. lgs. n. 270/1999, che prevede la responsabilità degli amministratori della società controllante nei casi di abuso della direzione
unitaria della società controllata in amministrazione straordinaria158.
Una prima versione dell’art. 2497 prevedeva la possibilità di agire direttamente contro
“chiunque” violasse i principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale arrecando - per ciò che concerne i soci - “pregiudizio alla redditività ed al valore della partecipazione sociale” e - per quanto riguarda i creditori - la lesione “all’integrità del patrimonio della società”159.
La versione del testo definitivo, pur se circondata da mille polemiche160, invece, ha previsto che l’iniziativa giudiziaria possa essere intentata soltanto contro “la società o gli
enti” colpevoli della mala gestio ed, in ogni caso, che non vi è responsabilità se il risultato complessivo dell’attività di direzione e controllo sia stato positivo o il danno integralmente eliminato161.
La dottrina162 si è già chiesta - e toccherà alla giurisprudenza di legittimità, chiarire - se
trattasi di responsabilità contrattuale o – come sembrerebbe alla maggior parte degli
autori163 – extracontrattuale, con ovvie ed importanti conseguenze in tema, ad esempio,
di onere della prova e di termini di prescrizione.
Secondo questa prospettiva il principio del corretto bilanciamento degli interessi nella
gestione del gruppo si tradurrebbe in un dovere comportamentale o in un parametro di
condotta, la cui violazione qualifica come negligente ed antigiuridica l’attività della
capogruppo164.
Questa impostazione ha il vantaggio di stemperare la non perfetta coerenza fra l’art.
2497 e la legge delega e l’apertura verso una serie, apparentemente indefinita, di potenziali responsabili, qualificati solo dalla partecipazione alla condotta lesiva, pare più consona ad una fattispecie incentrata sull’antigiuridicità della condotta, piuttosto che sull’inadempimento di specifiche prescrizioni legali e preesistenti obblighi.
Un diverso orientamento interpretativo consentirebbe, invece, di attribuire alla norma
una maggiore portata innovativa, riconducendo alla stessa la previsione di veri e propri obblighi legali, in capo alle società ed agli enti che esercitano la direzione unitaria,
156 Cfr. sul punto, ampiamente, S. Scotti Camuzzi, L’unico azionista, in (diretto da) G. B. Colombo-G. B. Portale Tratt. delle
società per azioni, , vol. 2°, tomo II, Torino, 1991, p. 678 ss.
157 Analoga disposizione è ora dettata dagli artt. 2325, 2° co., per le s.p.a., e 2462, 2° co., per la s.r.l., semprechè l’unico socio
non abbia rispettato gli obblighi di integrale liberazione dei conferimenti e di pubblicità.
158 Tra le numerose opere sul tema, si vedano, senza pretesa di esaustività, R. Weigmann, Responsabilità e potere legittimo
degli amministratori, Torino, Giappichelli, 1974; V. Allegri, Contributo allo studio della responsabilità civile degli amministratori, Milano, Giuffrè, 1979; A. Borgioli, L’amministrazione delegata, cit.; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, cit.,
p. 323 ss.; Id., Gli amministratori di s.p.a. (dopo la riforma delle società), cit., p. 178 ss. ; G. Cabras, La responsabilità per l’amministrazione delle società di capitali, cit., 20 ss.; M. Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, cit., p. 270 ss.; G. Vicentini, Il regime di responsabilità dell’amministratore interessato alle operazioni sociali, Note per Paradigma (Milano, 29 maggio 2003).
159 Per un interessante confronto con la disciplina ante riforma, si veda M. Gallucci, La direzione e il coordinamento di società, in Il nuovo diritto societario, Fondazione Aristeia, p. 461 ss., consultabile anche al sito www.aristeia.it
160 Cfr., a riguardo, A. Bassi - A. Patroni Griffi, in ( a cura di) V. Buonocore, Manuale di Diritto Commerciale, Torino, 2003,
p. 663.
161 Il legislatore ha così voluto seguire la teoria dottrinale e giurisprudenziale, precedente alla riforma, dei cc.dd. “vantaggi
compensativi” che, per la valutazione del risultato dei gruppi di società, ritiene opportuno utilizzare un criterio che non si
fermi all’osservazione di un singolo atto o di una singola operazione (che possono, prima facie, apparire assolutamente dannosi per la società), ma che piuttosto tenga conto dei molteplici rapporti del gruppo e dei possibili vantaggi che una società può trarre dall’appartenenza al gruppo o ad altre operazioni, e che possono, appunto, compensare un pregiudizio precedentemente subito. Sul tema, cfr. L. Panzani, in Soc., n. 12, 2002, p. 1487.
162 Cfr. F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in (a cura di) F. Galgano, Trattato dir. comm. dir. pubbl. ec., XXIX, p.185; V.
Salafia, La responsabilità della holding nei confronti dei soci di minoranza delle controllate, cit.; R. Bernabai, Profili processuali delle azioni di responsabilità, in Soc., 2005, p. 215 ss.
163 V. la nota precedente.
164 In argomento, si veda, P. Ferro-Luzzi, Riflessioni sul gruppo (non creditizio), in Riv. dir. comm., 2001, I, p. 22 ss.
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nonché ai soggetti che vi prendono parte; obblighi che consisterebbero nel corretto perseguimento dell’interesse di gruppo, quale risultante dall’equo contemperamento degli
interessi delle società eterogestite165.
Trattandosi di violazioni di obbligazioni di fonte legale la responsabilità avrebbe natura
contrattuale secondo la disciplina degli artt. 1218 ss.166
Tale impostazione coglie, forse nel modo più appropriato, l’esigenza primaria della
disciplina del gruppo di imprese: se è vero che la responsabilità della capogruppo consente di rimediare al possibile scollamento tra la realtà economica, (unitarietà dell’impresa di gruppo), e quella giuridica (autonomia delle società), imputandone i risultati
all’artefice della gestione unitaria può sembrare coerente che tale responsabilità rappresenti una sorta di pendant di quella degli amministratori, avendo entrambe il comune presupposto dell’attività di gestione societaria167.
Ad analoghe conclusioni erano giunte parte della giurisprudenza e della dottrina anche
prima dell’introduzione dell’art. 2497168.
Il nostro ordinamento giuridico è, però, privo di previsioni che impongano agli amministratori della società controllata di conformarsi alle direttive della controllante, cosicché questa non avrebbe lo strumento per attuare il corretto contemperamento degli
interessi imposto dall’art. 2497; queste difficoltà, potranno essere superate configurando nell’obbligo in capo agli amministratori di esternare il rapporto di gruppo “un presupposto giuridico che rende lecita la soggezione” a tali direttive169 e rilevando che, il
carattere giuridicamente non vincolante delle direttive della controllante non ne impedisce l’operatività in concreto, nulla impedendo che l’ordinamento riconosca nel mero
esercizio di fatto della gestione del gruppo la fonte degli obblighi qui prospettati170.
165 Cfr. R. Rordorf, Il gruppo di imprese, in AA.VV., Il bilancio consolidato, Milano, 1993, p. 545, il quale suggerisce la natura contrattuale della responsabilità nei confronti dei soci in quanto “l’obbligo di correttezza a carico della holding è anche
specificamente diretto alla salvaguardia delle posizioni dei soci prospettandosi come un dovere di protezione a contenuto
definito: nel che sembra risiedere la natura contrattuale dell’obbligo e della conseguente eventuale responsabilità. Anche altri
autori hanno evidenziato la natura contrattuale della responsabilità: R. Sacchi, in Giur. comm., 2000, I, p. 366 ss.; B. Libonati,
Gruppi di società, Atti Conv. Venezia, 16-18 nov. 1995, p. 1506 ss. Più precisamente, si era posto in luce come, in capo alla
holding sussista un vero e proprio potere-dovere di esercitare la direzione unitaria e di sorvegliare la gestione delle società
controllate; potere- dovere, che se male esercitato ovvero non esercitato, può appunto determinare una responsabilità contrattuale nei confronti della società soggetta a suddetta amministrazione.
166 Qualche maggiore apertura si è registrata nella giurisprudenza di merito, che è giunta a configurare una responsabilità
di tipo contrattuale della controllante e dei suoi amministratori, in caso di esercizio sistematico della direzione unitaria, derivante dalla violazione dell’obbligo di corretto perseguimento dell’interesse di gruppo. Cfr., sul punto, Cass., 11 marzo 1996,
n. 2001, in Foro It., 1996, p. 1222; Cass., 5 dicembre 1998, n. 12325, in Foro it., 2000, n. 10 con nota di G. La Rocca: L’interesse
di gruppo nella recente giurisprudenza: “cause suffisante” e “cause raissonable” dei rapporti intragruppo. La sentenza n.
2001 del 1996 nega che si possa considerare donazione il trasferimento a titolo gratuito di risorse da una società ad un’altra
appartenente al medesimo gruppo, sulla base di una duplice argomentazione, articolata ai principi di inesistenza dello “spirito di liberalità” ( essendo questo assente quando la decisione di arricchire un terza sia stata assunta da una società su ispirazione della controllante ) e del depauperamento del presunto donante. Anche la sentenza n. 12325 del 5 dicembre 1998
esclude l’esistenza di una donazione con riferimento alla promessa di una società controllata di rilasciare una fideiussione
omnibus a favore della controllante a garanzia dei finanziamenti erogati a tutte le società del gruppo, difettando lo spirito di
liberalità.
167 In effetti alcuni commentatori hanno accolto l’introduzione dell’art. 2497 come l’indice di una nuova concezione del “rapporto sociale inteso, inteso in senso allargato alla realtà di gruppo”, cosicché appunto la responsabilità della capogruppo, in
quanto “basata sulla sussistenza di un dovere fiduciario dei soggetti responsabili”, avrebbe la stessa matrice di quella degli
amministratori, per violazione del rapporto contrattuale con la società. Fra questi M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma delle società di capitali fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, Intervento al Convegno di Alba, 23
novembre 2002, il quale prende anche a riferimento la prima versione dell’art. 2497, che prevedeva la legittimazione attiva
non solo dei soci e dei creditori, ma anche della stessa società eterogestita. Cosi anche R. Sacchi, Sulla responsabilità da direzione e coordinamento nella riforma delle società di capitali, in Giur. comm., 2003, I, p. 673.
168 Il menzionato orientamento sosteneva appunto in capo alla società controllante ed ai suoi amministratori l’esistenza di
“doveri connessi alla rilevanza del gruppo e all’esercizio della direzione unitaria” in modo stabile e non episodico; doveri che
consisterebbero nel corretto perseguimento dell’interesse di gruppo e nell’adeguato contemperamento degli interessi delle
società controllate, e la violazione dei quali configurerebbe una responsabilità contrattuale ex art. 1218: Trib. Milano 22 gennaio 2001, in Fall., 2001, p. 1143, con nota di G.M. Zamperetti, La responsabilità di amministratori e capogruppo per “abuso
di direzione unitaria”.
169 Si veda, A. Blandini, Più trasparenza nei rapporti di gruppo e legittimazione dell’attività di direzione, in Dir. prat. soc.,
2002, p. 217.
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170 Cfr. A. Badini-Confalonieri, Sub art. 2497 , in (diretto da) Cottino - Bonfante- Cagnasso- Montalenti, Il nuovo diritto societario, cit., p. 2177. Egli rafforza questo concetto introducendo l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza (Cass. 6
marzo 1999, n. 1925, e Cass. 14 settembre 1999, n. 9795, in Giur. comm., 2000, II, p. 167 con nota di N. Abriani, Dalle nebbie
della finzione al nitore della realtà, cit.), in tema di amministratore di fatto: orientamento che porta ad applicare le regole che
disciplinano l’attività degli amministratori anche a coloro che si sono sistematicamente ingeriti nella gestione della società
in mancanza di alcuna investitura.
Responsabilità della holding e dei suoi amministratori
La mancata osservanza dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale171,
e la derivazione del danno o della riduzione dell’integrità patrimoniale dalla predetta
condotta individuano i presupposti per l’azione di responsabilità172.
La legge non indica quali siano tali principi, né fornisce la loro nozione173: il primo tratto in comune dei due principi è quello generale della correttezza; il secondo è quello
della gestione, ovvero dell’amministrazione della società o dell’impresa.
Il legislatore ha in qualche modo voluto distinguere tra gestione della società e gestione dell’impresa, nell’intento di indirizzare le attività di direzione e coordinamento delle
holding non soltanto verso la corretta organizzazione dell’attività economica delle
società del gruppo, ma anche verso il fine dell’esercizio in comune dell’art. 2247, ovvero lo scopo di lucro.
La società del gruppo, infatti, resta comunque una società, lo scopo della quale è realizzare e dividere utili tra i soci; pertanto una società capogruppo non potrebbe praticare in una controllata una politica di pareggio del bilancio (o di economicità) per realizzare interessi di gruppo174.
Norme di corretta amministrazione sono menzionate nell’art. 2403175 per definire uno
dei compiti di vigilanza del collegio sindacale sugli amministratori176; nella disposizione qui in esame la regolarità della condotta, viene configurata come osservanza dei
principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale.
La diversità della formula per determinare la correttezza dell’azione degli amministratori della capogruppo rispetto a quella usata nell’art. 2403, con riferimento agli amministratori delle società per azioni in genere non dovrebbe implicare diversità di comportamento177.
L’amministrazione di una società si articola nella gestione dell’impresa attraverso le attività di relazione con tutti gli organi sociali, gli stimoli alle deliberazioni dei soci e le
informazioni che ad essi devono essere fornite.
Relativamente ai gruppi e con riferimento alla società capogruppo e all’attività dei suoi
amministratori, la regolarità della sua condotta nei confronti delle società controllate,
da essa dirette e coordinate, consisterà non solo nella validità delle istruzioni impartite
171 Cfr. M. Perassi, Gruppi societari e bancari. Brevi riflessioni sui progetti di riforma del diritto societario, cit., p. 14. Per assicurare il miglioramento della disciplina delle relazioni intragruppo, egli propone di individuare parametri di valutazione legislativamente fissati, cui rapportare i contenuti delle decisioni della società controllante. L’utilità del parametro sarebbe crescente se non si limitasse a richiamare i doveri di corretta gestione propri di ogni amministratore, ma le regole di correttezza e buona fede dedotte dal diritto delle obbligazioni, per valutare la correttezza dell’attività di direzione e coordinamento
della capogruppo. Ovvero si potrebbe individuare un criterio di massima, quale quello della teoria dei vantaggi compensativi, adattabile caso per caso alle singole situazioni concrete e già fatto proprio dalla giurisprudenza (Cass., 11 marzo 1996, n.
2001, in Foro it, 1996, p. 1222).
172 Cfr., in argomento, P.F. Censoni, La responsabilità per le attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, in Il
rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Atti del convegno di Lanciano, 9-10 maggio 2003, Giuffrè, Milano, 2004,
p. 233 ss.
173 L’individuazione di questi non è, infatti, esente da qualche vaghezza. La gestione societaria parrebbe riguardare essenzialmente il modo in cui la struttura della società è organizzata ed è messa in condizioni di funzionare; più problematico è
individuare un criterio di valutazione della corretta gestione imprenditoriale, laddove entrano in gioco le strategie di mercato per le quali è assai arduo tracciare il confine tra quel che attiene al rischio o al merito imprenditoriale, e quel che invece
rappresenta violazione di regole di correttezza rilevante sul piano giuridico. Cfr. R. Rordorf, I gruppi di imprese, cit., p. 538
ss.
174 Cfr. F. Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p.187. L’esistenza in capo agli amministratori di un dovere generale di perseguire l’interesse sociale, pur se largamente condivisa, era, prima della riforma, contestata da parte della dottrina che riconosceva la sussistenza del più limitato divieto di agire in conflitto di interessi, così A. Borgioli, L’amministrazione delegata,
Firenze, Nardini, 1982, p. 33; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in (diretto da) Colombo-Portale, Trattato delle
società per azioni, vol. IV, Torino, Utet, 1999, p. 324; G. Cabras, La responsabilità per l’amministrazione delle società di capitali, Torino, Utet, 2002, p. 15 ss.; M. Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, in (diretto da) F. Galgano, Trattato su Le società,
Torino, Utet, 2002, p. 278. In seguito alla riforma del diritto societario e, in particolare, alle modifiche introdotte in tema di
disciplina del conflitto di interessi, il dovere di fedeltà all’interesse sociale può ritenersi difficilmente riducibile al solo divieto di agire in conflitto di interessi. In proposito, si veda lo stesso F. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. (dopo la riforma delle
società), Milano, Giuffrè, 2004, p. 179.
175 Secondo l’art. 2403 il collegio sindacale deve vigilare sull’ osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione con particolare riferimento all’adeguatezza del sistema organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo funzionamento. Al riguardo, al collegio sindacale non compete un controllo di merito sull’opportunità e la convenienza delle scelte di gestione degli amministratori bensì l’approfondimento degli aspetti di legittimità delle scelte stesse, verificando la conformità di queste ai criteri di razionalità economica elaborati dalla scienza dell’economia aziendale.
176 Il termine correttezza è stato anche usato dal legislatore nell’art. 149, d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, (v. nota 39) secondo
cui, nelle società quotate, “il collegio sindacale vigila…sul rispetto dei principi di corretta amministrazione”.
177 Si veda, V. Salafia, La responsabilità della holding verso i soci di minoranza delle controllate, loc. cit.
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ma anche nell’individuazione dei punti di equilibrio fra l’interesse proprio e quello delle
controllate178.
I principi di “ sana ” gestione dell’impresa riguarderanno la preventiva raccolta delle
informazioni di mercato prima dell’avvio di nuove operazioni, la valutazione dell’entità
e della natura dei rischi connessi, le possibilità di finanziamento e previsione del rapporto fra rischi, costi e benefici immediati e futuri179.
L’eventuale condotta illecita della holding è condizione necessaria ma non sufficiente
perché i creditori ed i soci della controllata possano esperire nei suoi confronti azione
di responsabilità; perché ciò accada, infatti, il negligente comportamento della controllante deve ledere gli interessi patrimoniali e reddituali dei legittimati attivi.
A tal proposito occorre cercare di chiarire cosa deve intendersi come redditività e valorizzazione della partecipazione sociale, che nell’azione promossa dai soci di minoranza,
rappresenta il bene danneggiato dalla holding.
Diritti dei soci di minoranza
Ai principi di corretta amministrazione del gruppo si collegano i diritti dei soci delle
società controllate rispetto al pregiudizio alla redditività e al valore delle loro azioni,
nonché dei creditori sociali rispetto alla lesione al patrimonio sociale180.
Per quanto attiene ai diritti dei soci - ci si riferisce a soci con partecipazioni non di controllo, cioè ai soci di minoranza - il legislatore intende tutelare due diversi diritti: il
primo è quello della redditività, che consiste nella potenzialità redditizia della partecipazione181, tipico delle partecipazioni non strategiche, da iscrivere a bilancio nell’attivo circolante dello stato patrimoniale ai sensi dell’art. 2424, lett. c), n. 3182.
Si tratta qui dell’interesse dell’investitore, che acquista le azioni di una società per trarne due possibili utili: quello derivante dalla distribuzione degli utili e quello legato al
margine realizzato o realizzabile con la futura vendita dei titoli.
Essa, pertanto, rappresenta solo una potenzialità della partecipazione e non un attributo naturale.
Il secondo diritto del socio di minoranza è quello al valore della partecipazione sociale
che consiste nella sintesi degli incrementi possibili che il valore nominale della partecipazione potrà conseguire in conseguenza del positivo andamento della gestione sociale e dei risultati soddisfacenti ottenuti sui mercati183.
Questo diritto è tipico del socio imprenditore, che investe in una società non necessariamente per trarre un profitto diretto dall’investimento azionario, ma piuttosto per l’utilità che può averne a beneficio della sua impresa.
In questo caso la partecipazione azionaria va iscritta in bilancio nello stato patrimoniale, tra le immobilizzazioni finanziarie, ai sensi dell’art. 2424, lett. b), n. 3)184.
In molti casi partecipano a joint-venture di questo tipo società concorrenti, o potenzial-
178 Tale punto di equilibrio rappresenta la condizione nella quale convergano gli interessi di tutte le società coinvolte nelle
strategie imprenditoriali, con possibilità di soddisfazione, anche se di entità, scadenza e qualità differenti per ognuna di esse.
Sul punto, si veda, M. Miola, Società quotate, controlli esterni e gruppi di società, in Riv. dir. priv., 2005, n.1, p. 7 ss.
179 Più semplicemente, si tratta di sviluppare uno studio più approfondito della fattibilità di alcune operazioni, delle difficoltà e dell’esito sul mercato. Così, V. Salafia, La responsabilità della holding nei confronti dei soci di minoranza delle controllate, cit., p. 9.
180 Non è invece prevista alcuna tutela per i diritti dei soci e dei creditori “esterni” della capogruppo; su questo aspetti, cfr.
G.B. Portale, La riforma delle società di capitali e limiti di effettività del diritto nazionale, in Corr. giur., 2003, p.147.
181 Per lesione della redditività della partecipazione sembra doversi intendere l’impossibilità del socio di trarre dalla stessa
i vantaggi che le sono propri, con riferimento all’aspettativa di questo di conseguire gli utili che si realizzano attraverso lo
svolgimento dell’attività. Esempio di danno di questo tipo sembrerebbe essere la destinazione degli utili al di fuori della
società. Sul punto, cfr. M. Gallucci, La direzione e il coordinamento di società, cit., p. 469.
182 Cfr. G.E. Colombo, Bilancio d’esercizio e consolidato, in (diretto da), G.E. Colombo e G.B. Portale, Trattato delle s.p.a., VII,
I, Torino, 1994, p. 275.
183 Quanto al danno risarcibile per il pregiudizio arrecato al valore della partecipazione sociale, il riferimento è alla lesione
del valore reale della partecipazione, quale conseguenza di una diminuzione del valore del patrimonio netto. Esempio di questo tipo sembrerebbe essere la perdita del capitale sociale. Sul punto, M. Gallucci, La direzione e il coordinamento di società, loc., cit.; G. Guizzi, Partecipazioni qualificate e gruppi di società, in Diritto delle società di capitali, Giuffrè, 2003, p. 233 ss.;
M. Notari, Le società azionarie. Disposizioni generali della società per azioni. Conferimenti. Azioni, in AA. VV., ibidem, p. 57
ss.
66
184 Cfr. G.E. Colombo, Bilancio d’esercizio e consolidato , cit., p. 275.
mente concorrenti che decidono di venire a patti per profittare delle rispettive capacità
e competenze.
Spesso questi accordi possono essere paritetici, ma è anche possibile che uno dei soci
detenga una partecipazione di maggioranza, essendo più forte dal punto di vista finanziario o industriale.
In questi casi il socio di minoranza ha sicuramente interesse alla conservazione del
valore della partecipazione, realizzabile attraverso una proficua attività imprenditoriale.
Naturalmente, il pregiudizio che queste due qualità della partecipazione possono subire non può ritenersi verificato solo se quelle qualità non si trasformino da potenziali in
attuali185.
Infatti, la condizione negativa suddetta potrebbe essere configurata come pregiudizio,
derivante da illecita condotta altrui, solo se si dimostrasse che, in assenza del comportamento illecito, le qualità potenziali della partecipazione si sarebbero verificate.
Gli attori, dunque, per dimostrare il danno, di cui chiedono il risarcimento, dovranno
provare il positivo scenario economico alternativo a quello di fatto realizzato dagli
amministratori della società e dalla holding, elaborando strategie ed operazioni che, se
realizzate, avrebbero prodotto un incremento del valore della partecipazione186.
Inoltre, toccherà ai soci o ai creditori provare il nesso di causalità tra direzione unitaria
e pregiudizio allegato.
Specificità della direzione e coordinamento nei gruppi bancari:
la responsabilità della banca capogruppo
Non diversa sembra essere la portata dei termini “direzione e coordinamento” nella
legge speciale: sia il Tub che il Tuf impongono alla capogruppo di esercitare l’attività di
direzione e coordinamento in modo da emanare “disposizioni alle componenti del
gruppo per l’esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia; ciò che implica
un’ingerenza sistematica e non episodica nella gestione delle società controllate187.
L’art. 2497, ai fini della determinazione del soggetto responsabile per l’attività di direzione e coordinamento menziona società o enti (ma non le persone fisiche, lacuna questa, peraltro, criticata da molti), mentre l’art. 2497 sexies presume che questa attività
sia esercitata da chi controlla, ai sensi dall’art. 2359, aggiungendo poi, che le disposizioni del Capo in questione si applicano anche nel caso in cui l’attività di direzione e
coordinamento sia esercitata sulla base di un contratto con la società controllata188.
Una precisazione, questa, ritenuta del tutto superflua e finanche errata, dal momento
che il controllo da contratto è già previsto al n. 3 dell’art. 2359 e, inoltre, in questo caso
185 Cfr. V. Salafia, La responsabilità della holding nei confronti dei soci di minoranza delle controllate, cit., p. 11.
186 Sul tema, si veda, F. Vella, La società holding, Milano, 1993, p. 209 ss.
187 Cfr. in proposito, Calandra Buonaura, L’impresa e i gruppi bancari, in (diretto da) G. Cottino, Trattato di diritto commerciale, IV, La banca: l’impresa e i contratti, Padova, 2001, partic. p. 174, nel senso che “la norma in questione pare muovere
dal presupposto dell’esistenza, in capo alla capogruppo, di un generale potere di direzione e coordinamento delle società del
gruppo per rendere doveroso l’esercizio di tale potere per quanto riguarda la trasmissione e l’attuazione delle Istruzioni di
Vigilanza”, e p. 167, nel senso che tale presupposto viene condiviso dalle Istruzioni di Vigilanza emanate dalla Banca d’Italia,
che fanno riferimento ad un modello organizzativo “che si caratterizza per il comune disegno imprenditoriale……e per la sottoposizione a direzione unitaria”. In argomento si veda anche Sette, Dal gruppo di imprese all’impresa di gruppo, in Riv. dir.
civ., 1988, p. 267.
188 E’ stato autorevolmente sostenuto che da questa norma si possa evincere che nel nostro ordinamento siano consentiti
contratti che attribuiscono ad una società il potere di direzione e coordinamento su altre società, a prescindere dal fatto che
la stessa abbia il controllo - ai sensi dell’art. 2359 - sulle medesime. Si potrebbe riformulare la stessa conclusione asserendo
che la norma in parola rende legittimi nel nostro ordinamento i contratti di dominio, pur fissando le regole che la società
dominante deve osservare nell’esercizio dell’attività di direzione della società dominata e, in particolare, stabilendo che la
controllata non possa essere impunemente sfruttata. Così, R. Costi, Il gruppo bancario paritetico, in Riv. trim. credito coop.,
2003, n. 2, p. 205. Si veda anche “Regolamento del Gruppo Intesa” che va però ben oltre i termini di un controllo contrattuale, giacché sottopone le controllate ad una vera e propria subordinazione gerarchica rispetto alla capogruppo, giacché questa è abilitata ad emanare disposizioni “che le società del Gruppo bancario sono tenute ad osservare”. Questo Regolamento
evoca piuttosto il contratto di dominio previsto dal § 308 della legge azionaria tedesca, in forza del quale una società si assoggetta al dominio di un’altra. La legge tedesca muove dalla premessa che, stante la subordinazione di una società all’altra, le
decisioni riguardanti la società dominata, anche se eseguite dagli amministratori di questa, sono assunte dagli amministratori della dominante; sicché questi possono essere chiamati a rispondere dei danni cagionati alla società dominata con la violazione dei doveri di corretta gestione su di essi incombenti, e l’azione di responsabilità spetta sia alla società dominata, sia
ai creditori della società, ove questa non sia in grado di soddisfarli, sia in via surrogatoria dai suoi azionisti. In argomento, si
veda, F. Galgano, Il regolamento di gruppo nei gruppi bancari, in Banca borsa tit. cred., 2005, n. 1, p. 87 ss.
67
non potrebbe certo parlarsi di presunzione, poiché il controllo sarebbe l’oggetto stesso
di un contratto189.
L’art. 2497 sexies offre indicazioni importanti sulla nozione di direzione e coordinamento, che vanno certamente misurate rispetto alla parallela nozione utilizzata dalla legislazione bancaria ai fini dell’individuazione della capogruppo bancaria.
Poiché la legislazione bancaria definisce il gruppo bancario facendo riferimento, oltre
che alla direzione e al coordinamento, anche ad altri criteri – quali la sede e la forma
giuridica della capogruppo e le attività svolte dalle controllate rilevanti ai fini dell’inserimento del gruppo – anche assumendo che la nozione di direzione e coordinamento
sia la stessa, il perimetro del gruppo bancario necessariamente non coincide con il perimetro del gruppo societario generale, giacché da un lato capogruppo bancaria ben può
essere una società che, agli effetti civilistici, non è al vertice della catena partecipativa
ogniqualvolta la società di vertice non abbia la forma giuridica o la sede richiesta dalla
legislazione speciale per essere capogruppo bancaria, e, dall’altro lato, il carattere bancario del gruppo dipende, oltre che dalla sottoposizione delle società controllate alla
direzione e coordinamento della capogruppo, da condizioni inerenti alla quota di mercato nazionale detenute dalle banche controllate e dalla somma degli attivi di bilancio
delle banche e delle società di gruppo esercenti attività bancaria, finanziaria e strumentale del tutto estranei alla disciplina generale190.
Ciò detto, non si può non interrogarsi, ai fini di una esatta definizione dei parametri e
dei presupposti di applicazione della disciplina civilistica e bancaria sui gruppi, sulle
modalità di interferenza della nozione di direzione e coordinamento di cui agli artt. 2497
e ss. con quella di cui all’art. 61 Tub.
La questione si pone dal momento che, ai fini civilistici, ai sensi dell’art. 2467 sexies si
presume “fino a prova contraria” la direzione e il coordinamento in capo a chi controlla la società ai sensi dell’art. 2359 c.c.; circostanza, questa, che conferma che non vi è,
ai fini civilistici, un dovere di esercizio della direzione e coordinamento per chi controlli, e cioè che non necessariamente ogni controllante esercita direzione e coordinamento.191
E’ opportuno, a tal riguardo, evidenziare due aspetti; il primo è che la presunzione dettata dall’articolo in parola, è chiaramente qualificata come relativa, nonostante autorevoli indicazioni nel senso di renderla assoluta192, mentre pare assoluta la presunzione
di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento nel caso previsto dal seguente art.
2497 septies, ossia la fattispecie del c.d. gruppo di diritto193.
In sostanza, laddove il legame di gruppo sia formalizzato in atti negoziali, non sembra
esservi spazio per dimostrare che in concreto non viene esercitata l’attività di direzione
e coordinamento, e, quindi, per evitare l’applicazione di tutte le disposizioni che presuppongano tale esercizio, in primis quella sulla responsabilità; tale dimostrazione è, invece, ammessa nei casi di mero controllo, accogliendosi in tal modo una distinzione concettuale tradizionalmente accolta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza prevalenti,
189 Così S. Maccarone, Riforma delle società e banche, in La riforma del diritto societario e le banche, Nuovi modelli, nuovi
strumenti: opportunità e criticità, Bancaria ed., 2004, p. 66.
190 Si veda, sul tema, L.A. Bianchi, Informazione societaria e bilancio consolidato di gruppo, Milano, 1990, p. 218 ss.; G.E.
Colombo, Il bilancio di esercizio: strutture e valutazioni, 1985, p. 100 ss.; P. Biffis, Il bilancio delle banche e dei gruppi bancari: problemi aperti, Cedam, 1998.
191 La presunzione è semplice ed è suscettibile di essere vinta dalla c.d. “prova contraria”, per cui il socio controllante
potrebbe dimostrare di non aver mai partecipato all’attività di direzione e coordinamento su quella società partecipata. Inoltre
il riferimento al consolidamento del bilancio, per quanto permetta di presumere l’esercizio della direzione e del coordinamento non esclude la possibilità di provare che tale attività, in concreto, è mancata, né che – pure in mancanza dell’obbligo di
consolidamento – nel caso concreto essa sia stata svolta. Si veda, in argomento, A. Niutta, La novella del codice civile in
materia societaria:luci ed ombre della nuova disciplina sui gruppi di società ,in Rivista del diritto commerciale e del diritto
generale delle obbligazioni, 2003, n. 2, p. 384.
192 Così il parere del Parlamento, previsto dall’art. 1, 4 co., l. delega n. 366/2001: cfr. Commissioni riunite Giustizia e Finanze
della Camera, nella seduta del 12 dicembre 2002, punto 11, in Giust. It., 2003, suppl. “recentissime”, p. 39.
68
193 Il caso del legame di gruppo formalizzato in atti negoziali (contratti fra i partecipanti o statuti delle società eterodirette),
sembra operare come una sorta di pendant al caso del mero controllo previsto dall’art. 2497 sexies., al fine di agevolare l’applicabilità delle altre norme contenute nel Capo IX. In particolare, si detta qui una presunzione che pare assoluta, nel senso
che in presenza di legami negoziali aventi ad oggetto l’esercizio della direzione e coordinamento non pare ammessa la prova
contraria circa la sussistenza di questo presupposto; prova che, invece, è ammessa nel caso del mero controllo in virtù dell’espressa previsione dell’art. 2497 sexies. Cfr. A. Badini Gonfalonieri, Sub art. 2497 septies, in Il nuovo diritto societario, cit.
fra la situazione meramente potenziale - appunto il controllo - e quella di esercizio effettivo della direzione unitaria di gruppo194.
Il secondo aspetto da evidenziare è che la norma richiama la “matrice” della nozione di
controllo, ovvero la definizione dell’art. 2359 c.c., (immutata dopo la riforma), oltre alle
due ulteriori e specifiche ipotesi di controllo rilevanti ai fini del consolidamento contabile, previste dal d. lgs. 9 aprile 1991, n. 127: la presenza di clausole statutarie o parasociali che consentano di esercitare “un’influenza dominante” sull’altrui impresa195.
Diversamente, ai fini bancari, l’art. 61 Tub prevede al 1° co., che “capogruppo è la banca
o la società finanziaria con sede legale in Italia cui fa capo il controllo delle società componenti il gruppo bancario e che non sia, a sua volta, controllata da un’altra banca italiana o da un’altra società finanziaria con sede legale in Italia che possa essere considerata capogruppo” e al 4° co. che “la capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione
e coordinamento, emana disposizioni alle componenti del gruppo per l’esecuzione delle
istruzioni impartite dalla Banca d’Italia nell’interesse della stabilità del gruppo”.
Ciò sembra volere ricollegare, ai fini bancari, l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento al controllo come fatto coessenziale ad esso.
Si rileva l’attribuzione alla capogruppo di un effettivo potere di impartire formali istruzioni alle società componenti il gruppo, ma questo potere è doppiamente circoscritto:
sussiste solo in presenza di istruzioni della Banca d’Italia, da trasmettere alle componenti; e sussiste non per qualsiasi istruzione della Banca d’Italia, ma solo per quelle da
questa impartite nell’interesse della stabilità del gruppo.
La norma si inquadra nel più generale potere di vigilanza che, a norma degli artt. 51-69,
la Banca d’Italia esercita sulle banche e, secondo le più specifiche norme degli artt. 6569, sui gruppi bancari.
Ma l’art. 65, 4° co., contiene l’inciso “nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento”, e ciò ha sollevato il dubbio che la capogruppo bancaria disponga di un più
generale potere di impartire formali disposizioni alle componenti il gruppo, in ciò differenziandosi da ogni altro gruppo societario196.
Una prima lettura del combinato disposto dell’art. 2497 sexies c.c. e 61 Tub potrebbe,
dunque, essere interpretato nel senso che alla controllante di vertice, che presenti le
caratteristiche di cui all’art. 61 Tub, 1° co., la presunzione solo relativa di esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di cui all’art. 2497 sexies non si applica, essendo
derogata dal 4° co. dell’art. 61, il quale andrebbe letto come fondante una presunzione
assoluta di esercizio di direzione e coordinamento.
Conseguenza inevitabile, quindi, che nel contesto del gruppo bancario, la capogruppo
individuata in base alla nozione di controllo sarebbe tenuta all’esercizio della direzione
e del coordinamento sull’intera attività imprenditoriale e societaria di gruppo, di modo
che essa risponderebbe – ai sensi dell’art. 2497 ss. c.c. – non solo per comportamenti
194 Cfr. A. Irace, Sub art. 2497 sexies, cit., p. 348 secondo il quale la presunzione di cui alla norma in parola opera anche negli
altri casi di consolidamento contabile eventualmente previsti dalle leggi speciali. Taluno ha tuttavia ritenuto che la prospettiva del legislatore del 2497 ss. non sia affatto favorevole alla direzione unitaria e all’interesse di gruppo, ravvisandosi nelle
norme solo una finalità di fatto sanzionatoria o risarcitoria. Per quanto si possano comprendere tali dubbi e perplessità, con
riferimento al gruppo bancario quale tuttora delineato dalle istruzioni di vigilanza, pare obiettivamente arduo disconoscere
piena legittimità alla direzione unitaria e salvaguardare l’assoluta integrità ed esclusività dell’interesse sociale della singola
società: infatti come si è opportunamente evidenziato, nel gruppo bancario l’interesse di gruppo “assume oggettiva prevalenza, anche per la relazione con l’interesse più generale e di rilevanza pubblica alla tutela del risparmio”. Così S. Maccarone,
Riforma delle società e banche, in La riforma del diritto societario e le banche, Roma, 2004, p. 67.
195 Non vengono, invece, richiamate le ulteriori e varie fattispecie di controllo previste dalla legislazione speciale che del
resto costituiscono una sorta di “variazioni sul tema” delle formule dettate dall’art. 2359 c.c. Ricordiamo alcune fra le più
importanti: l’art. 98 Tuf che nel definire il controllo ai fini della disciplina degli emittenti strumenti finanziari ricalca sostanzialmente l’ipotesi del d. lgs. n. 127/1991; la disciplina antitrust (l. 10 ottobre 1990, n. 287), dove il controllo viene considerato come una delle possibili forme di attuazione delle operazioni di concentrazione, soggette alla regolamentazione
dell’Autorità, che integra la fattispecie dell’art. 2359, pur espressamente richiamata, con ulteriori ipotesi di “influenza determinante”; l’art. 23 Tub, ai fini della sottoposizione alla vigilanza della Banca d’Italia e l’art. 1 l. 5 agosto 1981, n. 416 dettano
una serie di casi nei quali è dato presumere l’esistenza del controllo, sotto forma di “influenza dominante”, fra i quali la presenza di sindacati di voto. A fronte di queste multiformi nozioni di controllo, la dottrina ha tentato di ravvisare un minimo
comune denominatore nella presenza di una situazione di influenza dominante o determinante, caratterizzata dal potere di
dirigere stabilmente un’attività d’impresa nel suo complesso, senza necessità di una effettiva eterodeterminazione della
volontà della controllata, che invece caratterizza la direzione unitaria. Cfr. amplius, M. Lamandini, Il « controllo », nozioni e
« tipo » nella legislazione economica, cit., p. 51 ss. In argomento, si veda anche L. Martino, Il problema dei controlli nelle
società e nei gruppi, in Il controllo nelle società e negli enti, 2004, vol. 8, n. 3, p. 375 ss.
196 Il dubbio è tuttavia fugato dalla letteratura specialistica. Cfr., per tutti, P. Ferro-Luzzi - P. Marchetti, Riflessioni sul gruppo
creditizio, in Giur. comm., 1994, p. 443, i quali notano come l’inciso in esame si riferisce ad un dato non già istituzionale, bensì
“del tutto naturale”, mentre il potere formale di direttiva riguarda “un’ipotesi assai particolare”, che “è legata all’esistenza
di presupposti specifici: le istruzioni di vigilanza; l’interesse alla stabilità del gruppo”.
69
commissivi sostanziatisi in influenze pregiudizievoli, ma anche per comportamenti
omissivi sostanziatisi in omesse influenze, ogniqualvolta, cioè, che il danno non si
sarebbe prodotto qualora la capogruppo avesse vigilato nell’esercizio dell’attività di
direzione e coordinamento imponendo direttive o ordini recanti le necessarie azioni correttive.
Una seconda lettura – che per quanto meno diretta dal punto di vista letterale, ma oggi
preferibile sotto il profilo sistematico e funzionale – è quella che attribuisce una valenza più limitata alla “presunzione assoluta” di cui al 4° co. dell’art. 61 e che, dunque, riconosce la possibilità di applicare anche alla capogruppo bancaria l’art. 2497 sexies, e la
presunzione solo relativa ivi prevista, con la sola doverosa esclusione dell’attività di
direzione e coordinamento strettamente necessaria e funzionale all’attuazione delle
istruzioni della Banca d’Italia da parte delle componenti del gruppo.
Una lettura, quest’ultima, che presenta da un lato il pregio di riconoscere al concetto di
direzione e coordinamento un carattere sufficientemente elastico da poter ricomprendere, accanto alle normali forme di governo integrato di gruppo, cui verosimilmente si
riferiva il legislatore dettando la norma dell’art. 2497 sexies, anche altre forme organizzative in cui si accentrano in capo alla capogruppo bancaria solo ed esclusivamente i
profili di stabilità del gruppo, (rilevanti ai fini della vigilanza), e non, invece, generalizzate funzioni di eterodeterminazione dell’intera attività sociale delle controllate197.
Dall’altro lato, vale a chiarire come la responsabilità da direzione e coordinamento, certamente esistente in capo alla capogruppo bancaria sia per fatti commissivi che per fatti
omissivi inerenti ai profili di stabilità del gruppo, non sussiste, viceversa, necessariamente per tutti gli altri fatti o atti della controllata qualora la struttura di gruppo prescelta enfatizzi l’autonomia gestionale delle singole componenti il gruppo.
Cosa che del resto obbedisce anche al principio di autonomia organizzativa fortemente
enfatizzato dalla riforma e vale ulteriormente a precisare, quanto alla presunzione relativa di cui all’art. 2497 sexies, che la “prova contraria” dell’esercizio della direzione e del
coordinamento può darsi non solo in assoluto, ma anche con riguardo a taluni settori
di attività o funzioni aziendali rimessi all’autonomia gestionale delle controllate198.
Tutela dei soci e dei creditori nel gruppo
L’esperienza giurisprudenziale e le indicazioni provenienti dal diritto comparato mostrano come uno dei fenomeni “patologici” più rilevanti in materia di gruppi sia rappresentato dal bisogno di tutela dei creditori delle controllate, in particolare nei casi di insolvenza di queste ultime; non a caso le legislazioni europee in materia di crisi d’impresa
si occupano frequentemente di questo fenomeno199.
L’esigenza di tutela nasce quando la direzione del gruppo sacrifica in modo non corretto gli interesse della società controllata, violando parimenti l’affidamento dei terzi (soci
e creditori della controllata) a che questa non sia piegata ad interessi extrasociali200.
Per ciò che concerne l’ambito del nostro discorso, occorre chiedersi se “lex specialis
posterior derogat generali”, ovvero se la tutela del socio e del creditore della società di
un gruppo bancario possa realizzarsi anche mediante l’utilizzazione della nuova disciplina introdotta dalla riforma del diritto delle società con gli articoli che vanno dal 2497
al 2497 septies201.
197 Cfr. G. Guizzi, Eterodirezione dell’attività sociale e responsabilità per mala gestio nel nuovo diritto dei gruppi, in Riv dir
comm., 2003, I, p. 550 ss.
198 Cfr. M. Lamandini, Gruppi societari e bancari, cit., p. 48 ss.
199 Su questi temi, cfr. R.M. Petriccione, Holding in diritto comparato, in Digesto IV ed., Sez. commerciale, Torino 1991,Vol.
VI, p. 472 ss. Di interesse anche R. Pardolesi – U. Patroni Griffi, I gruppi di società tra autonomia e “corporate governance”:
appunti di diritto comparato, in Foro. It., 1997, V, c. 6 e ss.
200 I primi commenti sulla legge delega erano concordi nel giudicare il suo silenzio in punto responsabilità come “la più
vistosa lacuna della nuova disciplina dei gruppi” posto che “il definitivo riconoscimento della titolarità in capo agli amministratori della holding dei un potere-dovere di influenza nella gestione delle singole società del gruppo dovrebbe…tradursi nel
riconoscimento di una loro responsabilità contrattuale per negligente esercizio della stessa”: N. Abriani, Gruppi di società e
criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, cit., p. 623; in tal senso anche P. Montalenti, Gruppi e
conflitto di interessi nella riforma del diritto societario, cit., p. 628, il quale indica come possibile modello la norma in tema
di amministrazione straordinaria.
70
201 Si veda, in tema, R. Costi, Il gruppo bancario paritetico: profili di diritto societario e bancario, cit., p. 200 ss.
In questo caso, però, non siamo dinanzi ad un’ipotesi di legge speciale successiva che,
in virtù del suddetto principio romanistico, consentirebbe di ritenere abrogata la legge
anteriore.
Si tratta, piuttosto, di ricercare una possibile convivenza o applicazione non necessariamente esclusiva tra le due normative (anzi, oltre al Tub ed al codice civile, sarebbe
opportuno verificare la concorrenza anche delle norme previste dal Tuf, la cui integrazione, come già detto, è stata oggetto del d. lgs. 37/2004).
In proposito, appare legittimo ritenere che nell’ordinamento giuridico di un’economia
aperta di mercato - quale è la nostra - le esigenze dei risparmiatori e degli investitori e
la precostituzione di sistemi di supervisione pubblica sui soggetti che intermediano il
risparmio, (cioè gli enti e le società sottoposte ai testi unici bancari e finanziari), non
comportano la sottrazione delle banche e degli intermediari alle regole di diritto comune (quali sono appunto quelle dettate dal codice civile e precedentemente esaminate),
se non nella misura strettamente necessaria a realizzare le medesime finalità di tutela202.
Allora, occorre chiedersi se la disciplina prevista dalla novella del codice civile in materia di gruppi di società possa ritenersi limitativa per i soci ed i creditori delle società
facenti parte del gruppo stesso, rispetto alla tutela loro accordata dalle disposizione
previste dalle normative settoriali, bancaria e finanziaria203.
Verosimilmente, sembra che consentire ai soci ed ai creditori di agire direttamente contro la società o l’ente che, per mala gestio, abbia loro arrecato pregiudizio e permettere, inoltre, a costoro di agire contro chi, comunque, abbia preso parte al fatto lesivo,
non rappresenti assolutamente una limitazione delle loro forme di tutela.
Al contrario, ci sembra di poter sostenere che la disciplina regolata dal Capo IX del libro
V, titolo V del codice civile consenta, proprio di meglio realizzare quelle finalità di tutela cui prima si è fatto cenno.
Ad esempio, il carattere di “disciplina comune e generale” della normativa codicistica
rappresenta certamente una forma di garanzia per i soci ed i creditori di quegli agglomerati societari che potrebbero non rientrare nel ristretto concetto di “gruppo bancario”, cui fa riferimento il Tub del 1993, quelli cioè la cui “bancarietà” è in discussione.
Inoltre, prima che si verifichino quelle gravi irregolarità o quelle perdite del patrimonio
di eccezionale gravità richieste dagli artt. 70 e 80 del Tub per l’apertura della “crisi” bancaria – con le conseguenti fasi dell’amministrazione controllata o della liquidazione
coatta amministrativa, a seconda della gravità della crisi – la protezione dei soci e dei
creditori del gruppo può essere realizzata proprio attraverso il ricorso alla menzionata
disciplina di carattere generale, che viene a porsi come una forma di tutela anticipata
(specie a favore dei piccoli risparmiatori che possono agire singolarmente) rispetto a
quella regolata con la disciplina settoriale la quale, spesso, avendo di mira l’interesse
pubblico e generale, sacrifica proprio l’interesse delle minoranze e dei piccoli creditori.
Vi è, inoltre, una ragione basata sul principio secondo cui il legislatore ubi voluit dixit a
giustificare l’applicazione della disciplina codicistica in tema di “direzione e coordinamento di società” ai gruppi bancari.
Infatti, l’ultimo comma dell’art. 70 del Tub, che si occupa del fenomeno della crisi bancaria ed al quale fa espresso riferimento l’art. 98 dello stesso testo, (che apre il Capo II,
dedicato proprio ai gruppi bancari), ha previsto espressamente l’inapplicabilità all’istituto, delle norme del titolo IV della legge fallimentare e dell’art. 2409 c.c., (in tema di
denunzia al tribunale di sospetti di violazioni dei loro doveri da parte degli amministratori di spa), dovendo ritenere, quindi, implicitamente applicabili, sulla base del predetto principio, tutte le altre norme inerenti, dettate dal codice civile e, quindi, anche quelle previste in tema di gruppi di società.
202 Cfr. D. Albamonte, Tub e nuovo diritto societario – Il d. lgs. n. 37/2204, in Mondo Bancario, marzo-giugno 2004.
203 Cfr,. sul tema, I. Capelli I, I crediti dei soci nei confronti delle società e il rimborso dei finanziamenti dei soci dopo la riforma, 2003, consultabile al sito www.eco.insubria.it
71
La motivazione obbligatoria delle decisioni nelle società soggette a direzione e coordinamento
La trasparenza dell’attività di direzione e coordinamento viene assicurata dalla norma
che impone l’obbligo di motivazione delle decisioni adottate dalla società soggetta ad
attività di direzione e coordinamento, quando da questa influenzate.
L’art. 2497 ter stabilisce, infatti, che tali decisioni devono essere analiticamente motivate e devono recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione abbia inciso sulla decisione204.
Una adeguata analiticità di tali motivazioni - che consenta di inserire la singola operazione nella più ampia dimensione di gruppo – potrà essere un valido strumento in sede
giudiziaria per escludere il danno e, quindi, la responsabilità alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione unitaria205.
La norma riflette una precisa indicazione del legislatore delegante, che richiedeva fosse
previsto che le decisioni conseguenti ad una valutazione dell’interesse del gruppo fossero motivate206.
Al riguardo il legislatore delegato osserva che, solo la conoscenza delle ragioni economiche ed imprenditoriali di un’operazione, possa consentire un giudizio sulla correttezza di questa, può, cioè, consentire di valutare se l’apparente diseconomicità di un atto,
isolatamente considerato, trovi giustificazione nel quadro generale dei costi e dei benefici derivanti dall’integrazione di un gruppo o meno.
L’obiettivo della trasparenza - strumentale all’accertamento della legittimità dell’attività
di direzione e coordinamento, cioè alla sua rispondenza ai principi di corretta gestione
societaria e imprenditoriale delle società controllate fissati dall’art. 2497207 - viene, pertanto, ulteriormente finalizzato ad un’operazione di esame oggettivo del risultato dell’attività di direzione e coordinamento, anche al fine di offrire parametri di valutazione
in ordine al danno eventualmente derivato dall’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento.
La società controllata, ogni volta che adotta una decisione, influenzata dall’attività di
direzione e coordinamento della controllante, deve sviscerare anche l’interesse di gruppo la cui valutazione abbia inciso sulla decisione208.
L’influenza della capogruppo, (o comunque degli organi decisionali interni al gruppo)
sulla decisione della società controllata, costituisce un requisito essenziale per l’applicabilità della disposizione in esame.
L’espressione “influenza della capogruppo” potrebbe intendersi in modo estensivo, sì
da comprendere qualsiasi situazione in cui una certa strategia di gruppo influisce su un
204 La disposizione soggiunge che di tali motivazioni viene dato adeguato conto nella relazione sulla gestione allegata al
bilancio. La motivazione deve essere “analitica”. Come per tutte le esplicazioni di ragioni che danno luogo ad un atto giuridico, essa deve avere riguardo sia alla “causa efficiente”, sia alla “causa finale” dell’atto. In altri termini, deve contenere
un’indicazione precisa dei dati di fatto accertati e dei presupposti (di fatto e/o di diritto) che hanno sorretto il processo decisionale, ma deve poi contenere una esauriente indicazione delle finalità imprenditoriali che rendono il dispositivo coerente
all’interesse sociale, seppure ampliato in una logica di gruppo. L’obbligo di motivazione analitica non esclude, tuttavia, la
legittimità di una motivazione per relationem, purchè il documento cui si fa riferimento sia a sua volta accessibile ai soggetti interessati all’oggetto della decisione di cui si tratta. Si vedano, in argomento, G. Fonderico, Il termine e il responsabile del
procedimento; la motivazione del provvedimento, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, p. 720; B.G. Mattarella, Il provvedimento, in
(a cura di) S. Cassese, Trattato di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2000, I, p. 769.
205 E lo stesso interesse di gruppo, dato dal perseguimento di interessi comuni alle società che ne fanno parte mediante
l’esercizio della direzione unitaria, è stato recentemente acquisito dalla giurisprudenza come criterio per valutare la sussistenza di un conflitto di interesse in capo agli amministratori o alle maggioranze assembleari delle società controllate, o ancora
la conformità di una data operazione all’oggetto sociale; criterio che imporrebbe un equilibrio fra l’onere derivante dall’operazione ed un vantaggio, anche se riflesso, per la società che la compie, secondo la nota teoria dei vantaggi compensativi. Si
veda, Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Giur. it., 1999, p. 2317 con nota di P. Montalenti, Operazioni intragruppo e vantaggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale, ove ulteriori riferimenti.
206 In tal senso l’art. 10, lett. b), L. 3 ottobre 2001, n. 366.
207 In argomento, si veda, D. Corapi, Pubblicità e trasparenza dell’attività di direzione e controllo di società, in Rass. giur. dell’energia elettrica, 2004, vol. 21, n. 4, p. 655 ss.
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208 Sull’argomento si veda L. Enriques, Vaghezza e furore. Ancora sul conflitto d’interessi nei gruppi di società in vista dell’attuazione della delega per la riforma del diritto societario, loc. cit. L’art. 10, co. 1, lett. a) chiarisce quali sono gli interessi da
contemperare: l’interesse del gruppo, quello delle società controllate e quello dei soci di minoranza delle società controllate.
Con questa regola, s’impone al legislatore delegato di riconoscere la liceità di operazioni dannose per le società controllate,
purché avvantaggino il gruppo nel suo complesso, dovendosi determinare, peraltro, i limiti entro i quali è possibile pregiudicare le società controllate. Il riferimento all’interesse di gruppo non può che essere relazionato ad operazioni che accrescano il benessere collettivo del gruppo, a prescindere dalla distribuzione del reddito tra le controllate. Cfr. M. Perassi, Gruppi
societari e bancari. Brevi riflessioni sui progetti di riforma del diritto societario, loc. cit.
certo atto di gestione; ma, se così fosse, si giungerebbe ad una insopportabile “amministrativizzazione” della gestione dell’impresa societaria.
E’, dunque, preferibile intendere l’espressione in modo limitato, con riferimento ai casi
in cui sussista una incidenza diretta dell’interesse di gruppo nel processo decisionale
della società controllata, tale da derivare quest’ultimo dalla logica prettamente “egoistica” che dovrebbe presiedere alle decisioni gestionali di un’impresa209.
In tale contesto, assume rilevanza definire in concreto quali siano le decisioni rispetto
alle quali si richiede un obbligo di motivazione.
L’obbligo di motivazione di cui all’art. 2497 ter, riguarda tutte le decisioni delle società
soggette ad attività di direzione e coordinamento; quindi, è esonerata da tale disposizione la holding, (il che manifesta scarsa sensibilità verso eventuali problemi di tutela
delle minoranze nell’ambito della capogruppo).
L’obbligo di motivazione sarebbe pertanto richiesto solo in rapporto alle decisioni in
relazione alle quali l’influenza dominante implichi un sacrificio per la società soggetta a
tale influenza.
L’oggetto della disposizione è, dunque, molto ampio, e comprende sia le deliberazioni
(assembleari e consiliari), sia atti collettivi di altro tipo, dei soci o degli amministratori
(o anche di altri organi), che possono aversi nelle s.r.l., nonché gli atti monocratici di
amministratori unici210;
Al riguardo si fa l’esempio delle decisioni aventi ad oggetto il trasferimento della sede
sociale all’estero, la fusione, gli aumenti o le riduzioni del capitale sociale, qualora tali
decisioni possano considerarsi effetto della posizione di soggezione, e, dunque, comportare un danno alla società controllata.
Non sono, tuttavia, esclusi dall’obbligo di motivazione gli atti a contenuto generale.
La precisazione non è ovvia, dal momento che all’interno dei gruppi possono essere di
non poco momento decisioni di carattere lato sensu regolamentare, che prevedono
l’adesione a modalità di cooperazione intragruppo, in cui future decisioni sono sostanzialmente delegate ad istanze esterne all’organo amministrativo delle società.
Sono, invece, da ritenere estranei all’obbligo di motivazione gli atti degli organi di
controllo, in quanto privi di incidenza diretta sui legittimi interessi dei soci.
Una stretta lettura della norma, dunque, potrebbe portare a ritenere che debbano essere motivate tutte le decisioni della controllata che possono considerarsi connesse con
l’appartenenza della società al gruppo, con la conseguenza che, anche le decisioni in
rapporto alle quali non sussista un interesse della società controllante e/o di altre società del gruppo in conflitto con l’interesse della società controllata, e quindi non potenzialmente dannose, dovrebbero essere motivate.
Si ritiene, dunque, che la norma in argomento debba essere letta nel contesto generale della disciplina in materia di gruppi; in tale contesto, si osserva, che al termine
“influenzate” non vada riconosciuto il minimale significato di decisioni prese in una
situazione di soggezione, ma piuttosto quello di decisioni al di fuori delle normali condizioni di mercato; esse, anche se potenzialmente, sono in conflitto d’interessi, e quindi, tali da potere determinare un danno per la controllata211.
Quanto all’obbligo di motivazione, si ritiene che questo sia correttamente assolto con
la chiara indicazione dei costi (danno) e dei benefici (vantaggi compensativi) che dall’operazione potranno derivare alla società controllata.
209 Cfr. A. Irace, Sub art. 2497, cit., p. 331, secondo cui la disposizione riguarda le situazioni in cui vi sia un conflitto d’interesse fra controllata e capogruppo e, quindi, le “decisioni al di fuori delle normali condizioni di mercato”.
210 Cfr. A. Irace, Sub art. 2497, loc. cit.
211 Cfr. A. Irace, Sub art. 2497, cit., p. 314 ss.
212 Il bilanciamento o “compensazione” dei reciproci interessi o vantaggi sembra indicare un criterio valutativo piuttosto
ampio ed elastico, non vincolato ad un immediato e rigidamente proporzionale indennizzo dell’eventuale pregiudizio. Ciò
deriva dai diversi orientamenti che erano maturati in dottrina nell’ambito della teoria dei vantaggi compensativi: fra chi ipotizzava un obbligo di equa redistribuzione del surplus derivante dall’operazione fra le società del gruppo, chi riteneva necessario un vero e proprio indennizzo a favore della società svantaggiata, e chi, invece, considerava sufficientemente “compensativi” benefici anche non immediati, ma ragionevolmente certi, ed in ambiti di attività anche diversi da quelli incisi dall’operazione imposta dalla capogruppo.
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Si ritiene, peraltro, che le operazioni più delicate, gli amministratori dovrebbero ricorrere ad esperti indipendenti al fine di quantificare il danno per la società, e correlativamente i vantaggi compensativi per la stessa212.
La necessità di dover indicare puntualmente gli interessi che giustificano l’adozione
della decisione, esclude che possa essere indicata la presenza ipotetica di vantaggi futuri per la società controllata, con la conseguenza che i benefici futuri dovranno essere
adeguatamente quantificati ed attualizzati, attraverso ad esempio, l’indicazione degli
impegni assunti a tale scopo dalla controllante213.
Per quanto riguarda la rilevanza dei vizi della motivazione, non c’è dubbio che essa rappresenti, in primo luogo, il necessario completamento del sistema di responsabilità previsto dall’art. 2497 c.c.
Qualsiasi deliberazione societaria incompatibile con il perseguimento del fine lucrativo,
cui l’organizzazione della società è funzionale, è da ritenersi, in linea di principio, viziata per non conformità alla legge. In quest’ottica i “principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale”, di cui parla l’art. 2497, 1° co., con riguardo ai gruppi, e così pure
l’indicazione della “redditività della partecipazione sociale” come bene giuridicamente
tutelato, debbano intendersi come disposizioni di principio non limitate all’impresa di
gruppo, ma operanti in tutto il diritto della società di capitali.
Ciò che caratterizza, però, l’impresa di gruppo, è la dimensione in cui va collocato l’interesse sociale della singola società appartenente al gruppo medesimo, alla luce del
principio della rilevanza del “risultato complessivo” dell’attività del gruppo.
Ciò spiega perché il legislatore, a costo di appesantire il processo decisionale interno e
di moltiplicare i rischi di invalidazione delle decisioni, abbia previsto l’obbligo generale
di motivazione per le decisioni interne delle controllate, quando l’interesse di gruppo
debba essere contemperato con l’interesse individuale della società capogruppo.
Sembra, tuttavia, difficilmente contestabile che i vizi della motivazione diano luogo ad
una causa di annullabilità delle decisioni per “non conformità alla legge”, ex artt. 2377,
2479 ter e 2388214.
Un problema sorge solo per le decisioni degli amministratori di s.r.l., per le quali manca
una disposizione generale sull’invalidità; tuttavia, almeno per le s.r.l. appartenenti a
gruppi, se non si vuole svuotare di gran parte del significato l’articolo in parola, si deve
ammettere un’applicazione analogica dell’art. 2388 c.c.215
Il contemperamento degli interessi come parametro di responsabilità
La valutazione dell’attività gestoria di gruppo nel suo “risultato complessivo”, richiama
indubbiamente la nota teoria dei “vantaggi compensativi”216; l’idea portante, sviluppata dalla dottrina e recentemente accolta dalla giurisprudenza proprio come canone di
valutazione delle attività di amministratori e società all’interno del gruppo, è quella per
cui la legittima attuazione di una politica di gruppo comporta la possibilità per la holding di imporre alle società controllate decisioni per esse svantaggiose ma vantaggiose per altre società del gruppo e, in ultima analisi, per il gruppo stesso, purché anche
alla controllata ritornino dei vantaggi dall’appartenenza al gruppo217.
213 Cfr. A. Irace, La riforma delle società, Le nuove leggi del diritto dell’economia, cit., p. 332, ove si fa l’esempio dei contratti conclusi a condizioni più favorevoli di quelle offerte dal mercato.
214 Cfr. M. Libertini, L’obbligo di motivazione delle decisioni delle società soggette all’attività di direzione e coordinamento,
Atti del Convegno: “La nuova disciplina dei gruppi nella riforma del diritto societario”, Milano 27-28 maggio 2003, Paradigma
2003.
215 In tal senso M. Libertini, L’obbligo di motivazione delle decisioni delle società soggette all’attività di direzione e coordinamento, cit., secondo il quale appare infondato il dubbio manifestato in proposito da A. Bassi, La disciplina dei gruppi, in
(a cura di) V. Buonocore, La riforma del diritto societario, Giappichelli, Torino, 2003, p. 207.
216 Cfr. L. Panzani, L’azione di responsabilità e il coinvolgimento del gruppo di imprese dopo la riforma, in Soc., 2002, p. 1487;
con riferimento al solo testo della legge delega, N. Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi, cit., p. 618; P. De Biasi,
Sull’attività di direzione e coordinamento di società, in Soc., 2003, p. 948.
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217 Trattasi, peraltro, dello stesso criterio recentemente utilizzato in relazione a profili di responsabilità penale degli amministratori. Il delitto di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c., in particolare, prevede che gli atti di disposizione dei beni
sociali, in danno della società e nell’interesse altrui, non sono puniti se l’interesse altrui (il profitto della società collegata o
del gruppo) sia compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo. Si veda, da ultimo, Badini Confalonieri–Ventura, sub art . 2497, in Il nuovo diritto societario, cit., p. 2152.
Riguardo la natura di tali vantaggi, in dottrina, non vi è assoluta concordanza di pareri.
Parte della dottrina218, infatti, sostiene che il vantaggio compensativo non vada inteso
in senso quantitativo e proporzionale al danno subito, ma che esso possa anche solo
essere ragionevolmente prevedibile, in una prospettiva temporale non necessariamente a breve termine e secondo un parametro non rigidamente proporzionale; ciò permetterebbe alla capogruppo di imporre alle controllate decisioni pregiudizievoli, purché
attuate nell’ambito di una coerente politica di gruppo dalla quale ragionevolmente
possa derivare ad esse un vantaggio da compensarsi ex ante al pregiudizio non in
senso rigidamente proporzionale o quantitativo, e che non siano sufficienti i generici
benefici derivanti dall’organizzazione di gruppo per compensare il pregiudizio arrecato
da un’operazione infragruppo219; così come sembra incongruo il riferimento al singolo
esercizio per delimitare temporalmente e quantificare il danno220.
Richiamando la riflessione dottrinale maturata in tema, la giurisprudenza ha sottolineato come l’autonomia soggettiva e patrimoniale, che caratterizza ogni singola società del
gruppo ed il dovere di fedeltà posto a carico degli amministratori, imponga agli stessi
di perseguire, in via prioritaria, l’interesse della specifica società cui sono preposti e non
consenta di sacrificare l’interesse della stessa in nome di un diverso interesse riconducibile al vertice del gruppo, privo di rilevanza per i soci di minoranza e per i terzi creditori della controllata221.
Tale circostanza non esclude, tuttavia, la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società.
Le operazioni poste in essere dagli amministratori, pertanto, non dovranno essere considerate singolarmente, ma nel contesto di strategie economiche e finanziarie più
ampie e alla luce di una visione generale: visione in cui, secondo la giurisprudenza, “si
abbia riguardo non soltanto all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un
determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza”.
Si è osservato, a tal proposito, che l’eterodeterminazione delle scelte gestionali di una
società genera possibili abusi degli schemi societari e, quindi, rende necessario un riequilibrio attraverso il meccanismo della responsabilità della società che esercita attività di direzione e coordinamento.
Pur non essendo possibile, in questa sede, svolgere una trattazione esauriente ed
approfondita del tema, va ricordato che l’interesse di gruppo, inteso come perseguimento di interessi comuni alle società che fanno parte dello stesso mediante l’esercizio
della direzione unitaria, è stato utilizzato in sede giurisprudenziale, già prima della rifor-
218 Sull’argomento cfr. N. Abriani - P. Montalenti - F. Mucciarelli, Una tavola rotonda sui vantaggi compensativi nei gruppi,
in Giur .comm.., 2002, I, p. 613 ss;
219 In altre parole, per escludere la illiceità delle operazioni imposte infragruppo occorrerebbe pur sempre l’esistenza di un
interesse, anche se indiretto e mediato, della società che si obbliga per la società capogruppo. Quest’ultimo criterio appare
essere stato adottato dal legislatore con riguardo alla fattispecie di infedeltà patrimoniale. Il nuovo art. 2634 introduce, infatti, una specifica previsione per le condotte realizzatesi all’interno del gruppo, ovvero che gli atti di disposizione dei beni sociali, in danno della società e nell’interesse altrui, non siano puniti se l’interesse altrui (“il profitto della società collegata o del
gruppo”) sia compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo. Dunque, valutare se un’operazione è “imprenditorialmente corretta” significa valutare l’interesse sociale non
solo con riferimento ad un’operazione isolatamente considerata, ma con riferimento al quadro generale di gruppo nel quale
si svolge l’impresa sociale. L’illecito penale è, dunque, ancorato ad una situazione di conflitto nella quale sia prevalso l’interesse extrasociale; tale conflitto, così come conseguentemente l’illiceità della condotta, è escluso in presenza di un bilanciamento dei vantaggi derivanti alla società dall’appartenenza al gruppo. Il requisito che elude l’ingiustizia del profitto è costituito dalla circostanza che il profitto stesso trovi compensazione in vantaggi conseguiti o fondatamente prevedibili derivanti
dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo della società in relazione alla quale l’atto dannoso di disposizione dei beni è
stato compiuto. Il profitto del quale si parla è, naturalmente, quello della collegata o del gruppo nel suo insieme, mentre certamente esulerebbe dall’ambito di operatività della presente scriminante un profitto destinato ad esaurirsi in capo ad un soggetto esterno al gruppo, sempre che esista un danno. Cfr. F. Mucciarelli, Il ruolo dei vantaggi compensativi nell’economia del
delitto d’infedeltà patrimoniale degli amministratori, in Giur. comm., I, 2002, p. 633, sostiene, con riferimento all’art. 2634,
che, trattandosi di vantaggi in alcuni casi già conseguiti, il riferimento possa riguardare anche utilità delle quali la sacrificata abbia goduto anche prima che fosse compiuto l’atto dannoso di disposizione dei beni; ad es. fruizione dei vantaggi legati
all’unica tesoreria, centralizzazione degli acquisti di beni e servizi ecc. Cfr. anche L. Pacciani, Infedeltà patrimoniale e conflitto d’interessi, in Atti del convegno di Torino, 4 ottobre 2002, pp. 78 e 81. Sul punto, si veda anche, A. Moro Visconti, I gruppi di società ed i reati societari, in Rass. Giur. Energia Elett., 2004, p. 694 ss.
220 Cfr. G. Cottino, Diritto Commerciale, I, t. 2°, Padova, 1994, p. 791, il quale ha subito evidenziato la necessità di verificare
caso per caso i vantaggi che, almeno in prospettiva, potevano derivare alla società controllata dall’osservanza, da parte dei
suoi amministratori delle direttive circa una data strategia di gruppo.
221 Così con efficace chiarezza N. Salanitro, Gli interessi degli amministratori nelle società di capitali, in Riv. soc., 2003, p. 51
ss. Cfr. anche, F. Bonelli, L’amministrazione delle s.p.a. nella riforma, in Giur. comm., 2003, I, p. 708 ss.
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ma societaria, come criterio per valutare la sussistenza di un conflitto di interessi in
capo agli amministratori o alle maggioranze assembleari delle società controllate, o la
conformità di una determinata operazione all’oggetto sociale222. Si tratta, pertanto, di
un criterio che impone un equilibrio fra l’onere derivante dall’operazione ed un vantaggio, almeno mediato e riflesso, per la società che la compie223.
Sebbene appaia al momento prematuro valutare l’impatto che la disciplina prevista nell’art. 2497c.c. determinerà in concreto, va segnalato che il criterio valutativo adottato è
stato da alcuni considerato troppo ampio ed elastico, tale da non assicurare un immediato e rigorosamente proporzionale indennizzo dell’eventuale pregiudizio224.
La giurisprudenza225, sottolinea che l’esistenza dei vantaggi compensativi non può
essere posta in termini meramente ipotetici, ma deve essere accertata in concreto, dal
momento che la mera appartenenza al gruppo non comporta, di per sé, l’esistenza di
vantaggi compensativi.
Tuttavia, non è la società che agisce contro il proprio amministratore a dover dimostrare l’inesistenza dei suddetti vantaggi compensativi, bensì è il convenuto che dovrà,
eventualmente, provare l’esistenza di benefici indiretti e mediati, nonché la relativa idoneità a neutralizzare e compensare integralmente il pregiudizio immediato derivante
dalla singola operazione compiuta226.
Tale orientamento, appare pienamente condivisibile e trova conferma in una serie di
precedenti giurisprudenziali, oltre che nella prevalente opinione dottrinale.
Non a caso, già nei primi commenti alla disciplina contenuta nella legge delega si riteneva che all’obbligo di motivazione, (poi enunciato nell’art. 2497bis), dovesse affiancarsi uno spostamento dell’onere della prova in ordine all’interesse di gruppo e al vantaggio compensativo, e che, pertanto, la relativa sussistenza nel caso concreto dovesse
essere dimostrata dal soggetto che avesse imposto e/o attuato l’operazione pregiudizievole227.
D’altra parte, se la suddetta dimostrazione fosse riferita all’attore, essa finirebbe per
risolversi in una prova negativa, come tale di dubbia configurabilità228.
222 Cfr. Trib. Milano, 22 gennaio 2001, in Fall., 2001, p. 1143 con nota di Zamperetti, La responsabilità di amministratori e
capogruppo per “abuso di direzione unitaria”; in quest’ottica la norma dell’art. 3 legge Prodi ed ora 90 d. lgs. n. 270/1999,
viene ritenuto espressione di quel principio generale.
223 Si veda, ad esempio, Cass. 5 dicembre 1998, n. 12325, in Giur. it., 1999, p. 2317, con nota di P. Montalenti, Operazioni
intragruppo e vantaggi compensativi: l’evoluzione giurisprudenziale, cit., secondo la quale “l’assenza di corrispettivo, se è
sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio
patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obiettivo, dato dal depauperamento di chi
ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione; ne consegue che, quando un atto viene posto in essere da una società
controllata, va esclusa la ricorrenza di una donazione e non è necessaria l’osservanza delle forme richieste dall’art. 782 c.c.
se l’operazione è stata posta in essere in adempimento di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale, mancando la libera scelta del donante; inoltre, al fine di verificare se l’operazione abbia comportato o meno per la società che l’ha posta in essere un depauperamento effettivo occorre
tener conto della complessiva situazione che, nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto”; Cass. 21 gennaio 1999, n. 521, in Soc. 1999, p. 428, secondo la quale “il gruppo di imprese deve configurarsi come un fenomeno in cui
ad un’impresa unitaria in senso economico corrispondono più società sul piano giuridico; in nome dell’interesse o logica di
gruppo non può, pertanto, essere sacrificato il patrimonio della singola società, ove questa non consegua, sia pure in via indiretta, un preciso vantaggio da un’altra operazione posta in essere secondo l’indirizzo economico unitario”. Si veda anche
Cass. 4 maggio 1991, n. 4927, in Giur. comm. 1991, II, 88 ss., secondo la quale ai fini dell’accertamento del pregiudizio l’operazione o la delibera deve essere valutata «non di per sé sola (quindi in astratto), ma in connessione ai suoi effetti, anche
potenziali, diretti o mediati sulla situazione della società e sui riflessi che la situazione modificata dalla delibera produca sulla
società.
224 In dottrina sono stati elaborati vari orientamenti, (obbligo di equa redistribuzione del surplus derivante dall’operazione
fra le società del gruppo; indennizzo a favore della società svantaggiata; benefici anche non immediati o relativi a settori di
attività diversi da quelli direttamente incisi dall’operazione imposta dalla capogruppo, ma ragionevolmente certi), sui quali
più diffusamente si veda G. Rossi, Relazione introduttiva alla tavola rotonda sui vantaggi compensativi nei gruppi, in Giur.
comm., 2002, I, p. 614. Per alcune riflessioni problematiche in materia di direzione e coordinamento, cfr. G. Scognamiglio, I
gruppi e la riforma del diritto societario: prime riflessioni, in Giur comm., 2003, n. 6, p. 21.
225 Cfr. Cass., 24 agosto 2004, n. 16707, in Giur. comm., n. 4, 2005, p. 405 ss., secondo la quale “non è sufficiente, al fine di
escludere corrispondentemente la responsabilità, la mera ipotesi della sussistenza di detti vantaggi, ma l’amministratore ha
l’onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità
a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta”.
226 Sul tema, si veda N. Abriani, Dalle nebbie della finzione al nitore della realtà: una svolta nella giurisprudenza civile in
tema di amministratore di fatto), in Giur. comm., 2000, II, p. 167.
227 Sul punto, cfr. N. Abriani, Gruppi di società e criterio dei vantaggi compensativi nella riforma del diritto societario, cit.,
p. 620, secondo il quale tale soluzione scaturisce dal principio di maggior vicinanza della prova (e della consapevolezza delle
strategie di gruppo) e dalla natura di scriminante del vantaggio compensativo rispetto alla responsabilità penale e civile.
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228 Così, Cass. 23 maggio 2001, n. 7027, in Foro it., 2001, I, c. 2504.
Vero è che la negatività dei fatti non esclude o inverte, di per sé, l’onere probatorio: il
giudice, tuttavia, può pur sempre ricorrere alle massime di esperienza per desumere la
dimostrazione dei fatti negativi laddove non sia dedotto il loro positivo avverarsi229.
Pertanto, l’allocazione in capo al convenuto dell’onere di provare i vantaggi compensativi idonei ad escludere la responsabilità, appare la soluzione più conforme al testo normativo, ai principi generali in tema di prova, nonché alla previsione dell’obbligo di
motivare l’esistenza dei vantaggi compensativi, con indicazione delle relative ragioni e
degli interessi coinvolti: obbligo che è previsto in capo agli amministratori della società controllata, ma pur sempre in relazione ad attività poste in essere in base alle direttive della capogruppo230.
229 Cfr. C. Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 1993, p. 151. Nel caso di specie, in particolare, il silenzio
dell’amministratore, (soggetto interessato a dedurre l’esistenza dei vantaggi compensativi), può essere considerato un elemento sufficiente a far ritenere i suddetti vantaggi inesistenti.
230 Cfr. G. Sbisà, La responsabilità della capogruppo, in Rass. giur. dell’energia elettrica, 2004, vol. 21, n. 4, p. 675 ss.
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Valeria Roncone*
La nuova finanza societaria e l’impatto sul rapporto bancaimpresa
Introduzione
La vita delle imprese è stata finora disciplinata dalle norme del Codice Civile del 1942 –
titolo V – integrate ed adeguate nel corso del tempo per tener conto dell’evoluzione dell’attività d’impresa. La disciplina del diritto societario in essa contenuta, tuttavia, ha
risentito negli ultimi anni di un impianto normativo concepito in un’epoca profondamente diversa da quella attuale ed il legislatore ha, quindi, ritenuto opportuno di emanare una nuova disciplina organica del diritto societario, più vicina alle esigenze delle
imprese ed alle caratteristiche del mercato, che sostituisse integralmente la precedente.
I principi del nuovo diritto societario sono contenuti nella Legge delega n. 366 del 3
ottobre 2001: tra gli obiettivi che questa si è proposta vi sono quello di consentire una
maggiore autonomia statutaria attraverso la fissazione di nuovi criteri per la corporate
governance e quello di agevolare l’accesso al mercato dei capitali ampliando la possibilità di emissione di strumenti finanziari per il reperimento sia di capitale proprio che
di capitale di debito231.
Con l’adozione del decreto legislativo del 17 gennaio 2003, n. 6 si realizza, dopo oltre 60
anni dalla promulgazione del Codice civile del 1942, la più significativa riforma del diritto societario italiano, sia pure circoscritta alle società di capitali. Si tratta di un intervento organico, con un forte impatto innovativo, diretto a soddisfare esigenze di crescita e
di internazionalizzazione delle nostre imprese mediante un quadro normativo che,
tenendo conto delle loro caratteristiche dimensionali, operative e proprietarie, ne favorisca lo sviluppo e la capacità concorrenziale.
La riforma è destinata ad avere un rilevante impatto sulla maggior parte dei settori economici, tra cui anche quello finanziario. Quest’ultimo, benché già disciplinato dalla
regolamentazione speciale rappresentata dal Testo Unico Bancario (T.U.B.) e finanziario
(T.U.F.)232, è direttamente investito dalle nuove norme in quanto la regolamentazione
speciale ha individuato nella forma societaria (per azioni) il modello istituzionale di riferimento per gli intermediari creditizi, mobiliari, assicurativi e per le società di gestione
dei mercati, ed indirettamente poiché il sistema finanziario viene coinvolto in quanto
gran parte degli strumenti finanziari negoziati sui mercati riguarda società di capitale e
cooperative e per giunta la Riforma ha ampliato notevolmente le possibilità di finanziamento delle imprese donando maggiore flessibilità e varietà di strumenti finanziari con
ovvie conseguenze sul rapporto tra il sistema bancario e quello societario.
* Ricercatore di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università degli Studi di Bari.
231 Gli obiettivi perseguiti dal legislatore delegato si identificano nella volontà di ampliare i canali di finanziamento dell’impresa organizzata in forma di società per azioni al fine di offrire fonti di finanziamento alternative o, quanto meno concorrenziali, con il credito bancario, anche a prescindere dall’eventualità di un ricorso diretto e immediato al mercato. Del resto l’entrata in vigore del Nuovo Accordo sul capitale dovrebbe indurre le imprese, soprattutto le Pmi a concentrarsi maggiormente sulla nuova struttura finanziaria. Infatti, è opportuno ricordare, che nella prospettiva dell’entrata in vigore dell’Accordo di
Basilea le imprese italiane dovranno focalizzarsi sul proprio stato economico-finanziario e sulla propria organizzazione al fine
di ottenere un rating tale da garantire non solo un accesso al credito bancario al minor costo possibile ma anche l’ottenimento di finanziamenti previsti dal nuovo diritto societario. Proprio in questo senso opera la riforma del diritto societario che mira
a dotare la società per azioni di una struttura finanziaria efficiente e concorrenziale rispetto a quelle offerte da altri ordinamenti europei. (Cfr., F. Metelli, Basilea 2. Che cosa cambia, Il Sole24Ore, Milano 2003, U. Tombari, “La nuova struttura finanziaria della società per azioni (corporate governance e categorie rappresentative del fenomeno societario)”, in Rivista delle
società n. 5, Giuffrè Editore, 2004.
232 La legge delega per la riforma del diritto societario ha attribuito al Governo la possibilità di emanare disposizioni correttive e integrative entro un anno dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi (art.1, comma 5, legge 3 ottobre 2001 n. 366). Tali disposizioni devono, in ogni caso, rispettare i principi e i criteri direttivi previsti dalla delega. In adesione a tale possibilità, è stato emanato il decreto legislativo 6 febbraio 2004 n. 37, recante correzioni ed integrazioni ai seguenti provvedimenti:
- Decreto Legislativo 17 gennaio 2003 n. 5, recante “Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art. 12 della legge 3 ottobre 2001 n. 366”;
- Decreto Legislativo 17 gennaio 2003 n. 6, recante “Riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative,
in attuazione della disciplina della legge 3 ottobre 2001 n. 366”.
Il decreto prevede, altresì, alcune modifiche a:
- Decreto Legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria);
- Decreto Legislativo 1° settembre 1993 n. 385 (Testo Unico Bancario).
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Il presente contributo si propone dapprima di fornire un quadro sintetico di alcune delle
novità della Riforma che sono state ritenute più significative per la finanza d’impresa,
trattando in particolare delle azioni e del finanziamento tramite emissione di prestiti
obbligazionari e delle operazioni di acquisizione attraverso l’indebitamento (c.d. leveraged buy out) e successivamente di analizzare i riflessi di tali innovazioni sull’operatività delle banche e più in generale sul rapporto banca-impresa.
L’innovazione nel finanziamento delle società
Il modello di finanziamento delle società previsto dal Codice Civile del 1942 era improntato al principio di tipicità delle società e all’esigenza di tutelare l’integrità del capitale
sociale. Tale modello, caratterizzato dall’esistenza di un limitato grado di autonomia dei
privati, vedeva il capitale di rischio, in primo luogo, fornito dai soci coinvolti nell’attività d’impresa (sotto forma di autofinanziamento) e secondariamente, in caso di insufficiente autofinanziamento, dal canale bancario233. Tale concezione non è riuscita a mantenere la propria solidità ed è entrata in crisi quando, all’incirca verso gli anni ’70, le
imprese italiane hanno subito la concorrenza di quelle estere che al contrario di quelle
nostrane godevano della possibilità di finanziarsi attraverso l’emissione di svariate tipologie di strumenti finanziari234. Ne è derivato, pertanto, un modello societario di finanziamento inadeguato a favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese,
nonché a stimolare l’accesso al mercato dei capitali nazionali ed internazionali.
Obiettivi, questi ultimi, che hanno rappresentato il principio ispiratore della Riforma235.
Per rispondere, quindi, alle mutate condizioni competitive delle imprese e da un esame
complessivo della Riforma, emerge che il legislatore ha voluto introdurre un’ampia
innovazione negli elementi di base del finanziamento delle società di capitali assicurando una maggiore centralità alle azioni come strumento di partecipazione all’iniziativa
imprenditoriale e facilitandone la circolazione; prevedendo agevolazioni in tema di
emissioni obbligazionarie; semplificando la disciplina societaria e donando maggiore
flessibilità gestionale grazie ai molteplici modelli di governo societario236 previsti.
In tema di emissione di strumenti finanziari delle società di capitali e cooperative, la
Riforma consente, dotando le imprese di una maggiore autonomia statutaria, un più
agevole ricorso al mercato dei capitali e un più ampio potere creativo degli operatori237
nell’ambito delle emissioni sia degli strumenti tipici (azioni e obbligazioni) che degli
strumenti atipici o ibridi, partecipativi e non238.
“In particolare una delle principali novità introdotte dalla Riforma è la maggiore attenzione alla possibilità di finanziamento delle attività d’impresa attraverso, da un parte, il
superamento della tradizionale suddivisione tra strumenti di debito e di capitale di
rischio, e dall’altra, la proposizione di strumenti finanziari non classificabili nelle categorie menzionate”.
Si assiste così ad un indubbio allargamento dei limiti legali e dei margini rimessi all’au-
233 “Il codice civile del 1942 aveva creato una disciplina che, con riferimento al sistema di finanziamento della spa (ed a maggiore ragione della srl), presupponeva come già acquisite le risorse finanziarie necessarie per il proficuo svolgimento dell’attività sociale, muovendo dall’idea che i mezzi di finanziamento venissero procurati direttamente dai soci interessati all’esercizio dell’impresa ovvero potessero essere procurati attraverso l’autofinanziamento e soprattutto il credito bancario. Non si
era considerato che la società per azioni poteva reperire i mezzi finanziari necessari presso soggetti non interessati a partecipare ad un’iniziativa economica comune, ma interessati esclusivamente ad un’operazione di investimento/finanziamento”.
(Cfr. U. Tombari, op.cit. pag 934).
234 I. Paci, Temi di finanza aziendale, FrancoAngeli Ed., Milano 2003. E’ da osservare, inoltre, che, per quanto attiene il finanziamento mediante lo strumento azionario, se era possibile creare categorie speciali di azioni, ossia una pluralità di forme di
partecipazione alla società e al capitale (art. 2348 c.c, comma 2), queste ultime sono state interpretate in modo restrittivo, nel
senso che sono state individuate, ed espressamente previste dal legislatore, categorie speciali di azioni assai limitate (azioni
privilegiate, di risparmio e a voto limitato). Il finanziamento mediante lo strumento obbligazionario, inoltre, era visto, nell’impianto codicistico del 1942, come un evento episodico e straordinario della vita sociale, come dimostrato dalla scelta dell’assemblea straordinaria quale organo competente all’emissione, dall’esistenza di rigidi limiti di emissione e dalla mancata previsione di tipi speciali di obbligazioni. (Cfr., U. Tombari, op.cit., pagg. 934 – 935).
235 Obiettivo prioritario della riforma del diritto societario è quello di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle
imprese, anche attraverso il loro accesso ai mercati interni ed internazionali dei capitali (art. 2, comma 1, lett. a, della legge
delega n. 366/2001); funzionale a tale obiettivo è anche l’ampliamento degli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto
delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti (art. 2, comma 1, lett. d, della legge delega n. 366/2001).
236 C. Rabitti Bedogni, “Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni”, in ABI atti del convegno La riforma del diritto societario e le banche, Roma, giugno 2003.
237 C. Rabitti Bedogni, op.cit.
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238 Cfr., A. Gambino, “Spunti di riflessione sulla riforma: l’autonomia statutaria e la risposta legislativa alla esigenze di finanziamento dell’impresa”, in Giurisprudenza Commerciale, pp. 641-654; M. Notari, “ I nuovi strumenti finanziari partecipativi
ed i titoli di debito: il nuovo quadro giuridico e gli aspetti applicativi”, intervento al Convegno “Strumenti finanziari tradizionali ed innovativi nella finanza d’impresa e nel nuovo diritto societario”, Paradigma, Milano, 15-16 maggio 2003.
tonomia privata con riguardo alle fattispecie note di azioni e obbligazioni. Con riguardo
alle prime, la riforma amplia il novero delle categorie di azioni che possono essere
emesse dalle società, “tipizzando” alcuni nuovi modelli con particolari diritti patrimoniali e amministrativi (ad es. le azioni correlate e le azioni senza diritto di voto o con
voto limitato a particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni). È inoltre stabilito che le società possono anche, con previsione statutaria, determinare il contenuto di nuove categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto
riguarda la incidenza delle perdite (art. 2348 c.c.). Al riguardo, si sottolinea come in
seguito alle innovazioni apportate dalla riforma, sia le azioni che le obbligazioni possono essere considerate titoli tipici dal contenuto atipico239.
Le innovazioni sulla disciplina delle azioni, il cui intento, come già anticipato, è quello
di agevolare l’accesso delle imprese al mercato, poggiano su alcuni principi base contenuti nella Legge delega n. 366/2001.
Il primo principio, che si riferisce alla costituzione dell’impresa, prevede la possibilità di
regolare i rapporti e le partecipazioni nella società su basi contrattuali derogando, quando ritenuto opportuno, il principio di proporzionalità rispetto al valore dei conferimenti. La disciplina generale prevista dalla Riforma, così come avveniva in precedenza, stabilisce che l’assegnazione delle azioni avvenga in proporzione ai conferimenti effettuati (art. 2346 c.c., comma 4)240. Tale disposizione può essere derogata qualora i soci si
accordino, menzionando nell’atto costitutivo, di procedere all’assegnazione delle azioni in misura non proporzionale ai conferimenti effettuati da ciascuno di essi241. Tale
opportunità consente di risolvere alcuni problemi organizzativi242 delle società quali il
riconoscimento, a uno o più soci, di capacità indispensabili per lo sviluppo dell’impresa identificando in tal modo l’assegnazione non proporzionale quale strumento di regolamentazione dei conferimenti imputabili a capitale243, o, in caso di costituzione di
società di scopo in cui qualcuno dei soci apporta beni e/o servizi di difficile quantificazione, è possibile, indipendentemente dall’apporto di ciascuno, stabilire quale sia l’ammontare delle partecipazioni sulla base di elementi contrattuali connessi al futuro svolgimento dell’attività d’impresa e non ai rapporti di forza finanziaria iniziali tra le parti.
Il secondo principio, che si riferisce alle azioni, prevede la possibilità di emettere tali
titoli senza valore nominale, di introdurre anche per i titoli non quotati in mercati regolamentati il regime di dematerializzazione (argomento non oggetto del presente lavoro)
e di consentire l’emissione di strumenti finanziari partecipativi e non dotati di differenti diritti patrimoniali ed amministrativi.
Secondo quanto disposto dal nuovo articolo 2346 c.c, comma 3, è possibile emettere
azioni senza indicazione del valore nominale, pur nel rispetto generale che tutte le azioni devono rappresentare la medesima porzione del capitale sociale. Pertanto, l’entità
della partecipazione di ogni socio è determinata dal rapporto tra il numero delle azioni
del socio e il numero complessivo delle azioni emesse. In realtà si tratta di azioni il cui
valore nominale rimane semplicemente inespresso, conti quando però ad esistere ed a
mantenere la stessa rilevanza che esso ha nelle azioni con valore nominale espresso. In
qualsiasi momento sarà possibile risalire al valore nominale dividendo l’ammontare del
capitale per il numero di azioni.
“La finalità dell’innovazione relativa al valore nominale appare di portata sostanziale
abbastanza limitata e risponde all’esigenza di semplificazione dell’attività sociale, poiché consente di non modificare il valore delle azioni in questione tutte le volte che il
239 C. Rabitti Bedogni, op. cit., pag. 109
240 “Il punto di partenza di qualsiasi ricostruzione sistematica della disciplina delle diverse categorie di azioni, nella vecchia
come nella nuova normativa, è costituito dal principio della parità di trattamento tra i soci. Si tratta di un principio comune
a tutte le società di capitali, che opera come limite ai poteri della maggioranza. La parità di trattamento non può essere intesa in senso assoluto. Essa infatti opera solo in caso di mancata previsione nell’atto costituivo di una diversificazione tra le
posizioni dei vari soci.” (Cfr., F. Magliulo, Le categorie di azioni e strumenti finanziari nella nuova Spa, IPSOA ED., 2004, pag.
1 e segg.)
241 La possibilità di assegnare azioni in misura non proporzionale al conferimento è in qualche modo legata al principio della
parità di trattamento tra i soci. Infatti, l’art. 2346 comma 4 c.c. comporta una deroga al principio di parità di trattamento tra i
soci. (Cfr., F. Magliulo, op. cit. e V. Santoro, Commento art. 2346, in “La riforma delle società”, a cura di M. Sandulli e V.
Santoro, Torino, 2003, vol. 2/I, pag. 129).
242 Cfr. I Paci, op. cit., pag. 130.
243 “E’ agevole infatti prevedere che una delle ipotesi in cui potrà risultare economicamente giustificata una ripartizione delle
azioni tra i soci in misura diversa da quella che risulterebbe sulla base di un criterio di proporzionalità con il valore dei loro
conferimenti sarà quella in cui un socio apporta alla società elementi utili per la sua attività, ma non corrispondenti ai requisiti richiesti per la loro imputazione al capitale” (Cfr. F. Magliulo, op. cit., pag. 10).
81
capitale sociale si modifica”244. Risultano anche svincolate le operazioni del capitale da
quelle sulle azioni e viceversa245.
Proseguendo nell’analisi delle novità in materia di azioni e all’allargamento dei confini
dell’istituto della partecipazione azionaria, in ossequio alla autonomia statutaria, è previsto il potere di creare liberamente il contenuto di varie categorie (atipiche)246 di azioni (2348 c.c., comma 2)247, anche se ciò, come alcuni studiosi sottolineano248, potrà provocare non poca confusione e disorientamento negli investitori, rendendo maggiormente difficoltosa la negoziazione di tali titoli sul mercato249.
Tra le nuove categorie di azioni previste dalla normativa si possono menzionare le azioni postergate nelle perdite250 disciplinate dall’art. 2348 c.c. comma 2251 Queste prevedono, per l’azionista che le possiede, la subordinazione alle eventuali perdite della società e sono pertanto viste con favore in caso di operazioni di ristrutturazione aziendali252
o per investitori particolarmente avversi al rischio.
Le azioni correlate, disciplinate dall’art. 2350 c.c., comma 2 e 3, attribuiscono diritti
patrimoniali correlati ai risultati di una determinata attività specializzata in uno specifico settore o ramo d’azienda. Tali azioni possono essere anch’esse viste con particolare
interesse soprattutto da parte del management dell’impresa poiché consentono alla
società di accrescere le dotazioni di rischio a propria disposizione per finanziare specifiche attività e alla compagine sociale di mantenere il controllo della società, limitando
il diritto di voto dei terzi agli argomenti specifici relativi al settore di appartenenza.
Le azioni prive del diritto di voto o con diritto di voto limitato253 – c.d. azioni di risparmio - (art. 2351 c.c., comma 2) potrebbero soddisfare le esigenze di una particolare
categoria di azionisti interessati ai diritti patrimoniali piuttosto che a quelli amministrativi254.
Le azioni riscattabili (art. 2347 sexies c.c.) sono, invece, titoli che possono essere riscattati dalla società emittente. Tali azioni sono particolarmente indicate per quei soggetti
244 Cfr., C. Rabitti Bedogni, op.cit., pag. 110
245 Restano, infatti, prive di incidenza sulle azioni e quindi sugli equilibri degli azionisti tutte le operazioni di riclassificazione delle voci di patrimonio netto, il passaggio di riserve a capitale, la riduzione del capitale per perdite od esuberanza . Anche
le operazioni sulle azioni, quali il frazionamento e il raggruppamento, non avrebbero incidenza sul capitale. Cfr., G. Figà
Talamanca, Le azioni senza valore nominale, Relazione al Convegno Paradigma 2001.
246 Una novità di rilievo della Riforma è il principio dell’atipicità delle azioni. La riforma, infatti, interviene stabilendo un regime di tipicità formale e atipicità sostanziale per le speciali categorie di azioni (art. 2348 c.c., comma 2). La regola generale
secondo cui tutte le azioni sono dotate di uguali diritti, vale soltanto all’interno di ciascuna categoria di azioni (art. 2348 c.c.,
comma 3). Secondo la nuova normativa, è possibile creare azioni fornite di diritti diversi che incidono sulla valorizzazione di
mercato dello strumento finanziario. Se i soci vogliono avvalersi di tale opportunità devono prevederlo in sede costitutiva
inserendo una clausola nello statuto o modificare lo stesso successivamente.
Si sottolinea inoltre che le varie categorie di azioni previste non rappresentano delle fattispecie predefinite. Esse sono infatti a contenuto variabile a seconda delle combinazioni ritenute più opportune dai soci e inserite nello statuto. Tali disposizioni, profondamente innovatrici rispetto al passato, qualora dovessero essere accolte favorevolmente dalle imprese consentirebbero di superare i consolidati problemi delle imprese italiane caratterizzate da elevata sottocapitalizzazione e dipendenza
dall’indebitamenti bancario a breve termine.
247 “Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni di diritti diversi
anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente
determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie”. (art. 2348 c.c., comma 2)
248 L’affidamento all’autonomia statutaria della possibilità di emettere strumenti finanziari variamente configurati e la ridotta tipizzazione anche delle tradizionali figure delle azioni e obbligazioni rischiano di creare un panorama talmente vario e
diversificato da disorientare l’investitore. In proposito cfr. M. Sepe, “Nuovo diritto societario e partecipazione al capitale delle
banche”, in F. Capriglione (a cura di), Nuovo diritto societario ed intermediazione bancaria e finanziaria, Cedam 2003, pag.
106.
249 L’aumento della gamma dei titoli negoziabili comporta la frammentazione degli scambi e, in assenza di un’attenta regolamentazione, potrebbe determinare una minore efficienza del sistema mercato e un indebolimento del sistema di tutela degli
investitori. La parcellizzazione degli strumenti di finanziamento, in altre parole, potrebbe portare alla creazione di segmenti
di mercato di titoli sottili in cui al ridotto volume di scambi può corrispondere una difficoltà di formazione di un prezzo efficiente dello strumento quotato.
250 Cfr. Relazione Ministeriale al decreto legislativo n. 6 del 2003 recante riforma organica della disciplina delle società di
capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366, § 4.2.
251 Tali azioni rientrano nella più ampia categoria di azioni privilegiate cui è attribuito un diritto di voto limitato alle sole
assemblee straordinarie compensato da vantaggi patrimoniali consistenti in una preferenza, rispetto alle azioni ordinarie,
nella ripartizione degli utili e nel rimborso del capitale all’atto dello scioglimento della società.
252 Si tratta, come precisato nella relazione ministeriale, di uno “strumento spesso utile ed a volte indispensabile per il finanziamento dell’impresa sociale, specialmente nell’ambito di processi di ristrutturazione e tentativi di superamento delle crisi.”
(Cfr. Relazione Ministeriale, § 4.2)
253 La legge oggi consente anche nelle società non quotate che “lo statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative il cui valore complessivo, tuttavia, non può superare la metà del capitale sociale” (art.
2351 c.c, comma 1).
82
254 A tal proposito si sottolinea il venire meno, grazie alla Riforma del diritto societario, della necessaria correlazione tra limitazione del diritto di voto e riconoscimento di privilegi patrimoniali secondo quanto previsto dal vecchio art. 2351 c.c.
che sono interessati ad essere presenti nella governance dell’impresa per un periodo
determinato di tempo255.
Le azioni emesse in occasione dell’assegnazione di utili ai dipendenti (art. 2349 c.c.,
comma1), emesse in presenza di una esplicita previsione statutaria256, possono consentire alla società di migliorare la propria struttura finanziaria mantenendo al proprio
interno le risorse finanziarie e rinsaldando il legame con i propri dipendenti ottenendo
da loro maggiore efficienza.
Interessanti e particolarmente innovative sono le nuove norme della Riforma in materia di emissione di titoli obbligazionari (artt. 2410-2420 ter c.c.) volte a favorire l’utilizzo
di questa forma di indebitamento da parte delle imprese.
In ambito obbligazionario, la cui intera disciplina risulta caratterizzata da un notevole
ricorso all’autonomia statutaria (in conformità con quanto richiesto dall’art.4, quinto
comma L. 366/2001, in merito all’attenuazione o alla rimozione dei limiti di emissione
delle obbligazioni ed alla possibilità concessa all’autonomia statutaria di determinare
l’organo competente e le relative procedure deliberative) le linee direttrici sulle quali si
è mosso il legislatore attengono, in primo luogo, alla maggiore flessibilità della procedura di emissione dei titoli (art. 2410 c.c.) da parte delle Spa257, individuando quale
nuovo organo competente per la delibera non più l’assemblea straordinaria, così come
avveniva in passato e che comunque mantiene la competenza per l’emissione di obbligazioni convertibili (art. 2420 bis c.c.), bensì gli amministratori258 qualora lo statuto e la
legge non dispongano diversamente.
Un secondo elemento di novità è riscontrabile nei nuovi limiti quantitativi all’emissione. L’art. 2410, comma 1 c.c. prevedeva che le Spa potessero emettere obbligazioni nei
limiti del capitale versato ed esistente secondo l’ultimo bilancio approvato. Le nuove
regole sull’emissione (art. 2412 c.c., comma 1) prevedono un notevole innalzamento dei
limiti all’emissione stessa: si stabilisce, infatti, che il prestito obbligazionario non può
superare il doppio del capitale sociale maggiorato della riserva legale e delle riserve
disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato. Questo limite può essere superato,
sia dalle Spa quotate, per le obbligazioni destinate alla quotazione (art. 2412 c.c.,
comma 4), sia dalle società non quotate, se le obbligazioni emesse in eccedenza sono
sottoscritte da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale259 che, in caso
di successivo trasferimento a soggetti che non siano investitori professionali260, sono
obbligati a garantire l’intero investimento, salvo l’ipotesi in cui i titoli siano ceduti ad un
altro investitore professionale o ad un socio della società emittente. Soltanto in que-
255 Nella precedente normativa la fattispecie del riscatto delle azioni proprie era prevista dalla disciplina codicistica all’art.
2357 bis n.1 c.c, unicamente nell’ipotesi del riscatto finalizzato alla riduzione del capitale sociale per esuberanza.
256 Anche per tale tipologia di azioni, per la cui emissione è necessaria una delibera straordinaria dei soci aventi ad oggetto l’aumento gratuito del capitale sociale, il diritto di voto nell’assemblea della società può essere limitato o escluso.
257 Tra le novità strutturali della Riforma vi è anche quella prevista dal nuovo art. 2483 c.c. in materia di emissione di titoli
di debito da parte delle srl Sinora vincoli normativi (art. 2486 codice previgente) hanno impedito, a quest’ultime, il finanziamento, in forma cartolare, mediante il ricorso a capitali di terzi, che di fatto potesse portare alla creazione di un mercato
secondario (esse di fatto potevano finanziarsi facendo ricorso al credito bancario o emettendo cambiali finanziarie o certificati di investimento). Tale divieto aveva fatto si che le srl si configurassero quale modello di società a carattere privato dipendente, da un punto di vista finanziario, dalla disponibilità dei soci partecipanti e dal credito bancario. Il rinnovato art. 2483
c.c. permette alle srl di superare una delle differenze che ne avevano caratterizzato la disciplina rispetto alle spa. Tuttavia,
l’emissione è condizionata dalla previsione statutaria preventiva all’emissione stessa, dalla incorporazione nel titolo di debito di un diritto alla restituzione, dato che, secondo quanto previsto dell’art. 2483 primo comma, il legislatore non ha tipizzato il contenuto dei titoli di debito i quali, quindi, potrebbero non essere coincidenti con i titoli di massa obbligazionari. L’atto
costitutivo, infine, deve prevedere se la competenza dell’emissione di tali titoli spetti all’assemblea dei soci o all’organo
amministrativo. In ultimo, il secondo comma dell’art. 2483 richiede che condizione essenziale dell’emissione sia la completa sottoscrizione dei titoli emessi non da qualsiasi risparmiatore ma da investitori professionali sottoposti a vigilanza prudenziale. (Cfr., G. La Scala, “La capitalizzazione della nuova srl mediante l’emissione di titoli di debito, in P. Pogliaghi, W. Vandali,
C. Meglio (a cura di), Basilea 2, Ias e nuovo diritto societario, Bancaria Ed., 2004). La ratio di tale disposizione , di carattere
imperativo, va ricercata sia nella esigenza di rendere praticabile ed utile per la srl il ricorso a tale forma di finanziamento, sia
nell’esigenza di garantire la necessaria salvaguardia degli interessi dei risparmiatori. Se da un lato l’emissione di titoli di debito amplia le possibilità per le srl di ricorrere al capitale di terzi, dall’altro non si può non evidenziare che la nuova normativa
non incentiva il ricorso a tale forma di indebitamento, subordinando l’operazione, oltre che alla espressa previsione contenuta nel contratto sociale, anche alla disponibilità da parte di un intermediario qualificato a sottoscrivere i titoli e a garantirne interamente il valore in caso di successiva circolazione degli stessi salvo l’eccezione sopra indicata.
258 Viene ampliata la liberta di raccolta mediante obbligazioni, affidando in via ordinaria la competenza agli amministratori,
che consolidano in tal modo il loro potere decisionale in ordine al reperimento dei mezzi finanziari.
259 I soggetti definiti investitori professionali ai sensi dell’art. 31 del Reg. 11522/1998, che possono essere ritenuti sottoposti
a vigilanza prudenziale sono gli intermediari autorizzati (banche, sim, sgr), i fondi pensione, le imprese assicurative, i soggetti esteri che svolgano in forza della normativa in vigore nel proprio Stato di origine le attività svolte dai soggetti i cui sopra
e le fondazioni bancarie.
260 “Questo aspetto introduce una importante innovazione che potrebbe favorire l’avvicinamento dei risparmiatori alle obbligazioni corporate. Questo meccanismo consente, da un lato, ai piccoli investitori di investire in obbligazioni societarie limitando fortemente il loro livello di rischio, e dall’altra favorisce il collocamento di emissioni obbligazionarie da parte di imprese anche nel caso in cui queste siano unrated”. (I. Paci., op. cit., pag. 135).
83
st’ultima circostanza, infatti, la garanzia è esclusa e il rischio ricade, conseguentemente, sull’investitore qualificato o sui soci che abbiano acquistato i titoli. In questo caso
sono previsti nuovi meccanismi di garanzia per i sottoscrittori. In particolare le obbligazioni devono essere garantite da ipoteca di primo grado sugli immobili della società
emittente fino a due terzi del valore degli stessi (art. 2412, c.c., comma 3) se i titoli sono
emessi da società quotate in mercati regolamentati e vengono anch’essi quotati.
Accanto alle obbligazioni ordinarie e convertibili, già disciplinate dalla disciplina previdente, con la riforma del diritto societario è altresì prevista l’emissione di: obbligazioni
postergate o prestiti subordinati (art. 2411, c.c., comma 1) e obbligazioni strutturate,
obbligazioni indicizzate all’andamento di parametri oggettivi, ma anche a relativi all’andamento economico della società (art. 2411 c.c., comma 2). Accanto alle obbligazioni
sono menzionati gli “strumenti finanziari comunque denominati” (art. 2411 c.c., comma
3) per i quali sono incerti tempo ed entità del rimborso del capitale, ma è comunque
prevista l’applicazione della disciplina delle obbligazioni.
L’impatto sul rapporto banca-impresa
Le innovazioni che hanno caratterizzato la finanza d’impresa hanno, inevitabilmente,
avuto conseguenze anche sul rapporto banca-impresa, evidenziando aspetti positivi e
criticità.
In primo luogo, l’estensione degli strumenti di finanziamento dell’impresa, a sua volta
connessa ad una molteplicità e diversificazione dei poteri amministrativi legati alle differenti tipologie di finanziamento, rappresenta un’innovazione di grande rilievo.
Si lascia all’imprenditore e al finanziatore la libertà non solo di individuare le caratteristiche del titolo di finanziamento ma anche di adattare il grado di presenza nel governo
societario che quel finanziamento legittima. In questo contesto può risultare facilitata
l’attività di monitoring e di controllo del soggetto finanziatore, in una prospettiva di rafforzamento del rapporto banca-impresa secondo la logica di minor peso delle garanzie
e di parziale superamento del multiaffidamento.
Le conseguenze di tale diversificazione sul rapporto di finanziamento sono molteplici:
ad esempio, per le srl, la prevista possibilità di emissione di titoli di debito sottoscrivibili, ai sensi del novellato art. 2483 c.c., da investitori qualificati e la possibilità, ai sensi
dell’art. 2468 c.c, comma 2, coerentemente con il carattere personale della srl e con la
natura della partecipazione medesima, di derogare al principio di proporzionalità nella
partecipazione sociale attribuiscono al socio finanziatore diritti specifici261 che rafforzano la propria posizione nella società, contribuendo in tal modo ad un miglior controllo
del ischio. Analogo discorso può essere fatto per le Spa, in merito all’elasticità dei diritti amministrativi fornita dall’art. 2351 c.c., (massima assenza del diritto di voto, o fasi
intermedie di voto a particolari argomenti o in particolari condizioni).
Pertanto appare evidente che le banche nel valutare le proprie scelte di finanziamento
dovranno tener conto della relazione tra rischio, investimento e potere di incidere sugli
assetti di governo e strategie gestionali della società finanziata.
In tale ottica, “se le novità della riforma tendono a semplificare, rendere più elastiche,
le regole per le imprese, o comunque predisporre nuove forme di finanziamento, per le
banche si sono immediatamente tradotte, almeno allo stato attuale, in nuovi oneri per
acquisire una precisa situazione dell’impresa dal punto di vista organizzativo e finanziario”262.
Sostanzialmente si assiste ad un aggravio di responsabilità per l’intero sistema bancario e all’insorgere di una serie di problematiche che vanno ad intaccare prevalentemente due ambiti operativi della banca quali la tradizionale attività di erogazione dei presti-
261 Lo statuto infatti, potrà attribuire ai singoli soci particolari diritti non solo nella distribuzione degli utili, ma anche nell’amministrazione della società (art. 2468 c.c, comma 3).
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262 M. Rispoli Farina, “Nuova struttura finanziaria delle Spa e sistema bancario e finanziario”, in Atti del convegno Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Lanciano, 9-10 maggio 2003, pag. 39.
ti e quindi la valutazione del merito creditizio della società263 e l’attività di consulenza
che la banca svolge nelle operazioni di finanza ordinaria e straordinaria delle imprese.
In primo luogo, sul fronte dell’attività di prestito, le problematiche originano sia dalla
modifica delle procedure, interne alle banche, relative ai meccanismi istruttori preposti
alle richieste di fido264, sia alla individuazione della ripartizione dei poteri di rappresentanza e dalla esatta delimitazione dell’oggetto sociale265.
Sul primo punto, si nota come le banche si siano trovate di fronte ad una maggiore difficoltà insita nell’acquisizione e nella valutazione delle informazioni266, valide a verificare l’assetto strutturale delle società, alla base della concessione dei finanziamenti. In
particolare, i nuovi limiti e le nuove tipologie di emissione di titoli mobiliari, rappresentativi di una nuova struttura finanziaria delle società di capitali, hanno comportato,
soprattutto in tema di emissione di obbligazioni da parte delle Spa., un aggravio di
responsabilità (art. 2412 c.c.) per il sistema bancario se si pensa che le società in oggetto possono emettere obbligazioni in misura superiore al capitale sociale più le riserve
legali e disponibili purché la parte eccedente sia sottoscritta da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale che risponderanno della solvenza della società emittente (art. 2412 c.c., comma 2).
In questo caso, in osservanza delle nuove norme, il ruolo dell’intermediario267 inteso
come investitore professionale assume rilevanza all’atto della valutazione dei rischi
inerente quelle operazioni che non sono supportate da un rapporto riserve-valore delle
emissioni obbligazionarie. In questo caso il dettato dell’art. 2412 in termini di aggravio
di responsabilità per le banche non sta a significare una tendenza a trasferire sugli intermediari i rischi relativi al finanziamento di imprese sprovviste degli standard previsti,
piuttosto a valorizzare la capacità degli investitori a guidare verso il mercato finanziario
società che in base alla previdente disciplina non erano in grado di accedervi268. Si
osserva, inoltre, anche il ruolo che gli investitori professionali assumono nel processo
di emissione dei titoli di debito previsto per le Srl dall’art. 2483 c.c. Tale soluzione intende contemperare le esigenze di necessaria salvaguardia dei risparmiatori con quelle
delle Srl. Il legislatore ha inteso affidare ad operatori particolarmente qualificati il compito di valutare la serietà dell’operazione decisa dagli amministratori (o dai soci della
Srl) e la successiva decisione di mantenere o meno tali titoli in portafoglio, propri perché tali soggetti, dotati di specifica professionalità, sottoposti a forme di vigilanza prudenziale, possono costituire un filtro tra le imprese e i risparmiatori.
Il secondo aspetto, considerato in questo lavoro, attiene alle implicazioni sulla valutazione del merito creditizio effettuata dalle banche derivanti dalle innovazioni apportate
dalla Riforma nei rapporti giuridici tra la società e i terzi, a seguito della previsione dei
tre modelli di governance269, sempre in omaggio all’autonomia statuaria, che potrebbero modificare i poteri di firma dei contraenti.
263 A tal proposito degno di nota è il silenzio della riforma Vietti sul ruolo delle agenzie di rating. Nonostante alla valutazione del merito creditizio di un emittente da parte di esperti nella pratica si attribuisce ampio rilievo, l’attribuzione del rating
non trova, nel nostro ordinamento, un riconoscimento normativo effettivo nonostante la questione sia stata prospettata nel
corso dei lavori preparatori con riferimento ai limiti all’emissione di obbligazioni da parte di società aperte. Secondo una
prima impostazione, era emersa la possibilità di modulare le facoltà di ricorso all’indebitamento cartolare in funzione del
merito creditizio della società. La valutazione da parte di operatori specializzati sarebbe stata richiesta per le emissioni eccedenti i 50 milioni di euro (soglia già prevista dall’art. 129 del T.U.B). Cfr., L.A. Bianchi, A. Giannelli, “Riforma del diritto societario e corporate bond”, in C.M. Pinardi (a cura di), Il mercato dei corporate bond in Italia, EGEA Ed., Milano 2003.
264 M. Rispoli Farina, op.cit.
265 G. Falcone, “Problematiche innovative negli affidamenti delle banche: società con “azionista unico”, società facenti parte
di gruppi, ecc.”, relazione al seminario di aggiornamento La riforma del diritto societario, Milano - sede ABI, 6-7 novembre
2003.
266 Nella prospettiva di ottenere le migliori e maggiori informazioni possibili sulla situazione economica-finanziaria dell’impresa richiedente credito, un aspetto critico è rappresentato dall’estensione delle ipotesi in cui è data facoltà di redigere il
bilancio in forma abbreviata (art. 2435 bis c.c.), limitando in misura considerevole il potere informativo del bilancio.
267 Tale ruolo degli investitori professionali può essere inteso di supporto nel nuovo assetto della struttura finanziaria della
società. Un ruolo che appare rivalutato ed investito di nuove responsabilità nell’interesse dei risparmiatori investitori che, se
privi della cultura necessaria ad un’oculata analisi degli investimenti possono incorrere, come già avvenuto nei recenti fenomeni nazionali ed internazionali, in vicende rovinose.
268 M. Rispoli Farina, op.cit.
269 La Riforma non prevede sostanziali differenze, nell’ambito dei tre modelli di governance (tradizionale, monistico e dualistico), in merito al potere di gestione e di rappresentanza. Un elemento differenziante è rappresentato dalla nomina degli
amministratori, che deve essere iscritta presso il registro delle imprese (art. 2383 c.c., comma 4), il cui potere di rappresentanza è generale (art. 2384 c.c.). Quest’ultima è senza limiti congeniti, mentre gli eventuali limiti convenzionali, posti dall’atto costitutivo o dall’atto di nomina, ai poteri di rappresentanza non sono opponibili a terzi in buona fede. Per le srl le cose
stanno in maniera diversa: fermo restando agli amministratori la rappresentanza generale della società e l’inopponibilità ai
terzi delle limitazioni dei loro poteri (art. 2475 bis c.c.), la Riforma prevede una dissociazione meno forte tra potere di gestione e di rappresentanza rispetto alla Spa. (L. Gualandi, “Il perfezionamento dei rapporti bancari nel nuovo diritto societario”,
in Atti del convegno Il rapporto banca –impresa nel nuovo diritto societario, S. Bonfatti e G. Falcone (a cura di), Lanciano,
maggio 2003.
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Uno dei temi di maggiore spessore, nell’ambito dell’istruttoria fidi a società di capitali,
resta senz’altro quello dell’esatta individuazione dei soggetti chiamati a validamente
manifestare la volontà della società all’esterno.
“Le banche, come del resto qualunque imprenditore od operatore nella vita economica, hanno l’esigenza di concludere contratti validi ed efficaci, non soltanto in relazione
al loro contenuto, ma anche ed in primo luogo, in relazione al potere della o delle persone fisiche con le quali si intrattengono trattative prima, e rapporti negoziali poi, di vincolare la società”270. In altre parole, per poter perfezionare contratti di prestito, la banca
ha bisogno di verificare il potere di rappresentanza e quindi ha bisogno di sapere chi ha
il potere di firma. Emergono pertanto delle lacune nelle norme che sono contrastanti
con il presupposto di un’organizzazione di governo trasparente, che, soprattutto nel
nuovo ambiente regolamentare disegnato dall’Accordo di Basilea, diviene un elemento centrale dell’accesso al credito per le imprese di minori dimensioni, potendo influire
negativamente sulle modalità di misurazione del rating. Si evidenzia quindi la necessità per le imprese di dotarsi di un’organizzazione interna trasparente ed efficiente, dato
che Basilea 2 può mettere in moto un circolo virtuoso tra rating e assetti organizzativi
societari in grado di costituire una ragione in più per orientarsi in questa direzione.
Consideriamo, infine, l’attività di consulenza svolta dalla banca in operazioni di finanza
ordinaria e straordinaria. Il nuovo diritto societario contribuisce all’evoluzione della
finanza aziendale verso modelli più sofisticati offrendo alle imprese nuove opportunità
integrative di quelle tradizionali. Al riguardo è sufficiente considerare che la riforma in
esame facilita l’affermarsi di fenomeni quali il venture capital e il private equity271. In
questo senso, le banche, quale naturale interlocutore delle imprese, hanno un’opportunità in più di sviluppare aree strategiche d’affari quali quella del corporate and investment banking, assistendo le imprese che non sono in grado di gestire al proprio interno simili operazioni.
Il ruolo della banca quale advisor delle imprese è ulteriormente accentuato dalle possibilità, offerte loro dalla nuova disciplina, di poter sottoscrivere in determinati casi, come
già innanzi detto, titoli obbligazionari emessi dalle società e garantire gli investitori finali nell’ipotesi di una loro successiva negoziazione sul mercato secondario. La banca
potrà anche curare la custodia dei titoli, fungere da market maker contribuendo alla
creazione di un mercato secondario dei titoli emessi o da paying agent rimborsando il
capitale ai sottoscrittori degli strumenti finanziari.
Le opportunità offerte alle banche dalla nuova disciplina si traducono, in primo luogo,
in vantaggi economici rappresentati dalle commissioni derivanti dallo svolgimento dei
servizi appena visti, potendo, in tal modo, diversificare le fonti di ricavo rispetto a quelle derivanti dalla tradizionale attività creditizia. Secondariamente, la banca potrà godere di un beneficio informativo, giacché l’attività consulenziale dalla stessa svolta le permette di approfondire il profilo strategico e finanziario dell’impresa con evidenti riflessi positivi sulla valutazione del merito creditizio.
Infine, altre opportunità sono offerte alle banche dalle revisioni272, apportate dalla
nuova disciplina, in materia di operazioni di leveraged buy out273 così come previsto
dall’art. 2501 bis del c.c.
La diffusione del LBO tra gli operatori finanziari è stata finora limitata dal fatto che la
realizzazione di tali operazioni erano contrarie, secondo giurisprudenza e dottrina a
norme di legge. Le numerose pronunce della giurisprudenza, di legittimità e di merito,
non hanno agevolato il compito degli operatori i quali sono stati spesso costretti ad uti-
270 L. Gualandi, op. cit., pag. 59.
271 Senza alcuna pretesa di approfondimento in questa sede, si sottolinea come il nuovo diritto societario contribuisca a
rimuovere alcuni degli ostacoli all’impiego di forme di finanziamento c.d. di venture capital o di private equity, poiché aumenta la possibilità di creare e modellare nuove forme di partecipazione sociale e comunque di investimento. (Cfr. U. Tombari,
op.cit.)
272 Mediante l’articolo 2501 bis – Fusione a seguito di acquisizione con indebitamento, la riforma del diritto societario disciplina le operazioni di Leveraged Buy Out (LBO). “La norma è il frutto di una mediazione tra le varie esigenze del mercato, da
un lato nel senso di favorire le acquisizioni e dall’altro di porre dei limiti onde evitare che operazioni ad alto rischio possano
danneggiare i molteplici interessi coinvolti”. (Cfr., D.U. Santosuosso, “Il rapporto banca-impresa nelle operazioni di leveraged buy out”, in S. Bonfatti, G. Falcone (a cura di) Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, Quaderni di giurisprudenza commerciale n. 258, Giuffrè Editore, 2004, pag. 199.)
86
273 Con il termine di LBO si indica una particolare tecnica di finanziamento delle operazioni di acquisizione di un impresa
mediante la garanzia del rimborso del prestito facendo ricorso ai cash flow prodotti dalla società acquisita. L’acquirente potrà
utilizzare a proprio vantaggio questi elementi per ridurre il proprio impegno finanziario nella forma del capitale di rischio.
lizzare veicoli esteri per ridurre i rischi conseguenti ad azioni giudiziarie. Infatti, l’operazione di LBO è stata spesso ritenuta illecita in quanto tesa ad aggirare quanto previsto
dagli art. 2357 e 2358 del c.c. (codice previgente)274.
Il favore dimostrato dalla Riforma del diritto societario nei confronti della liceità del LBO
non si è dimostrato del tutto esente da qualsiasi limite. Si parla infatti di un’operazione
particolarmente rischiosa: l’indebitamento per acquisire il controllo può essere così elevato da non consentire di farvi fronte con le risorse finanziarie future. Ciò ha spinto il
legislatore a condizionare la legittimità dell’operazione, quando il patrimonio della
società target “viene a costituire garanzia generica o fonte di rimborso” dei debiti contratti per acquisirla (art. 2501 bis c.c., comma 1), ad una serie di obblighi informativi e
certificativi della ragionevolezza dell’operazione attraverso i documenti informativi
disposti per la fusione.
Quanto disposto dal legislatore e quanto in questo contesto seppur sinteticamente analizzato si riflette nell’evoluzione che attualmente caratterizza il rapporto banca-impresa.
Un rapporto da sempre caratterizzato da una cattiva qualità delle relazioni, riscontrabile nell’opacità informativa e spesso nell’inaffidabilità delle stesse informazioni, che ha
comportato difficoltà di monitoraggio e controllo oltre che inefficienza allocativa da
parte delle banche. Queste ultime hanno, a loro volta, impostato la relazione su una
logica c.d. assicurativa del pluriaffidamento affidandosi più su valutazioni reddituali
piuttosto che sulla valutazione delle reali capacità di crescita e di creazione di valore da
parte dell’azienda affidata.
La revisione dei limiti e delle carenze cui fa fronte la rinnovata disciplina societaria in
aggiunta alla modernizzata legislazione finanziaria, e l’adozione del modello di banca
universale, hanno consentito una maggiore apertura alla finanza di mercato e al capitale di rischio275 di società non bancarie, favorito una maggiore diversificazione della
finanza d’impresa ed una concentrazione sulla funzione di consulente, orientando l’operatività delle banche da una filosofia di transazione ad una di relazione276.
Concludendo, in linea generale, è condivisibile la considerazione che la semplificazione
dei modelli organizzativi e la maggiore articolazione delle scelte possibili non possono
che essere, a parere di chi scrive, valutate positivamente. Certamente ci si può attendere benefici sotto forma di minori barriere all’iniziativa imprenditoriale e alla riduzione
dei costi di transazione, di più stretta funzionalità tra modello organizzativo e natura dell’iniziativa. Sul fronte delle imprese, le novità della Riforma consentiranno all’area
finanza di poter contare su più ampie e flessibili opportunità di finanziamento sui mercati dei capitali; a livello bancario, invece, il processo di valutazione del merito creditizio, richiederà un esame particolare delle novità introdotte in tema sia di strumenti
finanziari, sia di responsabilità patrimoniale e dei poteri di firma dei contraenti, nonché
delle aree del corporate e investment banking, da sviluppare a supporto delle operazioni di finanza ordinaria e straordinaria delle società.
Per cogliere a pieno le opportunità della riforma occorreranno una elevata consapevolezza delle opportunità offerte. In particolare, le imprese dovranno adeguare rapidamente le proprie strutture amministrative e di controllo alle nuove disposizioni e
dovranno pianificare nel tempo la propria struttura finanziaria sulla base delle nuove
opportunità di finanziamento.
Anche le banche dovranno adeguarsi con rapidità alle modifiche richieste, e ancor più
rapidamente dovranno essere in grado di rispondere alla domanda di nuova finanza in
termini di prodotti e servizi consulenziali che deriverà dalle imprese clienti. Ciò richiede
notevoli investimenti da parte delle banche date anche le notevoli differenze tra la tradizionale attività di prestito e quella più innovativa dell’advisoring.
274 In particolare l’art. 2358 vieta alla società di accordare prestiti e fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie. La società non può neppure, per tramite di società fiduciaria o per interposta persona, accettare azioni proprie in
garanzia.
275 Oltre i modelli societari, ben altri fattori hanno creato lo spazio al debito:
- i vantaggi della dimensione piccola e della proprietà familiare chiusa
- i vantaggi di costo del capitale
- il processo informativo e gestionale internalizzato e funzionale alla commistione di interessi tra impresa e famiglia.
276 In genere ciò avviene nelle operazioni di venture capital e nelle operazioni di leveraged e merger leveraged buy out dove
le banche possono intervenire come sponsor, offrendo un servizio finanziario di origination, progettando le caratteristiche economiche e tecniche dell’intera operazione o come conferenti capitale di debito. (Cfr. D.U. Santosuosso, op.cit.
pag. 205).
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Nuovamente, l’innovazione istituzionale e regolamentare, in passato spesso assente
nel nostro Paese, offre agli operatori economici l’opportunità di instaurare comportamenti volti a ridisegnare in termini più partecipativi , trasparenti e professionali il tradizionale rapporto banca-impresa.
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Quaderni pubblicati
n. 1
Marco Onado
Nuova finanza e vecchi problemi. Il rapporto banca-impresa
nel Mezzogiorno, aprile 2005
(copie terminate)
n. 2
R. Ruozi, T. Gozzetti,
S. Dell’Atti, V. Pacelli
Tendenze e prospettive del rapporto banca-impresa,
maggio 2005
(copie terminate)
n. 3
S. Dell’Atti (a cura di)
L’impatto di Basilea II sulle PMI. Riflessi strategici, organizzativi e gestionali per le banche, giugno 2005
n. 4
Tommaso Gozzetti
Il sistema delle banche locali in Puglia.
Mutamenti dopo il nuovo testo unico del 1993, luglio 2005
n. 5
S. Dell’Atti (a cura di)
Le implicazioni della riforma del diritto societario nelle banche,
ottobre 2006
n. 6
Fondazione Nuove
Proposte Culturali
(a cura di)
Speciale Premio Domenico Menichella 2006,
novembre 2006
La tiratura di ciscun quaderno è di 2.000 copie
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