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I Balcani al guado.
Quale futuro per la Penisola dell'Europa
Orientale?
2015
Francesco Trupia
www.geopoliticalreview.org
© Geopolitical Review
Pensiero Storia e Attualità Geopolitica
Roma, maggio 2015
Autore
Francesco Trupia
Studente presso la St. Kliment Ohridski di Sofia in Philosophy on Global Affairs, è laureato in Politica e Relazioni
Internazionali presso l’Università di Catania con una tesi in Diritto Comparato su “I diritti indigeni nel
costituzionalismo latinoamericano “. Ha svolto attività di ricerca con il CoSMICA su “La Libia di Gheddafi tra mito
e contraddizioni” ed in Politica Comparata su “Lo sviluppo socio-economico come fattore facilitante per la
democratizzazione in America Latina”.
Approfondisce le tematiche sui Diritti Umani e Minoranze svolgendo uno stage presso il Tribunale di Agrigento
sull’applicazione delle normative comunitarie per i rifugiati politici. Nel 2014 diventa Intern presso la Ong FocusECFD lavorando nella promozione della cittadinanza europea nei Balcani e Turchia. Ha partecipato alla
simulazione del BIMUN 2015 di Belgrado come delegato per lo Human Rights Council esaminando la nuova
categoria dei rifugiati climatici. E’ Adjunct Fellow-Head Osservatorio Brasile per l’Osservatorio di Politica
Internazioanle (OPI), collabora con Cronache Internazionali occupandosi di Medio Oriente, con Eurasia per la
sezione dedicata ai Balcani ed il CeSEM.
La presente pubblicazione può essere scaricata da: www.geopoliticalreview.org
È consentita la riproduzione di parte della presente utilizzando i seguenti riferimenti:
F. Trupia, I Balcani al guado. Quale futuro per la Penisola dell'Europa Orientale?, Geopolitical Review
(www.geopoliticalreview.org), Roma, maggio 2015
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I Balcani al guado
Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
I Balcani al guado
Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
Il conflitto ucraino ha recentemente aperto sullo scenario internazionale una serie di aut-aut geopolitici
in cui diversi governi nazionali decideranno possibilmente le proprie strategie future in politica estera.
La penisola dei Balcani dimostra di essere nel pieno di tale stagione politica, con diversi governi che
hanno già intrapreso importanti posizioni nel conflitto tra Occidente e Russia. Paesi come Slovenia e
Croazia nel voler concludere il percorso di ingresso nell’Unione Europea, nonostante le difficoltà
dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA), hanno già preso le distanze da Mosca. Altri,
invece, come Serbia o Bulgaria, si ritrovano al guado tra una vicinanza politico-economica a Bruxelles,
oramai un dato di fatto, e la propensione anche storico-culturale di guardare ad oriente, proprio verso
la Federazione Russa e le opportunità internazionali che il Paese di Vladimir Putin dimostra di poter
offrire.
Dopo oltre un ventennio dalla caduta dell’Unione Sovietica, lo “spauracchio” di Mosca sembra
ripresentarsi all’interno di quegli Stati un tempo unite nel territorio dalla Repubblica Socialista Federale
di Jugoslavia, cercando forse di rompere un dissidio politico che aveva allontanato il Paese del
Maresciallo Tito dall’orbita sovietica. Rispetto a tale passato storico, però, i destini politici delle entità
statali fuoriuscite dalla frammentazione jugoslava non sono indipendenti come nel 1948, bensì
direttamente legate alle decisioni politiche delle istituzioni occidentali.
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Se Paesi come Kosovo, Macedonia e Montenegro, hanno da mesi ufficializzato la propria favorevole
posizione alle sanzioni contro Mosca, in linea con la politica dell’Unione Europea e degli Stati Uniti
d’America, la Serbia è l’unico Paese dei “Balcani occidentali” a non approvare le sanzione contro la
Federazione Russa. Tale scenario riflette la politica interna nelle relazioni tra Belgrado e Priština.
Quest’ultima ha infatti varato le sanzioni contro Mosca perché sostenitrice di una comparazione
politica, alquanto ardua da sostenere per le abissali differenze, tra lo scenario che si sta definendo in
Crimea e gli avvenimenti accaduti con la Serbia prima della Dichiarazione d’Indipendenza del febbraio
2008. D’altra parte, l’assenza di relazioni diplomatiche o di semplice dialogo tra Mosca e Priština
confermano la chiara posizione russa a sostegno di Belgrado. Proprio lo stesso Presidente Putin non
ha mai negato, ma anzi l’ha sostenuta, la vicinanza tra il popolo russo e quello serbo, mantenendo
salde le proprie idee sul non riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente.
Mentre per Montenegro e Macedonia la decisione favorevole alle sanzioni contro Mosca ha portato
l’accelerazione del processo di adesione all’Unione Europea, in realtà concesso anche alla Serbia, i
fenomeni Liberland e del governo Tsipar in Grecia rimarcano un aspetto al momento ancora
marginale. Il primo poiché nato quasi da una forma di protesta contro i continui disagi nel confine
serbo-croato, i cui sviluppi futuri appaiono incerti. Il secondo, perché impegnato su un crinale politico
assai scosceso, in cui la vicinanza commerciale della Russia e i diktat della Banca Centrale Europea
confondono su quale lato avverrà la caduta greca, sia essa possibilmente positiva o negativa per il
futuro di Atene.
Nella regione orientale della Penisola balcanica, invece, La Bulgaria sembra manifestare un certo
risentimento politico nei confronti di Bruxelles. A sette anni dall’ingresso nell’Unione Europeo,
l’opposizione di Francia e Germania per l’ingresso definitivo del Paese nell’area Schegen, nonché le
decisioni sul blocco del South Stream, avvenute per volontà russa ma conseguenti ai limiti imposti
dalla normativa comunitaria, hanno dato sfogo ad un malessere diffuso ultimamente soprattutto
all’interno della società civile bulgara.
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Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
Belgrado, Zagabria e il fattore Sarajevo
L’attuale governo Vučič e l’intera Serbia si trovano inseriti all’interno di importanti sfide regionali capaci
di influenzare la politica nazionale e internazionale. Quest’ultime, in realtà, sembrano essere giunte ad
uno storico crocevia a cui Belgrado è obbligata a rispondere, scegliendo una posizione che al
momento appare alquanto indefinita.
Ad oggi il Paese difende il proprio status di candidato ufficiale a membro dell’Unione Europea,
nonostante le tante difficoltà incontrate. Importanti provvedimenti decisi nelle tante riforme strutturali
già intraprese, hanno condotto al taglio di numerosi privilegi ai vari manager dei consigli
d’amministrazione di strategiche aziende serbe, con la conseguente nomina di nuovi responsabili ai
loro vertici. Belgrado è divenuta quindi un nuovo polo di attrazione per nuovi investitori esteri, come
conferma la ratifica di uno fondamentale quanto strategico accordo di code sharing fra la compagnia
di volo nazionale della Serbia e quella della Repubblica Popolare di Cina. Pechino ha già da tempo
manifestato il suo interesse all’interno della zona dei Balcani. Dalla Serbia alla Romania fino
all’Europa dell’est in Ungheria, si fa sempre più evidente, come dimostrato anche dall’ultimo vertice
Cina-Paesi dell’Europa orientale tenuto a Belgrado nel mese di dicembre, l’interesse della prima
economia mondiale.1
D’altra parte, a destare maggiore preoccupazione, nonostante una prima sottovalutazione politica da
parte di Vučič, è stato il ritorno in patria di Vojislav Šešelj, ex leader del Partito Radicale Serbo che,
nonostante la sua ormai poca influenza politica e la malattia in corso, ha creato non pochi problemi –
quantomeno mediatici -, al governo di Belgrado.
Alle forti manifestazione e le critiche affermazioni di Šešelj contro l’attuale esecutivo, la decisione della
corte dell’Aja è stata quella di ricondurre il vecchio leader cetnico al ritorno in carcere. Il rientro a
Belgrado, dove ad aspettarlo trionfanti vi erano molti dei suoi vecchi sostenitori politici, è avvenuto
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Trasporto aereo: code sharing Serbia-Cina, Pechino rafforza la presenza nella regione, 7/05/2015, Agenzia Nova.
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dopo unici anni e dopo la sua scelta di consegnarsi spontaneamente ai giudici dell’Aja per le accuse
riguardanti gli eventi dell’autunno 1991 tra Croazia e Bosnia. Il ripristino della sua campagna d’odio ha
scosso non poco la società civile serba, ancora segnata da “ferite storiche” non tutto rimarginate,
soprattutto nei confronti di Stati Uniti d’America e Nato.2
Dopo il gesto del suo carissimo compagno Nemanja Sarovic, che aveva bruciato una bandiera
kosovara, insieme a quella statunitense e della Nato nel 2012, Šešelj ha riproposto la medesima show
propagandistico bruciando la bandiera croata davanti alla corte nella quale si stava svolgendo il
processo proprio a Sarovic, accusato di istigazione razziale per i fatti commessi. Šešelj ha subito dopo
etichettato il governo di Zagabria come l’istituzione rappresentante uno “Stato ustascia-croato”, poiché
– secondo le sue stesse affermazioni – reo di aver influenzato la Corte dell’Aja per il suo ritorno in
carcere.3
Il governo croato, infatti, sembra intenzionato a ritirare il proprio ambasciatore da Belgrado, parlando
di una possibile crisi diplomatica. Se così fosse, Šešelj sarebbe almeno riuscito a complicare la vita
dei suoi ex-alleati4, come desiderava lui – ossia contro gli storici “nemici” croati -, minando il percorso
di avvicinando della Serbia all’Unione Europea.
Se infatti, come confermato nella visitta a Belgrado dal Capogruppo dei S&D al Parlamento Europeo,
Gianni Pittella, «il riconoscimento del Kosovo della Serbia non rappresenta una coditio sine qua non
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È noto che i rapporti tra il nazionalismo incarnato da Šešelj e le politiche dell’Alleanza Atlantica non siano mai stati
idilliaci fin dal biennio 1998-2000, quando il Partito Radicale ed il Partito Socialista di Milošević tornarono ad allearsi per
difendere la sovranità della Repubblica Federale di Jugoslavia sulla provincia del Kosovo e Metohija opponendosi alle
aggressioni della stessa NATO.
La scarcerazione di Šešelj, senza che la Serbia o il governo Vučič lo richiedesse, è stata una decisione conseguenziale
all’istanza di ricusazione del giudice Frederik Harhoff, allontanato per la sua presunta parzialità a favore della condanna.
Tale decisione, presa “motu proprio” dalla stessa Corte, appare come il tentativo di evitare scenari di maggiore
imbarazzo come nel caso di Slobodan Milošević, morto in carcere con una dinamica ancora poco chiara prima della
presunta sentenza di colpevolezza.
Se il movimento di Šešelj è oggi un piccolo partito extraparlamentare poco influente nella politica nazionale, sia Nikolić
che Vučič derivano proprio dal Partito Radicale Serbo, dal quale è nato il Partito Progressista Serbo. L’attuale Primo
Ministro e Presidente serbo avevano accompagnato in lacrime Seselj all’aeroporto verso l’Aja, undici anni fa, giurandogli
che sarebbero rimasti fedeli alla sua linea politica.
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per il suo avvicinamento a Bruxelles»5, l’agognato ingresso nell’Unione Europea è attualmente
ostacolato dalla diplomazia croata e dal governo di Zagabria.
L’eco delle manifestazioni per il ritorno di Vojislav Šešelj, hanno condotto dapprima il Parlamento
croato ad esprimere piena insoddisfazione per il rilascio del leader nazionalista e poi,
successivamente, il Parlamento Europeo a varare una risoluzione, sebbene di poca importanza in
quanto non vincolante.6 Accusato di massacri di civili nella città di Vukovar in Croazia e di persecuzioni
della minoranza croata nella regione serba di Vojvodina nel 1991, Šešelj è stato infatti oggetto di
discussione dell’intero gruppo croato di eurodeputati che, insieme al Ministro della Giustizia Orsat
Miljenic, hanno affermato di voler condizionare l’avvicinamento della Serbia a Bruxelles qualora Vučič
e gli sponenti del suo governo non prendessero le distanze dalle dichiarazioni del leader cetnico. Le
ultime pesanti accuse del Comitato civico per i Diritti Umani di Zagabria, che sostiene come tra Šešelj
ed il Governo serbo vi sia un sostegno reciproco, hanno condotto Vučič a condannare le parole del
comitato croato e a definire «offensive ed inquietanti» quelle della risoluzione del Parlamento
Europeo.7
Sulla scia di questa precisa e delicata fase politica per la Serbia, qualora la personale vendetta di
Šešelj riuscisse ad ostacolare seriamente il cammino verso Bruxelles, è propria la politica estera in cui
Belgrado dovrà dimostrare la sua posizione in merito al percorso da intraprendere davanti al bivio:
Bruxelles o Mosca?
Negli affari esteri, fattore storicamente pragmatico per la Serbia, la strategia dettata da Vučič e Nikolić
segue non solo l’obiettivo dell’ingresso in Unione Europea e l’adesione all’Alleanza Atlantica prevista
dal programma “NATO’s Partnership for Peace Program”, ma anche l’intenzione di rinforzare i già
saldi rapporti con il Cremlino e la stessa Federazione Russa.
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Ue: Pittella, Serbia e Kosovo devono normalizzare rapporti, 06/05/2015, Ansa.
In quel caso Vučić, ringraziando gli eurodeputati bulgari e la loro collega slovena Tanjia Fajon per aver provato a
cambiare il testo della risoluzione a Bruxelles, ha affermato che «la politica di Šešelj non esiste più in Serbia».
F. Trupia, Tra Bruxelles e Mosca: il dilemma serbo e le accuse di Šeelj, Eurasia Rivista di Studi Geopolitici.
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Una certa simpatia per la Russia, infatti, non solo resiste ancora all’interno dell’opinione pubblica e tra
la società civile serba ma, soprattutto, coinvolge le stesse istituzioni. Espressione del buon rapporto
tra i due Paesi è stata la parata militare del 9 maggio in commemorazione dell’Unione Sovietica per la
vittoria della Seconda Guerra Mondiale, alla quale l’Esercito della Serbia ha partecipato sfilando
insieme all’esercito russo in Piazza Rossa a Mosca.
È proprio nell’ambito della cooperazione militare e sicurezza che i rapporti tra Belgrado e Mosca si
sono sviluppati positivamente negli ultimi anni. Nella città di Niš, vicina alla regione kosovara ed al
confine bulgaro, è stata inaugurata una base umanitaria comune tra l’esercito serbo e quello russo in
virtù dell’accordo di cooperazione “Srem 2014” che, dopo la ratifica nel 2010, integra sia la ricerca
scientifico-militare condotta dal Technical Testing Center di Nikinci, sia esercitazioni congiunte dalle
forze armate dei due Paesi, le prime dopo il crollo dell’Urss. Dallo scorso 7 novembre fino al 13 dello
stesso mese, le unità delle Forze speciali serbe e delle Truppe aviotrasportate russe hanno condotto
nella Vojvodina meridionale la prima esercitazione antiterrorismo congiunta del progetto Srem-2014.
Dopo essere arrivati all’aeroporto militare di Batajnica, gli oltre 100 “Berretti blu” della Vozdúšnodesántnye vojská (VDV) hanno cooperato per tutta la durata dell’esercitazione con le Specijalna
Antiteroristicka Jedinica (SAJ) nelle operazioni di ricognizione, aviolancio, infiltrazione ed attacco alle
basi terroristiche e nel recupero degli ostaggi.
L’operazione, che ha visto protagonisti un totale di 404 truppe tra quelle serbe e russe nell’importante
esercitazione militare, è stata orgogliosamente rivendicata dal Ministro della Difesa serbo, Bratislav
Gasic, dal Capo Generale delle Forze Armate serbe, Ljubisa Dikovic, e dal Colonnello Generale
Vladimir Anatolyevich Shamanov, Comandante in Capo delle Truppe di Aviazione russe durante
l’esercitazione.8 Il quasi novantenne Tenente Generale dell’Esercito Popolare Jugoslavo, Stevan
Mirković, ha dichiarato che le operazioni militari con la Russia potrebbero essere solo l’inizio di
un’intensa stagione di cooperazione militare. Il Ministro della Difesa, Bratislav Gašić, e quello degli
Esteri, Ivica Dacic, hanno però sottolineato la neutrale posizione militare di Belgrado e l’importanza
dei rapporti economico-commerciali con Mosca in quanto partner storico, strategico e tradizionale.
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Srem 2014 Completed Successfully, 14/11/2014, In News by InSerbia Network Foundation.
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L’obiettivo dell’esercitazione militare era quello di incrementare le performance militari in totale
cooperazione contro il fenomeno del terrorismo islamico. I pericoli derivanti dalla propaganda
dell’Islamic State e i bellici scenari siriani, in cui Mosca è una dei pochi chiari sostenitori del Governo
del Presidente Assad, conducono sia la Serbia che la Russia a tenere alto il livello di attenzione e di
difesa militare in alcune province del Kosovo e nel Caucaso russo, in particolare nelle Repubbliche di
Cecenia e Daghestan.
Nonostante le critiche di Seselj sullo scenario serbo-kosovaro9, dove la conclusione dell’autostrada
Pristina-Ňis sarebbe la conferma di come la Serbia abbia accettato il piano di totale armonizzazione
dei rapporti con il Kosovo, la posizione filorussa di Belgrado evidenzia una chiara strategia.
Quest’ultima, opposta al percorso tracciato per l’ingresso in Unione Europea, dopo le sanzioni contro
Mosca conseguenti il conflitto ucraino, guarda decisamente ad Est. L’autostrada Pristina-Niš altro non
è che solo una minima parte di un progetto di miglioramento delle comunicazioni che, anche sul piano
ferroviario, vedrà la realizzazione della tratta “Atene-Skopje-Belgrado-Budapest”, completamente
finanziata da Pechino. Con la Russia, in qualità di partner politico-militare, e la Cina, in quello di
partner commerciale, Belgrado potrà mantenere la sua ferma posizione nei confronti di Priština,
continuando a non riconoscere la Dichiarazione d’Indipendenza kosovara. Infatti, all’interno del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la posizione contraria di Cina e Russia al riconoscimento
del Kosovo, nonché il loro diritto di veto, rappresentano per la Serbia il migliore degli appoggi politici
su scala internazionale.
Nonostante il rilancio della prospettiva europea grazie alla fiducia concessa da Bruxelles, tra le ex
Repubbliche jugoslave è la Bosnia Erzegovina il Paese che ha manifestato le maggiori difficoltà
nell’attuazione dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione (ASA) 10. Sebbene le principali cause
riguardano importanti inadempienze in ambito giuridico, l’accordo ratificato sei anni addietro nel 2008
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Nel biennio 1998-2000, infatti, il Partito Radicale di Šešelj e il Partito Socialista di Milošević tornarono ad allearsi per
difendere la sovranità della Repubblica Federale di Jugoslavia sulla provincia del Kosovo e Metohija opponendosi alle
aggressioni della stessa NATO.
10 L’Accordo di Stabilizzazione e Associazione (Stabilisation and Association Agreement), definito anche “accordo
interinale”, è il primo passo da compiere e soddisfare politicamente e giuridicamente per tutti quei Paesi europei non
appartenenti all'Unione ma pronti a voler farne parte.
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è costantemente minato da un’instabilità politica interna conseguente la sempre maggiore influenza
decisionale dei tre popoli costitutivi, ossia la comunità croata, serba e bosgnacca, che ha rallentato
l’avvicinamento di Sarajevo a Bruxelles.
Tali inadempienze, rispetto a quello che comunemente si può pensare, non riguardano solo la Bosnia
Erzegovina. La stessa Unione Europea, attore promotore dell’avvicinamento con Sarajevo,
nonostante disponga del Direttorio per l’Integrazione, è mancante di un potere esecutivo capace di
identificare le responsabilità e possibili ostruzioni.
Al momento, unico fattore capace di stimolare positivamente l’avvicinamento della Bosnia Erzegovia a
Bruxelles appare il superamento degli Accordi di Dayton del 1995, che misero fine alla guerra anche
grazie al tempestivo intervento dell’allora amministrazione Clinton. D’altra parte, appare logico
sottolineare che ritoccare gli accordi di Dayton significherebbe aprire una deframmentazione della
repubblica parlamentare federale e una visione maggiormente unitaria del Paese. Tutto ciò potrebbe
supportare la già crescente spinta indipendentista serbo-ortodossa della Repubblica di Srpska,
enclave monoetnica in cui quasi la maggioranza della gente si autodefinisce politicamente ancor oggi
“jugoslava” o “patriota-jugoslava”. Addirittura la popolazione di una delle municipalità serbe
storicamente più importanti, quella di Banja Luka, ha fortemente criticato il partito che rappresenta la
stessa comunità, ossia il Partito del Progresso Democratico, perché incapace di ottenere una
maggiore autonomia. Il Presidente della stessa Repubblica di Srpska, Milorad Dodik, da anni si
oppone ad un avvicinamento con Bruxelles, difendendo di fatto la propria comunità e minacciando,
parallelamente, forte del consenso popolare, una secessione della stessa Repubblica serba dalla
Bosnia.
Nei quartieri dei “patrioti bosniaci” di Sarajevo, invece, la richiesta di ricondurre la Bosnia-Erzegovina
verso una struttura più confederale si scontra contro le pretese delle stesse istituzioni capitoline che
auspicano una riforma politica in un’ottica di centralizzazione statale. L’obiettivo rimane quindi quello
di seguire gli oneri presi con l’Unione Europea e concludere l’ingresso della Bosnia Erzegovina.
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La capitale Sarajevo, rispetto a quello che mostravano i suoi dati storici, è momentaneamente
protagonista di un crescente fenomeno di islamizzazione e un conseguente incremento della comunità
bosgnacca. Quella che un tempo era una delle città roccaforte della comunità serbo-ortodossa,
simbolo della vecchia Jugoslavia, vede adesso la possibile avanzata del Partito d’Azione
Democratica, rappresentante della stessa comunità musulmana.
Da tale contrasto, l’opinione pubblica legata al popolo serbo critica tale fenomeno di islamizzazione in
fieri a Sarajevo, ridefinita giustamente “la musulmana” 11. La paura di una possibile escalation di
violenza legata al fenomeno dell’Islamic State rimane alto e l’attentato di matrice islamica nella città di
Zvornik12, sotto la giurisdizione della Repubblica di Srpska, ha acuito le critiche dei serbi contro
l’islamizzazione dei Balcani. La presenza di gruppi di miliziani più o meno volontariamente ignorati in
ottica anti-serba, reduci della guerra del 1992-1995, se comparato ad un possibile contagio delle
comunità albanesi-musulmane del Kosovo, Macedonia e Albania stessa, evidenzia uno scenario da
non sottovalutare in tema di sicurezza interna per la Bosnia Erzegovina e non solo per essa.
La “Grande Albania” in fuga
Come se non fossero state sufficienti le tensioni diplomatiche successive gli scontri in Serbia-Albania
allo Stadion Partizana di Belgrado per la partita valida per la qualificazione ai campionati europei di
calcio 2016, il primo ministro albanese, Edi Rama, aveva preannunciato pubblicamente e pochi mesi
dopo «l’inevitabile e indiscutibile» formazione di una “Grande Albania”. Dichiarazioni, quest’ultime,
tacitamente accolte dal Ministro degli Esteri kosovaro, Hashim Thaci, personaggio dal passato assai
discusso poiché coinvolto insieme all’ex Primo Ministro Ramush Haradinaj nello scandalo di traffici
illeciti e crimini contro le comunità serbe presenti in Kosovo.
Sebbene ostentata solo verbalmente dalla diplomazia di Tirana, l’idea di un’ipotetica unificazione tra
Kosovo e Albania potrebbe provocare un destabilizzante effetto domino in quello che un tempo era il
11 Azra Nuhefendić, Sarajevo la musulmana, 8/04/2015, Osservatorio Balcani e Caucaso.
12 In realtà, nonostante l’ultimo censimento ufficiale del 1991 attesti una stragrande maggioranza della comunità
bosgnacco-musulmana, oggi la composizione etnica anche a seguito della guerra è profondamente cambiata. I serbi
oggi rappresentano la grande maggioranza della popolazione.
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territorio meridionale della Jugoslavia.
Il ritorno vero un “Albania Etnica” 13 ha da sempre affascinato i movimenti nazionalisti filo-albanesi
presenti nei “Balcani occidentali”. Nel 2013, i due leader più celebri del nazionalismo albanese,
Kreshik Spahiu e Sali Berisha, hanno promosso dei referendum per l’annessione delle storiche parti
balcaniche a maggioranza albanese. Le regioni direttamente coinvolte rimangono quelle dell’intero
Kosovo, dell’intera parte occidentale della Macedonia, della municipalità serba di Novi Pazar nel
Distretto di Raška, il sud-est del Montenegro e le due unità periferiche di Tesprozia e Giannina
dell’Epiro greco. L’unità etnica paventata da Tirana è stata negli anni politicamente anche sostenuta
da forme di nazionalismo più o meno politicamente lecite. Da quelle totalmente illegali, riconducibili ai
gruppi etno-nazionalisti armati, fino a quelli più istituzionali e ascoltati dalla gran parte delle comunità
albanesi. In Kosovo, ad esempio, quest’ultime vengono rappresentate dalla coalizione dei Liberali
kosovari, storica formazione politica che nelle sue attività di lobbying ha da sempre sostenuto un
pieno riconoscimento di tutti i diritti degli albanesi e, seppur velatamente, auspicato un sempre
maggior avvicinamento a Tirana attraverso un sostenibile processo diplomatico.
Proprie le comunità filo-albanesi presenti in Kosovo, così come in Macedonia, sembrano aver
incrementato il loro livello di empowerment all’interno delle istituzioni. All’interno dei vari livelli di
partecipazione e protesta più o meno convenzionali, esse sono in grado di svolgere un ruolo chiave
laddove è riscontrata la loro presenza. La risposta empirica è dentro le forti manifestazioni filoalbanesi – trasformatesi repentinamente in una vera e propria guerriglia urbana -, contro le critiche del
Ministro delle Comunità e dei Ritorni, Aleksander Jablanovic, che aveva attaccato proprio la stessa
comunità. A Priština, la protesta ha condotto addirittura l’arresto di Shpend Ahmeti, sindaco della
capitale kosovara e leader del partito Vetëvendosje, insieme ad un altro centinaio di manifestanti.
Oltre il partito del sindaco di Pristina, anche la formazione dell’Aleanca për Ardhmërinë e Kosovës,
sembra cavalcare nuove possibili proteste, spingendo verso un avvicinamento a Tirana e un
13 Tale termine appare nel suo utilizzo più corretto. L’idea nazionalista di un Grande Stato albanese, infatta, passa non
attraverso una politica di espansione dei confini nazionali, bensì da un’unificazione etnica all’interno dei territori citati.
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conseguente allontanamento da Belgrado. La diplomazia serba, da parte sua, non sottovaluta
minimamente ciò che accade all’interno di un territorio riconosciuto ancora come una propria provincia
autonoma, alla pari della Voivodina nel nord.
Un’analisi sub-regionale sembra essere inevitabile, alla luce anche dei rapporti ancora non molto
pacificati tra Belgrado e le Nazioni Unite. Nonostante l’amministrazione provvisoria da parte della
United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) nel 1999, e la sorveglianza
esercitata dal Gruppo internazionale di orientamento (ISG) conclusasi nel 2012, i casi di violenza
effettuati da filo-albanesi contro la comunità serba non sono mai terminati. A Prizen, ad esempio, nella
zona meridionale del Kosovo, la minoranza albanese incendiò nel 2004 chiese e simboli religiosi legati
alla tradizione serbo-ortodossa, sotto il “lasciapassare” dei militari della Kosovo Force (KFOR).
Recentemente, invece, le autorità albanofone hanno incassato direttamente dall’Ufficio Governativo
serbo per il Kosovo, le accuse per gli atti di vandalismo e profanazione di diversi luoghi di culto
ortodossi a Obilic e Gnjilane. Anche sul ponte di Austerlitz sul fiume Ibar 14, nella città di Mitrovica,
simbolo delle divisioni etniche all’interno del Paese, si sono registrate casi di violenza tra giovani di
etnia differente, ossia tra albanesi e serbi.
Un ritorno a forme varie ed estreme di nazionalismo, al di là delle loro strumentalizzazioni da parte di
istituzioni e partiti politici, rappresentano oggi un serio problema, soprattutto dopo l’attacco alla
stazione macedone di polizia lungo il confine con il Kosovo. L’ ipotesi che l’attuale governo di Skopje
abbia artificiosamente enfatizzato il caso di un possibile ritorno dell’Ushtria Çlirimtare Kombëtare15
(UҪK) per deviare i riflettori dei mass media dagli scandali dell’esecutivo rimane un ipotesi da non
escludere.
A Skopje, infatti, i partiti filo-albanesi hanno provato fin da subito ad abbassare i toni sull’attacco alla
14 Il fiume Ibar rappresenta la metafora della divisione etnica nella città di Mitrovica. Esso costeggiando i luoghi della
miniera di Trepça, luogo simbolo di uno degli scioperi più duri nella Jugoslavia del 1989, divide la parte sud in cui
lavorano minatori albanesi da nord, nella zona di Zvečan, prettamente a maggioranza serba.
15 L’Ushtria Çlirimtare Kombëtare, conosciuto comunemente come UÇK macedone, ha operato durante i sanguinosi scontri
promossi dalla minoranza albanese nella Repubblica di Macedonia tra la fine del 2000 e il 2001. Accusato di praticare il
terrorismo tale formazione è comparabile all’Ushtria Çlirimtare e Kosovës, suo alter ego in Kosovo.
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stazione di polizia, poiché facenti parte della coalizione di governo e attualmente contestati da un
neonato movimento studentesco dove la presenza degli stessi albanesi è accertata e molto
importante. Gli stessi rappresentanti delle comunità filo-albanesi hanno inoltre cercato di non
esasperare gli animi per evitare il rischio di riaprire una ferita “etnica”, maldestramente rattoppata dagli
Accordi di Ohrid del 200116, capace di ricondurre la Macedonia verso peggiori scenari di instabilità
politica e insicurezza. Attualmente, lo scenario di crisi dell’esecutivo macedone divide, come di
consuetudine ormai, Bruxelles e Mosca: da una parte, quindi, l’Unione Europea che chiede le
dimissione del governo, dall’altra Putin che sostiene lo stesso esecutivo di Skopje.
Sulla crisi macedone, la strategia russa appare geo-politicamente strategica e alquanto chiara. Il
Presidente Putin, non avendo mai riconosciuto il Kosovo come Stato, criticando l’intera comunità
internazionale per le violenza contro i “cugini” serbi, non vuole da una possibile caduta dell’attuale
governo di Skopje si possano aprire degli scenari in cui un aumento della forza politica delle comunità
albofone nei Balcani possa agire contro gli interessi di Belgrado.
La recente inaugurazione del “Corridoio di Transito Comune”, voluta dalla Direzione Generale delle
Dogane di Albania e Kosovo, se da una parte rappresenta l’ennesimo capitolo di una cooperazione
politico-diplomatica storicamente vantaggiosa, dall’altra apre una possibile stagione di insicurezza che
preoccupa in primis Belgrado, in modo rilevante l’Ungheria e di conseguenza l’intera comunità
europea.
Dinnanzi all’attuale flusso migratorio di migliaia di cittadini kosovari, possibilmente incrementato dagli
albanesi in transito dal Corridoio Comune appena inaugurato, appare palese come sia stato possibile
realizzare una “zona franca”, completamente legalizzata e quindi difficilmente controllabile, che dal
cuore dei “Balcani occidentali” conduce facilmente ai Paesi dell’Unione Europea. Una piccola “area
Schengen” con l’Albania che Priština, già alle prese con i difficile politica di vicinato con la Serbia, ha
16 Gli accordi di Ocrida obbligano il governo macedone a garantire maggiori diritti dei cittadini di etnia albanese. Questi
diritti includono il riconoscimento dell’albanese come lingua co-ufficiale, l’aumento della partecipazione nelle istituzioni
governative, nella polizia e nell’esercito. In quel caso, il governo macedone accettò di attuare un nuovo modello di
decentralizzazione dopo che la minoranza albanese abbandonò tutte le richieste separatiste e riconobbe pienamente
tutte le istituzioni politiche di Skopje.
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I Balcani al guado
Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
accettato positivamente. Tutto ciò spaventa ancor di il governo Vučić per il possibile incremento dello
stato di insicurezza regionale ed il rallentamento del percorso di avvicinamento e integrazione a
Bruxelles che oggi non appare avulso da varie insidie.
Pristina, infatti, da decenni vive un problema di sviluppo economico a causa di un tasso di
disoccupazione giovanile molto alto. L’alto numero di cittadini kosovari che stanno spopolando interi
quartieri della città di Mitrovica, come di Drenica, Shala, Drenas, Skenderaj e Vushtrri, per iniziare il
loro cammino verso altri Paesi europei, riflette anche lo scenario di crisi politica e istituzionale del
Kosovo. Dopo le ultime elezioni, infatti, le attività parlamentati sono rimaste bloccate per oltre cinque
mesi per l’incapacità politica del neo-governo di eleggere il proprio Presidente dell’Assemblea. Diretti
prima a Belgrado e subito dopo verso la città di Subotica in terra ungherese, vero trampolino di lancio
per l’arrivo in Germania, Francia o Svizzera, migliaia di famiglie stanno abbandonando il Kosovo
poiché esasperate dalle tragiche condizioni di povertà dettate dalla crisi economica e dall’alto livello di
disoccupazione. Ad emigrare verso i Paesi dell’Unione Europea non sono soltanto giovani e
disoccupati, ma anche tutti coloro i quali hanno lasciato un lavoro retribuito con un media di un paio di
euro al giorno. Secondo i dati del think tank di Pristina GAP, circa 120,000 cittadini kosovari hanno
lasciato il paese dalla fine del 2014.17
Dal Ministero degli Affari Esteri per i Balcani, Turchia e Paesi dell’European Free Trade Association, è
stato emanato un comunicato ufficiale dove Berlino garantisce il suo impegno nella cooperazione con
il Kosovo nel ripristino della vicenda riguardante l’immigrazione illegale. Il rappresentante ufficiale del
Ministero degli Esteri tedesco, incontrando la presidente della Repubblica di Kosovo, Atifete Jahjaga,
ha recentemente visitato la parte meridionale di Mitrovica, in cui entrambi hanno chiaramente detto
alla cittadinanza di non tentare di lasciare il Paese perché non sarà più possibile farlo. Dopo la
Germania, quasi tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, specialmente Austria, Francia e Svezia,
hanno constatato con preoccupazione l’evolversi dell’attuale fenomeno migratorio che, in modo
ancora più preoccupante, è riscontrabile anche dal territorio albanese. La maggiore preoccupazione
rimane che tale fenomeno possa non essere arginato anche in ottica di politica di sicurezza visto l’alto
17 C. Gesellmann, Kosovo: le dicerie ed il grande esodo, 29 /04/ 2015, Osservatorio Balcani e Caucaso
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Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
numero di albanesi, bosgnacchi e kosovari di confessione musulmana facilmente affascinabili dal
fenomeno dell’Islamic State.
Quello che appare evidente oramai da tempo è come gli obiettivi prefissati da Priština nel 2008 stiano
lentamente diventando quasi irraggiungibili. La comunità internazionale inoltre, insieme all’Unione
Europea, dopo aver legittimato e riconosciuto la Dichiarazione d’Indipendenza dalla Serbia, sembra
manifestare una propria incapacità d’intervento in contrasto ai drammatici scenari che stanno
destabilizzando l’intera regione. Più paradossale appare l’atteggiamento della comunità kosovara di
etnia non albanese che negli ultimi giorni ha chiesto un intervento risolutore da parte di Belgrado; i
kosovari-albanesi, invece, continuano a vedere qualsiasi forma di dialogo proprio con la Serbia come
una reale minaccia alla sovranità statale del Kosovo.18
Le prime accuse ricadute su un presunto racket di etnia albanese, in grado di trovare spazi
incontrollati presso la frontiera serbo-ungherese e aiutare soprattutto cittadini albanesi residenti in
Kosovo a raggiungere altri parti d’Europa, sembrano essere confermate dalle parole del Premier Edi
Rama. Le statistiche redatte dall’Ufficio Immigrazione di Belgrado confermano che circa ventiseimila
albanesi hanno ricevuto il passaporto serbo ma, visti i report pubblicati da giornali sulla quantità di
gente che giornalmente abbandona il Kosovo, potrebbe essere facilmente confermata l’idea che vi sia
un illecito giro d’affari nel rilascio di documenti biometrici a cittadini kosovari capaci così di lasciare il
Paese.
Proprio il Primo Ministro albanese ha qualificato come “strutture criminali” tutti quei gruppi albanesi
che supportano, in via del tutto illegale, le comunità albanesi a migrare verso le capitali dell’Unione
Europea. Caso emblematico è stato quello nella città albanese di Kukes, in cui la notizia diffusa,
ovviamente falsa e poi smentita, sul fatto che la Germania avesse concesso asilo politico facile ha
spinto oltre cinquecento persone a richiedere passaporto e iniziare il loro viaggio.
18 F. Trupia, Kosovo: punto di non ritorno, 20/03/2015, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici.
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I Balcani al guado
Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
La Bulgaria guarda ad Est
La scarsa informazione dei media occidentali sugli avvenimenti politici connessi alla Bulgaria, stantii
nella pregiudiziale della “maggioranza bulgara”, non tolgono al Paese l’importante ruolo all’interno
della regione dei Balcani e, soprattutto, all’interno del blocco eurasiatico. La centralità della Bulgaria è
riemersa pochi mesi addietro, sia da un punto di vista geopolitico che strategico, per le decisioni
riguardanti il gasdotto South Stream.
Dopo un primo blocco dei lavori tra il 2009-2013, a causa dell’opposizione delle comunità locali, la
volontà di riprendere definitivamente i lavori del gasdotto avrebbero rifornito, grazie alla biforcazione
strutturale dello stesso, la Grecia e l’Italia meridionale, per poi risalire verso la parte settentrionale
della Penisola e rifornire facilmente Serbia, Ungheria, Slovenia ed infine anche l’Austria. Il secondo
blocco dei lavori, invece, quello definitivo, arrivato dalla decisione presa dallo stesso Paese fornitore
dell’energia, ossia la Russia di Vladimir Putin, è arrivato nonostante i numerosi vantaggi.
La sfida del South-Stream ha rappresentato per la Bulgaria un’importante chance in ottica sia
europea, in quanto Paese membro dell’Unione, sia in ambito internazionale. Le relazioni con Mosca
avrebbero garantito al governo di Bojko Borisov una crescita politica non indifferente all’interno
dell’intera regione dei Balcani, grazie alla possibilità che la Russia stessa aveva già vagliato di
rispristinare due vecchi progetti bulgari: il Belen Nuclear Power Point, presente nella città di Pleven, e
il gasdotto Burgas-Alexandropoli. Se il primo progetto rimane ad oggi bloccato per i numerosi rischi
ambientali, il progetto del Dzhugba-Burgas-Alexandropoli avrebbe condotto Mosca a bypassare punti
geopolitici importanti, come quello del Bosforo e del Dardanelli. In tal caso, la Bulgaria sarebbe
divenuta uno dei centri logistici strategicamente più importanti per Mosca, e non solo per il gasdotto
sul Mar Nero. Il South Stream avrebbe garantito il rispetto degli accordi contrattuali tra la Gazprom,
azienda fornitrice nonché leader in ambito energetico, e la Bulgarian Energy Holding, che avrebbe
fatturato un introito non indifferente pur un’azienda nazionale di uno dei Paesi più problematici
dell’intera Unione Europea.
I nuovi possibili progetti di cooperazione tra Mosca e Sofia nel settore energetico avevano anche
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I Balcani al guado
Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
anticipato nuove partnership in settori altrettanto importanti, come quello della sicurezza militare. Dopo
che la Nato ha imposto alla Bulgaria alla fine del 2014 una modernizzazione del proprio esercito,
distaccandosi dalla dipendenza russa ed acquistando nuovi radar 3D, come previsto inoltre dal Piano
2020, il Premier Boyko Borisov ha dichiarato ancor prima della sua elezione di non voler rispettare lo
stesso programma militare della Nato. La Bulgaria, non disponendo di fondi sufficienti per la
modernizzazione del proprio arsenale, avrebbe richiesto aiuti a Mosca che, da parte sua, si era
dimostrata già pronta, così come da tempo in Serbia, a cooperare in ottica di sicurezza interna e
regionale.
Lo stesso Presidente Vladimir Putin aveva intuito gli importanti obiettivi che le relazioni bilaterali con
Sofia rappresentavano. Ad oggi, cioè che rimane della cooperazione tra i due Paesi è solo
un’occasione persa, sebbene il Presidente bulgaro Rosen Plevneliev aveva definito di prioritaria
importanza il ripristino e la celere conclusione dei lavori del gasdotto South Stream.
Se infatti gli interessi della Bulgaria ruotavano intorno all’importazione energetica, poiché dipendente
dal gas russo per oltre l’85%, dopo le sanzioni imposte dall’Unione Europea per il conflitto in Ucraina
anche Mosca necessitava di una strategia alternativa a quella già conosciuta dai burocrati di
Bruxelles. Con la realizzazione del South Stream, al di là dei numerosi vantaggi ai Paesi della
Comunità Europea, la Russia sarebbe stata in grado di aggirare il campo minato creato dal Governo
filoeuropeo di Kiev e quello storicamente poco cooperativo di Bucarest. L’unità d’intenti raggiunta
dagli incontri diplomatici dei Presidenti di Bulgaria, Ungheria e Austria, quest’ultima decisa addirittura
a sostenere i costi della conclusione del South Stream, avrebbero condotto un ulteriore diminuzione
delle forniture in Ucraina e in Romania, con conseguentemente isolamento dei due Paesi.
Proprio la costruzione del gasdotto, era stata in un primo momento bloccata dagli Stati Uniti d’America
e da Bruxelles che, nonostante la possibile realizzazione di un’imponente struttura, operativa insieme
al gemello North-Stream nel Mar Baltico, avrebbe garantito i sufficienti approvvigionamenti energetici
a tutti i Paesi europei. Mentre da una parte il Congresso degli Stati Uniti aveva riferito all’ex premier
Plamen Orešarski di disporre la sospensione dei lavori del South Stream, in chiara posizione antiRussia, dall’altra la Commissione Europea impugnava l’intera normativa comunitaria sulla libera
concorrenza contro i lavori del gasdotto in Bulgaria, interrompendo il progetto per l’assenza di un terzo
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I Balcani al guado
Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
partner in grado di concorrere commercialmente con la russa Gazprom. 19 La risposta per conto della
Federazione Russa, arrivata dalle dichiarazioni di Rosen Plevneliev, Ambasciatore russo presso
l’Unione Europea, ha sottolineato le vecchie affermazioni di Vladimir Chizhov, Rappresentante
Permanente russo a Bruxelles, che aveva definito il primo blocco dei lavori una «decisione politica»,
da interpretare nel più ampio quadro delle sanzioni europee contro la politica di Vladimir Putin.20
In ambito energetico l’ufficiale blocco del South Stream ha posto la Bulgaria in una posizione poco
positiva. Secondo le dichiarazioni del Ministro dell’Energia, che aveva subito convocato il Consiglio
per le Crisi, la Russia ha smesso di erogare la fornitura prevista, ovviamente non dipendente dal
South Stream. Le inadempienze russe, sono storicamente state sostituite da Sofia con gli
approvvigionamenti del giacimento bulgaro di Chiren che, però, prevede il passaggio dalle centrali di
riscaldamento da gas a olio combustibile. Infatti, il settore energetico in Bulgaria è stato lentamente
privatizzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica e, con l’intervento di investitori stranieri e le loro
pianificazioni fondante su numerosi rincari dilazionati negli anni, le condizioni del Paese sono divenute
assai precarie. Attualmente, le periferie bulgare vengono colpite da pericolosi black out durante la
stagione invernale. Anche all’interno del settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri bulgaro ha
ufficializzato i dati inerenti la perdita di oltre dieci milioni di lev a causa dei blocchi commerciali contro
Mosca varati dall’Unione Europea.
Tale scenario ha condotto negli ultimi mesi il neo premier Bojko Borisov ad un cambio di strategie,
iniziato a delinearsi durante gli ultimi lavori diplomatici svolti con Ungheria prima ed Austria poi.
Nonostante il Capo del Governo bulgaro sia deciso a mantenere una chiara posizione euro-atlantica,
tale orientamento, in linea con quelle del vecchio governo socialista di Plamen Orešarski, vira
decisamente ad Est, precisamente in Azerbaijan.
Se la Russia decide di trasformare il South Stream in Turkish Stream, spostando i chilometri dei suoi
19 Il Terzo Pacchetto Energia dell’Unione Europea sancisce che i proprietari della rete di distribuzione, in questo caso la
russa Gazprom, non possono essere compagnie produttrici gas.
20 F. Trupia, La centralità della Bulgaria nelle strategie eurasiatiche della Russia, 22/11/2014, Eurasia – Rivista di Studi
Geopolitici;
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Quale futuro per la Penisola dell’Europa orientale?
gasdotti energetici verso Ankara, in Turchia, il Paese di Tayyip Erğogan che al momento detiene la
fornitura energetica dell’intera Unione Europea, la Bulgaria ha sancito lo scorso 22 aprile l’accordo sul
Vertical Gas Corridor. Il nuovo sistema, che fornirà Bulgaria, Romania e anche Grecia, sarà alimentato
dal Trans Adriatic Pipeline (TAP) e dal Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline (TANAP), che a loro volta
trasporteranno il gas direttamente dal giacimento di Shah Deniz, in Azerbaijan.21
21 S. Nobili, ENERGIA: Accordo sul gas. La diversificazione per i Balcani orientali passa da Baku, 28/04/2015, East
Journal
2015
A cura di:
Geopolitical Review.
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