Città del Libro, serve una rete europea
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Città del Libro, serve una rete europea
Codice cliente: 8813030 40 Giovedì 9 Gennaio 2014 Corriere della Sera italia: 57575052495249 Cultura ilClassico «Tanti anni fa i prestigiatori si chiamavano semplicemente incantatori...». Inizia così il breve, delizioso, racconto di Joseph Roth, L’incantatore, che i responsabili delle edizioni Via del Vento, con passione straordinaria, propongono al lettore italiano, in un volumetto dallo stesso titolo e arricchito di altre prose (pp. 36, e 4). La forza della grande letteratura. (m.ta.) Proposte Perché va riconquistato un primato culturale. L’idea? Un incontro internazionale da tenersi in tarda primavera a Torino Città del Libro, serve una rete europea L’iniziativa potrebbe partire nel semestre di presidenza italiana: ritrovare l’orgoglio di GIAN ARTURO FERRARI P uò forse apparire velleitario che un gruppo, anche se ampio, di festival letterari e di manifestazioni sul libro — quale noi siamo — si ponga, da quella che i malevoli potrebbero chiamare la periferia italiana, il problema di una dimensione europea. Così come può apparire una mite ingenuità, un inoffensivo sogno da professoresse, asserire che la cultura è oggi una delle principali opportunità — forse la principale — che l’Europa si trova ad avere (ma anche uno dei principali problemi). E infine può apparire rituale e retorico, di una retorica politicamente corretta, il richiamo al semestre di presidenza italiana, panacea di tutti i mali che in realtà ne curerà pochi, prestigiosa vetrina che forse pochi guarderanno. Infinite, e ben comprensibili, sono le vie della stanchezza, della delusione, a volte del cinismo. E difficile, perché impiantato su un tessuto logorato dalla retorica, il tentativo di ridare un senso concreto, fattivo, a parole come cultura, libro, Europa, Italia. Difficile, ma non impossibile — da tentare, si intende — tant’è che ci proveremo. L’Europa si trova in seria difficoltà con la propria cultura. Un’eredità troppo ampia, troppo ingombrante, malagevole da gestire. Una grande e antica villa complicata da riscaldare, con gli stucchi che cascano e le macchie di umidità sugli affreschi. Le ragioni di questo disagio sono profonde e ne tratteremo in altra sede. Ma il risultato pratico, sotto gli occhi di tutti, è un crescente imbarazzo. Mentre fuori d’Europa domina la sicurezza di sé, variamente declinata, la cultura europea appare intimidita, si rattrappisce, si mette volontariamente in un angolo. Il che è tanto più pericoloso quanto più appare chiaro che dietro la nebulosa espressione «società della conoscenza» si cela il fatto che conoscenza e cultura sono il business del futuro, la vera e prossima ricchezza delle nazioni. Ci sono pochi dubbi sul fatto che la spina dorsale di conoscenza e cultura sia costituita dai libri. Di carta o digitali, orientati all’evasione o all’apprendimento, ma sempre libri. Proprio il rapporto dell’Europa con i libri ha del paradossale. L’industria libraria mon- diale è a stragrande maggioranza europea, di proprietà europea. Lo scientifico/professionale — il settore leader — è anglo olandese. L’education è inglese. L’evasione è tedesca in grandissima maggioranza, poi francese e spagnola. In conclusione, i contenuti sono europei. Ma l’infrastruttura, quella che conta, quella digitale, è tutta non europea. E sta combattendo una feroce guerra per accaparrarsi la parte maggiore dei profitti a danno dei produttori. Cioè degli europei. Il paradosso sta nel fatto che in questa guerra una delle armi principali è l’ideolo- gia, che essendo un contenuto è un prodotto europeo, ma che è tutta orientata a favore dell’infrastruttura, cioè contro i propri interessi. Un secondo paradosso sta nel fatto che, divisa in quelli che da un punto di vista mondiale sono staterelli da Ancien régime, l’Europa non riesce a ragionare in termini di assieme quando avrebbe tutta la convenienza a farlo. Unita è il più grande mercato del libro al mondo, ma, essendo divisa, non sa nemmeno di esserlo. Non ha statistiche uniformi e attendibili sull’acquisto e sulla lettura di libri, non ha normative uniformi sull’Iva, sugli sconti, sui prodotti digitali, non ha politiche comuni di una qualche efficacia. Soprattutto non ha un sentimento comune, il senso di una identità e di una appartenenza comune. L’Europa — questo è il supremo paradosso — non ha la cultura della propria cultura. Un embrione di cultura europea, qualcosa di vivo e di sentito, non pioverà di certo dall’alto. Non da una trattativa diplomatica, non da accordi lobbistici tra le burocrazie di Bruxelles e neppure da gelosi consessi accademici. Tutte cose utili e necessarie, intendiamoci, ma tutte azioni da intraprendere dopo che si è creato un em- Simboli La bandiera dell’Unione Europea sventola davanti al principale monumento di una delle città simbolo della cultura, Atene (AFP photo / Louisa Gouliamaki) Roma, oggi il secondo convegno Saloni e kermesse settanta realtà a confronto da Milano a Gavoi Si svolge oggi a Roma, presso il Teatro dei Dioscuri (dalle 9.30 alle 19), il secondo convegno delle Città del Libro, che segue quello di Torino dell’aprile scorso. Uno dei principali temi affrontati è la dimensione europea della promozione del libro, nella duplice prospettiva di una politica europea della cultura e del prossimo semestre di presidenza italiana. L’incontro sarà aperto da Piero Fassino, nella veste di presidente dell’Anci, Associazione nazionale comuni italiani e vedrà la partecipazione, tra gli altri, del ministro dei Beni culturali, Massimo Bray; del presidente del Censis, Giuseppe De Rita; del presidente della Fondazione per il libro, Rolando Picchioni. Sono attese le rappresentanze di circa 70 città. Da Torino a Mantova, da Sarzana a Pordenone, da Modena a Gavoi (Nuoro), a Milano con BookCity, la cui seconda edizione, lo scorso novembre, ha riscosso un grande successo. Pubblichiamo in questa pagina la relazione di Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il Libro e la Lettura, che insieme con l’Anci e con il Comune di Torino è l’organizzatore dell’evento. brione di movimento europeo, comune e condiviso, sul libro. Ecco dove e come tornano utili le Città del Libro, allargate a una dimensione e a una prospettiva europea. Le Città del Libro sono nate in Italia come europee, come declinazione nazionale di modelli ed esperienze che provenivano da altre città e Paesi europei. Il Salone di Torino dal Salon di Parigi, il Festivaletteratura di Mantova dal Festival di Hay nel Galles. Proprio questo eclettismo, questa permeabilità italiana può forse trasformarsi in capacità di sintesi, in stimolo a far convergere la pluralità delle esperienze. In un primo tentativo di costruire un movimento culturale europeo fondato sul rapporto diretto, face to face, tra autori e lettori e insieme a loro editori, librai, bibliotecari. Le Città del Libro europee possono diventare una specie di Erasmus della cultura libraria, non un programma astratto, ma un’occasione di incontro concreto il cui leitmotiv sia la costruzione di una comune identità europea. In fondo e in larga misura già lo sono. Basta scorrere il programma di un qualsiasi festival in qualsiasi Città del Libro per vedere quanto poco sia ristretto ai confini nazionali, quanto di fatto se non di diritto sia già europeo. Del resto la formula del festival, che è stata non solo in Italia la modalità di maggior efficacia nel promuovere il libro e la lettura, è un’invenzione tutta europea, anche se esportata con successo in ogni parte del mondo, dal Brasile (Paraty) all’India (Nuova Delhi). Vorremmo quindi proporre un primo incontro, da tenersi a Torino la tarda primavera prossima, tra i principali festival europei per iniziare a costruire la rete delle Città del Libro europee. E vorremmo insieme proporre, in vista del semestre di presidenza italiana dell’Unione di redigere una Agenda Europea del Libro, vale a dire un elenco delle principali linee guida da seguire e dei principali provvedimenti da adottare al fine di tracciare un disegno europeo coerente e ambizioso di politica del libro. All’avvento della stampa, attorno al 1450, l’Italia era la patria dei libri, il Paese più colto d’Europa, con più biblioteche aperte al pubblico, con la più alta diffusione della lettura. Poi è successo quello che è successo, ma anche questo ormai è passato. Sarebbe bello se ora, all’inizio di un nuovo ciclo, l’Italia ripensasse ai libri come a cosa propria. Non nel senso del possesso e del dominio, ma dell’appartenenza, della vicinanza, dell’affezione e della cura. Sono una nostra antica eredità e insieme una porta sul futuro. Non trascuriamoli, non dimentichiamoli. © RIPRODUZIONE RISERVATA Fenomeni Jon Hargrove ha pubblicato 18 libri in un anno, Melissa Foster 11. E il giallista Russell Blake scrive dalle sette alle diecimila parole al giorno Lo scrittore compulsivo, la nuova figura nata con il self publishing dal nostro inviato a New York MASSIMO GAGGI J on Hargrove l’anno scorso ha pubblicato 18 libri, soprattutto storie di vampiri. La 47enne Melissa Foster, madre di sei figli e quindi comprensibilmente più indaffarata, si è fermata a quota 11: undici romanzi autopubblicati in rete nel solo 2013. La scrittrice sostiene di avere venduto 400 mila copie digitali delle sue opere. Ma il vero primatista del self publishing a raffica è Russell Blake che è già arrivato al suo venticinquesimo thriller. Libri scritti a tempo di record: le 229 pagine di Jet Justice, uno dei suoi ultimi bestseller, le ha completate in appena 16 giorni. Quando, un anno e mezzo fa, presentò in California una serie di nuovi e-reader e illustrò il funzionamento del nuovo sistema Kindle Direct Pu- blishing, la sua casa editrice virtuale, Jeff Bezos spiegò, soddisfatto, che grazie a questa nuova tecnologia migliaia di autori di opere di valore ingiustamente cestinate dagli editori, avrebbero finalmente potuto farsi conoscere raggiungendo il pubblico sterminato della rete. «Quanti manoscritti di qualità sono ancora chiusi in un cassetto?», si chiese il fondatore di Amazon, promettendo di liberarli. Quello che lui e gli altri editori digitali non avevano previsto è che, abbattute le barriere grazie al self pu- Strategia Jeff Bezos spiegò che grazie all’autopubblicazione migliaia di opere di valore sarebbero state conosciute blishing, oltre al fenomeno dello «svuotamento dei cassetti», ce ne sarebbe stato un altro: autori prolifici invogliati a diventare addirittura degli scrittori compulsivi, capaci di vergare in un anno più di quello che un autore tradizionale dà alle stampe in un’intera vita. Nell’era della carta il libro autopubblicato era quello del narcisista disposto a spendere migliaia di euro o di dollari per vedere il proprio manoscritto stampato, magari per regalarlo a parenti e amici. Con la leggerezza e i costi ridotti del digitale tutto è cambiato. Uno dei casi che più fanno discutere è proprio quello di Russell Blake, un giallista capace di scrivere dalle sette alle diecimila parole al giorno. Una produzione a getto continuo che lascia senza fiato i suoi molti fan che faticano a leggere tutto quello che lui scrive. Al «Wall Street Journal» che gli ha chiesto il perché di questa sua ossessione per la scrittura, Blake ha dato una risposta ironica e lapidaria: «Perché, c’è un limite al tempo che puoi passare bevendo tequila?». Blake in realtà si chiama Craig Osso ed è un immobiliarista di 52 anni che, arricchitosi con la sua attività, dieci anni fa si è ritirato in Messico. Secondo il suo profilo su Amazon, passa il tempo giocando con i suoi cani, pescando, facendo escursioni in barca e, appunto, bevendo tequila. Qualche anno fa ha scoperto un altro hobby: la scrittura. Gli inizi sono stati tormentati: gli editori non ne volevano sapere dei suoi racconti. Poi, nel 2011, scoprì il self publishing, ma anche qui le cose non cominciarono bene: i primi dieci libri rimasero praticamente invenduti. Poi Russell cambiò tecniche di marketing: prezzi più bassi e uno dei Pescatore Russell Blake, 52 anni, è lo pseudonimo di Craig Osso. Da dieci anni vive in Messico dedicandosi ai suoi hobby suoi thriller offerto gratis in rete. È stato l’inizio di un successo strepitoso con titoli come The Geronimo Breach e Re di spade che hanno venduto centinaia di migliaia di copie digitali. Ora i suoi lettori più affezionati auspicano che rallenti il ritmo: non vogliono perdere i suoi racconti, ma avrebbero anche tanto altro da leggere. Lui, però, non riesce più a fermarsi ed è convinto che il ferro vada battuto finché è caldo. E al «Journal» spiega di aver scritto 25 thriller in trenta mesi perché «uno scrittore è come uno squalo: deve muoversi, nuotare in continuazione, altrimenti muore». E la sua produzione non deve essere proprio robaccia se un giallista di rango come Clive Cussler ha firmato un accordo con lui per scrivere alcuni romanzi a quattro mani. © RIPRODUZIONE RISERVATA