Woody il Serio - Cineforum del Circolo

Transcript

Woody il Serio - Cineforum del Circolo
i quaderni del cineforum
40
WOODY IL SERIO
MARCELLO PERUCCA
il lato drammatico del più famoso comico d’America
WOODY IL SERIO
IL LATO DRAMMATICO DEL PIÙ FAMOSO COMICO D’AMERICA
CINEFORUM DEL CIRCOLO
CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA
dicembre 2014 - febbraio 2015
Ogni volta, quando un mio film
ha successo, mi chiedo:
come ho fatto a
fregarli ancora?
Woody Allen
A
INTERNI
lan Stewart Koenigsberg, colui che prenderà il nome di Woody Allen in onore di un
grande della poesia beat, Allen Ginsberg,
divetando uno dei più popolari cineasti e attori mondiali, nasce a New York il 1 dicembre del 1935 da
una famiglia ebrea.
Il padre Martin Koenigsberg era orafo ma, nell’incerta società di quegli anni, si adattava a svolgere
numerosi altri lavori, dal tassista al cemeriere al
Sammy Bowery Follies di Manhattan. La madre
Nettea (Nettie) Cherrie era contabile preso un fiorista di Brooklyn . I coniugi Koenigsberg diedero alla
luce nel 1943 Letty, la sorellina del futuro Woody.
Negli anni Sessanta il giovane Woody si cimentava
con il cabaret. Apparentemente timido e insicuro dilettava il pubblico con le sue battute e il suo stile,
che sarebbe divenuto popolare e famoso negli anni
successivi, con i suoi primi film, tutti improntati su
uno stile comico e grottesco. Prendi i soldi e scappa,
Il dittatore dello Stato libero di Bananas, Provaci
ancora Sam, sono solo alcuni dei suoi primi successi
cinematografici che lo avrebbero reso famoso
presso il grande pubblico, sia americano che europeo.
Per questo, quando nel 1978, apparve sugli schermi
Interiors, il suo primo lungometraggio drammatico,
nessuno avrebbe mai potuto pensare che quell’omino buffo e imbranato avrebbe potuto cimentarsi con successo in pellicole di tal genere.
Eppure, come tutti i comici che si rispettino, anche
Woody Allen possedeva un lato malinconico e serio,
che solo le persone a lui più vicine potevano conoscere. E per dar sfogo a questo lato della sua personalità si volle mettere in gioco, rischiando
4
l’insuccesso realizzando un film apparentemente
non nelle sue corde, escludendosi addirittura dal
cast.
Fu un rischio. Soprattutto dopo il suo precedente
grande successo: Io e Annie, la brillante pellicola
osannata da pubblico e critica di tutto il mondo. E
in America, effettivamente, il film è un insuccesso,
con i critici che ridicolizzavano il regista accusandolo di aver voluto parodiare Ingmar Bergman, il
grande cineasta svedese del quale Woody Allen era
un grande ammiratore. In Europa, al contrario, Interiors ebbe un buon successo, sia di pubblico sia di
critica, mostrando al mondo quello che era il lato
drammatico di uno dei più famosi comici d’America.
Gli interni del film sono quelli delle stanze nel quale
il film si svolge ma, anche e soprattutto, quelli dell’animo dei personaggi, fragili, tormentati e sfiniti
dagli insuccessi delle proprie vite, incapaci di risolvere i propri conflitti interiori.
E l’animo umano e i tormenti della mente verranno
spesso analizzati da Woody Allen in tutte le loro
sfaccettature, soprattutto nelle sue pellicole più sofferte, che egli girerà alternadole alle commedie più
brillanti.
Così come succederà in Stardust Memories, film del
1980 uscito nelle sale l’anno successivo all’immenso trionfo di Manhattan. A proposito di questa
pellicola lo stesso Allen disse: “Ho avuto molti attacchi per Stardust Memories, i più violenti della
mia vita. Ma il film è tra i miei preferiti. Penso che
il pubblico l’abbia accolto in un modo sbagliato.
Tutti pensavano che non volessi ricambiare il loro
affetto. Ma il tema è un altro: il protagonista è ricco
e famoso, ma a dispetto di ciò si sente molto infelice” (Moviegoer, 1985). E di infelicità i personaggi
di Woody Allen ne hanno da vendere!
Anche in Stardust, Allen decide di rimettersi in
gioco, mettendosi in discussione come uomo di cinema. Ma la critica lo demolì all’uscita, tacciandolo
di dipendere troppo dall’Otto e mezzo di Fellini
anche se, a ben guardare, è ancora e soprattutto Ingmar Berman ad essere scomodato.
E così via; nel corso della sua carriera, oltre alle
commedie brillanti (alcune, a dire il vero, non sempre ben riuscite. Ma è accettabile da un genio che ti
sforna un film l’anno), Allen ci regala momenti di
grande intensità emotiva, come in Un’altra donna
(Another Woman, 1988) con due grandi e intensi
Gena Rowlands e Gene Hackman, rispettivamente
una docente universitaria che vede crollare, improvvisamente, tutte le sue certezze e l’uomo che
avrebbe voluto sposare. O come in Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors, 1989) in cui
Woody Allen mescola magistralmente tragedia e
commedia affrontando una storia di adulterio, ricatti
e tentativi di omicidio.
Match Point (2005), commedia dai toni cupi e
drammatici, segna il ritorno al successo di un artista
che, dopo lo scandalo del suo matrimonio con la figlia adottiva di Mia Farrow, la precedente moglie,
aveva trascorso un periodo di appannamento, con
pellicole che si erano rivelate dei flop al botteghino
e che erano state accolte male dalla critica, soprattutto quella statunitense.
Match Point è un film atipico nella filmografia del
regista newyorchese. Caratterizzato da situazioni tipiche del thriller, è la narrazione di un triangolo
amoroso inserito in un contesto in cui emergono le
tematiche della moralità, della stratificazione sociale, del ruolo del denaro e della fortuna nella vita.
Per questo, la nuova pellicola di Woody Allen può
essere accomunata a Crimini e misfatti.
Da questo punto in poi la carriera di Woody Allen sembra riprendere quota. Il regista inizia a girare prevalentemente in Europa (Spagna, Francia, Inghilterra, Italia),
concedendosi ritorni in America e continuando ad alternare commedie brillanti a film più cupi e drammatici: Sogni e delitti (Cassandra’s Dream, 2007); Basta
che funzioni (Whatever Works, 2009). Sino a realizzare
la sua penultima pellicola, Blue Jasmine (2013), nella
quale una strepitosa Cate Blanchette (che si è aggiudicata l’Oscar come miglior attrice protagonista), è Jasmine, una bellissima donna con grossi problemi
psicologici, che riflette sulla sua vita, cercando il modo
e la forza di ricominciare da zero.
All’età di 79 anni, la carriera di Woody Allen, quindi,
non sembra fermarsi. è da poco uscito nelle sale il suo
ultimo lavoro, Magic In The Moonlight (2014), che
vede il ritorno di Woody alla commedia brillante nonché il suo ritorno in Europa, nello specifico la Costa
Azzurra).
Lo attendiamo quindi ancora, in futuro, a cimentarsi
con pellicole più intense e drammatiche, certi che saprà
ancora indagare con arguzia e cognizione di causa gli
“interni” dell’animo umano,
WOODY ALLEN
Manhattan transfert
di D. De Lucca, C. Fabretti
Dalle frenetiche gag degli esordi alle commedie
raffinate e ai drammi noir della maturità. Un
viaggio lungo più di 40 anni, attraverso amori e
nevrosi, jazz e grattacieli, citazioni cinefile e satira, umorismo ebraico e comicità slapstick
Ho un solo rimpianto nella vita:
non essere qualcun altro
(Woody Allen)
Newyorkese, ebreo, nevrotico, colto, sarcastico, intellettuale, sagace, insicuro, ipocondriaco, gracile.
Con dei grossi occhiali dalla montatura nera, gli
abiti dimessi, amante del jazz e del sesso; tra grattacieli e appartamenti moderni, disteso dentro letti di
splendide donne complicate e sopra lettini di psicanalisti incapaci; alle prese con una società di idioti
e ottusi, violenti e rancorosi, saccenti e arroganti.
Lunghe liste di luoghi comuni su Woody Allen: aggettivi e situazioni messi in fila, e ancora insufficienti a definire uno dei più grandi geni del
Novecento. Per spiegare chi sia Allen a un qualche
alieno appena sbarcato sulla Terra bisognerebbe mostrare uno dei tanti film di una carriera sconfinata,
fare leggere qualcuno dei suoi libri, ascoltare vecchi
monologhi, e ancora non si renderebbe l’idea. Soprattutto se l’alieno non conosce il sarcasmo e
Freud. Vederli tutti, allora, e rivederli ancora quei
film, ma sarebbe sempre e comunque poco. Perché
Allen sorprende a distanza di tempo: a una seconda
visione c’è sempre qualcosa di cui non ci si è resi
conto prima, una battuta la cui complessità era sfug-
gita, un doppio senso, la profondità di una frase, la
contraddizione di una situazione, una piega della
trama, un aspetto del personaggio; quel ridicolo dettaglio, eppure così impietoso nella sua cruda verità.
L’imprevedibilità nel perimetro di un cinema anticonformista, ma divenuto presto modello riconoscibile, quasi seriale per temi e stile; l’imprevedibilità
propria della battuta, della gag che rovescia l’ipocrisia della realtà. La comicità che si fa illuminante
e liberatoria.
Il cinema di Allen evade nella fantasia e nel sogno
fino a fondersi in un continuo transfert, di cui una
immaginaria e metafisica Manhattan è lo scenarioprincipe. è la maschera comica che sale sulla cattedra della filosofia e della letteratura; dietro la risata
cela l’orribile sentimento di un tempo che scorre
inafferrabile, della miserevole condizione umana di
fallimenti e rimorsi e rimpianti, la fragilità del vivere, l’insensatezza del caso, l’incombenza della
morte; l’insufficienza dell’arte, della religione, a
volte perfino dell’amore nel placare le sofferenze. E
lì dove tutto diventa inutile spesso le uniche risposte
sono di nuovo il Cinema, pochi istanti d’amore, oppure una lista di cose per cui vale la pena vivere, stilata sdraiati sul divano, prima di capire e correre da
Tracy.
6
UNO SCHLEMIEL DI SUCCESSO
Allen Stewart Konigsberg nasce il 1° dicembre 1935
da Martin e Nettie (“Cherry”) Konigsberg, nel
Bronx - ovviamente a New York. Passa molto tempo
riusciti. Tra i comici
di cabaret che lo influenzano maggiormente cita il primo
Bob Hope, Mort
Sahl, Mike Nichols,
Elaine May, Jonathan Winters. Comincia a esibirsi
come comico con
un materiale che
comprende l’insicurezza nella vita e
con le donne, il ner- Woody Allen all’eta di 18 anni
vosismo, la paura, la
vigliaccheria, storielle argute e surreali, e viene notato da due produttori che lo ingaggiano per il suo
primo lavoro nel cinema: la sceneggiatura di Ciao,
Pussycat. L’esperienza diventa per Allen “il peggior
incubo immaginabile”: è allora che giura di non volerla ripetere, a meno di non poter avere lui stesso il
controllo del proprio materiale. Il suo lavoro, fuori
dagli schemi commerciali, viene declinato nella più
becera chiave hollywoodiana da “gente senza alcun
senso dell’umorismo [...] che affidava le parti alle
amichette, [...] scriveva ruoli per far contente le star
senza preoccuparsi che funzionassero o meno”.
Altra “esperienza cinematografica terrificante”, que-
al cinema fin da piccolo a vedere James Cagney,
Humphrey Bogart, Gary Cooper, Fred Astaire, John
Sturges, i film Disney. Nomi che spesso torneranno
nelle sue opere, ora come suggestioni, ora letteralmente, così come i fratelli Marx, la cui comicità surreale e il gusto per il nonsense saranno essenziali per
formare lo stile di Allen. Odiando l’estate, il caldo
e il sole, passa molte giornate nei cinema con l’aria
condizionata. E dopo la guerra arrivano i film europei: Jacques Tati, René Clair, Jean Renoir, Federico
Fellini, Vittorio De Sica, e la visione/rivelazione di
Ingmar Bergman (Monica e il desiderio prima, Una
vampata d’amore poi). Un apprendistato dello
sguardo che lo porta già all’età di sette-otto anni a
desiderare di diventare un autore o un commediografo. La passione per la scrittura, coltivata fin da
bambino, è fondamentale: non a caso molti film di
Allen avranno una forte impronta letteraria. “Buttato
fuori presto da scuola”, Allen si forma da solo, leggendo (Ernest Hemingway, William Faulkner, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck), andando al
cinema, ascoltando musica e assistendo a spettacoli
teatrali (dove osserva soprattutto le reazioni del pubblico).
Già attorno ai sedici anni viene scritturato per creare
gag per radio, televisione e cabarettisti, per poi passare a produrre materiale per sé stesso. I primi pezzi
teatrali per sua stessa ammissione non sono molto
La famosa scena della rapina in banca in Prendi i soldi e scappa
7
Innumerevoli le gag, la più celebre delle quali è
probabilmente quella del colpo in banca: un messaggio scritto male da Virgil ingenera un’interminabile discussione tra cassieri e direttori sul fatto
che si tratti realmente di una rapina.
Ancora inesperto, ma già particolarmente ambizioso (tenta addirittura di ingaggiare Di Palma per
la fotografia), Allen adopera il suo “buonsenso”
con uno stile ancora grezzo, che contiene riferimenti e citazioni cinematografiche, primi rimandi
all’ebraismo e alla psicanalisi (tra cui la gag degli
occhiali pestati per sette volte: la limitazione della
vista, simbolo del rifiuto da parte della società),
un uso sardonico dei materiali d’archivio.
Ma attraverso il primo di una lunga teoria di “perdenti”, Allen inizia anche a delineare la sua ideologia dell’everyman, schiacciato dai modelli di
successo della società massificata. Virgil, infatti,
vuole affermarsi come criminale ma non disdegna
l’idea di cambiare vita (si fa per dire, ironizza
Allen) diventando “senatore”. Eppure è tragicamente destinato a una sequela di fallimenti. è rifiutato persino dai teppisti del quartiere. E
neanche i genitori - coperti dalle maschere di
Groucho Marx per non farsi riconoscere nelle loro
esilaranti “testimonianze” - riescono ad accettarlo.
Mentre alla prima moglie è affidato il suo epitaffio definitivo: “Non ebbe mai un riconoscimento”
Con Prendi i soldi e scappa comincia la collaborazione di Allen con i produttori storici Jack Rollins e Charles H. Joffe che non lo abbandoneranno
mai: suoi primi manager, sono quelli che lo incoraggiano e lo convincono a salire su un palco per
la prima volta al Blue Angel di New York, e sono
le persone con cui il regista newyorkese si confronterà più spesso prima della lavorazione di un
film, almeno nella fase iniziale della carriera. Inizia anche il rapporto col montatore Ralph Rosenblum, subentrato in sede di lavorazione.
Allen viene messo sotto contratto dalla United Artists, e propone come seconda opera un’ambiziosa
sta volta come attore, il mediocre James Bond 007
- Casino Royale, dove trascorre sei mesi a Londra
per recitare solo un piccolo ruolo, e ne approfitta
per “socializzare, giocare d’azzardo, godersi Londra” e scrivere una commedia, Don’t Drink The
Water (che nel 1994 adatterà per la tv). Sono anni
in cui scrive anche racconti per il prestigioso New
Yorker, parzialmente raccolti poi in “Rivincite”,
“Senza piume” e “Effetti collaterali”. La grande
facilità di scrittura di Allen diventerà una delle ragioni per cui sarà in grado di sviluppare un progetto all’anno.
Che fai, rubi? (What’s Up, Tiger Lily?, 1966) è un
film giapponese che Allen viene incaricato di doppiare. “Una cosa molto stupida e infantile”, “un
film insipido, un esercizio pretenzioso” che Allen
tenta addirittura di bloccare dopo l’uscita per alcuni cambiamenti operati dai produttori. Forse
sarà pensando a questa pellicola che sfornerà una
delle sue battute definitive: “Il mio primo film era
così brutto che in sette stati americani aveva sostituito la pena di morte!”.
Esperienze non esaltanti che però lo portano finalmente dietro la mpd per Prendi i soldi e scappa
(Take The Money And Run, 1969). Allen lo scrive
con l’amico e vecchio compagno di scuola Mickey Rose, e propone ad altri di dirigerlo, tra cui
Val Guest e Jerry Lewis (che il regista newyorkese in verità non ama molto, pur considerandolo
un comico di grande talento). Il film viene poi
prodotto dalla Palomar, casa di produzione appena formatasi, che affida ad Allen stesso la regia,
concedendogli molta libertà.
Il protagonista (il memorabile Virgil Starkwell da
Baltimora) è un aspirante gangster vigliacco, maldestro e fissato con le donne: uno standard comico
presto riconoscibile, preso in prestito dalla tradizione umoristica ebraica dello schlemiel, lo
sciocco, imbranato e sfortunatissimo cui si erano
già ispirati maestri come i fratelli Marx e Charlie
Chaplin.
8
Una scenda tratta da Il dittatore dello stato
libero di Bananas, primo grande successo
commerciale di Woody Allen
storia sul jazz, una sceneggiatura molto
seria che non convince i produttori, a
differenza de Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas, 1971).
Un’altra slapstick comedy “casualmente politica”, come la definirà lui,
che mette alla berlina i vari staterelli
dittatoriali del Sudamerica esportatori
di banane, ma soprattutto la rivoluzione
castrista cubana (da qui la smisurata
barba posticcia del protagonista).
Sceneggiato insieme a Mickey Rose e
girato a Portorico, Bananas narra la ca- Ne Il dittatore dello stato libero di Bananas, compare, per la prima volta sullo
sualissima ascesa al potere di Fielding schermo, Sylvester Stallone, nella scena del pestaggio sulla metropolitana
Mellish, un goffo collaudatore che
gilato) e, in definitiva, la società dell’incomunicasbarca il lunario verificando la funzionalità di ap- bilità (emblematica la farneticante arringa in aula:
parecchi come il “dirigenginnico”, in grado di ras- “Questo processo è una parodia, è la parodia di
sodare la muscolatura anche al manager più un’impostura di una beffa di un’impostura di due
sedentario. Trascinato dalla giovane militante parodie di una beffa”). Ma quello della decostruNancy (Louise Lasser, la sua seconda moglie) a San zione linguistica resterà uno dei temi centrali di
Marcos/Bananas, viene fatto prigioniero dai guer- tutta la produzione alleniana.
riglieri. Fino a quando, dopo una serie di rocambo- Da segnalare nel film, oltre alle svariate citazioni,
lesche vicissitudini (tra cui il golpe di un storiche e cinematografiche, anche un giovanissimo
simil-Castro che impone lo svedese come lingua uf- Sylvester Stallone alla sua prima apparizione sul
ficiale e cambi di biancheria intima ogni mezz’ora!) grande schermo, nella scena del pestaggio in mediventa il nuovo, barbutissimo presidente, finendo tropolitana.
con l’essere arrestato al suo ritorno negli Stati Uniti. Bananas entusiasma solo parte di una critica forse
Qui ha luogo un esilarante processo, con Edgar non ancora matura per comprendere la modernità
Hoover, lo storico capo della Cia, travestito da del suo linguaggio comico, ma riscuote ottimi condonna di colore, e lo stesso Fielding che, imbava- sensi di pubblico, soprattutto in quell’Europa che
gliato e legato, costringe alla confessione un altro spesso meglio della madrepatria saprà apprezzare
testimone (parodia fin troppo esplicita del processo la produzione alleniana.
ai “sette” di Chicago, guidati dal leader delle Pantere nere, Bob Seattle).
PROVACI ANCORA, WOODY
Geniale pastiche di generi , tra gag, giochi di parole La prova successiva, però, non è davanti alla mace battute fulminanti, sgangherato nella sua costru- china da presa. Allen, infatti, scrive e recita il ruolo
zione, priva di un filo narrativo coerente, e accom- di protagonista per la commedia teatrale Provaci
pagnato ossessivamente dal tema musicale ancora, Sam (Play It Again, Sam, 1972), omaggio
(“Quiero la noche con pasion”), Bananas è il più e citazione di Casablanca, diretta a Broadway da
divertente dei primi film alleniani (l’AFI lo inserirà Joe Hardy. Allen ama la vita tranquilla dell’attore
al 69º posto nella classifica delle migliori 100 com- di teatro (“Da dove abitavo si arrivava tranquillamedie americane di tutti i tempi), ma è al contempo mente a piedi al teatro, e così [io e Diane Keaton]
un nuovo manifesto di un pensiero fortemente cri- ci potevamo fare una bella passeggiata su Broadtico sulla società americana. Allen da un lato sbef- way. Poi si andava in scena”), ma non pensa di
feggia la mitologia guevariana e castrista, dall’altro trarne un film. Quando i suoi agenti vendono la stocondanna senza mezzi termini l’azione della Cia e ria per il cinema, rifiuta di dirigerla, trattandosi di
l’appoggio statunitense ai vicini regimi dittatoriali un progetto per lui ormai vecchio ed esaurito, poco
del Sudamerica. Ma soprattutto, nel suo mirino, fi- stimolante. Si limita a recitarvi con il cast originale.
niscono la società dei media, dove è la televisione La sua fama è cresciuta dopo i primi lavori e la proa stabilire cosa sia vero o no (il frequente ricorso ai duzione gli concede fiducia come protagonista,
reportage e alle telecronache, inclusa quella finale, visto anche il rifiuto da parte di altri attori.
che racconta sardonicamente la prima notte di Anche se la regia cinematografica viene affidata a
nozze di Fielding e Nancy come un incontro di pu- Herbert Ross, Provaci ancora, Sam è emblematico
9
per sondare il ricorrente e fondamentale
rapporto tra realtà e
fantasia nel cinema di
Allen (“Penso dipenda essenzialmente
dal fatto che odio la
realtà”). Il protagonista Allan Felix (Sam
nella versione italiana), plagiato dal
suo “angelo custode”
Humphrey Bogart,
cerca di trasformare
la vita in situazione
filmica, come fuga da
un presente che non
funziona. è un altro
leit motiv dell’opera
di Allen, che troverà
ancor più compiuta
definizione su La
rosa purpurea del
Cairo, dove il cinema
uscirà direttamente
dallo schermo per
farsi
vita
reale.
“Credo che tutto queIn alto a sinistra: Provaci ancora Sam; in alto a destra: la locandina de Il dormiglione; sopra: in coda
sto derivi dalla mia davanti a un cinema in Io e Annie
infanzia, durante la
quale fuggivo continuamente al cinema”. Allen la pianista jazz Harlene Rosen e dal secondo con
spiega come il mondo perfetto di telefoni bianchi, l’attrice Louise Lasser, Allen trova nella Keaton
donne bellissime e uomini con la battuta pronta quello che - anche a suo dire - resterà il grande
fosse una via di fuga dai problemi reali, che ha avuto amore della sua vita. La descrive come una donna
su di lui “un’influenza schiacciante” mai superata. ricca di talento e di gusto, colta, straordinariamente
“Il desiderio di controllare la realtà, di riuscire a sce- spiritosa. Una persona del cui giudizio si fida ciecaneggiare la realtà e far andare a finire le cose come mente. “Molto spesso mi sono trovato a vedere le
vuoi tu. Perché l’autore non fa che creare un mondo cose attraverso i suoi occhi, e questo ha davvero migliorato e ampliato il mio modo di percepire le cose.
in cui gli piacerebbe vivere”.
Lei
ha una grande influenza su di me”. Nessun altra
Oltre a indagare lo scarto tra realtà e fantasia, Provaci ancora, Sam offre un nuovo, brillante spaccato musa alleniana saprà mai eguagliarne fascino e
dell’umorismo alleniano, che si regge su situazioni verve.
quotidiane, ottimi dialoghi e citazioni cinematogra- Tornati a casa una sera da una partita di pallacanefiche, e trova posto nella New York degli amori e stro, Allen e Diane Keaton vedono in tv il dottor
dei tradimenti, delle nevrosi e delle insicurezze, David Reuben che parla del suo bestseller, Tutto
quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non
degli uomini d’affari e delle donne superficiali.
avete
mai osato chiedere (Everything you always
Ma Provaci ancora, Sam è importante anche per un
aspetto di vita privata: è sul palco di Broadway che wanted to know about sex (but were afraid to ask),
Allen conosce Diane Keaton, con la quale inizia una 1972). Allen trova sia un ottimo pretesto per un film,
delle sue più importanti relazioni sentimentali che scopre che i diritti sono già acquistati da Elliott
si concluderà alla fine del decennio (i due resteranno Gould, che però non lo sta producendo e che quindi
sempre in ottimi rapporti e si ritroveranno poi anche accetta di venderli alla United Artists. Il dottor Reusul set). Uscito distrutto dal primo matrimonio con ben, prendendo molto seriamente il proprio lavoro
10
(in realtà piuttosto ridicolo), non apprezza la trasposizione di Allen, che utilizza alcune domande
del libro reinventando a suo modo le risposte. Il
tema del sesso era già presente negli stand-up di
Allen e tornerà spesso nel suo cinema, in chiave
più o meno seria, freudiana, come componente
basilare delle relazioni, o per ridicolizzare (come
in questo caso) il modo di percepire il sesso
negli Usa, infantile e puritano, al quale si contrappone il modello “emancipato” post-sessantottino. Al di là di alcuni episodi più brillanti di
altri (certamente quello affidato a Gene Wilder,
“è disdicevole amare gli animali?”, e quello
dove Allen compare come spermatozoo), non è
un’opera particolarmente riuscita, per quanto entrata con forza nella cultura pop: basti pensare a
quante volte il solo titolo sia stato saccheggiato
o rimaneggiato. Da ricordare l’episodio “all’italiana”, dove Allen e Louise Lasser parlano una
sorta di italiano e omaggiano i personaggi borghesi e annoiati di Antonioni.
Il capitolo successivo cambia completamente registro. Allen propone alla United un film di quattro ore, a metà del quale il protagonista viene
ibernato per risvegliarsi duecento anni dopo
nella New York del futuro. Data la difficoltà di
un progetto simile, il regista newyorkese mantiene solo la seconda parte dell’idea per Il dormiglione (Sleeper, 1973). Un omaggio alla
slapstick comedy dove Allen indossa ancora la
propria maschera comica prima maniera e in cui il
ruolo femminile è cucito su misura per una bellissima Diane Keaton, sulla falsariga delle eroine dei
film di Buster Keaton. Il film sembra richiamare atmosfere keatoniane anche negli inseguimenti, nel
pessimo rapporto con le macchine (incluso il leggendario Orgasmatic, l’infernale marchingegno che
provoca orgasmi automatici) e in una comicità corporale e fisica che si alterna alla satira politica e di
costume degli anni Settanta (televisione, feste,
ideologie).
Ad Allen non sembra interessare tanto la politica
(sebbene non manchino frecciate al Reagan allora
governatore della California e persino preveggenti
battute su Nixon e il Watergate), né la fantapolitica.
L’ambientazione futura è essenzialmente un pretesto comico, ma non mancano rimandi alle opere di
Aldous Huxley e George Orwell (la spersonalizzazione, l’automazione e rarefazione, anche del piacere e dei sentimenti, la perdita della memoria
collettiva), uniti a un generale senso di angoscia per
un futuro dominato dalle macchine. E le ultime battute - “credo nel sesso e nel decesso, due cose ve-
ramente fondamentali della vita” - sono già una
summa definitiva dell’Allen-pensiero.
Per l’occasione Allen compone e suona direttamente le musiche con la Preservation Hall Jazz
Band e la New Orleans Funeral Ragtime Orchestra.
Attenzione al doppiaggio italiano che stravolge
molte battute, come accadrà in altri film.
Raggiunta ormai una discreta fama di autore comico, Allen alza il tiro sublimando in un colpo solo
il suo genio umoristico e la sua vena cinefila e letteraria in una commedia raffinatissima, che lui
stesso ricorderà come la sua miglior opera del
primo periodo. Amore e guerra (Love And Death,
1975) è un ritorno alle origini, in tutti i sensi. Il film
viene infatti girato tra la Francia e l’Ungheria, il
paese dove sono nati i nonni del regista. Con un taglio marcatamente europeo, a cominciare dalla fotografia, firmata dal francese Ghislain Coquet. Ed
europee sono anche molte delle innumerevoli citazioni che costellano la pellicola. Quelle cinematografiche, anzitutto, da Bergman con tanto di finale
che fa il verso a Il Settimo Sigillo (ma anche un’inquadratura di due figure femminili sovrapposte che
omaggia Persona) a Ejzenstein (le “maschere”
russe iniziali e un chiaro tributo alla Corazzata Potemkin nella sequenza dei tre leoni di Pietroburgo).
Ma infiniti sono anche i rimandi letterari e filosofici, a cominciare da quello più esplicito, “Guerra
e pace” di Tolstoj, a svariati ammiccamenti alla narrativa russa (Dostoevskij, Checov, Turgenev), da
parodie del Romanticismo a riflessioni esistenziali
con Spinoza e San Tommaso. Il tutto condito dalle
musiche sinfoniche di Sergej Prokofiev.
Una commedia colta, dunque, che però non sfocia
mai in mero intellettualismo, grazie alla straordinaria levità che la guida dalla prima all’ultima scena.
Pur proiettato nel dramma, Allen non rinuncia al
suo consueto nonsense (“E c’erano il vecchio Grigorij e suo figlio, il giovane Grigorij. Stranamente
il giovane Grigorij era più vecchio del vecchio Grigorij...”), al gusto per la battuta sardonica (“Che effetto fa essere morti? Hai presente il pollo al
ristorante di Tretskij? Beh, è peggio”), alle sue ossessioni sessuali (“Il sesso è stata la cosa più divertente che ho fatto senza ridere”, “Il sesso senza
amore è una vacua esperienza. D’accordo ma...
nella sfera delle esperienze vacue, è una delle migliori”).
Il protagonista, l’occhialuto e codardo Boris Grushenko, dovrebbe essere un contadinotto russo di
inizio Ottecento, ma incarna in realtà tutte le nevrosi e le ossessioni dell’intellettuale newyorkese
11
contemporaneo. La passione per la cugina Sonja
(una strepitosa Diane Keaton), moglie disinvolta
d’un ripugnante mercante d’aringhe, lo spingerà a
diventare “eroe per caso”, attentando alla vita di Napoleone, invasore della “Madre Russia”, e finendo
irrimediabilmente nei guai. Proprio i contorti e spassosissimi dialoghi tra Allen e la Keaton (ormai pienamente co-protagonista) sono il motore della
comedy, che gira sempre al massimo, senza pause o
cedimenti. La miriade di gag non nasconde però
l’ennesima satira contro le istituzioni (lo zar e Napoleone, come metafore tragicomiche dell’inettitudine dei potenti), le ossessioni tanatologiche e uno
sguardo pessimista su una condizione umana solo
parzialmente riscattata dall’amore. Torna anche la
demolizione del linguaggio, preso beffardamente
alla lettera (il pezzetto di terra del padre che è una
vera e propria zolla), distorto in nonsense o parodiato attraverso i continui luoghi comuni e giochi di
parole.
Stavolta anche la critica applaude unanime. E Allen
conquista anche l’Orso d’argento speciale al Festival
di Berlino.
NEW YORK, NEW YORK
Nel 1977, dunque, Woody Allen è già l’indiscusso
re della risata intelligente. Ma l’amore per il cinema
di Ingmar Bergman lo spinge più in là, nei dirupi
della psiche e dei rapporti di coppia, seppur sempre
sdrammatizzati da una implacabile ironia jewish.
Affiancato da Marshall Brickman, parte da un
giallo-rosa per approdare a una storia sentimentale
e autobiografica. Cambia anche il titolo: all’inizio è
“Anedonia” (in greco, “l’impossibilità di provare
piacere”, una malattia tipica dei suoi personaggi),
poi diventa Annie Hall, dal diminutivo e dal vero cognome della Keaton. Tutto il film, in realtà, è un’ode
alla deliziosa Diane, in forma straripante con le sue
gag, i suoi sorrisi, le sue improvvisazioni e il suo
look da Mary Poppins.
“Io non vorrei mai appartenere a un club che contasse tra i suoi membri uno come me”. Sguardo
dritto nella macchina da presa, Alvy Singer si presenta così, aprendo il sipario sulla più incantevole
delle commedie alleniane. Ma se la citazione di
Groucho Marx è solo la prima di un’infinita serie di
battute irresistibili, si può senz’altro definire Io e
Annie (Annie Hall, 1977) il primo film non-comico
di Allen. L’espediente del monologo rivolto al pubblico prelude infatti a un nuovo genere di dramma
mascherato da commedia. Una nervous romance. E
sarà la prima di una lunga serie, tutta rigorosamente
12
a sfondo newyorkese.
Allen è il paziente sul lettino dello psicoanalista (“ci
vado da 15 anni... gli do un altro anno, poi vado a
Lourdes!”), si alterna dentro al film e al suo esterno,
insieme protagonista e osservatore. Il legame con le
pellicole precedenti sta nella struttura frammentata
e nella libertà della costruzione narrativa: un flusso
di situazioni che si susseguono in un continuo andirivieni tra presente e passato che fece disperare il
povero Ralph Rosemblum in fase di montaggio (il
materiale originario era di 4 ore!). Ecco allora la
“confessione” di Alvy: bambino dal precoce appetito sessuale, cresciuto in una litigiosa famiglia
ebrea, con le montagne russe sopra il tetto di casa(!)
e soggetto a qualche depressione “per i timori di
espansione dell’universo”. Divenuto adulto, è un comico di successo, con due matrimoni falliti alle
spalle e una collezione rara di ossessioni. Tuttavia
ha un discreto ascendente sulle donne: riduce la saputella Allison Portchnik a “stereotipo culturale”,
s’infila nel letto della mistica Pat, cronista di “Rolling Stone”. Poi, durante una partita di tennis, incontra Annie, ragazza svitata di famiglia wasp, con
velleità da cantante. Sembra quasi il suo alter ego:
impacciata e confusa, tenta di ingannare le insicurezze con buffe interiezioni (“la-di-da”), marijuana
prima del sesso e folli scorribande su una vecchia
Volkswagen.
La love-story sboccia in una scena da cineteca: i due
balbettano una surreale conversazione sul senso dell’estetica, mentre i sottotitoli ne svelano i pensieri
reali a sfondo sessuale. Alvy avvia Annie alla psicoanalisi, la incoraggia a nuove letture e la trascina
a vedere i film di Bergman. Ma sarà proprio la psicoanalisi a emancipare Annie, spingendola a caccia
di gloria in quella odiata California che l’anti-hollywoodiano Allen ha elevato a simulacro di tutti gli
orrori (il cibo macrobiotico, l’architettura kitsch, i
riti satanici, il jet-set, la macchina per gli applausi).
Il finale riserverà nuovi incontri e un commovente
amarcord.
Io e Annie non è solo l’archetipo (e la migliore) di
tutte le commedie di Woody Allen. è l’essenza della
sua arte del contrasto uomo/donna, dell’eterna incapacità di capirsi, dell’anedonia dei rapporti sentimentali. è l’incanto - rinnovato poi nella rapsodia
di Manhattan - di una “New York dell’anima” opposta titanicamente al resto del mondo. La prospettiva è solo apparentemente individuale. Perché
l’inadeguatezza di Alvy è anche il prezzo di un decennio che ha bruciato gli ideali romantici dei 60,
inseguendo nuovi miti: il successo, la libertà sessuale, la vita da single, l’emancipazione femminile.
Ci sono tutti gli ingredienti indispensabili a una
commedia: dialoghi scoppiettanti, humour, ritmo,
leggerezza, intelligenza, malinconia. Ma il gusto si
annida anche nei tanti, memorabili dettagli: le aragoste che guizzano tra le mani, il sapone nero, il copricapo spaziale contro il sole, l’auto-scontro, il
santone alla toilette, il ragno enorme e le racchette
Dunlop. Il tutto reso attraverso un uso geniale del
mezzo cinematografico, tra apparizioni improvvise,
split-screen, piani sequenza, flashback, inserti
d’animazione e camera look. Anche la fotografia a cura dell’ottimo Gordon Willis (Il Padrino I e II)
- è multiforme: grigiastra per gli esterni di New
York, abbagliante per la California e dorata per i ricordi dell’infanzia.
Alla debordante coppia protagonista si aggiungono
la fidata “spalla” Tony Roberts e una parata di star,
del presente e del futuro: Christopher Walken e Jeff
Goldblum, Shelley Duvall (Shining), Paul Simon,
Beverly D’Angelo (Hair) e una quasi-esordiente Sigourney Weaver. Paradossalmente, a rendere omaggio all’opera che ha inventato il “mal di Los
Angeles” sarà proprio Hollywood, con quattro
Oscar: film, regia, sceneggiatura, attrice protagonista (Diane Keaton).
Interiors (Interiors, 1978) si colloca a metà tra due
capolavori, a suggello di uno dei periodi più brillanti della carriera di Allen, che, dopo la consacrazione dell’Oscar, si guadagna la facoltà di poter
girare il suo primo film drammatico. Ma il pubblico
si sente tradito dal cambio di stile, e la critica americana accoglie freddamente questo dramma all’europea sull’angoscia della morte, fortemente debitore
di Bergman. Un film che, se da un lato pecca di una
certa inesperienza espressiva, dall’altro si rivela uno
dei più intensi e profondi per contenuti. Al centro,
la figura di una madre forte ma disperata in seguito
all’abbandono del marito, circondata dalle tre figlie:
un’attrice di soap opera, una poetessa fredda, che
cerca nell’arte rifugio e consolazione, e una donna
senza talento, per questo più vera e sincera delle
altre. Tre sorelle a confronto, tre ritratti di donne
come sarà poi per Hannah e le sue sorelle. Oltre all’inevitabilità della morte, qui Allen si concentra sul
finto sollievo dell’arte (“Talvolta penso che l’arte
sia la religione degli intellettuali. [...] Ma la verità
è che l’arte non ti salva”), la vecchiaia, e il valore
del talento o la sua mancanza. Musiche quasi assenti, regia composta e a tratti pittorica, esaltata
dalla fotografia di Gordon Willis.
è proprio un colloquio con Willis a ispirare l’idea
per un film in widescreen e bianco e nero. è la suggestione (ennesima) di un cinema passato, che qui
ha anche la funzione di esaltare fino in fondo il “colore” di New York, uno dei grandi protagonisti di
Manhattan (Manhattan, 1979). Un inno alla sua
città in cui si sublima fino in fondo il cinema di
Allen e che contribuisce a creare l’impronta più
marcata nella sua filmografia, che qui ottiene la
consacrazione definitiva.
L’Allen di Manhattan è quello che indaga i sentimenti, le relazioni e i tradimenti, quello che ha problemi con le donne, che fa battute argute e frequenta
psicanalisti. Ride delle idiosincrasie di quella New
York colta e intellettuale, coi suoi personaggi nervosi, nevrotici, immaturi e irrazionali: “A cast of a
Fellini movie”.
La musica di George Gershwin e la voce fuori
campo di Isaac Davis (Allen), che non può funzionare in nessun posto se non a New York, aprono una
storia di (scambi di) coppie, che nasce nel momento
in cui Isaac conosce Mary (Diane Keaton in uno dei
ruoli più maturi), amante del suo migliore amico, e
i due hanno subito un divertente scontro intellettuale.
Una storia che parla di “[...] people in Manhattan
who are constantly creating these real, unnecessary,
neurotic problems for themselves ‘cos it keeps them
from dealing with more unsolvable, terrifying problems about the universe”. Fino a giungere a quel
finale struggente e romantico, forse uno dei più belli
dell’intera storia del cinema: quell’elenco di cose
per cui life is worth living (e che sottoscriviamo) che
aprono gli occhi al protagonista e lo fanno correre
fino a casa di Tracy (una dolcissima Mariel Hemingway) per quell’addio malinconico e velatamente
ottimista (“You have to have a little faith in people”).
Condito da battute folgoranti (“You think you’re
God!”, “I gotta model myself after someone”) e momenti di grande romanticismo (la corsa in calesse a
Central Park, “You’re God’s answer to Job. You
would have ended all argument between them. He’d
have said ‘I do a lot of terrible things but I can also
make one of these’”; e l’alba davanti al ponte - che
fa sempre correre un brivido lungo la schiena), Manhattan vede un regista elegante e in forma, che gioca
con scene lunghe, movimenti di macchina, inquadrature da cui i personaggi entrano ed escono: uno
stile che ripeterà spesso. Così come alcuni topoi: i
romanzi che rendono pubbliche le vite degli altri, la
formazione del figlio e di una ragazza più giovane
(quella stessa Mariel Hemingway che nel 1997 si
troverà a fare l’impicciona in Harry a pezzi), le
danze romantiche e le rotture (qui forse una delle
più struggenti, quella tra Isaac e Tracy).
La città è protagonista con la sua topografia: oltre a
quelli più noti, ci sono gli ambienti più frequenti e
frequentati in Allen: appartamenti, librerie, teatri, cinema, musei, sale da té e ristoranti (tra cui l’amato
“Elaine’s”). Manhattan è il primo film in cui Allen
impiega Wallace Shawn (qui è il focoso ex di
Mary/Diane Keaton) come attore e Susan E. Morse
al montaggio. Curiosamente, il regista non si ritenne
14
soddisfatto del film e cercò di bloccarne l’uscita, nonostante fosse (e rimanga) uno dei cardini della sua
carriera.
Ma dopo il grande successo di Manhattan, arrivano
nuovi fraintendimenti. In Stardust Memories (Stardust Memories, 1980), infatti, pubblico e critica
identificano lo stesso Allen con il personaggio del
regista in crisi, arrabbiato con gli spettatori. Non
sarà la prima volta che viene individuata una componente autobiografica anche dove il regista newyorkese la nega con decisione. Film di difficile
lavorazione, presenta tracce di Fellini, anche nella
sequenza onirica iniziale dove Sandy Bates è intrappolato in un vagone di falliti (curiosamente, il finale
scartato di Otto e mezzo avrebbe dovuto svolgersi
su un treno). La giustapposizione di realtà e fantasia,
un gusto per il surreale e l’onirico, la magia, il cinema, New York, l’amore tormentato e un attento
controllo del mezzo rendono in realtà la pellicola
una delle più interessanti della filmografia alleniana.
Il regista conia qui la “malinconia di Melpomene”,
“un sintomo che ho inventato per descrivere [...] il
fatto che le tue opere d’arte non ti salveranno e che
alla fine non avranno alcun senso”. Allen sottolinea
il proprio disinteresse per le logiche di mercato e le
sue inclinazioni europee (a testimonianza, la presenza della sempre splendida Marie-Christine Barrault). Ottima anche Charlotte Rampling, da
ricordare nella sequenza a frammenti dell’esaurimento nervoso: mdp fissa sul volto, immagini e parole scomposte.
VITA DA CAMALEONTE
Si rivelerà un flop economico anche il successivo
Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A
Midsummer Night’s Sex Comedy, 1982), girato contemporaneamente a Zelig, come riempitivo. La storia è ambientata nei primi del Novecento, in una
località del Middle West bucolica e dai contorni da
pittura impressionista, dove alcuni ospiti (un medico, un’infermiera, una donna seducente, e un filosofo materialista) raggiungono la villa di un
inventore e sua moglie, dando vita a una girandola
di equivoci amorosi e scambi di parti e di coppie.
“Sex alleviates tension and love causes it”, sostiene
Andrew/Allen: crisi sentimentali e sesso, rimpianti
e occasioni perdute, gelosie e desideri, romanticismo e magia come potrebbero essere trattati nella
New York contemporanea, vengono spostati nel
tempo e nello spazio. Allen sceglie un’unità di luogo
e di tempo (come farà poi per Settembre), e un intreccio da commedia teatrale, per rimarcare la dico-
tomia tra fantasia e realtà, qui espressa dallo scetticismo cosmico del dottor Leopold (a cui spetta il
compito di vedere la vita come un atavico e sterile
meccanismo, per poi ricredersi), ma soprattutto dall’invenzione di Andrew: quella palla che rileva le
presenze spiritiche, sorta di lampada magica che è
sublimazione del cinema capace di svelare la verità
dei sentimenti, mostrare l’invisibile e rendere immortali.
Accompagnato dalle musiche di Mendelssohn e
scritto in sole due settimane (il che rende l’idea
della facilità di scrittura alleniana), Una commedia
sexy in una notte di mezza estate è un divertissement in costume che ricorda Sorrisi di una notte
d’estate di Bergman, in parte trascurabile se non per
il fatto che segna il primo capitolo del lungo sodalizio di Allen con la sua nuova musa e compagna,
Mia Farrow. Profondamente diversa dalla Keaton
per fisico e movenze, meno (auto)ironica ma altrettanto fragile ed espressiva, la Farrow sarà protagonista di quasi tutta la produzione alleniana degli
anni Ottanta. A cominciare dal gioiello dell’intero
decennio, ambizioso fin dal budget (dieci milioni
di dollari) e dalla tecnica realizzativa, con un ampio
ricorso a filmati d’epoca e con la fotografia di Gordon Willis “invecchiata” ad arte, tra fotomontaggi
e animazioni al computer.
In Zelig (Zelig, 1983), Mia Farrow è Eudora Fletcher, la psichiatra che tenta di curare l’ineffabile
protagonista. In una New York fine anni Venti, il
piccolo impiegato Leonard Zelig (Woody Allen) è
infatti vittima di una ignota malattia : nella sua smisurata smania di essere accettato e amato dal pros-
Una scena del film Zelig
15
simo, ha sviluppato la capacità camaleontica di assumere le sembianze e la personalità di chiunque incontri. Ricoverato in ospedale, Zelig (in yiddish
“benedetto”) viene affidato alle amorevoli cure della
sua strizzacervelli. Ma nel frattempo il suo “camaleontismo” gli frutta un’inattesa popolarità, che la sorellastra Ruth cerca di sfruttare trasformandolo in un
fenomeno da baraccone. Seguono svariate ed esilaranti
peripezie, inclusa un’imprevedibile presenza di Zelig
alle spalle di Hitler durante un comizio a Monaco. Fino
all’altrettanto inatteso trionfo finale.
Zelig, oltre che prodigio d’inventiva e tecnica cinematografica, è l’apoteosi dell’Allen-pensiero. La parabola
dell’everyman giunge qui alle sue conseguenze
estreme: l’unico modo per farsi accettare è non solo
l’omologazione ma la completa identificazione col
prossimo (“Mi dà sicurezza essere come gli altri”,
ammetterà in trance). Se essere veramente se stessi
non paga, tanto vale essere falsi. Uno, nessuno e
centomila: Zelig è una maschera pirandelliana, il
simbolo di tutte le aberrazioni del trasformismo,
nonché l’approdo parossistico di un classico topos
cinematografico come quello del “doppio”. “La malattia di Zelig - spiegherà Woody Allen al New York
Times è un male che appartiene a ciascuno di noi.
Nel film è portata all’estremo. Ovvero tutto ciò che
può portare al conformismo e infine al fascismo.
Perciò ho scelto la forma del documentario: non volevo mostrare questo personaggio nel suo privato”.
Non è un caso, del resto, il taglio da cinegiornale,
tra sonoro distorto, pellicola rigata, immagini
d’epoca ritoccate, oltre alle (vere) interviste a personaggi come Irvin Howe, Saul Bellow, Bruno Bettelheim, Susan Sontag. Allen, infatti, punta ancora
una volta l’indice contro i
media, strumenti-chiave di
propaganda per qualsiasi potere, che sia quello nazista
(sbertucciato nella sequenza
succitata, doppiamente ironica: cosa ci fa un ebreo, sul
palco con il Fuhrer?) o anche
solo quello di ogni governo
occidentale che, attraverso
questi, riesca a manipolare le
coscienze.
Ma Zelig è anche e soprattutto un altro film sull’amore
come unica risposta positiva
al dramma dell’esistenza: ciò
che muove il protagonista è
infatti, anzitutto, il bisogno
di suscitare sentimenti, di
essere amato. “Non fu l’approvazione delle masse,
ma l’amore di una donna a cambiare la sua vita”,
chioserà il commentatore, a conclusione del film.
Crollate le certezze, ammesso anche l’inconfessabile (“ho letto solo le prime due pagine di Moby
Dick!”), Zelig riesce a farsi “ricostruire” la personalità dalla dottoressa Fletcher solo abbandonandosi
all’amore.
Non mancano le solite battute fulminanti (“La famiglia Zelig abitava sopra a un bowling, ma erano
spesso gli avventori del bowling a protestare per il
troppo rumore”; “Ho in analisi due coppie di gemelli siamesi che soffrono di sdoppiamento della
personalità: vengo pagato da otto persone”; “Certo
che sono un medico... Anzi devo proprio andare.
Sai, tengo un corso sulla masturbazione... Se no cominciano senza di me...”). E gli ottanta minuti del
film scorrono piacevolissimi, divertendo e commovendo in un sorso solo.
I personaggi di Allen spesso gravitano attorno agli
ambienti artistici. Se non sono il cinema, la televisione o la letteratura, tocca al teatro: Broadway
Danny Rose (Broadway Danny Rose, 1984), ad
esempio, è un disastroso impresario coinvolto suo
malgrado con la mafia. è un divertente omaggio a
Broadway, amarcord dei tempi dello stand-up, in cui
Allen ricorda i comici seduti per ore a tavola a raccontarsi aneddoti (gli avventori di un ristorante che
narrano la storia del film li ritroveremo in Melinda
e Melinda). Lo stesso soggetto è teatrale: nasce infatti dall’opera “The Floating Light Bulb”, messa in
scena da Allen nel 1981 per il Vivian Beaumont
Theatre di New York.
Il regista vince la scommessa di far recitare la Farrow quasi sempre con gli occhiali da sole, nei panni
della sguaiatissima arredatrice Tina Vitale, ex-moglie di un gangster (un personaggio da commedia
all’italiana, lontanissimo da quelli interpretati dall’attrice californiana fino a quel momento), e di
piazzare di fronte alla mdp tale Nick Apollo Forte,
scovato assieme alla fedelissima Juliet Taylor (storica addetta al casting) in una bettola del Connecticut. è lui il memorabile Lou Canova, il corpulento
crooner italoamericano da piano bar off , che interpreta maccheronici hit come “My Bambina” e
“Agita” (“Agita/ My gumba in the banzone/ When
I eat, he gets a treat/ Like a canzone”) passandosi il
microfono tra le mani. Uno dei tanti trucchi, quest’ultimo, suggeritigli da Danny Rose, impresario
dal campionario di artisti patetici e invendibili, con
tanto di ventriloquo balbuziente, xilofonista cieco e
ballerino di tip tap con una gamba sola. è un altro
perdente, ma la sua missione è quella di un redentore: dei suoi protetti derelitti in primis e della stessa
Tina, da sottrarre al suo destino di vacuo edonismo
e al suo pericolosissimo humus familiare. Un santo
(ebreo) degli impossibili, dunque, alle prese con gli
eterni dilemmi bene/male, colpa/redenzione.
Dietro le luci della ribalta di uno show-business feroce, affiora una Broadway passée, malinconicamente scolorita dal bianco e nero, dove annaspano
personaggi in fuga dalla loro sorte. Ma a brillare è
ancora una volta l’ironia sottile di Allen, la sua capacità di stilizzare in una battuta argomenti universali. Come l’immortalità legata a un panino del
Carnegie Delicatessen.
Film tra i più divertenti e struggenti di Allen, è anche
senza dubbio il più sottovalutato.
FUORI DALLO SCHERMO
L’immaginario iconografico dell’infanzia cinematografica di Allen riemerge di nuovo in un altro
omaggio, questa volta alle commedie romantiche
degli anni Trenta e Quaranta, La rosa purpurea del
Cairo (The Purple Rose of Cairo, 1985). Il regista
newyorkese spinge all’eccesso il rapporto realtà/fantasia con la storia di Cecilia, una solitaria cameriera,
fanatica senza speranza dei film di Hollywood e innamorata di un attore (Jeff Daniels) che uscirà letteralmente dallo schermo, entrando nel mondo reale.
Stavolta è il cinema stesso, il suo rapporto con il
pubblico, a finire sul lettino dello psicanalista.
Allen dichiara di aver abbandonato la sceneggiatura
a un punto morto, fino alla decisione di far comparire il vero attore nella storia: momento cruciale che
spinge la protagonista (una tenerissima e naif Mia
Farrow) ad aprire gli occhi. Alla fine tutti torneranno
al proprio posto, ma, almeno per un istante, potranno dire di aver vissuto il loro sogno.
Ambientata nell’epoca della Grande Depressione,
La rosa purpurea del Cairo è un’altra commedia
complessa, filosofica, ma al contempo leggera e immediata. Con un velo di malinconica dolcezza a impreziosire una trama fin troppo esile e lineare. è la
metafora della presa di coscienza e dell’incanto del
cinema come via di fuga, rituale luogo di riparo e
consolazione.
16
Riparo e consolazione nel buio della sala che troverà
anche Micky Sachs (Allen) in Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters, 1986) nel momento
di maggior depressione. Struttura in capitoli introdotti da didascalie (dogma chiave in Allen la citazione di Tolstoj: “L’unica conoscenza assoluta che
l’uomo possa raggiungere è che la vita non ha alcun
significato”), è il primo film che vede la collaborazione con Carlo Di Palma, del quale il regista
sfrutta lo stile europeo con consapevolezza e maturità. Ne esce un film profondo, uno dei capolavori
alleniani, una storia newyorkese corale e di ampio
respiro, con battute ispirate e momenti memorabili,
ipocondrie e nevrosi.
Torna il ritratto di famiglia, il divorzio, la crisi, l’incontro/scontro degli ex, il confronto tra sorelle.
L’etica del senso di colpa, l’arte insufficiente a lenire le sofferenze e l’inutilità della religione. Struttura narrativa circolare, comincia con un affollato
pranzo del Giorno del Ringraziamento, nonostante
la pigrizia di Allen nel girare scene complesse, e
termina con un finale ottimista (ma non troppo).
è anche una delle prove migliori della Farrow, che,
sotto la guida di Allen, si rivela attrice sempre più
versatile e sorprendente. Ma tutto il cast è straordinario, con Sir Michael Caine in grande spolvero.
Film certamente tra i più importanti e sentiti di
Allen, con la sua giostra di situazioni tipiche; un affresco di vita e di sentimenti riconoscibili, con situazioni orribili che si rovesciano grazie a pochi
scampoli di speranza. Si aggiudicherà tre Oscar
1987: “miglior sceneggiatura originale”, “miglior
attore non protagonista” a Michael Caine e “miglior
attrice non protagonista” a Dianne Wiest.
VIDEO KILLED THE RADIO STARS
Componente pressoché imprescindibile dei suoi
film, il jazz in Allen si è sublimato in cifra stilistica:
il regista predilige quello di New Orleans, ma anche
Bechet, Powell, Monk, Parker, Coltrane, Goodman,
Porter. Si ripresentano ciclicamente grandi classici
come, tra gli altri, “Bewitched”, “Night And Day”,
“In The Mood”, “Cheek To Cheek”, “Sing, Sing,
Sing”, “I’ll be Seeing You”, “How High The
Moon”. Radio Days (Radio Days, 1987) è un poutpourri di musica anni Quaranta, film corale e nostalgico sull’infanzia newyorkese ai tempi della
radiofonia. Il regista lega assieme alcuni aneddoti
di matrice autobiografica con altri di cronaca e finzione, in una carrellata di attori dove lui stesso è
voce narrante (il giovane Allen è impersonato da
Seth Green). L’epopea radiofonica è filtrata attraverso le vicende di una rissosa famiglia ebraica
della piccola borghesia e di una sigaraia aspirante
star (Mia Farrow).
Dopo il teatro e il cinema, ora è la radio il nuovo
rifugio dalla realtà. Un luogo mitico e mitizzato, affollato di cantanti, speaker, telecronisti sportivi e
donne irraggiungibili. Il medium ideale per abbattere ancora una volta ogni steccato tra vita reale e
fantasia, lasciandosi trasportare da quest’ultima. Su
tutta la pellicola, ingiallita dalla fotografia di Di
Palma, incombe però un senso di nostalgia e di
provvisorietà: “Le generazioni future si ricorderanno di noi? - si chiedono le celebrità radiofoniche
- Tutto passa non importa quanto siamo importanti
nelle loro vite”.
Radio Days resterà il solo film a vedere insieme sul
set le due compagne storiche di Allen: Mia Farrow
e Diane Keaton (nei panni di una cantante newyorkese).
L’amarcord radiofonico di Radio Days è il preludio alla malinconia crepuscolare dello splendido
Settembre (September, 1987). Un film dall’impostazione fortemente teatrale e dal kammerspiel
quasi checoviano, con le scenografie di Santo Loquasto che ricostruisce in studio la casa di campagna di Mia Farrow che ispirò ad Allen la storia.
Celebre per l’abitudine di aggiungere sempre
qualche giorno o settimana in più di riprese, Allen
17
In alto: Woody Allen e Mia Farrow in una scena di
Hannah e le sue sorelle;
a lato: Mia Farrow con Jeff Daniels in La rosa purpurea
del Cairo
turo e colto. Sole e insoddisfatte lottano per sistemare la propria vita, sanno ferire e sono vittime
degli uomini. Oltre a quello eccentrico e incantevole
di Diane Keaton, e a quello trasognato e sofferente
di Mia Farrow, hanno i volti di Judy Davis, Dianne
Wiest, e più recentemente di Scarlett Johansson.
si può concedere qui un lusso raro: trova inservibile
la prima versione del film e ne gira una seconda dall’inizio sostituendo alcuni attori.
Si tratta nuovamente di un ritratto femminile, ibseniano, simile a Interiors, dove troviamo la sensibilità inespressa, l’amore doloroso (qui anche tra
persone anziane), il rapporto genitori-figli, la pioggia che crea intimità, in un contorno inevitabilmente
bergmaniano.
La figura materna, l’ebraismo, il surreale, la psicanalisi, ovviamente la città, fanno parte dell’episodio
“Edipo relitto” (Oedipus Wrecks) di New York Stories - Storie di New York (New York Stories, 1989),
assieme alla magia e all’illusionismo. Tra uno Scorsese di maniera e un Coppola paterno, Allen è quello
più a suo agio nella breve distanza, con una storia
definitiva per quel che riguarda i conflitti edipici nel
suo cinema. Fugace apparizione per un giovane
Larry David che ventun anni dopo sarà protagonista
di Basta che funzioni.
Collaboratore proprio di Bergman, Sven Nykvist
firma la fotografia di Un’altra donna (Another
Woman, 1988), altro dramma all’europea, altro ritratto di donna incompreso dalla critica populista
americana. La psicoterapia ha ancora una volta un
ruolo chiave: la protagonista (Gena Rowlands) origlia casualmente dal proprio appartamento le sedute
di una donna (Mia Farrow) riconsiderando la propria vita, tra sogni, ricordi e realtà.
Un diversivo dopo la malinconia di Settembre e l’intimismo di Un’altra donna, e prima del capolavoro
con cui Allen prende commiato dagli anni Ottanta:
Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanours,
1989). Dramma e commedia convivono qui in modo
perfettamente bilanciato (e raramente così riuscito
al cinema) in un film di stampo quasi letterario.
Allen è Cliff, regista di documentari costretto a
scendere a compromessi per lavorare, mentre Judah
(Martin Landau), onorato rappresentante della co-
Tutti vorrebbero i problemi con le donne che ha
Woody Allen - aveva più o meno scritto una volta
Charles Bukowski, non senza perfidia. Sempre sensibile nei ritratti femminili, Allen mette in scena
donne mosse da forti passioni, con grandi istinti materni; oppure l’esatto opposto, fredde e calcolatrici.
Sono specchi contrapposti le une delle altre, instabili
o razionali. Se giovani, passano spesso attraverso un
percorso di formazione con la guida di un uomo ma-
Dianne Wiest e Sam Waterston in una scena di Settembre.
18
munità ebraica, vive il tormento di dover compiere
un delitto per salvare la propria integrità. La morte,
il ruolo dell’uomo nell’universo indifferente, il credere o no in una forza superiore, salvifica o punitrice, il compromesso, il senso di colpa di un delitto
impunito, il caso e il peso delle scelte sono temi
trattati qui con maggiore profondità che altrove (e
recuperati poi in parte per Match Point). Dostoevskij, dunque. In un’ottica disincantata della vita, il
crimine in Allen spesso paga, ma quello che importa è il modo in cui si sconta la pena (come per
Sogni e delitti). Come scrisse Borges: “Più ardua
dell’impresa di Napoleone fu quella di Raskolnikov”.
Crimini e misfatti è uno dei vertici della filmografia
di Allen, lucido e maturo, frutto di grande controllo
drammaturgico, ha decisamente qualcosa in più rispetto ad altri film: l’umorismo convive con la tragedia interiore; ci sono la crisi di coppia e la
tradizione ebraica, da cui il concetto di mensch e
del fare la cosa giusta; la formazione intellettuale
della ragazza giovane ad opera dell’uomo maturo.
Ma soprattutto la metafora degli occhi: Judah è un
oculista che, come altri personaggi, non vede, perché non vuole o non sa farlo; Cliff allo stesso modo
è un regista che osserva attraverso l’obiettivo; ricorre il riferimento agli occhi di Dio che tutto vedono; Judah deve vedere il cadavere di Dolores, per
punirsi o capire; il rabbino con cui Judah tenta di
confidarsi sta diventando cieco, e perfino il filosofo
sul quale Cliff sta girando un altro documentario si
suicida e non vede ragioni per cui vivere. Musica
classica per le parti drammatiche (qui Schubert - altrove saranno Satie, Mendelssohn, Verdi, Puccini,
Bach, Bizet, Mahler, Bartok), come se l’amatissimo
jazz fosse riservato alle commedie e la classica servisse invece a sottolineare meglio il dramma. Citazione poetica per la Dickinson (altre volte Allen cita
Rilke o Cummings).
Allen racconta quello che conosce meglio. L’ebraismo e New York, ad esempio, non sono tarli e fissazioni, ma un humus noto. Non c’è interesse
sociologico. Il tempo presente è quello che il regista
trova più facile raccontare e, grazie ad abbigliamento, design e scenografie, è subito riconoscibile
la decade di ogni film; il passato è invece dimensione del ricordo nostalgico o causa di dolore da
scontare; il futuro un tempo dove espiare o imparare a vivere. Scorribande in altri tempi (la Russia
di Amore e guerra, il futuro de Il dormiglione) sono
per lo più pretesti. La dimensione parallela è quella
della fuga, sotto forma di arte, cinema, sogno, fantasia e magia, che interagiscono con la realtà, com-
pletandola o dandole un senso.
COPPIE SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI
Dal 1990 si succedono tre opere diverse, su magia,
mistero e crisi di coppia. In un film forse ingiustamente dimenticato, Allen sale i piani più alti dei palazzi newyorchesi e regala a una Mia Farrow
straordinaria nei suoi cambi di registro uno dei suoi
ruoli più belli: l’insicura, insoddisfatta e sognatrice
Alice (Alice, 1990). Un altro titolo dedicato al personaggio protagonista. Nome che solo in parte ha a
che fare con Lewis Carroll, ma scelto perché tipicamente Wasp, dell’ambiente chic dell’Upper East
Side frequentato, suo malgrado, dal regista, e raccontato non senza malizia nel film. Spesso vestita
di rosso, in una New York autunnale e piovosa,
Alice è in cura da un medico cinese e cerca di vincere il proprio senso di colpa perché attratta dal
padre di una compagna di scuola dei suoi figli (Joe
Mantegna). Oltre lo specchio, attraverso l’esoterismo, i ricordi che interagiscono col presente e la
fuga dalla realtà, Alice apre gli occhi sulla propria
vita e fa delle scelte. Viaggio introspettivo in uno
dei più intensi ritratti femminili alleniani; un film
sul cambiamento, come sarà Mariti e mogli.
19
Ma prima Allen si immerge nelle brume mitteleuropee, tra Lang e Murnau, notte e città, circo e omicidi, mistero e amore, bianco e nero, Ombre e
nebbia (Shadows and Fog, 1992). In un piccolo
paese europeo, ricostruito con echi espressionisti da
Loquasto, si aggira un assassino efferato. Con la
splendida fotografia anni Venti di Carlo Di Palma
(un finto bianco e nero giocato su svariate gradazioni di grigio) e le musiche teatrali di Kurt Weill,
l’autore torna sul tema del delitto, della maternità,
dell’arte, del silenzio divino e dell’illusione, con la
storia di Max Kleinman (Allen), codardo accusato
ingiustamente e circondato da persone astiose e colleriche che deve (di nuovo) diventare mensch.
Una commedia nera, con un nuovo ruolo ritagliato
su misura per Mia Farrow: una tenera mangiatrice
di spade di nome Irmy. Da ricordare anche le formidabili prove di John Malkovich e John Cusack,
nonché una improbabile Madonna con parrucca
nera, nei panni della trapezista Marie. L’ambiente
anarchico e bohemienne del circo si contrappone al
grigiore dello stile di vita borghese, in un nuovo capitolo della critica sociale alleniana.
Lo stile di regia si rilassa in questi anni, con inquadrature lunghe e di agevole lettura, che Allen attribuisce alla “pigrizia”. Quando ci si trova di fronte
all’incipit di Mariti e mogli (Husbands and Wives,
1992), si rimane quindi decisamente disorientati come i protagonisti (ancora Allen e la
Farrow) quando scoprono che i loro migliori
amici (Judy Davis e Sidney Pollack) hanno
deciso di separarsi. Nonostante la calma apparente, l’evento scuote le vite di tutti e sfalda
anche l’unione tra Gabe e Judy. Camera a
mano, long-take, tagli bruschi, interviste-confessioni ai personaggi quasi da documentario:
l’esperienza professionale regala ad Allen il
coraggio di abbandonare le regole e le sue
consuetudini in favore del caos espressivo,
funzionale al racconto - grande lavoro di
montaggio per un’altra collaboratrice storica,
Susan E. Morse. Una regia scomposta, dettata
da un desiderio di sperimentare, e che in
qualche modo permette al regista una maggiore agilità espressiva, per quanto ne risulti
un’opera difficile, resa ancor più complicata
dall’affollatissimo cast (42 attori!).
Delitto e castigo non sono solo omicidio e
furto: in Allen anche il tradimento è fonte di
tormento, legge del contrappasso da scontare.
Pur in forma modificata, si ripresentano alcuni contenuti di sempre: lo sfaldarsi delle
coppie, i newyorkesi frustrati e aggressivi,
l’amore tra un uomo maturo e colto e una ragazza giovane, due donne che si contendono
lo stesso uomo: è un valzer zoppo di coppie
che si uniscono e dividono nel disordine. Ombra e nebbia, film dagli echi espressionisti
Nuovo omaggio a Rilke e alla pioggia: il personaggio di Rain (Juliette Lewis), altra raaccuse sono prive di fondamento e la vertenza non
gazza talentuosa e tribolata della galleria alleniana. giunge mai in tribunale. Il giudice definisce comunMariti e mogli fu uno dei pochi film di cui Allen si que “inappropriata” la condotta del regista e affida
disse completamente soddisfatto, assieme a La rosa la custodia dei figli alla Farrow.
purpurea del Cairo.
è un colpo durissimo all’immagine e alla reputazione di Allen, ma non alla sua vita sentimentale: “è
Ma il 1992 è soprattutto l’anno della clamorosa rot- stato un colpo di fortuna, un punto di svolta in metura tra Woody Allen e Mia Farrow. Una separazione glio”, rivelerà a Vanity Fair nel 2005, dopo aver spodolorosa e avvelenata da uno scandalo che i media sato otto anni prima Soon-Yi (il 22 dicembre 1997
provvedono a ingigantire con dovizia di dettagli. Si a Palazzo Cavalli-Franchetti a Venezia) e adottato
scopre, infatti, la relazione di Allen con Soon-Yi, la con lei due figlie, Bechet e Manzie.
ragazza coreana adottata da Mia Farrow e dal marito La fine del rapporto con la Farrow segna comunque
André Previn nel 1978. Woody e Soon-Yi hanno 35 uno spartiacque nella produzione alleniana, dopo
anni di differenza, lui 57 e lei 22: la storia fra i due tredici film girati insieme.
sarebbe iniziata quando lei aveva appena finito il
liceo.
Il film con cui Allen cerca di disintossicarsi dai veLa Farrow - dalla quale Allen ha un figlio biologico, leni dello scandalo è un funny mystery, una deliziosa
Satchel, e due adottivi, Dylan (oggi nota come Ma- commedia giallo-rosa di nome Misterioso omicidio
lone) e Moses, pur non avendolo mai sposato - cita a Manhattan (Manhattan Murder Mystery, 1993).
in giudizio il regista, accusandolo di molestie ses- Al posto della Farrow, viene chiamata colei che, mesuali a danno di Dylan, e reclamando per sé l’esclu- glio di ogni altra, può colmarne l’ingombrante assiva custodia dei figli. Il giudice conclude che le senza: Diane Keaton. Con un inevitabile cambio di
20
NON SPARATE SUL REGISTA
C’è sempre una vena nostalgica nei film di Woody
Allen. Se il noir di Misterioso omicidio a Manhattan era un amarcord del periodo felice vissuto al
fianco di Diane Keaton, la screwball comedy Pallottole su Broadway (Bullets Over Broadway, 1994)
riporta alla luce, ancora una volta, la nostalgia per
il music-hall, il charleston e il jazz dei ruggenti anni
Venti, in una New York in bianco e nero, sospesa
tra le luccicanti illusioni broadwayane e i vizi del
Proibizionismo.
La trama regala già lo spunto vincente: per mettere
in scena a Broadway un suo copione, il giovane
commediografo idealista David Shayne (John Cusack, un alter ego di Allen?) accetta di venire a patti
con un boss della malavita, Nick Valenti, che vuole
lanciare la svampita amichetta Olive. Ma saranno
decisivi i suggerimenti del corpulento bodyguard
Cheech (un formidabile Chazz Palmintieri) per migliorare la commedia e portarla al successo.
è un apologo su arte e teatro, su talento e disonestà,
mascherato da gangster-movie. Raffinatissimo nelle
scenografie, nelle musiche e nei dialoghi, ed esaltato da un cast stellare, in cui brilla anche Dianne
Wiest, premiata con l’Oscar per la sua intensa interpretazione di una diva al tramonto.
registro: “Diane è un clown, Mia è più composta o
isterica. Solo che, dopo Io & Annie, ogni volta che
noi due recitiamo insieme assomigliano sempre a
Annie e Alvy. Come Bob Hope e Bing Crosby”,
scherzerà Allen. Ma il film sembra proprio
un’ideale prosecuzione in salsa noir del capolavoro
di sedici anni prima, anche grazie a una sceneggiatura che porta la stessa firma, Marshall Brickman
(e che fa riemergere un soggetto inizialmente previsto e poi tagliato dalla pellicola del 1977).
Complice la verve comica della Keaton, Allen torna
a fare quello che gli riesce meglio: una commedia
di gran ritmo, arguta e frizzante, tra citazioni cinefile (il parallelismo con La fiamma del peccato di
Wider, gli omaggi a La finestra sul cortile di Hitchcock e La signora di Shanghai di Welles), dialoghi incalzanti, battute irresistibili (“Io non posso
ascoltare troppo Wagner, lo sai: già sento l’impulso
ad occupare la Polonia!”) e gag, tra cui quella, memorabile, dei registratori.
Torna anche l’amata Manhattan, con le sue tinte
crepuscolari (la fotografia del fido Di Palma) e i
suoi luoghi cult (dal Club 21 al Café des Artistes),
ma torna soprattutto la sua dimensione irreale e metafisica, a far da quinta all’ennesima vicenda di una
coppia, per una volta felicemente affiatata: Larry e
Carol Lipton, improvvisati detective, sulle tracce di
un possibile uxoricidio. Il quartetto protagonista è
completato da due attori già al fianco di Allen in
Crimini e misfatti: Alan Alda e Anjelica Huston.
Un nuovo capitolo della sontuosa comedie alleniana.
Rinnovata dall’ennesimo omaggio di Pallottole su
Broadway, la passione per il jazz resta uno dei cardini dell’arte e della vita stessa di Allen, che suona
abitualmente il clarinetto (un Rampone a dodici
chiavi con imboccatura larga costruito nel 1890) insieme alla propria band ogni lunedì sera al Café
Carlyle. Ipocondriaco e abitudinario, non ama
scombinare i propri ritmi, e per questo cerca di
viaggiare il meno possibile. Ma per accontentare
Soon-Yi e mostrarle un po’ d’Europa, dopo Misterioso omicidio a Manhattan ha iniziato ad accettare
di fare il lancio dei propri film anche oltre oceano,
approfittandone per visitare Parigi o Venezia quanto
più possibile (le città europee che più adora, con
Londra e Stoccolma).
Mira Sorvina, giovane
protagonista de
La dea dell’amore
21
Ai provini per gli attori, Allen solitamente fa leggere una parte dello script, chiacchiera con loro e
li osserva. A Londra, si imbatte così nella giovane
Mira Sorvino, che si presenta per il provino di La
dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995), già vestita da prostituta, calandosi perfettamente nel personaggio di un’altra svampitissima bionda (sarà
sua, ad esempio, l’invenzione della voce ridicola).
Allen e la fidata Juliet Taylor ne restano subito impressionati, e il regista arriva ad assecondarne tutte
renti) sullo scambio di battute brillanti; da un altro
ancora perché l’Allen-comico è prima verbale e poi
fisico. Linguaggio colto, uso di calembours, nonsense, citazioni: i protagonisti alleniani sono maghi
con le parole (“Altrimenti come avresti fatto a convincermi a farti un pompino al funerale di mio
padre” grida isterica Judy Davis in Harry a pezzi),
è la loro arma di seduzione. Il doppiaggio italiano
spesso è dovuto soccombere, sopperendo a volte
anche maldestramente. La parola-veicolo è una
spada contro cui combattere la società ottusa, per
smascherare le convenzioni vuote. Non a caso a
scrivere la prefazione italiana delle sue raccolte di
racconti è stato Umberto Eco. Non a caso gli elenchi
di battute, citazioni, aforismi tratti da Allen sono innumerevoli.
Sono diventate costanti riconoscibili anche la durata
Quando racconta del proprio modo di girare, Allen dei film (che si attesta generalmente attorno ai 90
dichiara di fare solitamente due o quattro riprese, minuti), i titoli di testa, le sequenze di montaggio,
senza troppa preparazione. Visita il set con il diret- l’uso di interpellazioni e del metalinguaggio.
tore della fotografia e decide cosa fare sul momento,
spontaneamente, e poi convoca gli attori. Peculiare I film di Allen sorprendono sempre, richiedono alè anche il modo di scrivere i dialoghi: influenzato meno un paio di visioni anche a distanza di tempo
da tanto cinema europeo sottotitolato, li affronta per poterne apprezzare complessità e raffinatezza,
“quasi come se si trattasse di sottotitoli, invece che per valutarne tutte le similitudini e divergenze, al di
di discorsi veri e propri tra persone”. Forse è questo là delle accuse di ripetitività che gli sono spesso
approccio a renderli fulminei, calibrati, letterari, ci- state rivolte. Il continuum tematico e autoriale è
tatissimi. La parola in Allen gioca un ruolo fonda- quasi unico nella storia del cinema: professionista
mentale. Da una parte per il legame con la lucido, genio sospeso tra ironia e dramma, mescola
psicanalisi, dall’altra per lo stile letterario dei suoi pessimismo e gioia, realtà e finzione, maschera cofilm che poggiano molto (oltre che su temi ricor- mica e rigore da autore impegnato. Allen è davvero
le richieste sul set. L’idea del film nasce osservando
la dedizione di Mia Farrow per le adozioni e aggiungendovi la trovata del coro greco (alcune scene furono girate a Taormina) che interagisce nella storia,
conferendo dinamismo e originalità alla struttura
drammatica. Allen attendeva di poterlo sfruttare con
una storia adatta, e che trattasse il tema del caso (“Il
Destino è al di là di te. Pensi di poter controllare la
tua vita, pensi di essere tu a muovere le fila, ma non
è così. O è così solo in piccola parte. [...] Di fatto
nessuno è padrone del proprio destino”), e con
l’espediente di un deus ex machina che cambia la
vita alla protagonista, nonostante gli sforzi di Lenny.
Nel film ricorre anche il tema dell’ossessione - elemento essenziale anche per l’aspetto comico - oltre
al desiderio di maternità e al percorso formativo.
Il commediografo John Cusack e il boss Chazz Palminteri, in Pallottole su Broadway, ambientato nella New York degli anni ‘20.
22
uno dei pochi artisti in grado di vincere una scommessa più che ambiziosa: fondere il comico a una
visione lucida, intima e pessimista della realtà, dei
sentimenti, della religione, dell’arte, che si apre sui
pochi sprazzi di piccole gioie per cui vale la pena
vivere. L’archetipo ormai consacrato di newyorkese
nevrotico, ebreo, circondato di belle donne ha impresso una firma stilistica inconfondibile a uno stile
subito riconoscibile, dalla scelta delle musiche ai titoli di testa.
per conquistare Von. Splendide le musiche e le coreografie, ma soprattutto un cast maiuscolo: Julia
Roberts, Drew Barrymore, una perfetta Goldie
Hawn, il democratico Alan Alda e i suoi conflitti
con il figlio repubblicano, un Tim Roth delinquente
fresco di prigione, una giovane Natalie Portman e
un romantico Edward Norton agli esordi. Il personaggio di Allen si chiama Joe Berlin, forse in omaggio a Irving Berlin.
Volendo individuare il migliore film delle ultime
due decadi, si potrebbe puntare però su Harry a
pezzi (Deconstructing Harry, 1997): ritmo serrato,
invenzioni visive e narrative, battute fulminanti e
geniali. Nella storia di uno scrittore col blocco (in
nome omen, Harry Block) che andrà malvolentieri
a ritirare un riconoscimento (cfr. Il posto delle fragole), Allen decostruisce vita e nevrosi, passato e
presente, sogni e fantasie del protagonista con un
montaggio discontinuo, in un corto circuito di storie
nella storia.
Metalinguistico (come la nivola di de Unamuno) e
infarcito di esilaranti volgarità, raccoglie aforismi
e momenti memorabili, come l’attore fuori fuoco
(Robin Williams), la morte che commette un errore
di omonimia, i litigi tra Allen e Kirstie Alley, le conversazioni col figlio piccolo sul nome da assegnare
al proprio pene (“Dillinger è perfetto”) e la discesa
agli inferi presieduti da Billy Christal.
Crisi di coppia, amore, creatività, male di vivere,
religione, il salvagente parziale dell’arte: un compendio enciclopedico del suo cinema più ispirato
CELEBRITÀ IN FRANTUMI
che rende il film una delle chiavi di lettura più diSviscerando nuovamente la propria cultura musi- rette per accedere alla dimensione Allen.
cale enciclopedica, con Tutti dicono I love you (Everyone Says I Love You, 1996) il regista rende un A partire dal primo decennio del Duemila, Allen
sincero e nostalgico omaggio ai musical Metro Gol- sembra sentire la necessità di farsi un po’ da parte
dwin Meyer: film sull’amore, corale, ottimista e come attore; aumentano le storie per cast numerosi,
leggero, attraverso quattro stagioni e tre città, New decentrando la focalizzazione da un solo personagYork, Venezia e Parigi - con la memorabile danza gio a molti. La critica si diverte a salutare le ultime
ai bordi della Senna tra Allen e Goldie Hawn foto- uscite come il suo miglior film degli ultimi anni,
grafata da Di Palma. Le due città europee sono luo- denunciandone allo stesso tempo l’appiattimento.
ghi del romanticismo, degli incontri e dell’arte, A Kenneth Branagh spetta l’onere di accollarsi il
magari viste anche come uno sfondo neutro o con ruolo alleniano di protagonista quando il regista couna certa ironia, ma su tutte sembra trionfare ancora mincia a sentirsi troppo vecchio per la parte. L’atNew York con i suoi colori e le sue atmosfere. Go- tore shakespeariano, che per l’occasione abbandona
dibilissimo e sottovalutato inno all’amore in tutte l’accento britannico, viene accusato di scimmiottare
le sue età, in tutte le sue forme, tra gioie e dolori, Allen in Celebrity (Celebrity, 1998): bianco e nero,
amori fugaci ed eterni, immutati o che cambiano e altro grande cast per un film sul mito della fama
forma. Film che smaschera le ipocrisie, il fatto di e sull’invasività mediatica, nuovamente su cambiafingere di essere qualcos’altro e che torna sul tema mento e aspirazioni, sullo sfondo della patinata
della conversazione psicanalitica ascoltata di nasco- mondanità della metropoli.
sto: in questo modo la figlia di Joe gli rivela i segreti
Personalità schiva, Allen evita volentieri mondanità
e giornalisti, rifiutando di presenziare alle prime, di
conoscere gli incassi, ricevere gratificazioni e leggere le recensioni. Pare non ci sia coinvolgimento
sociale tra Allen e gli attori, che per contratto devono essere pronti a dover rigirare alcune scene
anche dopo il termine delle riprese, a dover affrontare inquadrature lunghe e memorizzare molte battute. Ma la chiamata di Allen rimane un onore e una
consacrazione anche per grandi star.
I panegirici su di lui sono tempo sprecato: non gli
interessano e comunque non li leggerebbe; la necessità di fare film è dettata solo da un bisogno concreto di lavorare e divertirsi: “Ai pazienti degli
ospedali psichiatrici fanno intrecciare cestini o li
fanno dipingere con le dita, e questo migliora la loro
salute. E’ lo stesso motivo per cui faccio film”. La
necessità di una routine, di una serialità come via
di fuga, che è anche un privilegio destinato a pochi
geni.
23
Cleptomane, presuntuoso, sfruttatore, arrogante, inaffidabile, il secondo miglior chitarrista jazz della
storia dopo uno zingaro in Francia
(l’idolatrato Django Reinhardt), ma
soprattutto un personaggio inventato. Con Accordi e disaccordi
(Sweet and Lowdown, 1999) Allen
costruisce un godibilissimo finto
biopic con tanto di corollario di
finte interviste (come per Zelig),
ambientando all’epoca della Depressione un film che viene ridimensionato da un progetto più
costoso e ambizioso (“The Jazz
Baby” - sorta di Mastorna alleniano). Affida a Sean Penn il ruolo
di Emmet Ray (pare che Allen
abbia raccolto referenze sul suo
comportamento sul set prima di ingaggiarlo) e a Samantha Morton
quello di Hattie, dandole come riferimento Harpo Marx. Torna il luna
park come luogo del ricordo, di un
passato perduto; la fotografia viene
affidata a Zhao Fei e nel montaggio
Alisa Lepselter dà il cambio a
Susan E. Morse.
Accordi e disaccordi è un film Django Rheinhardt, chitarrista jazz di origine gitana, idolatrato dal protagonista Sean
amaro sul dramma dell’incapacità Penn in Accordi e disaccordi
dell’artista di funzionare nella vita
come nell’arte, di non conciliare due mondi in cui è sposato un uomo dalla mente eccezionale? Ti direi
prima orribile poi sublime. Ed è allo stesso tempo che sono bigama”).
una riflessione linguistica sul rapporto tra verità e
Si resta nell’ambito della crime-story anche con La
finzione.
maledizione dello scorpione di Giada (The Curse
Allen recita nel mediocre Ho solo fatto a pezzi mia Of The Jade Scorpion, 2001). Anni Quaranta e atmoglie di Alfonso Arau e continua a trattare il cri- mosfere da fumetto (dichiarate a partire dal titolo)
mine in maniera ironica nello stesso anno con Cri- sono la cornice per il “pasticciaccio” in cui è inviminali da strapazzo (Small Time Crooks, 2000), schiato C.W. Briggs (Woody Allen), segugio vecprimo film girato per la DreamWorks. Anche sta- chia scuola che lavora come detective in un’agenzia
volta è la trama a fornire già le chiavi per il diverti- assicurativa. Sua dichiarata nemica è l’odiata Miss
mento, con la storia di Ray (ex detenuto), che Fitzgerald (Helen Hunt), da poco diventata direttrice
insegue il colpo della vita: affitta un negozio in cui dello studio e simbolo dell’emancipazione femmila moglie Frenchy preparerà biscotti, come coper- nile che comincia a muoversi. C.W. viene ipnotiztura mentre tenterà di scavare un tunnel sotterraneo zato una sera da un mago attraverso il ciondolo dello
fino al caveau della vicina banca. Ma il colpo sarà scorpione di giada, e commette una serie di furti sui
un flop e in compenso saranno i biscotti a spopo- quali lui stesso indaga.
è un giallo comico fatto per divertire - e molto prolare.
Un film grazioso, sebbene non certo memorabile: babilmente per divertirsi. Il regista newyorkese riAllen palesa qualche eccesso di stanchezza e ma- percorre i topoi della detective story: bar malfamati,
nierismo, ma senza perdere il gusto per la battuta impermeabili e cappelli, scommesse, soffiate di
fulminante (“Cosa penseresti se ti dicessi che hai strada, scatole di fiammiferi, schedari di file, per24
sone nascoste nel buio o dietro paraventi, bicchieri
di whisky, riferimenti a città esotiche, e femme fatale (Charlize Theron) - con capelli ossigenati, sigarette e abbondanza di rossetto, pronte a infilarsi
nei letti di numerosi amanti. L’intreccio divertente
attinge da quel repertorio di romanzi d’appendice
divenuto epico grazie ai vari Hammett, Chandler,
Spillane, e a nomi meno noti della letteratura hardboyled, e portato sullo schermo, tra gli altri, da
Hawks, Huston e Wilder.
Ottimi i dialoghi, ma forse un po’ sotto tono rispetto
al solito le trovate comiche. Menzione speciale per
il sempre ottimo Santo Loquasto, attento a ricostruire i minimi dettagli della New York d’epoca, e
per la fotografia calda e avvolgente del cinese Zhao
Fei.
Proprio gli equivoci umoristici che nasceranno
dalla collaborazione con Fei saranno d’ispirazione
per Hollywood Ending (Hollywood Ending, 2002),
con cui Allen torna a un efficace e brillante umorismo di situazione ed equivoci sul tema del (non)
vedere e sul cinema, con il personaggio di Val Waxman, un regista nevrotico che perde la vista, ma gira
il suo film comunque per salvare la carriera.
Il tema dell’aprire gli occhi, abbiamo detto, è frequente in Allen; i suoi personaggi hanno spesso rivelazioni sul presente passando attraverso il
passato, sulla realtà grazie alla fantasia e sulla vita
in funzione della morte. La comicità stessa è arma
che maschera un dramma col suo risvolto e il dolore dell’incomprensibilità della vita, ma allo stesso
tempo svela il vero con l’iperbole e la deformazione; il paradosso della battuta (spesso colta, fulminante, latente) incrina il reale e rivela
l’inconciliabilità delle cose.
Il regista newyorkese confeziona a modo suo un
film che gravita attorno al mondo del cinema, ma
senza voler trasmettere sensi particolarmente profondi sull’arte e il mestiere (paralleli con Truffaut
e Fellini sarebbero fuori contesto). Allen sembra
più interessato a sviluppare le linee umoristiche che
le premesse gli consentono, grazie anche al suo personaggio, ipocondriaco e nervoso. Gioca in casa
muovendosi fra New York, psicanalisi, cinema, exmogli da riconquistare, rivali in amore superficiali
e giovani ragazze quasi ritardate; con dialoghi brillanti, battute iperboliche e umorismo raffinato, ma
anche e soprattutto con la corporalità. Soggetto che
gli consente di regalare (e forse regalarsi) un efficace condensato di comicità su cinema e nevrosi,
una lezione di tempi comici.
Con Anything Else (Anything Else, 2003), Allen
torna ad affrontare le nevrosi contemporanee, le
fobie ossessive e l’amore, affidando i ruoli principali a un cast giovane (Jason Biggs e Christina
Ricci) e ritagliando per sé un ruolo minore.
Se la messa in scena è classica, il regista riesce comunque a creare una maggior partecipazione dello
spettatore, “bucando” lo schermo: il protagonista
(Jerry Falk) più volte parla direttamente con noi e
ci rende partecipi della storia, suoi diretti confidenti. Essenziali, come sempre, i movimenti di camera (campi, controcampi, piani medi, carrelli
laterali), nitida e calda la fotografia di Darius Khondji. Il ritmo non è sempre perfetto, ma Allen convince soprattutto in fase di scrittura, riuscendo
anche a mettere in scena una galleria di personaggi
riusciti e ben delineati, a cominciare dai due protagonisti fino a quelli di contorno: Paula, la suocera
in crisi di mezza età (Stockard Channing), l’indifferente psicanalista e l’agente imbranato (Danny
DeVito). E regala a Christina Ricci uno dei personaggi femminili più cinici della sua filmografia,
quello della fidanzata di Jerry, Amanda, che nel suo
egoismo scarica su di lui frustrazioni e problemi di
ogni sorta.
Dietro l’apparente tono leggero, travestita da (divertente) commedia, c’è l’ennesima conferma della
fragilità dei rapporti umani.
Il successivo Melinda e Melinda (Melinda and Melinda, 2004) ragiona nuovamente sulla convivenza
narrativa di dramma e commedia, attraverso un
esperimento - apprezzabile, ma non del tutto riuscito - che racconta la stessa storia da due differenti
punti di vista. Protagonista Melinda (Radha Mitchell), ora in chiave cupa di donna di Park Avenue,
depressa e di ritorno da un passato drammatico, ora
in chiave più brillante nell’Upper East Side. Will
Ferrell, cui è affidato il ruolo comico, fa il verso ad
Allen balbettando ed esagerando in smorfie a volte
irritanti. Così la metà di film che convince di più
sembra essere quella tragica.
Stravinsky e Duke Ellington si danno il cambio nei
titoli di testa e continueranno a farlo come motivo
conduttore durante tutto il film, distinguendo la
convivenza di commedia e dramma, così come due
differenti tipi di fotografia (più fredda per l’intreccio drammatico, più calda per la parte brillante).
Convergono temi ricorrenti: personaggi moderni e
colti, crisi e scambi di coppia, infedeltà, delitti,
conti del passato, velleità artistiche frustrate, desideri di maternità e paternità, nevrosi newyorkesi.
Riecheggia un messaggio caro ad Allen - la risata
25
(ma anche l’arte) che maschera il terrore umano
della morte - in una commedia bifronte che tenta di
condensare le due anime del suo stesso cinema con
risultati, però, meno interessanti rispetto ad altre
prove.
Si chiude un periodo di ispirazione altalenante per
Allen, la cui popolarità è in brusca discesa negli
Usa, al punto che lui stesso rivelerà di “sopravvivere” grazie al mercato europeo.
WINNING POINT
Ed è proprio in Europa che si consuma la resurrezione di Allen, nel mezzo del decennio Zero. Con
una location imprevedibile: la Londra aristocratica,
cupa e tesa di Match Point (Match Point, 2005). Il
film, un noir elegante e sofisticato, spopola ovunque, decretando un successo di pubblico e critica
come non accadeva da anni (più di 23 milioni di
dollari incassati negli Usa), grazie anche alla brillante performance di una nuova, giovane musa:
Scarlett Johansson.
è un classico ménage à trois: Chris, giovane insegnante di tennis, sposa Chloe, rampolla di una famiglia ricca, ma è attratto da Nola, fidanzata del
cognato e attricetta allo sbando; la relazione con
quest’ultima sembra portarlo alla rovina finché non
riesce a elaborare un piano criminale, il cui esito
sarà deciso dal destino.
Il delitto, il castigo, il senso di colpa, l’amore e il
caso si intrecciano in un racconto londinese con Shakespeare e i drammi greci, dove prevalgono l’avidità,
e dove tutto è ciecamente legato alle circostanze fortuite (la metafora
della palla da tennis
sulla rete). Cambiano
anche le musiche: abbandonato il genere
jazz/swing, Allen si
affida a celeberrime
arie e musiche operistiche.
schermo in un ruolo comico, torna al vecchio amore
dell’illusionismo e della magia per una commedia
garbata e brillante dall’intreccio poliziesco, ma non
memorabile.
Scoop è anche l’ultimo film doppiato in italiano da
Oreste Lionello, attore e voce “storica” di Woody
Allen, scomparso il 19 febbraio del 2009. “Mi ha
reso un attore molto migliore di quanto non fossi
veramente”, lo omaggerà Allen.
Un passo indietro verso le atmosfere di Match
Point, ma meno riuscito, sembra essere Sogni e delitti (Cassandra’s Dream, 2007): di nuovo il delitto
cupo, l’avidità e il senso di colpa nella storia di due
fratelli che commettono un omicidio per denaro.
Il regista si volge a una visione ai limiti del nichilismo, di un pessimismo grigio e cupo come le atmosfere londinesi fotografate da Vilmos Zsigismond.
Più vicino a Shakespeare che ai classici greci nella
sua rivisitazione della tragedia, adotta le strutture
del noir e costruisce una narrazione che affida ai singoli il procedere drammaturgico della storia. è infatti il personaggio di Colin Farrell ad avvicinarsi
di più alla figura di Cassandra con le sue continue
previsioni di un futuro che, dopo il compimento di
un atto terribile, non avrà nulla di buono da offrire
a lui e al fratello.
La narrazione è tesa, con ellissi temporali e stacchi
del montaggio che riducono ancora di più la struttura filmica allo stretto necessario. Incredibilmente,
però, alcune situazioni si aprono a una ironia improvvisa che nasce dalla stessa sostanza tragica
Un dramma potente,
controllato e solido,
dopo il quale Allen
sembra volersi rilassare con Scoop
(Scoop, 2006). Pur
restando a Londra, e
sempre affidando a
Scarlett Johansson il
ruolo
principale, Woody Allen e Penelope Cruz sul set di Vicky Cristina Barcelona, primo film “spagnolo” del regista
Allen, di nuovo sullo newyorkese
26
della vicenda
Non vi è lo stesso coinvolgimento umano ed emotivo di Match Point, perché la glacialità di Allen si
riversa anche nel rapporto empatico dello spettatore
con lo schermo. Resta solo un altro quadro disperato sulla natura umana e sulla sua eterna debolezza, con un destino implacabile e cinico nel
rovinare i sogni e le speranze di chi tenta di sfidarlo.
po’ di sano cinismo (l’indigestione alimentare di
Cristina che la colpisce proprio sul più bello). Barcellona compare timidamente qua e là, come in una
cartolina, ma la sua luce, la sua vitalità non risplendono, allo stesso modo in cui, invece, il grigiore di
Londra avvolgeva torbidi delitti.
L’anno dopo in Basta che funzioni (Whatever
Works, 2009) Allen regala la meritata ribalta a Larry
David, uno dei più grandi e geniali comici e autori
americani contemporanei. Un personaggio che
calza a David in modo perfetto e che non si discosta
molto dalla sua serie tv “Curb Your Enthusiasm”.
Allen ripropone il percorso formativo della ragazza
giovane con l’uomo maturo, l’ipocondria e le nevrosi newyorkesi, il fanatismo religioso e l’amore,
rispolverando lo humour dei tempi migliori, sospeso tra pessimismo caustico, gioia e malinconia,
per dare vita a uno dei suoi film migliori a dispetto
dell’età e di chi lo voleva sempre uguale a se stesso
e scarico di idee.
Stupisce sempre come Allen sappia muovere i fili
dell’intreccio, i propri personaggi come ormai fossero maschere del suo cinema. Con la solita geniale
maestria, che a volte si confonde con l’astuzia del
vecchio mestierante.
Per Vicky Cristina Barcelona (Vicky Cristina Barcelona, 2008) Allen ritrova Scarlett Johansson, insieme all’altra stella internazionale Penelope Cruz,
e prolunga il proprio soggiorno europeo, con una
storia scritta appositamente per essere ambientata
in Spagna e relativamente inedita per la sua filmografia, dove prevalgono il desiderio, la sensualità e
la carnalità, e dove alla noiosa razionalità americana si contrappone la passione vitale degli europei.
Un film in parte sottovalutato, ma interessante per
come Allen tratta con uno spirito leggermente differente vecchi temi quali l’arte e il talento (o la
mancanza di) e i sentimenti, con due figure femminili diverse, ma ricollocabili all’interno della sua
poetica - una indecisa e vulnerabile, l’altra razionale, ma che si lascia presto confondere; oltre a una
terza, folle e debordante - dove l’imponderabile,
nella vita come nell’amore, sembra sempre dietro
l’angolo. Anche la regia sembra subire una modifica, adagiandosi su una certa morbidezza, forse
anche grazie alle musiche e ai colori caldi della fotografia di Javier Aguirresarobe.
Tra un bicchiere di vino e della musica spagnola
(niente jazz, ovviamente), c’è spazio anche per un
I detrattori troveranno terreno fertile, invece, in Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni (You Will Meet A
Tall Dark Stranger, 2010) dove Allen ragiona su
magia e illusioni come propellente per sopravvivere. Ritroviamo la grande città (ancora la Londra),
la middle class colta e frustrata alla disperata ricerca
di risposte e soddisfazioni. E riaffiora un tema sempre un po’ lasciato da parte
nel cinema, l’amore senile
(già trattato in Settembre).
è un Allen amaro, senza il
solito gusto per la battuta,
poco sarcastico. Il confine
tra la farsa e la tragedia è
quanto mai sottile, ma trapelano una certa stanchezza e
una forma un po’ opaca, mascherate dalla verve di un
altro cast di prim’ordine, in
cui svettano Naomi Watts e
sir Anthony Hopkins.
Un’intensa Cate Blanchette in Blue Jasmine, peultimo film di Woody Allen
27
L’11 maggio 2011 Woody
Allen presenta Midnight In
Paris (Midnight in Paris,
2011), la sua nuova comme-
dia, aprendo ufficialmente la Sessantaquattresima edi- merosi attori italiani, tra cui Roberto Benigni. Nemzione del Festival di Cannes. Tra passato e presente, meno lui però riesce a risollevare le sorti di un film
fantasia e realtà, prosegue il suo Grand Tour europeo con poche idee e deboli. Sembra esserci anzi un
con la capitale francese, le sue strade, i suoi tetti, la punto comune tra Allen e il comico toscano: il
pioggia e la sua romantica magia notturna. La città “dramma” di due grandi artisti giunti a un punto
realizza il sogno del protagonista di vivere negli delle loro carriere dove sembrano, almeno per ora,
anni venti e conoscere Fitzgerald, Hemingway e aver poco da aggiungere. Del solito Allen troviamo
altre icone dell’epoca. Il cinema di Allen continua a la pioggia che crea intimità, le presenze surreali, le
ruotare attorno all’ombelico del suo autore in un nevrosi, i tradimenti, la frustrazione dell’arte,
rimpasto di temi noti, su tutti la fuga dalla realtà. Si l’amore, la (ri)scoperta del sesso e di se stessi. Arsmarca con la solita maestria nelle trame della dram- riva addirittura a “citarsi addosso” con la malinconia
maturgia, ma si appoggia su battute sempre meno di Melpomene (espressione inventata per Stardust
brillanti, trovando invece nuova linfa nel tratteggiare Memories). Ma il tutto è condito da stereotipi vari
i personaggi di un passato idealizzato e nostalgico. sull’italianità, senza intenti sarcastici, e soprattutto
Un senso di stanchezza e di prevedibilità sembrano manca decisamente di ritmo e di estro, tanto che il
pervadere il film che però entusiasma parte di critica finale arriva con un certo sollievo. Una parentesi da
e pubblico internazionale, lasciando freddi tutti gli dimenticare.
altri.
Sempre a Cannes annuncia quale sarà il suo nuovo Per Blue Jasmine (2013) Allen torna a suonare le
progetto: un film da girare a Roma, con Roberto Be- corde più amare del suo cinema con la storia di
nigni protagonista, che si intitolerà “Bop Decame- un’altra donna che affronta la caduta, la realtà, il
ron”. “Sarà una mia personale e libera trauma del crollo delle certezze. Dopo l’Europa un
reinterprezione di
(altro) ritorno negli
Boccaccio - ha spieUsa, ma New York
gato - Verrò a Roma
questa volta è solo
per prepararlo il 18
luogo di partenza, di
giugno e a luglio si
sicurezze infrante
batterà il primo
da abbandonare per
ciak”. Ha poco di
ripartire, raggiunboccaccesco,
ingere l’altra costa,
vece, tranne la strutSan Francisco, l’altura con quattro
tra sorella (adottiva)
episodi intrecciati,
di Jasmine. Nuovo
gioco di contrasti tra
To Rome With Love,
titolo preferito a
due donne diverse,
“Bop Decameron” e
tra sorelle, con al
“Nero
Fiddled”
centro il personag(espressione quegio di Cate Blanst’ultima, considechett. Una vicenda
rata
troppo
che ricorda quella di
americana) il film
Alice, le certezze
dedicato alla Città
borghesi dell’Upper
eterna, il peggiore
East Side, il marito
della filmografia di
fedifrago, le fragiAllen. Il regista rilità della protagonicompare come atsta e le sue illusioni,
tore dopo sei anni, e
ma sullo sfondo
riunisce il solito
della crisi econogrande cast affianmica attuale. Lontano dalla magia e
cando a Alec Baldal sogno, dal cadwin, Ellen Page, La statua di Woody Allen eretta nella città spagnola di Oviedo come
schetto biondo di
Jesse Eisenberg e ringraziamento per le parole di elogio pronunciate nel 2002 dal regista nei
Mia Farrow degli
Penelope Cruz nu- confronti della città, in occasione del ritiro del Premio Principe di Asturia
28
raffinato equilibrio una malinconica dolcezza e quel
poco di ottimismo che basta a sopravvivere, il triste
disincanto della realtà capace anche di stupire con
quei pochi scampoli di tenerezza e d’amore che valgono tutta la fatica. Allora ci piacerebbe concludere
così: come il tenero abbraccio di Mickey e Holly in
Hanna e le sue sorelle, il coro greco della Dea dell’amore che canta “When You’re Smiling”, il nuovo
commovente incontro di Alvy e Annie a ricordare il
passato in Io e Annie, la corsa di Isaac per raggiungere Tracy in quell’addio (anzi, arrivederci) di Manhattan. Con la consapevolezza dei motivi per cui
è soprattutto nei finali che si esplicita l’anima del vale la pena vivere.
cinema alleniano. Sequenze in cui si coniugano in
anni ottanta, ci sono le paure del futuro di un personaggio che non sa trovare se stesso, emblema del presente lacerato di incertezze. Una donna che, come tanti
altri personaggi alleniani, si sforza di trovare la sua
strada in una lotta frustrante di delusioni sentimentali e
umane, per approdare a un finale senza consolazioni.
Un Allen decisamente più in forma rispetto al precedente scivolone romano, che nel gennaio 2014 riceve
anche il Golden Globe alla carriera, evento parzialmente oscurato da vecchie/nuove polemiche alimentate
dalla famiglia Farrow.
29
INTERIORS
Interiors
Regia Woody Allen
Soggetto Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Produttore Charles H. Joffe
Fotografia Gordon Willis
Montaggio Ralph Rosenblum
Scenografia Mel Bourne
Interpreti Kristin Griffith, Mary Beth Hurt, Richard Jordan,
Diane Keaton, E.G. Marshall, Geraldine Page,
Maureen Stapleton, Sam Waterston
Colore colore
Durata 93’
Anno 1978
Paese di produzione USA
LA TRAMA
Eve, un’arredatrice d’interni, è sposata con Arthur, un avvocato, dal quale ha avuto tre figlie: Renata, una
poetessa di successo, Flyn, attrice alle prime armi, e Joey, la più fragile delle tre. Un giorno, Arthur abbandona
Eve, che tenta il suicidio. La donna cerca conforto nelle figlie, che a loro volta vivono difficili situazioni esistenziali. Arthur torna da un viaggio in Grecia con Pearl, una donna che ha deciso di sposare. Le figlie si oppongono alla volontà del padre, ma senza successo. Eve, pur reagendo istericamente, entra in profonda crisi.
Tutta la famiglia si riunisce in una villa sul mare per le nozze di Arthur. Durante la notte, Eve, sconvolta, si
allontana verso l’oceano in tempesta. Joey la segue tentando inutilmente di salvarla. La giovane viene riportata
a riva dal marito e Pearl le pratica la respirazione bocca a bocca. Al funerale, le tre figlie si separano. Joey
tenta di descrivere la propria infelicità in un diario.
LA CRITICA
Se si potesse riassumere con una parola la complessità di significati ed emozioni che un film porta in sé, la parola giusta per Interiors sarebbe forse «rarefazione»; o meglio, sarebbe la parola che più di altre congloba la
nitidissima corrispondenza che nel film esiste tra il narrato e lo stile: da una parte una storia di tante sconfitte,
insoddisfazioni e incapacità esistenziali la quale, nonostante la sua oggettiva drammaticità, non sfocia mai nell’esplosione tragica. Anche il suicidio è una dignitosa e sterile dichiarazione di impotenza. Dall’altra, uno stile
che, anche nei momenti delle confessioni intime davanti allo specchio, si contiene con rigorosa autodeterminazione, mantenendosi sempre al di sotto di qualsiasi esplosione tonale. Non ci sono pianti, lacerazioni intime,
scatti isterici ai quali venga concessa una scansione narrativa capace di trascinare nella propria spirale sentimentale lo spettatore. Specchio dei personaggi, il film cela e controlla le proprie emozioni.
Da qui ad accusare il film di non essere altro che una fredda e ingenua esercitazione su immagini bergamiane
il passo è breve. Che Bergman c’entri, e tanto, nella composizione figurativa è evidente e dichiarato apertamente, inquadratura dopo inquadratura, dall’autore stesso. Di Bergman manca la passionalità straziante e sopra
le righe che, almeno da Sussurri e grida in poi, ha lacerato il suo rigore analitico. E spesso freddezza è una
brutta parola di valenza negativa che si sovrappone ad altre quali pudore, timidezza, dignità, o anche incapacità
o impossibilità a trascinare gli altri in un universo di desolazione che è tutto interiore.
Sopra la crisi della famiglia e della coppia borghese, sopra la sterilità del ruolo dell’intellettuale, sopra l’incapacità, non solo a realizzarsi, ma a scoprire i modi della propria autorealizzazione, per Woody Allen, il comico,
c’è la solitudine totale e non comunicante dell’individuo. Allen ha semplicemente espresso qui in termini razionalizzati (e quindi necessariamente drammatici) l’inevitabile conclusione cui giungono tutti gli altri suoi
film: tra Allan Felix che confusamente intuisce di poter contare solo sull’amicizia di Bogart, Boris Grusenko
31
razionale e critico ma non al punto di non farsi ingannare dall’ultimo mito, Alvy Singer e Annie Hall che accettano consapevolmente di non potersi aiutare, e tutti i personaggi di Interiors esiste un’unica differenza. In
questo film tutto è già successo, e, per questo, probabilmente, esso ha preso forma drammatica in tutti gli altri
film conoscevamo anche la successione dei momenti felici, l’incontro, l’euforia, gli sforzi a far rientrare le
tensioni; qui siamo posti subito dinanzi a precisi dati di dissoluzione, agli stati d’animo di persone che hanno
già capito, nonostante formalmente riproducano lo stanco cliché del vivere in coppia, di essere sole con le proprie irrealizzazioni e i propri fantasmi. E la solitudine si traduce nell’andamento monologante del film, dove,
accanto ai lunghi a solo davanti alla macchina da presa (un artificio narrante che Allen ha sempre utilizzato in
prima persona nelle opere comiche), gli interminabili dialoghi sono, più che scambi, constatazioni di impotenza
comunicativa. Ognuno racconta a se stesso le proprie angosce e rimane solo nel proprio scorcio di paesaggio
o di interno.
La freddezza si svela quindi come lucidissima adesione alla fragilità della materia narrata, come costante controllo affinchè non venga snaturato in senso melodrammatico o patetico uno stato emozionale per propria essenza meditativo. Davanti a tale dichiarazione di sconforto totale diventa abbastanza superfluo anche sul
significato da attribuire alla figura e alla vitalità di Pearl; Pearl è «altro», ce lo dice, più delle sue parole, il
rosso che indossa, ma ciò non significa che necessariamente debba essere spontaneità di vita contrapposta a
una classe morente; chiassosa come le molte madri ebree di Allen, Pearl è una scelta diversa, probabilmente
non felice, certamente niente affatto ingenua e spontaneistica, come possiamo «leggere» nella intensissima e
(anche questa) controllatissima interpretazione di Maureen Stapleton. Sul suo personaggio il film all’apparenza
si distende, ricreando le atmosfere di commedia tipiche di Allen; ma solo all’apparenza, dal momento che Pearl
ha insita la carica tragica del diverso coinvolto in interazioni ostili o comunque critiche. Insieme a Joey è la
proiezione più palese di alcuni dei tratti caratterizzanti il personaggio ricorrentemente impersonato dallo stesso
Allen, ed è anche il personaggio del film che meglio dimostra come non esista soluzione di continuità tra comicità e dramma (e in questo senso è indicativo il progressivo inasprimento di tono che un montaggio esemplare
imprime alla sequenza del ricevimento di nozze): il comico non è niente altro che la raffigurazione più esasperatamente autocritica e razionale del tema della solitudine.
Emanuela Martini, Cineforum, n. 166, 8/1979
Primo film di Allen in cui non compare come attore, è un esplicito omaggio al cinema di Bergman, sia per le
affinità tematiche, che per la sofisticata fotografia di Gordon Willis, “citazione” di quella di Sven Nykvist.
Nella cinematografia del regista segna una svolta drammatica che all’epoca fu poco apprezzata dalla critica
europea: in realtà pur rinunciando al consueto umorismo, Woody si mostra sicuro nel padroneggiare storia
(scritta da solo), regia e direzione degli attori.
Paolo Mereghetti, Il Mereghetti Dizionario dei film
32
“Interiors è un bel film? Le opinioni del pubblico e della critica sono controverse, e sta di fatto che Woody
Allen, dopo essersi provato nel tragico e forse avere vinto un suo complesso di inferiorità, è già tornato, con
‘Manhattan’, nel comico. Giustizia vuole però che il film sia accolto con attenzione, e compreso fra i più interessanti della stagione. Interiors è soprattutto la riprova delle virtù registiche del versatile Woody Allen, e ne
connota il tipo di cultura. Il quadro di un disastro familiare ci è infatti offerto con una accortissima capacità di
analizzare certi momenti di disperazione esistenziale e di darne una rappresentazione rigorosa, ma in modo
che il più sembri confezionato da un nipotino di Bergman. Respinto - non del tutto - il sospetto che Woody
Allen abbia elaborato una sottilissima parodia di Sussurri e grida e Sinfonia d’autunno, mentre si gusta il versante ironico del racconto e certi graffi agli snob di Nuova York ci si chiede se la struttura e lo sviluppo drammatico del film, con tutti i suoi anfratti psicologistici, i grovigli in cui duellano l’arte e la vita, i tortuosi
interrogativi sull’identità e la difficoltà di esprimersi, il contrappunto del mare fragoroso, non siano di riporto:
il flusso oltreatlantico di tematiche e modi espressivi propri del nord Europa, un po’ analogo a quello per cui
in O’Neill riecheggiano Ibsen e Strindberg, sofferto da un intellettuale americano che in una seduta di autoanalisi mescola i propri autentici strazi al piacere della loro severa rappresentazione e al ricordo di buone letture.
Si vuol dire che quanto c’è di pretenzioso nel film è anche il segno d’una cultura lacerata fra la contemplazione
del male di vivere, che nobilita la fatica di sopportarsi, e la tentazione della bistecca ai ferri, che invigliacchisce
l’arte ma la rinsangua. Dopodiché è d’obbligo ammirare la messinscena del film, l’accuratezza con cui è calato
nelle cose il conflitto fra gli spogli arredamenti, il freddo dei muri, i giochi di luce sugli oggetti, e l’inferno
delle donne di casa, torturate dall’orgoglio, dalle frustrazioni, da rovelli che il padre e Pearl non conoscono
perché hanno trovato la forza di sottrarsialle ambizioni e agli estetismi degli intellettuali, di riempire di carne
e fiori i cento vasi di ceramica lasciati vuoti da Eve. Qui Woody Allen si muove da gran signore dello schermo,
con un gusto delle atmosfere e dei ritmi che dà allo spettacolo un’andatura tanto sontuosa da non aver nemmeno
bisogno di commento musicale. Il suo talento di regista si esprime d’altronde anche nell’uso degli interpreti:
una Geraldine Pge che fa di Eve una figura potente, compassionevole ma anche diabolica, una Maureen Stapleton deliziosa nei panni di Pearl, una Diane Keaton e una Mary Beth Hurt che danno a Renata e a Joey, le
sorelle rivali, molta ricchezza di sfumature, degna davvero di Bergman. Fra gli uomini il più azzeccato è E.G.
Marshall, un padre di famiglia a cui va tutta la nostra simpatia. Ci piacerebbe andarlo a trovare, quando Pearl
avrà trasformato la casa in un emporio.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera
33
STARDUST MEMORIES
Interiors
Regia Woody Allen
Soggetto Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Produttore Robert Greenhut
Fotografia Gordon Willis
Montaggio Susan E. Morse
Interpreti Woody Allen, Charlotte Rampling, Jessica Harper,
Marie-Christine Barrault, Tony Roberts, Daniel Stern, Amy Wright
Doppiatore italiano Woody Allen Oreste Lionello
Colore b/n
Durata 89’
Anno 1980
Paese di produzione USA
LA TRAMA
Un regista comico di successo, Sandy Bates, è in crisi esistenziale: non riesce a mediare la transitorietà del
mondo e cerca di esprimere questo in un film ermetico che i suoi produttori cercano in tutti i modi di rendere
più commerciale. Costretto a partecipare per un week-end a una rassegna di tutti i suoi film, incontra un gran
numero di persone (compreso un gruppo di alieni) che esprimono il proprio apprezzamento per i suoi film,
"specialmente i primi, quelli comici". Laa gag è chiaramente uno sfogo dello stesso Allen e del suo pensiero,
frustrato dai continui commenti di chi lo ritiene solo un autore comico. Nella stessa occasione Bates incontra
Isobel, ex amante che ha appena lasciato il marito, e Daisy, intellettuale e problematica. Ancora scottato dalla
focosa relazione con l'instabile Dorrie, si trova di fronte ad un'altra difficile scelta.
LA CRITICA
[...] ‘Oggi ti adorano e domani ti sparano’ dice l’’io’ del film. E’ esattamente quello che è accaduto negli Usa
tra il trionfo di Manhattan e il tonfo di Stardust Memories. Qui ci sono gli stessi ingredienti: la comicità inimitabile di Woody, le belle donne (anche se non c’è la musa Diane Keaton), la splendida fotografia in bianco
e nero di Gordon Willis, una scelta di musiche da momento magico. Ma spuntano anche il vezzo di scivolare
sui moduli espressivi di Fellini e Bergman [...], un disagio crescente, un furore autobiografico che sfiora la
perdita dell’identità. Woody soffre di un eccesso di intelligenza: ha fatto tutto lui, il film e il film del film, ci
ha aggiunto ogni possibile chiosa e ci contagia con il suo senso di frustrazione. Se si considera inutile lui, un
uomo che riusciva a mettere di buonumore il pianeta, che cosa rimane da dire al critico? Forse una cosa sola:
che le crisi passano e il talento resta. E di talento, anche in un film azzerante e malato come Stardust Memories,
ce n’è da vedere.”
Tullio Kezich, la Repubblica
Ritratto di un attore-regista di commedie un po’ nevrotico e molto depresso in crisi sentimentale (la sua relazione con la donna del cuore è al termine) e professionale (i produttori stanno montando il suo primo film
drammatico in modo da farlo sembrare una commedia). è il film più bistrattato di W. Allen cui molti rimproverano di aver fatto una goffa imitazione del felliniano Otto e mezzo. Ha un solo grande difetto: un eccesso di
intelligenza. Non organizzata e dilapidata. Poco riuscito? Forse. Ma esistono sbagli di talento che valgono più
di certe riuscite della mediocrità. Probabilmente ci svela un aspetto di Allen che egli stesso non ama.
Morando Morandini, Il Morandini. Dizionario di cinema
In dieci anni il cinema di Woody Allen si ritrova all’altro termine della parabola. In questo senso, Stardust Memories è un film limite, importante, nella carriera del grande comico americano.
Quando, agli inizi degli anni settanta, apparvero i suoi primi film (da Prendi i soldi e scappa e Bananas fino
34
ad Amore e guerra che è del 1975) la sua apparve subito come una straordinaria comicità verbale. Un bagaglio
di battute, talvolta geniali e tal’altra banali, un bagaglio che finiva però con l’essere sprecato al novanta per
cento dall’imperizia di Allen nel metterlo in immagini, nel trasformarlo in linguaggio cinematografico. Ora,
dopo Annie Hall, il suo capolavoro comico, Interiors, la sua riuscita impeccabile nel cinema “serio”, Manhattan,
il suo film più equilibrato, ecco Stardust Memories, il suo film più compiuto formalmente.
Woody Allen ha imparato ad illustrare splendidamente i suoi dialoghi. Si è reso conto della relatività della
parola in cinema per esprimere un concetto, e dell’importanza determinante dell’immagine. Ma, nel contempo,
è entrato in crisi, e non solo perché la storia di Stardust parla di un artista di mezza età in crisi artistica ed esistenziale. In crisi non solo perché “non fa più ridere”, ma perché, evidentemente, non sa esattamente, dopo
aver messo quei punti finali elencati sopra, in che direzione andare. Destino incredibile di questo che è senza
dubbio il solo grande comico cinematografico, assieme a Jacques Tati, del cinema del dopoguerra. Ignorato
dal pubblico, soprattutto fuori dagli Stati Uniti, scoperto in ritardo, quando faceva dei film di una comicità di
facilissima presa. Idolatrato oggi, quando la folla esce in cuor suo delusa dalle sale, perché Woody la fa soltanto
sorridere, non la distende sufficientemente.
Parallelamente, snobbato e ignorato dalla critica per troppi anni [...], trattato col sussiego destinato al comico
da palcoscenico dalle riviste specializzate, almeno fino a Annie Hall, Allen arrischia oggi di essere egualmente
frainteso dalla critica. Che lo vorrebbe eguale a colui che ignorava fino a pochi anni fa, disorientata nel voler
difendere un cineasta che fa del cinema sempre più magistrale come impiego del mezzo (chi si ricorda ancora,
ammirando l’uso magnifico della camera, della fotografia, del montaggio, della scelta degli ambienti, della direzione d’attori, della musica in Stardust della fattura grossolana di Bananas o del Dormiglione?) ma che sta
perdendo la sua vera personalità: stemperandosi nella grazia melanconica, tipica ma anche leggermente anonima
della commedia americana (Manhattan) o nell’omaggio ai grandi maestri europei, il Bergman di Interiors, o
il Fellini di ora. Andiamoci, comunque, piano. Il Fellini di Stardust non è certamente plagiato, ma piuttosto
evocato, con gusto ed intelligenza.
Diciamo piuttosto che l’obiettivo del regista si è ulteriormente, dopo Manhattan, ristretto. Allen ha sempre e
unicamente parlato di un solo oggetto, se stesso. Ma inserito nel contesto di un ambiente ben preciso, quello
di una presunta intellighenzia nuovaiorchese: dai suoi strali satirici nasceva anche una vera e propria visione
del mondo che egli conduceva a modo suo, coniugando i temi favoriti, il sesso la morte, il cinema. Di tutto
ciò, in Stardust, non è rimasto che lui solo.
Accanto alle sue battute su Dio, la psicanalisi e la copulazione che hanno perso, almeno qui, la quasi totalità
della loro efficacia, è rimasta la sua angoscia. Di comico che dovrebbe far ridere ad ogni costo ma non ci riesce
35
in un mondo di violenza e di sofferenza. Quest’angoscia Allen ce la rovescia addosso con una violenza, un
egocentrismo, un narcisismo tali che è difficile non parlare di provocazione. Non soltanto nel film eventuali
critiche vengono gia parate dalle dichiarazioni dei diversi personaggi, che anticipano le conclusioni degli spettatori. Ma si ha quasi l’impressione che il regista abbia fatto di tutto per autosprofondarsi, non solo nella disperazione ma nell’accentuazione delle diverse tendenze. Così questo cinema della lucidità e dell’intelligenza
diventa anche quello dell’autolesionismo: le battute di spirito sono così ripetitive (sia rispetto ai film precedenti,
che nell’ambito di quest’ultimo) da far apparire questo procedimento voluto. E le risate degli interlocutori di
Allen nel film sembrano essere state messe lì apposta, per smascherare la pochezza delle situazioni umoristiche,
seguendo un ben noto processo di esorcizzazione che fa sì che noi spettatori ridiamo molto meno, osservando
altri sullo schermo che stanno egualmente ridendo. Provocazione disperata, o disperata impotenza? Su questo
si potrebbe discutere a lungo.
Nel film sono rimasti, a parte quelle qualità linguistiche di cui si diceva, frammenti splendidi: una scelta incantata degli sfondi, un uso sempre ispirato della musica, la grazia poetica e sensuale degli incontri con le
donne, il segreto di trasformare la realtà in sogno (si pensi alla sequenza delle mongolfiere, ad esempio). E’
nato cosi un film enigmatico e triste, ossessionato e sensibile, seducente e insopportabile. Allen ha abbandonato
anche quel piccolo filo, quella parvenza di racconto che ancora sorreggeva Manhattan per rimpiazzarlo con le
divagazioni irrazionali sul sogno e sulla memoria. Ma è da chiedersi se che questo sia veramente il suo mondo.
Fabio Fumagalli, rtsi.ch/film selezione, 19 gennaio 1981
[...] Uno sguardo pungente e semiserio sulla fama e il successo, anche se molti spettatori lo hanno trovato
semplicemente narcisistico. [...]
Leonard Maltin, Guida ai film
36
UN’ALTRA DONNA
Another Woman
Regia Woody Allen
Soggetto Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Produttore Robert Greenhut
Fotografia Sven Nykvist
Scenografia Santo Loquasto
Montaggio Susan E. Morse
Interpreti Gena Rowlands, Gene Hackman, Mia Farrow, Ian Holm, Blythe Danner
Colore col.
Durata 80’
Anno 1988
Paese di produzione USA
LA TRAMA
Marion è una donna forte, i successo, che ha superato serenamente indenne la soglia dei cinquant’anni.Nulla
sembra intaccare la sua vita di donna di successo. Ma un granello si insinuerà nel meccanicsmo oliato della
sua vita quando affitterà un locale dove potersi concentrare e scrivere il suo nuovo libro. Attraverso i condotti
d’aerazione dell’alloggio le giungeranno le voci provenienti dal vicino studio di uno psicanalista. Una donna
incinta esprime la capacità di indagare la propria interiorità che metterà in crisi la sicurezza di Marion.
Partirà da qui una serie di sogni e flash-back, meditazioni e incontri che segnerano il percorso di Marion alla
ricerca della verità.
LA CRITICA
Lo spunto è felice. Marion è in piena crisi e i pudori e le angoscie dell'altra al di là della parete la costringono
ad una impietosa verifica di se stessa, a constatare successi sul piano culturale, ma sconfitte, rifiuti e rinunce
su quello affettivo ed esistenziale. [...] A pensar bene, contro la forza e la luce degli affetti lei ha sempre opposto
il muro della razionalità. Ora è in debito con una sconosciuta, come se nella fragilità di quel corpo deformato
dall'attesa, le fosse concesso di attingere coraggio e speranza. Marion è personaggio spesso e bellissimo. è
forse mancato a lei l'amore vero e completo, per cui non c'è nel film di Allen la memoria e la sensazione di
struggimenti autentici. Tutto è molto intellettuale, sorvegliatissimo, senza strappi né grida; tutto è meticoloso
- però mai gelido - a confermare in quella donna una rappresentazione dell'altoborghesia metropolitana. Il Central Park e la sua cornice possono situarla nella Grande Mela, nella New York cara al cuore di Allen, ma l'archetipo culturale di Marion è in Europa. [...] Tecnicamente il film ha molti pregi, finezze di scrittura, un
impianto solido, senza alcun cedimento strutturale. Ha tutti i crismi della intellettualità. Una fotografia preziosa
e una colonna sonora ricca e suggestiva (da Bach a Malher a Cole Porter e Kern).
Segnalazioni cinematografiche, vol. 106, 1989
Benché ispirato stilisticamente a Ingmar Bergman, regista che Woody Allen ammira e del cui direttore della
fotografia (Sven Nykvist) si serve qui, Un’altra donna appare il suo film più personale, più autoriflessivo. è
davvero la sua opera. è del tutto serio, e viene sia dalla testa sia dal cuore. Le crisi di Marion possono (con alcuni aggiustamenti) essere identificate con quelle del cineasta. Eppure qualcosa di vitale manca. Senza questo
qualcosa, Un’altra donna fa restare senza fiato, da un lato per l’intesità delle grandi aspirazioni, dall’altro per
la totalità e verbsità del fallimento. Che cosa è successo? L’ingrediente che manca in Un’altra donna è la presenza dello stesso Woody Allen come personaggio nel film.
Vincent Canby, New York Times (in Giannalberto Bendazzi, Woody Allen. Tutti i film, Fabbri editori,
1995)
37
Lungo tutta la sua carriera il Comico ha sempre cercato di raggiungere nuovi traguardi con successivi momenti
di svolta. Con Another Woman, simmetrico a Stardust Memories, Woody Allen ristruttura completamente il
suo ruolo. Ora è pienamente un “salvatore” perché, risolti ormai i suoi conflitti, può aiutare il pubblico a sciogliere i propri, contro ogni facile illusuione. La psicoanalisi entra, così, direttamente nel film, a più livelli. Almeno tre sono gli analisti: lo psichiatra, figura marginale; Hope (speranza), l’analista simbolica e diretta di
Marion, e la protagonista, terapeuta di se stessa. Il suo è un autoprocesso vissuto seguendo rigorosamente il
codice psicoanalitico. La sua crescita luttuosa, attraverso l’aprirsi di porte interiori, fa emergere le falsificazioni
della vita (cfr. Freud, La negazione, 1925). Il risultato doloroso che ne consegue sta in un rapporto più consapevole con la realtà, quindi più vero. [...]
Elio Ghirlanda, Annamaria Tella, Woody Allen, ed. Il Castoro
38
CRIMINI E MISFATTI
Crime And Misdemeanors
Regia Woody Allen
Soggetto Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Produttore Robert Greenhut
Fotografia Sven Nykvist
Montaggio Susan E. Morse
Interpreti Woody Allen, Martin Landau, Anjelica Huston, Mia Farrow, Claire Bloom,
Alan Alda, Caroline Aaron, Jenny Nichols, Joanna Gleason, Sam Waterston,
Stephanie Roth, Gregg Edelman, Zina Jasper, Kenny Vance, Nora Ephron
Doppiatore italiano di Woody Allen Oreste Lionello
Colore col.
Durata 107’
Anno 1988
LA TRAMA
Due storie parallele: quella di Judah Rosenthal, agiato e maturo oculista con una bella famiglia, una brillante
carriera e un’amante, Dolores, che non accetta di troncare il rapporto minacciando di rivelare tutto alla moglie ignara. E quella di Cliff Stern, timido e spiantato documentarista, con un matrimonio che vacilla e un cognato, vanesio produttore televisivo, che gli commissiona un documentario che lo presenti al pubblico in
maniera lusinghiera. Dopo che Judah, ricattato da Dolores, commissiona a un killer l’omicidio dell’amante,
conosce, al matrimonio della figlia del rabbino, Cliff, il quale nel frattempo ha conosciuto Halley, della quale
si è innamorato. I due si metteranno a parlare, confidandosi e rivelandosi le proprie vite fallite.
LA CRITICA
[…] Comparendo quale attore per la prima volta dopo cinque anni, fondendo la vena più malinconica di Un’altra donna al film ad incastro genere Hannah o Radio Days, con quest’ultimo Crimini e misfatti Woody Allen
perfeziona ulteriormente il proprio itinerario verso una poetica della schizofrenia. Poiché tutto, in questo film
costruito sulla nozione dello sguardo (dei due protagonisti, uno è oculista e l’altro cineasta, il rabbino che fa
da intermediario perde progressivamente la vista, l’amante aspira ad essere finalmente “vista”, eccetera) si
situa in antitesi.
Tragedia e comicità, per la prima volta nel cinema di Allen, coesistono infatti con volontà di radicale parallelismo all’interno di uno stesso film; due personaggi, uno in modo tragico, l’altro in maniera comica, incarnano
quel sentimento di colpevolezza che è alla base di Crimini e misfatti. Un medico benpensante, socialmente e
privatamente onorato, accetta progressivamente l’idea di sbarazzarsi di un’amante divenuta insopportabilmente
ingombrante. Ed un cineasta del tipo cosiddetto impegnato, accetta il compromesso più vile: girare - per ragioni
alimentari - un documentario sul fatuo regista di successo commerciale. Il quale, quasi non bastasse, finirà per
far innamorare di sé l’intellettuale donna dei sogni del nostro delizioso perdente.
Due storie, quindi, due personaggi, due toni espressivi: che servono al regista per smorzare (vecchio procedimento del cinema comico), passando da un episodio all’altro, l’effetto drammatico quando diventa eccessivamente marcato. Due filoni che si sviluppano autonomamente sul tema (tipico della cultura ebraica alla quale
Allen, come sempre, più che esplicitamente si riallaccia) della colpa e dell’espiazione: per ricongiungersi in
un finale fin troppo casuale per non essere un tantino forzato (ed è proprio l’aspetto più discutibile del film,
contribuendo a tingerlo di un leggero moralismo di maniera, che mal si concilia con la tradizionale leggerezza
di tocco dell’autore).
Malgrado questa esitazione finale, il parallelismo di Crimini e misfatti, proprio perché lo sentiamo maturato
sulle esperienze delle opere precedenti, non è però mai arbitrariamente introdotto. Quasi il regista ponesse costantemente uno sguardo retrospettivo alla sua opera, esso appare invece come un rifiuto a scegliere fra due
strade: ma un rifiuto espresso in termini creativi e non inteso come accettazione di una impotenza espressiva.
39
Sempre di più i suoi personaggi giocano di questo parallelismo per costruirsi artisticamente: grazie alla maturità
registica di Allen, essi possono ormai costantemente proiettarsi dal mondo della realtà a quello della fantasia
. Così, come quelli de La rosa purpurea del Cairo passavano dallo schermo alla platea, e cioè dal mondo della
creazione a quello della quotidianità, così la Gena Rowlands di Un’altra donna accedeva ad un mondo diverso
- e di difficile accettazione - ascoltando aldilà di un muro, ciò che stava accadendo ad un altro essere umano.
Così ora, sempre poiché guidati da un mano registica vieppiù’ sapiente, essi possono permettersi, in Crimini e
misfatti, di tenerci col fiato sospeso con il loro deambulare fra quelle due dimensioni: e tentare - inutilmente,
come sappiamo - di sfuggire alla diversità di quei due mondi. Che sono poi quelli del proprio destino, del proprio passato, dei propri compromessi.
Eterno trasformista - proprio come quel Zelig al quale riusciva di mutarsi a seconda delle circostanze e delle
necessità - il personaggio alleniano assomiglia quindi sempre di più al proprio burattinaio: nel suo rifiuto delle
regole, nella sua volontà di sfuggire ai condizionamenti del mondo che lo circonda, al peso della tradizione e
del conformismo sta la sua disperazione e la sua vitalità. In due parole, il suo essere moderno.
Fabio Fumagalli, rtsi.ch/film selezione, 15 dicembre 1992
Di primo acchito, Crimini e misfatti potrebbe sembrare una delle pause meditative, drammatiche con le quali
Woody Allen usa intercalare fin dai tempi di Interiors le proprie commedie. Di recente i film «seri» si sono
fatti più ravvicinati (Settembre è del 1987 e Un’altra donna del 1988) e Crimini e misfatti rappresenta secondo
me un punto d’arrivo, probabilmente uno dei più importanti, nell’evoluzione dell’autore. Una specie di Hannah
e le sue sorelle in nero, è la sintesi finalmente raggiunta, sul piano della struttura narrativa e del tono, non delle
presunte, inesistenti «due anime» di Woody Allen, ma dell’istintiva disperazione comica e della costante, tormentosa «tentazione» drammatica. In un clima comunque regolato da un’autodisciplina ferrea, il dramma sembra essere servito all’autore soprattutto per fare il punto delle proprie idee e della propria evoluzione morale.
E non c’è dubbio che, con tutta l’ammirazione che si può avere per lo stacco netto di Interiors e la comprensione
per la battuta d’arresto di Settembre, le commedie di Allen siano (almeno da Amore e guerra in poi) strutturalmente e narrativamente superiori ai film seri. Le commedie mettono in piedi un universo umano e cinematografico articolato e in continua evoluzione, mentre i drammi, d’interni appunto, segnano il passo, sintesi teoriche
più che momenti di crescita immaginaria. Già Un’altra donna aveva uno scarto diverso. Un’altra donna faceva
piangere; abdicava alla tenerezza e alla malinconia (che sono le cifre emotive dominanti in Allen) a favore di
una commozione profonda e terribile. E, sul piano propriamente cinematografico, usciva dalle camere chiuse
di Interiors e Settembre attraverso un uso esemplare delle immagini e delle suggestioni rielaborate dalla memoria. Il passaggio rappresentato da Crimini e misfatti è fondamentale per almeno due motivi: per la prima
volta Woody Allen riesce a coniugare, per l’intero arco di un film, la commedia e la tragedia e a estendere il
senso tragico oltre i confini di una storia privata (un’operazione che lo aveva visto sempre perfettamente a suo
agio nella rappresentazione comica delle nevrosi). E sono proprio la forma e la struttura narrative a compiere
il passo avanti, nel senso che per la prima volta gli incastri apparentemente casuali di personaggi e situazioni
(base strutturale delle migliori commedie alleniane) costruiscono un dramma, che non a caso si concede anche
agli esterni e a un intreccio
più articolato della seduta psicanalitica o del «nido di vipere» nel salotto borghese o
dell’ossessiva introspezione
bergmaniana. Col che, non
voglio togliere nulla a queste
ultime soluzioni; semplicemente, mi sembra che l’Allen
maggiore sia quello degli incontri, dei percorsi incrociati,
delle persone che incappano
l’una nell’altra, si perdono, si
ritrovano dopo anni, si innamorano, si lasciano, vanno al
cinema e a trovare i parenti, e
40
tessono così una rappresentazione contemporanea, certo socialmente delimitata, ma assolutamente precisa sul
piano dell’interpretazione morale e affettiva. Chiuso come Hannah e le sue sorelle tra due grandi feste familiari
(o quanto meno «di gruppo»), Crimini e misfatti sceglie di seguire le storie parallele ed esemplari di due personaggi che, pur appartenendo alla stessa comunità etnica e culturale e allo stesso ambiente sociale, non si conoscono e si incroceranno occasionalmente solo alla fine. L’essenzializzazione è massima: molto di quello che
altrove rappresentava il punto d’arrivo della storia qui è già successo. Le relazioni si sono già consumate (forse,
perfino quella di Halley e Cliff, in tanti film precedenti, in Annie Hall e Manhattan), le carriere, le professioni,
le ambizioni già incanalate, fallimenti e successi ormai definitivi. Persino i caratteri, i difetti, le ambiguità, il
cinismo nascosto dalla rispettabilità non sono l’oggetto dello svelamento e della progressione drammatica,
come erano invece (bergmanianamente appunto) nei film drammatici. Il film non racconta la storia morale dei
personaggi, ma l’impossibilità attuale di raccontare una storia morale, di elaborare la tragedia. E, privato dell’idea tragica, il comico può solo annaspare, dimezzato. «Tragedia più tempo», definisce Lester il comico, con
una certa grossolana correttezza, ma senza minimamente soffermarsi a pensare alle implicazioni della definizione. Tempo per decantare, certo, ma anche tempo per valutare l’entità del dramma, tempo storico, tempo
della memoria. Ma qui la memoria restituisce solo spezzoni disarmonici, cui certamente non corrisponde una
consequenzialità delle azioni e, quel che è più agghiacciante, dei sentimenti. Il depositario della memoria storica, il professor Levy, che sulla base di questa (e contro questa) ha elaborato un armonico sistema filosofico,
ricorda e vede tanto bene da suicidarsi (con la più grande battuta del film). E se Cliff continua a contestare
l’inutilità e l’infelicità dei suoi principi, tutti gli altri continuano a contraddire, non tanto i dati dell’esperienza,
quanto la maturazione della coscienza (tranne Jack, il fratello di Judah, che è l’unico ad avere le idee altrettanto
chiare del professor Levy sul nostro mondo).
«A noi, dopo la nostra nascita, è necessario tantissimo affetto alfine di persuadersi a rimanere invita; una volta
ricevuto, quell’affetto generalmente permane. Ma l’universo é un luogo assolutamente freddo. Noi investiamo
in esso i nostri sentimenti e, in determinate condizioni, sentiamo che il gioco non vale proprio la candela». La
forma di Crimini e misfatti è lo specchio fedele dell’universo freddo del professor Levy, una superficie piatta
(senza alcun mondo nascosto dietro) che rimanda le fisionomie senza spessore di personaggi nei quali, fino a
un film fa, Woody Allen si era ostinato a rintracciare la possibilità di pensieri ed emozioni profonde. Se in
Zelig e Broadway Danny Rose (che pure sono due film immensamente tristi) la ricomposizione avveniva all’insegna dell’affinità morale e della solidarietà di gruppo, qui è tutta nel gelido e trionfante riconoscimento (e
autoriconoscimento, il che è peggio) di un’immagine di pura superficie. I soliti luoghi e i soliti volti, appaiati
e alternati con ostinata, cronachistica casualità: neppure New York è più un posto tanto magico, e non è un
caso che in Crimini e misfatti non compaiano stregoni, illusionisti e artisti o che, comunque, non sappiano più
41
fare miracoli. La riconoscibilità immediata consente ad Allen di andare immediatamente al cuore della narrazione, tracciandone i contorni con poche secche linee, una lettera, un paio di flashback, qualche battuta tra
Cliff e la nipote e Cliff e la moglie, la sola presenza di Lester. La successione delle scene, certamente spiazzante,
è matematica; quando, circa a metà film, a omicidio avvenuto, ci accorgiamo che il film non ci sta raccontando
delle storie, ma il risultato delle storie precedenti di ognuno, il puzzle va automaticamente a posto. Ben diventa
cieco (e la sua presenza immaginata non serve a cambiare il cuore di Judah) e Levy si uccide (negando così la
speranza che la sua immagine riprodotta trasmetteva a Cliff). I film, anche quelli di una volta, non aiutano più
a vivere. Sono passati i tempi in cui si poteva conquistare il cuore di una donna con una copia a 16 mm di
Cantando sotto la pioggia. La familiarità consente ad Allen di negare con una tristezza infinita tutte le piccole
illusioni, tutti gli accorgimenti privati che permettevano ai protagonisti degli altri film di sopravvivere con silenziosa dignità. Certo, c’è quella frase finale di Levy sul valzer sconsolato di Ben cieco e di sua figlia: «La
felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione. Siamo solo noi con la nostra capacità di
amare che diamo significato all’universo indifferente. Eppure, la maggior parte degli esseri umani sembra
avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici, nel loro lavoro, nella loro famiglia, e
nella speranza che le generazioni future possano capire di più». Ultimi accordi, applausi degli invitati, buio.
Ma l’immagine conclusiva che si fissa nella memoria, dopo il congedo fatuo e incredibile dei Rosenthal, è
quella di Cliff solo, perduto nelle ultime battute in penombra di quella festa, tutta pagata da Lester.
Emanuela Martini, Cineforum, n. 294, 12/1990
In Crimini e misfatti Woody Allen, in una forma filosofica perfetta (anche se reduce dai suoi due drammi più
cupi, realizzati uno di seguito all’altro ed entrambi accolti con freddezza, Settembre (1987) e Un’altra donna
(1988), affronta temi come la vita, la morte, la verità, Dio, l’amore e altri argomenti cari a Dostoevskij. Interpreti
fantastici sviluppano una trama costruita come una serie di scatole cinesi per un romanzo su pellicola che parla
di incontri ravvicinati nel quartiere bene dell’Upper East Side a New York. Il direttore della fotografia è Sven
Nykvist, fedele collaboratore di Ingmar Bergman, che lavora con maestria mentre Allen fa un uso straordinario
della musica classica e del jazz, al quale ormai viene associato.
Due storie apparentemente diverse si incrociano all’ultimo momento. Judah Rosenthal, oculista stimato e socialmente in vista (interpretato da un brillante Martin Landau, candidato all’Oscar) è un adultero disposto a
tutto pur di sbarazzarsi di Dolores (Anjelica Huston), l’amante inferocita che minaccia di sconvolgere la sua
vita ben programmata, comoda e ipocrita. Nel frattempo i tentativi di Cliff Stern (Allen), documentarista, di
corteggiare Halley (Mia Farrow) sono vanificati dal suo insopportabile cognato Lester (un ottimo Alan Alda),
un esperto seduttore che fa sit-comedy ed è, fra l’altro, il soggetto del film che Cliff sta girando. Judah è assalito
da dilemmi morali quando il suo losco fratello (Jerry Orbach) si offre di occuparsi della faccenda di Dolores…
Attorno a questi dilemmi ruotano diverse famiglie, amici e conoscenti che soffrono, lottano, amano ed elargiscono battute memorabile.
Allen, nei panni del suo abituale personaggio, il timide intellettuale esistenzialista di Manhattan tormentato
dall’ansia, offre le migliori battute nel suo stile comico agrodolce: “Lui è solo interessato a produrre qualcosa
di mio” strilla la Farrow. “Sì”, risponde Woody, “Il tuo primo bambino!”. Più insolito il fatto che il dramma
serio, realistico e tragico si mescoli alla commedia di costume in un dibattito su valori, morale e legge eccezionalmente sofisticato e ambizioso. Allen si muove tra dolore, interiorità e umorismo bazzarro con il suo stile
inimitabile.
Angela Errigo, in 1001 film. I capolavori del cinema mondiale, a cura di Steven Jay Scheneider, ed. Atlante
42
MATCH POINT
Regia Woody Allen
Soggetto Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Produttore Letty Aronson, Nicky Kentish Barnes, Lucy Darwin
Fotografia Remi Adefarasin
Montaggio Alisa Lepselter
Interpreti Jonathan Rhys-Meyers, Scarlett Johansson, Emily Mortimer,
Matthew Goode, Brian Cox, Penelope Wilton, James Nesbitt, Ewen Bremner,
Rupert Penry-Jones, Colin Salmon
Colore col.
Durata 124’
Anno 2005
Paese di produzione GB, USA, LUX
LA TRAMA
Chris Wilton, irlandese proveniente da una famiglia di modeste condizioni, viene assunto come maestro di tennis in un club di lusso londinese. L’allievo Tom Hewett, figlio di un ricco imprenditore, sarà la chiave di un
grande cambiamento nella vita di Chris. Sposando Chloe, sorella di Tom, conoscerà l’agiatezza degli Hewett
e verrà assunto dal suocero in una delle imprese di famiglia. Ma Chris non riuscirà a resistere alla bellezza
magnetica di Nola, attrice americana in cerca di fortuna, nonché fidanzata di Tom. Tra i due nascerà una relazione segreta e passionale. Intanto la moglie Chloe desidera avere dei figli a tutti i costi, ma a rimanere incinta sarà l’amante. Spinto dalla pressione di Nola a lasciare la moglie, Chris trova una via di fuga del tutto
inaspettata.
LA CRITICA
Era tempo che un film di Woody Allen non divideva in questo modo critica e appassionati, e questo suona indubbiamente come un segnale positivo, visto e considerato come le ultima prove del regista americano erano
scivolate via con una rapidità tanto estrema quanto legittima dalla mente degli spettatori. Allen non riesce più
a far ridere, avendo smarrito la sua vis comica, e nulla ci sarebbe di sbagliato nell’aver esaurito una particolare
vena artistica che tanti capolavori ci ha donato, grazie a un’incredibile abilità nel saper giocare con le parole e
nel costruire situazioni esilaranti ma allo stesso tempo raffinate e geniali; e invece, quando nessuno se l’aspettava, ha saputo rinnovarsi con risultati certamente buoni, anche se i toni entusiastici di chi grida al miracolo
cinematografico sono francamente fuori luogo.
Match Point è un film noir ben costruito, che parte da una trama semplice, per progredire verso delle soluzioni
non innovative, ma riuscendo a sviluppare una riflessione molto interessante su alcuni temi che caratterizzano
l’umana esistenza; la parabola esistenziale di Chris ricorda il titolo di un saggio di Eric Fromm “Essere o
Avere”, dato che il protagonista si troverà, nel momento cruciale della sua vita, a dover prendere una decisione
proprio partendo da questo dualismo, essendo costretto a scegliere tra la passione e il desiderio contrapposti in
maniera univoca alla tranquillità e all’agio di una vita aristocratica. Non è un caso che in una delle prime scene
Chris sia intento nella lettura di “Delitto e Castigo” di Dostoevskij, particolare sostanziale che dona una chiave
di lettura chiara per lo sviluppo e la tragica conclusione dell’opera; proprio nelle fasi finali, a nostro avviso, risiede il punto di forza dell’opera, dove le tesi sulla fortuna, che sono il fulcro delle considerazioni messe in
piedi dal regista, vengono sovvertite, fondendosi nel dualismo materia e spirito rappresentati appunto come il
delitto e il castigo, visto questo ultimo come l’impossibilità di poter continuare a vivere dopo le spaventose
azioni commesse. Ciò che appare un segno della mala sorte sarà invece la salvezza del protagonista, ma si
tratta di una liberazione senza redenzione, priva della possibilità di riportare nella propria vita una benché minima parvenza di normalità.
Le ultime sequenze appaiono veramente ben congegnate e funzionali, ed a tratti pervase da uno spirito deca43
dente che le impreziosisce donando, di conseguenza, anche al resto del girato una nuova e migliore resa. Applausi meritati dunque per Allen, che riesce a tenere viva l’attenzione per la sua opera, non facendo rimpiangere
le sue passate produzioni, e riuscendo a stimolare una reale curiosità per il suo futuro di cineasta che molto
probabilmente ci riserverà ulteriori, gradite, sorprese.
Matteo Catoni (in collaborazione con Gli Spietati), www.ondacinema.it
Un altro Woody Allen ha diretto Match Point, presentato fuori concorso: senza New York (siamo a Londra),
senza chiacchiericcio, senza intellettuali, senza donne-idolo. Senza battute spiritose, o quasi: «Gli uomini
dicono che sono speciale», dice lei; «E lo sei?», s’informa lui; «Nessuno ha mai chiesto d’essere rimborsato»,
replica lei. Senza canzoni americane, o quasi, ma con molte arie d’Opera italiane: «Una furtiva lagrima» (Elisir
d’amore), «Un dì felice, eterea» (Traviata), «Caro nome» (Rigoletto), «Mal reggendo l’aspro assalto» (Trovatore). In ammirevole stile classico, Allen racconta una storia classica d’amore, di morte e dei destini del caso,
affrontando insieme i fenomeni sociali più contemporanei: l’ambizione senza qualità, il delitto senza castigo.
L’arrampicatore è il bellissimo attore Jonathan Rhys-Meyers: un maestro di tennis irlandese di origini popolari
che per il suo fascino, la sua gentile pazienza e la sua bravura viene assunto in un club aristocratico di Londra,
diventa amico di un giovanotto dell’alta società appassionato di lirica come lui (Matthew Goode), ne seduce e
sposa la sorella (Emily Mortimer), si rende simpatico al padre che gli dà un posto nella propria azienda. Ma
intanto lui ha perduto la testa per la fidanzata e poi ex fidanzata dell’amico (Scarlett Johansson), un’aspirante
attrice americana bionda, sensuale e volgaruccia, che rimane incinta di lui, vuole che lui lasci la moglie e minaccia di dirle tutto, protesta, grida, l’aspetta sotto casa: tra l’amore carnale e la perdita della condizione sociale
a cui s’è abituato sceglie (come Martin Landau in Crimini e misfatti) l’omicidio.
La uccide e rimane a festeggiare in famiglia la nascita del proprio figlio, ad accrescere l’immensa sciera dei
criminali impuniti. L’ha salvato il caso, già oggetto delle sue meditazioni: «Il fatto che buona parte della nostra
vita sia dovuta al caso spaventa la gente. è angoscioso dirsi che una tale quantità di cose ci sfugge. Succede,
in un match di tennis, che la palla sfiori la sommità della rete e, per un quarto di secondo, possa andare da una
parte o dall’altra. Con un po’ di fortuna, raggiunge il bersaglio e vinci. Ma può anche ricadere dalla tua parte,
e allora perdi». Woody Allen stavolta ha vinto: Match Point è bellissimo. è perfetto il contrasto fra la crudele
durezza dei fatti e la lussuosa piacevolezza dell’ambiente: Londra dei ricchi impeccabile e stupenda, le belle
case di campagna, la dolce vita dei giovani, gli arredamenti preziosi e comodi, l’eleganza troppo semplice
delle donne e quella troppo ricercata degli uomini, le automobili, i ristoranti, i libri, il teatro. è descritto con
autentica maestria l’appetito (anzi, la fame) sessuale degli amanti che si trovano finalmente a poter esprimere
la passione senza temere d’essere considerati con ironia, senza sentirsi in soggezione. è magnifica la scelta
degli attori, la levità e insieme la forte critica sociale con cui la tragedia è raccontata; e l’ironia sempre sottesa,
mai espressa però evidente. Alle prime proiezioni il film è piaciuto molto, ha avuto grandi applausi. […]
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 13 magio 2005
44
Quando ti rendi conto che i punti fermi
della Settima Arte ormai sono davvero
pochi, e fai un breve ragionamento su
quali siano i pochi cineasti rimasti coerenti ad un cinema di qualità legato
anche alla produzione continua di pellicole, beh, forse un solo nome salta
fuori, quello di Woody Allen. Colui
che ci ha abituato ad “un film all’anno”, colui che si alterna a comparire o no anche come attore nelle sue
realizzazioni, colui che più che mai ha
fatto della ritrosia verso i media la sua
ragion d’essere, ci ha sempre accompagnato stagione dopo stagione senza
(quasi) mai deluderci. Negli ultimi
anni la vena comica di uno dei newyor-
kesi più famosi al mondo non è andata spegnendosi ma semplicemente raffinandosi, raggiungendo l’obiettivo
di divertire e far sorridere senza sbellicarsi dalle risate. Per questo suo insolito nuovo approdo londinese, Allen
cambia incredibilmente registro, dedicandosi ad un film drammatico, con risvolti da vera e propria tragedia
(più che greca diremmo shakespeariana) ma con sprazzi che oseremmo definire…divertenti. Sì, l’argomento
non è per niente “tranquillizzante”, trattandosi della storia di Christopher, ragazzo apparentemente semplice
ma che diviene ben presto un arrampicatore sociale, e che viene plasmato dalla famiglia ultra-benestante della
ragazza che sposa. Fin qui tutto normale, se non fosse per la relazione extra-coniugale che inizia con Nola che
prenderà ben presto dei risvolti drammatici. Il tutto raccontato in una Londra che a tratti viene usata come
Manhattan (la scena con il ponte sullo sfondo la dice tutta), ma è una città non per tutti, fatta di negozi ultralussuosi, circoli privati con, fortunatamente, l’inserimento della Tate Modern e della Saatchi Gallery, nuovi
templi del culto artistico moderno. Come sempre perfetta la scelta degli attori, che nell’occasione sono uno
dei punti di forza del film, soprattutto i due protagonisti, i bellissimi e conturbanti Rhys-Meyers e la Johansson,
quest’ultima già icona del cinema contemporaneo. Per definire il film ci vorrebbero molti aggettivi, dall’intrigante della prima parte, al claustrofobico della parte finale, è una pellicola che risulta incredibilmente pesante
e leggera allo stesso tempo, dove Woody ci vuole dare una lezione di vita su cui si basa tutta la storia: la vita
è determinata più dalla fortuna che dalla bravura, utilizzando la metafora, appunto, di uno scambio nel tennis.
Così se la pallina tocca, anche solo per poco, il nastro, non si sa dove atterrerà, e da lì saranno condizionati i
fatti che seguiranno. Il film ci mette due ore per raccontarci ciò, ma sarà poi tutto vero? Oppure Allen, con un
semplicemente geniale colpo di coda, ci smonterà tutto con una sola scena? Questo lo si potrà sapere solo vedendo il film.
Un film intelligente, che registra la terza escursione di Allen nel drammatico su un totale di 35 pellicole, e che
ci dimostra che a 70 anni appena compiuti, si può fare del gran cinema e produrre dei piccoli gioielli. E Match
Point è un gioiello davvero speciale.
Claudio Mariani, www.mescalina.it
SOGNI E DELITTI
Regia Woody Allen
Soggetto Woody Allen
Sceneggiatura Woody Allen
Produttore Letty Aronson, Gareth Wiley, Stephen Tenenbaum
Fotografia Vilmos Zsigmond
Montaggio Alisa Lepselter
Musiche Philip Glass
Interpreti Colin Farrell, Ewan McGregor, Hayley Atwell, Sally Hawkins,
Tom Wilkinson, Mark Umbers, John Benfield, Clare Higgins, Phil Davis
Colore col.
Durata 108’
Anno 2007
Paese di produzione GB
LA TRAMA
Due fratelli molto legati, Ian e Terry , nonostante le loro difficoltà finanziarie, decidono di acquistare una
piccola barca a vela a cui danno il nome Cassandra's Dream. Ian, il quale lavora controvoglia nel ristorante
di famiglia, sogna di fare carriera nel mondo imprenditoriale, in particolare nel settore degli alberghi. Terry,
meccanico presso un'officina, è dipendente da alcol e farmaci e dedito al gioco d'azzardo. I due fratelli ben
presto si ritrovano in grossi guai finanziari e per questo si vedono costretti a chiedere aiuto al facoltoso zio
Howard, uomo di successo spesso in viaggio. Lo zio si mostra disponibile ad aiutare i nipoti in difficoltà a
patto che siano disposti a fargli un favore: uccidere Martin Burns, un uomo che potrebbe far finire Howard in
carcere per via di azioni illecite commesse nei suoi affari. Superate le iniziali titubanze, i due fratelli accettano
ma, sebbene l'omicidio riesca, i crescenti sensi di colpa e la depressione di Terry portano gli eventi ad una
tragica conclusione.
LA CRITICA
Cassandra era una figura mitologica che possedeva il dono della preveggenza. Più che un dono, forse, una maledizione, visto che le sue profezie erano sempre portatrici di terribili disgrazie.
Cassandra’s Dream è il titolo dell’ultimo lavoro di Woody Allen e della barca che i due fratelli protagonisti
del film (Colin Farrell e Ewan McGregor, entrambi bravissimi) acquistano e che diverrà il luogo del compimento della loro tragedia.
Il regista sembra volgersi a una visione ai limiti del nichilismo della società. Vengono distrutti gradualmente
il nucleo familiare, i legami di sangue, l’etica, il valore della vita. In tutto questo non c’è però nessun processo
catartico, quanto la presenza di un pessimismo che aleggia, grigio e cupo come le atmosfere londinesi fotografate da Vilmos Zsigismond, su tutta la storia.
Allen sembra essere molto più vicino a Shakespeare che ai classici greci nella sua rivisitazione della tragedia,
filmicamente adotta le strutture del noir e costruisce una narrazione che affida ai singoli il procedere drammaturgico della storia.
è infatti il personaggio di Colin Farrell ad avvicinarsi di più alla figura di Cassandra con le sue continue previsioni di un futuro che, dopo il compimento di un atto terribile, non avrà nulla di buono da offrire a lui e al
fratello.
Anche gli elementi di Shakespeare confluiscono nel personaggio di Farrell, con i suoi sogni sanguinosi, i
morsi della coscienza, i fantasmi che vagano nella mente.
Allen racconta attraverso uno stile ormai scarno, essenziale, ridotto all’osso. La narrazione è tesa, con ellissi
temporali e stacchi del montaggio che riducono ancora di più la struttura filmica allo stretto necessario per la
costruzione intellegibile di una storia. E in questo Allen dimostra quasi una glacialità autoriale nel voler raccontare solamente l’indispensabile, eliminando qualsiasi elemento risulti essere superfluo.
Incredibilmente, però, alcune sequenze e alcune situazioni si aprono a una ironia improvvisa che nasce dalla
46
stessa sostanza tragica della vicenda. In alcuni momenti il dramma vissuto dai personaggi fa sorridere, ma non
perché ci siano battute o momenti comici, quanto perché è la maschera umana ad avere la capacità di trasformare anche le vicende più drammatiche in qualcosa di lieve.
In Sogni e Delitti non vi è lo stesso coinvolgimento umano ed emotivo di Match Point, perché la glacialità di
Allen si riversa anche nel rapporto empatico dello spettatore con lo schermo, ma rimane un altro quadro disperato sulla natura umana e sulla sua eterna debolezza, con un destino implacabile e cinico nel rovinare i
sogni e le speranze di chi tenta di sfidarlo.
Emiliano Bertocchi, www.ondacinema.it
Piccolo e magrissimo, la solita espressione triste dietro le lenti spesse. Si rivela un successo annunciato Cassandra’s Dream, il nuovo film del settantunenne regista americano presentato in prima mondiale a Venezia.
Cassandra’s Dream è anche l’ultimo frutto dell’ispirazione drammatica del genio della commedia. Dove sono
finiti l’umorismo fulminante, le proverbiali battute, la corrosiva satira di costume che hanno costruito il mito
di Woody Allen? [...] Con Cassandra’s Dream siamo invece dalle parti di Match Point: stessi cieli uggiosi dell’Inghilterra invernale, stessa storia cupissima di un delitto senza castigo e dell’ineluttabilità del destino, nessuna
battuta caustica ma un’ironia appena percettibile. Anche se questo nuovo film - magnificamente scritto, ben
interpretato, capace di coniugare dramma e leggerezza - non possiede la forza “dostoevskiana” del precedente.
Gloria Satta, Il Messaggero, 3 settembre 2007
Sull’abbrivio trionfale di Match Point, il settantunenne Woody Allen ha preso gusto al noir esistenzialistico e
agli sfondi londinesi. Tuttavia a Cassandra’s Dream fanno difetto l’acutezza psicologica, il sarcasmo morale
e la classe narrativa del modello: non si tratta certo di un film da scartare, ma stavolta i valori si limitano ad
emergere dalla bravura degli attori, dalla scioltezza del ritmo e dalla cupa fotografia firmata Vilmos Zsigmond.
Dietro al titolo, che si riferisce all’omerica profetessa di sventure, prende forma, infatti, una replica d’autore
sui temi della colpa, del rimorso e del castigo a metà strada fra il teatro greco classico e la simbolistica poesia
di Dostoevskji. Ewan McGregor e Colin Farrell sono pressoché perfetti nell’incarnarsi in Ian e Terry, fratelli
di basso ceto che tentano, ciascuno a suo modo, di conquistarsi un posto al sole nella sporca società contemporanea: (...) Il film sta tutto nel duetto tra Ian e Terry, dapprima annichiliti, poi tormentati e infine decisi, si
fa per dire, a compiere un passo fatale da cui non c’è ritorno: il groviglio di eventi dai risvolti imprevisti e
sfortunati s’insinua nei gesti e negli sguardi, nel rimpallo dei dialoghi e nei riflessi spenti di un cielo come macerato dalla goffa meschinità dei personaggi.
Valerio Caprara, Il Mattino, 3 settembre 2007
Il film è serio: i dialoghi, di tanto in tanto, virano sul paradossale e sull’ironico, ma la comicità abita altrove,
Farrell e Mc Gregor sono stupendi e sembrano davvero fratelli, ma l’asso è Tom Wilkinson che disegna zio
Howard come un diavolo-travet, un perfetto gentleman inglese con il mitra nella 24 ore. Cassandra’s Dream
è un felice saluto di Woody Allen a Londra: il prossimo film, girato a Barcellona, sarà magari più solare.
Alberto Crespi, L’Unità, 3 settembre 2007
In Cassandra’s Dream (il titolo che evoca sventure è il nome di un cavallo da corsa) di Woody Allen non recita
lui, non si ride: il bel film girato a Londra sulla mancanza di coscienza, irresponsabilità, atonia morale attuale,
è drammatico quanto Match Point o Crimini e misfatti. [...] Molto bello. Il dramma unito alla goffaggine ridicola
dei protagonisti dà risultati sorprendenti. La bravura del direttore della fotografia Vilmos Zsigmond dà molto
fascino ad alcuni luoghi (la pista delle corse dei cani, il porticciolo delle barche). I meccanismi perfetti di
Woody Allen regalano al film profondità etica e insieme levità narrativa.
Lietta Tornabuoni, La Stampa, 3 settembre 2007
Non ci sono battute fulminanti, è il flusso visuale a far drammaturgia, e anche l’umorismo è indiretto. Ma Vilos
Zsigmand tratta Londra e le sue ambiguità tonali come raramente ci è capitato di ammirare, da vero flaneur
kafkiano dell’est Europa. Certo, non c’è in campo, forse rappresentato solo da un suo doppio, un attore della
troupe teatrale che, quando scopre un duetto amoroso noioso tra la collega, protagonista della piece semiporno, e il suo nuovo boy friend che si dà arie da gran riccone, ma è solo un conte Max, esclama, ed è la sua
unica battuta: ‘sono proprio fatti l’uno per l’altro, hanno il dovere di fare figli’. Woody Allen non ama molto i
47
suoi personaggi, questa volta, ma il trio di attori sì, e loro riescono a rendere credibile, e quasi eccitante Cassandra’s Dream, un giallo più psicologico che antropologico, dove non conta chi è l’assassino, perché sono
due e lo sappiamo subita senza scervellarci (il set è una Londra periferica).
Roberto Silvestri, Il Manifesto, 4 settembre 2007
48
FILMOGRAFIA
Regia e sceneggiatura
Mariti e mogli (Husbands and Wives) (1992)
Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery)
(1993)
Pallottole su Broadway (Bullets Over Broadway) (1994)
Don't Drink the Water - film TV (1994)
La dea dell'amore (Mighty Aphrodite) (1995)
Tutti dicono I Love You (Everyone Says I Love You) (1996)
Harry a pezzi (Deconstructing Harry) (1997)
Celebrity (1998)
Accordi e disaccordi (Sweet and Lowdown) (1999)
Criminali da strapazzo (Small Time Crooks) (2000)
La maledizione dello scorpione di giada (The Curse of the Jade
Scorpion) (2001)
The Concert for New York City episodio Sounds from the
Town I Love - documentario (2001)
Hollywood Ending (2002)
Anything Else (2003)
Melinda e Melinda (Melinda and Melinda) (2004)
Match Point (2005)
Scoop (2006)
Sogni e delitti (Cassandra's Dream) (2007)
Vicky Cristina Barcelona (2008)
Basta che funzioni (Whatever Works) (2009)
Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni (You Will Meet a Tall Dark
Stranger) (2010)
Midnight in Paris (2011)
To Rome with Love (2012)
Blue Jasmine (2013)
Magic in the Moonlight (2014)
Che fai, rubi? (What's Up, Tiger Lily?) (1966)
Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run) (1969)
Men of Crisis: The Harvey Wallinger Story - cortometraggio
TV (1971)
Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas) (1971)
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non
avete mai osato chiedere) (Everything You
Always Wanted to Know About Sex* (*But Were Afraid to
Ask)) (1972)
Il dormiglione (Sleeper) (1973)
Amore e guerra (Love and Death) (1975)
Io e Annie (Annie Hall) (1977)
Interiors (1978)
Manhattan (1979)
Stardust Memories (1980)
Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night's Sex Comedy) (1982)
Zelig (1983)
Broadway Danny Rose (1984)
La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo) (1985)
Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters) (1986)
Radio Days (1987)
Settembre (September) (1987)
Un'altra donna (Another Woman) (1988)
New York Stories, episodio Edipo relitto (Oedipus Wrecks)
(1989)
Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors) (1989)
Alice (1990)
Ombre e nebbia (Shadows and Fog) (1991)
Attore
Ciao Pussycat (What's New, Pussycat), regia di Clive Donner
(1965)
Che fai, rubi? (What's Up, Tiger Lily?), regia di Woody Allen
(1966)
James Bond 007 - Casino Royale (Casino Royale), regia di Val
Guest, Ken Hughes, John Huston, Joseph McGrath e Robert
Parrish (1967)
Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run), regia di
Woody Allen (1969)
Men of Crisis: The Harvey Wallinger Story, regia di Woody
Allen - cortometraggio TV (1971)
Plimpton! Did You Hear the One About?, regia di William Kronick - cortometraggio TV (1971)
Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas), regia di
Woody Allen (1971)
Provaci ancora, Sam (Play It Again, Sam), regia di Herbert
Ross (1972)
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non
avete mai osato chiedere) (Everything You Always Wanted to
Know About Sex* (*But Were Afraid to Ask)), regia di Woody
Allen (1972)
Il dormiglione (Sleeper), regia di Woody Allen (1973)
Amore e guerra (Love and Death), regia di Woody Allen (1975)
Il prestanome (The Front), regia di Martin Ritt (1976)
Io e Annie (Annie Hall), regia di Woody Allen (1977)
Manhattan, regia di Woody Allen (1979)
Stardust Memories, regia di Woody Allen (1980)
49
Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night's Sex Comedy), regia di Woody Allen (1982)
Zelig, regia di Woody Allen (1983)
Broadway Danny Rose, regia di Woody Allen (1984)
Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters), regia di
Woody Allen (1985)
Radio Days, regia di Woody Allen (1987)
King Lear, regia di Jean-Luc Godard (1987)
New York Stories, episodio Edipo relitto (Oedipus Wrecks),
regia di Woody Allen (1989)
Crimini e misfatti (Crimes and Misdemeanors), regia di Woody
Allen (1989)
Storie di amori e infedeltà (Scenes from a Mall), regia di Paul
Mazursky (1991)
Ombre e nebbia (Shadows and Fog), regia di Woody Allen
(1991)
Mariti e mogli (Husbands and Wives), regia di Woody Allen
(1992)
Misterioso omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mystery), regia di Woody Allen (1993)
Don't Drink the Water, regia di Woody Allen - film TV (1994)
I ragazzi irresistibili (The Sunshine Boys), regia di John Erman
- film TV (1995)
La dea dell'amore (Mighty Aphrodite), regia di Woody Allen
(1995)
Tutti dicono I Love You (Everyone Says I Love You), regia di
Woody Allen (1996)
Harry a pezzi (Deconstructing Harry), regia di Woody Allen
(1997)
Wild Man Blues, regia di Barbara Kopple - documentario
(1997)
Gli imbroglioni (The Impostors), regia di Stanley Tucci (1998)
- cameo
Z la formica (Antz), regia di Eric Darnell e Tim Johnson (1998)
- voce
Criminali da strapazzo (Small Time Crooks), regia di Woody
Allen (2000)
Ho solo fatto a pezzi mia moglie (Picking Up the Pieces), regia
di Alfonso Arau (2000)
Una spia per caso (Company Man), regia di Douglas McGrath
(2000) - cameo
La maledizione dello scorpione di giada (The Curse of the Jade
Scorpion), regia di Woody Allen (2001)
Hollywood Ending, regia di Woody Allen (2002)
Anything Else, regia di Woody Allen (2003)
Scoop, regia di Woody Allen (2006)
To Rome with Love (To Rome with Love), regia di Woody
Allen (2012)
Woody (Woody Allen: A Documentary), regia di Robert B.
Weide - documentario (2012)
Paris-Manhattan, regia di Sophie Lellouche (2012)
Gigolò per caso (Fading Gigolo), regia di John Turturro (2013)
DOPPIATORI ITALIANI DI WOODY ALLEN
La voce "storica" di Woody Allen, era quella dell'attore Oreste Lionello, scomparso nel 2009, che lo ha doppiato in quasi tutti i suoi film
a partire dalla sua prima apparizione cinematografica in Ciao Pussycat (1965) fino a Scoop (2006).
Le uniche eccezioni sono rappresentate da:
Gianfranco Bellini in James Bond 007 - Casino Royale;
Oliviero Dinelli in King Lear;
Piero Tiberi in Che fai, rubi?;
Giorgio Lopez ne I ragazzi irresistibili;
Leo Gullotta in To Rome with Love e Gigolò per caso.
BIBLIOGRAFIA (IN ITALIANO)
Oreste Lionelle, doppiatore storico di Woody Allen,
insieme al regista e attore
Woody Allen, Dio come sono depresso! Le migliori battute dai film, Nuovi Equilibri, 1999, pp. 32
Gianfranco Amato, Woody Allen. Lo specchio e la maschera, Verona, Mazziana, 1990
John Baxter, Woody Allen. La biografia, Edizioni Lindau, 2001, pp. 528
Giannalberto Bendazzi, Woody Allen. Tutti i film, Fabbri, 1995
Stig Björkman (a cura di), Io, Woody e Allen. Un regista si racconta, Minimum Fax, 2005,
Stig Björkman (a cura di), Woody su Allen, Editori Laterza, 1997, pp. 312
Fabrizio Borin, Woody Allen, Gremese Editore, 1997
Mark T. Conrad e Aeon J.Skoble (a cura di), Woody Allen e la filosofia. Quindici filosofi alle prese con il cinema di Woody
Allen, Effepi Libri, 2007, pp. 335
Elena Dagrada, Woody Allen Manhattan, Torino, Lindau, 1996
Elio Ghirlanda, Annamaria Tella, Woody Allen, Il Castoro Cinema, n. 148, Editrice Il Castoro, 2009
Jean-Michel Frodon, Conversazioni con Woody Allen, Einaudi, 2001, pp. XIII-135
Stuart Hample, La vita secondo Woody Allen, Isbn Edizioni, 2010
Eric Lax, Woody Allen, Milano, Longanesi, 1992.
Eric Lax e Woody Allen, Conversazioni su di me e tutto il resto, Bompiani, 2007, pp. 624
Jean-Max Méjean, Woody Allen, Gremese Editore, 2004
Thierry de Navacelle, Woody Allen sul set, Milano, Frassinelli, 1987.
Raimond Quilliot, La filosofia di Woody Allen, Mimesis, 2011, pp. 159
Linda Sunshine, Woody Allen. Parole e immagini, Bompiani, 1993
Sergio Toffetti e Andrea Morini, Woody Allen: elementi di paesaggio, Roma, L'Unità, 1996
Paolo Zagari, Io, Woody Allen, Bari, Dedalo, 1993
Giancarlo Zappoli, Invito al cinema di Woody Allen, Mursia, 1998, pp. 224
50
INDICE
Interni.................................................................................................................................................................4
Woody Allen. Manhattan transfert (di D. De Lucca, C. Fabretti)......................................................................6
Interiors............................................................................................................................................................31
Stardust Memories............................................................................................................................................34
Un’altra donna.................................................................................................................................................37
Crimini e misfatti..............................................................................................................................................39
Match Point......................................................................................................................................................43
Sogni e delitti....................................................................................................................................................47
Filmografia.......................................................................................................................................................49
Doppiatori italiani di Woody Allen..................................................................................................................50
Bibliografia (in italiano)...................................................................................................................................50
51

Documenti analoghi

Il problema della costruzione dell`identità nel cinema di Woody Allen

Il problema della costruzione dell`identità nel cinema di Woody Allen Cinema e schermo che l’autore da sempre utilizza per capire meglio il suo subconscio inserendone così con lucidità narrativa tutte le zone di ombra su cui la sua mente non riuscirebbe altrimenti a ...

Dettagli