VII - Pegaso

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VII - Pegaso
INSEGNAMENTO DI
ISTITUZIONI DI DIRITTO PUBBLICO
LEZIONE VII
“LA CORTE COSTITUZIONALE”
PROF. GIANMARCO CIFALDI
Istituzioni di Diritto Pubblico
Lezione VII
Indice
1.
2.
3.
La Corte costituzionale italiana ----------------------------------------------------------------------- 3
1.1.
Le competenze --------------------------------------------------------------------------------------- 3
1.2.
Composizione ---------------------------------------------------------------------------------------- 3
1.3.
Il parametro------------------------------------------------------------------------------------------- 5
1.4.
L'oggetto ---------------------------------------------------------------------------------------------- 6
1.5.
I vizi --------------------------------------------------------------------------------------------------- 6
Le decisioni della Corte --------------------------------------------------------------------------------- 9
2.1.
Le attribuzioni -------------------------------------------------------------------------------------- 11
2.2.
Il giudizio sulle leggi In via incidentale o d'eccezione---------------------------------------- 12
2.3.
In via principale o d'azione ----------------------------------------------------------------------- 15
I conflitti di attribuzione ------------------------------------------------------------------------------ 17
3.1.
Tra poteri dello Stato ------------------------------------------------------------------------------ 17
3.2.
Tra Stato e Regione e tra Regioni---------------------------------------------------------------- 18
3.3.
L'ammissibilità del referendum ------------------------------------------------------------------ 18
3.4.
I reati presidenziali -------------------------------------------------------------------------------- 20
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1. La Corte costituzionale italiana
La Corte costituzionale italiana, detta anche Consulta per il palazzo in cui ha sede è
prevista dalla Costituzione della Repubblica Italiana del 1948. Le norme sul suo funzionamento
sono contenute nella Costituzione, nella legge costituzionale n. 1 del 1948, nella legge
costituzionale n. 1 e nella legge n. 87 del 1953, nonché nelle norme integrative (1956, più volte
modificate) e nel regolamento generale (1966, anch'esso più volte modificato) di cui la stessa Corte
si è dotata.
1.1.
Le competenze
In base all'art. 134 della Costituzione, la Corte costituzionale giudica:
•
sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti
aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni,
•
sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le
Regioni, e tra Regioni
•
sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della
Costituzione. Di grande rilevanza sono i giudizi sui conflitti di attribuzione
tra poteri dello Stato e tra Stato e regioni.
Inoltre spetta alla Corte giudicare l'ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo,
introdotta con la legge costituzionale n. 1 dell'11 marzo 1953.
1.2. Composizione
L'art. 135 comma 1 della Costituzione afferma che «la Corte costituzionale è composta di
quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento
in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ad amministrative» (di questi,
tre sono eletti da un collegio del quale fanno parte il presidente, il procuratore generale, i presidenti
di sezione, gli avvocati generali, i consiglieri e i sostituti procuratori generali della Cassazione; uno
da un collegio del quale fanno parte il presidente, i presidenti di sezione ed i consiglieri del
Consiglio di Stato; uno da un collegio del quale fanno parte i presidente, i presidenti di sezione, i
consiglieri, il procuratore generale ed i viceprocuratori generali della Corte dei conti - art. 2, comma
1, lettere a), b) e c) della legge n. 87 dell'11 marzo 1953).
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In questo modo si ha un organo equilibrato; equilibrio che risiede nel carattere misto
dell’organo con un’alta qualità tecnico-giuridica ed una sensibilità politica.
La nomina da parte del Capo dello Stato è sicuramente un atto presidenziale in senso stretto
per il quale è prevista la controfirma del Presidente del Consiglio dei ministri, che può essere negata
nel caso di mancanza dei requisiti nei candidati o per gravi ragioni di opportunità. Quindi il
contenuto del decreto è deciso autonomamente dal Presidente della Repubblica, e la controfirma ha
solo lo scopo di certificare la regolarità del procedimento seguito.
L’elezione ad opera del parlamento in seduta comune avviene a scrutinio segreto e con la
maggioranza dei due terzi dei componenti dell’Assemblea. Per gli scrutini successivi al terzo è
sufficiente la maggioranza dei tre quinti. L’alto quorum ha spesso determinato ritardi (oltre il
termine di un mese previsto da norma costituzionale) nell’elezione dei giudici, pericolosi perché la
Corte per funzionare necessita di almeno 11 giudici. Tanto che nel 2002 per la prima volta la Corte
ha rinviato la discussione su una delle cause in ruolo per mancato raggiungimento del quorum di 11
giudici.
L’elezione da parte della magistratura avviene con una maggioranza assoluta dei
componenti del collegio e in mancanza, in seconda votazione a maggioranza relativa con
ballottaggio fra i candidati, in numero doppio di quelli da eleggere, più votati. I giudici sono scelti
tra magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinarie ed amministrative, i professori
ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio. In relazione a
questa componente elettiva si è posto il problema di stabilire che cosa si debba intendere per
suprema magistratura: la tesi che ha prevalso è di ritenere che il soggetto debba possedere requisiti
formali (cioè l’essere magistrato) che sostanziali (cioè esercitare effettivamente le funzioni).
Il giudice così nominato resta in carica nove anni (decorrenti dal giuramento), alla scadenza
dei quali cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni. Non è, quindi, possibile la prorogatio del
giudice con mandato scaduto, in attesa della nomina e dell'entrata nelle funzioni del nuovo giudice.
Ciò potrebbe comportare qualche problema, per il fatto appena menzionato che non sempre il
termine di un mese per la nomina di un nuovo giudice viene rispettato.
Il mandato non può essere rinnovato. La Corte elegge tra i suoi componenti il presidente,
che rimane in carica tre anni ed è rieleggibile (salvo i termini di scadenza novennali dall'ufficio di
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giudice). Ad ogni modo, il presidente viene eletto in genere tra i giudici che stanno concludendo il
mandato, in modo da garantire una certa mobilità della carica. Il presidente della Corte
Costituzionale (oggi il giudice Franco Bile) è la quarta carica dello Stato. I membri della Corte
Costituzionale godono dell'immunità politica e penale simile a quella prevista dall'articolo 68.
Accanto alla composizione ordinaria la Corte conosce una composizione integrata, che si ha
ogni volta che la Corte è chiamata a giudicare dei reati presidenziali di alto tradimento e di attentato
alla costituzione, previa messa in stato di accusa del Capo dello Stato dal Parlamento in seduta
comune a maggioranza assoluta dei suoi membri. In tal caso la Corte è integrata con 16 membri
tratti a sorte da un elenco di cittadini eleggibili a senatore che il Parlamento compila ogni nove anni
mediante l’elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari. In tal caso la
Corte deve essere composta da almeno 21 giudici e quelli aggregati devono essere la maggioranza
Gli elementi del giudizio costituzionale
1.3. Il parametro
In via del tutto astratta, qualsiasi disposizione costituzionale (sia essa contenuta nella
Costituzione o in leggi costituzionali) è idonea a svolgere la funzione di parametro in un giudizio
di fronte alla Corte costituzionale. Più concretamente, l'estensione del parametro varia a seconda del
tipo di giudizio, nonché dell'oggetto dello stesso.
Così, se per i giudizi in via incidentale e in via principale esso consiste nelle «disposizioni
della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate», in caso di conflitti tra poteri
dello Stato o tra Stato e Regioni esso è, rispettivamente, individuato dalla sfera di «attribuzioni
determinata tra i vari poteri da norme costituzionali» e dalla «sfera di competenza costituzionale».
Inoltre, il parametro può essere costituito sia da norme ricavabili da disposizioni espresse,
sia da norme implicite, derivanti da combinati disposti, da principi o consuetudini costituzionali,
nonché da consuetudini internazionali (immesse nel nostro ordinamento dalla clausola di
adeguamento contenuta nell'art. 10 della Costituzione).
Un ultimo cenno merita la così detta «elasticità» del parametro che innanzi tutto è composto
non solo da elementi di natura normativa, ma anche da elementi di natura fattuale (si pensi alle
questioni di fatto che influenzano - per la loro apertura strutturale - i principi costituzionali; ma si
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pensi anche al giudizio di ragionevolezza, che consiste in un giudizio sulla congruità delle norme
rispetto ai fatti), elementi di natura fattuale che possono essere efficaciemente sintetizzati con
l'espressione, originariamente adottata dalla dottrina costituzionalistica francese, di «blocco di
costituzionalità». Ma è anche da sottolineare come, in relazione ad alcuni particolari oggetti, e per la
peculiare natura della fonte o per la materia trattata, il parametro di costituzionalità possa
«stringersi» o «allungarsi». Così, in relazione ai giudizi concernenti le leggi costituzionali e di
revisione costituzionale, le norme concordatarie (contenute nei Patti Lateranensi, cui fa espresso
riferimento l'art. 7 della Costituzione) e le norme comunitarie (immesse nell'ordinamento nazionale
in base al disposto dell'art. 11 della Costituzione) esso si riduce ai soli «principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale». Al contrario, in relazione ai decreti legislativi, il parametro si
amplia, secondo lo schema della norma interposta, anche alla legge di delegazione, la quale (pur
rimanendo fonte pleno iure primaria) si pone così, rispetto al decreto legislativo, su di un gradino
intermedio tra piano costituzionale e piano legislativo, «degradando», nel reciproco rapporto, il
decreto legislativo stesso a fonte subprimaria.
1.4. L'oggetto
L'oggetto del giudizio costituzionale, in base ad una interpretazione letterale dell'art. 23,
comma 1, lettera a) della legge n. 87 del 1953, dovrebbe essere individuato nelle disposizioni di
legge; in realtà, a causa dell'ineliminabilità dell'attività interpretativa e al prevalente carattere
incidentale (su cui v. infra), il giudizio viene «traslato» sulle norme; oggetto del processo
costituzionale, quindi, è la norma; ma gli effetti di esso ricadono sulla disposizione.
Per la struttura del giudizio di fronte alla Corte, poi, si può affermare che l'oggetto non si
riduca alla semplice norma, ma vada ad abbracciare la situazione normativa, comprendendo quindi
le interconnessioni sistemiche e i fatti del processo a quo.
1.5. I vizi
Una legge o un atto avente forza di legge, quando è contrario alla Costituzione, è viziato,
sub specie di invalidità; ossia, l'atto, che pur viola una fonte sovraordinata, continua a produrre i
suoi effetti fino al momento in cui non interviene una pronuncia che ne dichiara il vizio (principio
così detto del favor legis).
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I vizi di invalidità, a loro volta, possono essere distinti in formali e sostanziali. Si avrà,
perciò, una invalidità formale quando l'atto venga adottato in violazione della forma prescritta (ad
esempio, una legge costituzionale che sia approvata con il procedimento legislativo ordinario,
oppure una legge approvata in un testo differente dai due rami del Parlamento). Si avrà, invece, una
invalidità sostanziale quando, pur nel rispetto delle norme procedurali, si abbia una violazione
delle norme sostantive (ad esempio, una legge che ponga in essere delle discriminazioni basate sul
sesso, sulla razza, su convinzioni religiose, filosofiche, politiche).
Agli albori della giustizia costituzionale, la Scuola di Vienna, di cui fu uno dei massimi
esponenti Hans Kelsen, teorizzò l'inesistenza dei vizi sostanziali. Infatti, secondo questa dottrina,
tutti i vizi sono formali: una legge, anche quando violi un principio costituzionale, è viziata nella
forma, in quanto il vizio verrebbe meno se fosse stata approvata, anziché con il procedimento
ordinario, con il procedimento aggravato previsto per la revisione costituzionale. Questa teoria,
però, va incontro a due ordini di critiche. Innanzi tutto, essa riduce il vizio sostanziale a vizio
formale. Ma per ridurlo, deve prima riconoscerlo, il che è contraddittorio. Inoltre, la più recente
dottrina costituzionalistica - suffragata anche da numerose sentenze della Consulta - afferma che nel
testo costituzionale, accanto a disposizioni modificabili con il procedimento di revisione, ve ne sono
altre (i «principi supremi dell'ordinamento») che, una volta poste dal potere costituente, possono
essere modificate solo da quest'ultimo, non essendo nella disponibilità dei poteri costituti, tra i
quali, necessariamente, si deve inquadrare anche il potere di revisione costituzionale.
Tornando ai vizi sindacabili dalla Corte costituzionale, essi possono consistere tanto in una
violazione diretta di una norma della Costituzione, quanto nella violazione di una norma implicita,
dedotta da un combinato disposto, o dello spirito complessivo della carta costituzionale.
Quest'ultima violazione è quella che, nella giurisprudenza della Consulta, viene indicata con
il termine di irragionevolezza. Fermo restando, infatti, che in base all'art. 28 della legge n. 87 del
1953 il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge
esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del
Parlamento, il principio di eguaglianza, contenuto nell'art. 3 della Costituzione, rappresenta il limite
ultimo della discrezionalità del legislatore e, contemporaneamente, il metro minimo di riesame delle
sue scelte, imponendo al legislatore stesso un duplice onere: di coerenza (a livello di testo o di
settore legislativo: sindacato intrinseco) e di ragionevolezza (a livello di ordinamento
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costituzionale complessivo e di bilanciamento tra fini e valori costituzionali: sindacato estrinseco).
La ragionevolezza rappresenta, quindi, il trait d'union tra il concetto metagiuridico di giustizia e
quello giuridico di legittimità: «non occorre la coerenza, basta la non contraddizione; non occorre la
conformità, basta la compatibilità».
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2. Le decisioni della Corte
Le decisioni della Corte costituzionale assumono la forma delle decisioni giurisdizionali
tipiche: sentenze (decisioni di merito), ordinanze (decisioni processuali), decreti (decisioni
procedurali). Posta la modesta rilevanza esterna dei decreti, si può quindi affermare che le pronunce
della Corte si possano distinguere in due categorie: le sentenze di accoglimento e le decisioni di
rigetto (siano esse di merito o processuali).
Per quanto riguarda le decisioni processuali, esse si basano su considerazioni che non
consentono di passare all'esame del merito della questione di legittimità costituzionale. Nella
giurisprudenza della Consulta, si può notare come esse assumano promiscuamente la forma delle
sentenze o delle ordinanze, non contando tanto la forma stessa, quanto il motivo che sta alla base
della decisione di non passare al merito, e presentano in alcuni casi un carattere sostanzialmente
decisorio.
Più complesso si presenta l'esame delle decisioni di merito. Esse possono essere, innanzi
tutto, divise in sentenze di accoglimento, tramite le quali la Corte si pronuncia sia sulla questione
che sulla legge, e decisioni di rigetto (in forma di sentenza o di ordinanza), le quali invece si
pronunciano solo sulla questione, in quanto non spetta alla Corte un generale potere di esternazione
della costituzionalità o incostituzionalità delle
leggi, ma
solo un
potere
repressivo
dell'incostituzionalità.
Per quanto riguarda gli effetti tipici nel tempo, la pronuncia di rigetto è costitutiva, avendo
quindi efficacia ex nunc, mentre la sentenza di accoglimento, dichiarativa, ha rilevanti, anche se non
assoluti, effetti ex tunc, che arretrano solo di fronte ai rapporti giuridici esauriti (con la rilevante
eccezione del giudicato penale).
Una questione di legittimità semplice, la quale ossia si possa concludere con la caducazione
o il mantenimento di una disposizione, si risolverà in una pronuncia di fondatezza o infondatezza.
Una questione di legittimità costituzionale complessa, invece, ossia una questione per la quale non è
sufficiente un'operazione meramente ablatoria da parte della Corte, verrà risolta con uno degli
strumenti di cui la giurisprudenza della Consulta si è dotata nella sua attività, ossia con una
decisione interpretativa oppure con una sentenza manipolativa.
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Nelle decisioni interpretative la Corte si pronuncia non sulla disposizione di legge nel
significato normativo individuato dal giudice a quo, bensì su un diverso significato normativo che
essa stessa ritiene contenuto nella disposizione impugnata. Non c'è così alcuna corrispondenza tra
"chiesto e pronunciato".
Le decisioni interpretative di rigetto si dicono correttive quando la Corte «corregge»
l'interpretazione fornita dal giudice a quo la quale si discosta dal diritto vivente; si dicono invece
adeguatrici (o decisioni interpretative di rigetto in senso stretto) quando la Corte individua nella
disposizione impugnata dal giudice a quo un diverso significato, eventualmente anche contrario al
diritto vivente, ma conforme al dettato costituzionale.
Le sentenze interpretative di accoglimento, invece, le quali sostanzialmente si basano sullo
schema di una doppia pronuncia, vengono adottate soprattutto nelle ipotesi in cui si mantenga un
diritto vivente difforme a una precedente decisione interpretativa di rigetto.
Per ciò che concerne gli effetti delle decisioni interpretative, mentre le sentenze di
accoglimento hanno gli effetti ordinariamente collegati a questo topo di pronuncia, maggiormente
controversa è la questione riguardante le decisioni di rigetto, dovendosi distinguere tra le decisioni
di rigetto in senso stretto, nelle quali l'interpretazione fornita dalla Corte è individuabile sia nella
motivazione che nel dispositivo, dalle decisioni di rigetto interpretative, nelle quali invece
l'interpretazione fornita dalla Corte è presente nella sola motivazione. Si deve comunque notare
come solitamente la giurisprudenza ordinaria si adegui alle interpretazioni operate dalla Corte,
discostandosone soltanto in caso di invincibile opposto convincimento ermeneutico.
Le decisioni manipolative, invece, comportano un'alterazione del parametro (che viene
esteso nella sua interpretazione e applicazione) oppure del testo di legge. Queste ultime, a loro
volta, possono essere:
•
riduttive
ƒ
quando espungono, a seconda dei casi, parte della norma oppure parte della
disposizione
•
addittive
ƒ
quando aggiungono un contenuto normativo assente nella disposizione.
Possono essere addittive di garanzia (o di prestazione) quando la pronuncia
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della corte introduce una norma (il che avviene quando la pronuncia è «a
rime obbligate», ossia quando la norma aggiunta dalla Corte è direttamente
ricavabile dal disposto costituzionale), oppure addittive di principio, quando
cioè la Corte si limita ad indicare un principio, il quale può orientare 'attività
interpretativa del giudice ovvero l'azione del legislatore
•
sostitutive
ƒ
quando, con una duplice componente (ablatoria e addittiva) una norma o una
disposizione viene sostituita con altra norma o altra disposizione.
Come la decisioni della Corte possono avere effetti manipolativi nello «spazio», questi
effetti si possono avere anche nel tempo, con decisioni manipolative per il passato (pro praeterito:
incostituzionalità sopravvenuta e incostituzionalità differita) oppure per il futuro (pro futuro), con le
quali la Corte - pur riconoscendo nella motivazione l'illegittimità della disposizione impugnata rinvia l'annullamento con un dispositivo di rigetto (sentenze-indirizzo o monitorie di rigetto,
sentenze di incostituzionalità accertata ma non dichiarata; vengono adottate soprattutto per
sollecitare l'intervento del legislatore, altrimenti inerte).
Per concludere questo rapido esame delle decisioni della Corte, si deve ricordare che esse, in
base all'art. 18 della legge n. 87 del 1953, sono motivate (in fatto e in diritto le sentenze;
«succintamente motivate» le ordinanze). La motivazione - non prevista da fonti costituzionali, e da
alcuni Autori ritenuta anche non costituzionalmente obbligatoria - assume importanti funzioni, sia
politiche che giuridiche, essendo essa rivolta, innanzi tutto, al giudice a quo, ma anche al
legislatore, per l'eventuale seguito legislativo, e a tutti gli operatori del diritto.
2.1.
Le attribuzioni
Come si accennava sopra, la Corte costituzionale è competente a giudicare delle
controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello
Stato e delle Regioni; dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e tra Stato e Regioni; delle
accuse promosse contro il Presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento e di attentato
alla Costituzione; competenze cui si è aggiunto il sindacato sull'ammissibilità dei referendum. Si
può quindi affermare che essa svolga una funzione garantista (della legittimità e della legalità
costituzionale) e una funzione arbitrale (per ciò che concerne i conflitti).
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2.2.
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Il giudizio sulle leggi In via incidentale o d'eccezione
Sono previste due sole vie di accesso al giudizio della Corte, col procedimento in via
incidentale (o di eccezione) e col procedimento in via di azione (o principale): la questione di
legittimità può essere sollevata nel corso di una giudizio e davanti ad una autorità giurisdizionale;
per l’altro la facoltà è data unicamente allo Stato e alle Regioni (e alle province autonome di Trento
e Bolzano) di presentare direttamente un ricorso di incostituzionalità avverso le leggi
rispettivamente della Regione e dello Stato (o di altra Regione). La giurisprudenza ha poi aggiunto
l’ipotesi del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato determinato da una legge o atto avente
forza di legge. È stata dunque scartata la proposta di consentire ai cittadini di adire direttamente la
Corte per tutelare diritti costituzionalmente garantiti che si ritengano essere stati lesi.
Dispone infatti l'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 che «la questione di legittimità
costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o
sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente
infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione». Il giudice della causa (o giudice
a quo) svolge quindi la funzione di introduttore del processo costituzionale, di «portiere» che apre
le porte del giudizio di costituzionalità, e in questo immette gli elementi, sia normativi che fattuali,
che connotano il processo in seno al quale prende corpo la questione di legittimità costituzionale.
La legge individua due parametri per fondare la legittimazione a proporre una questione di
legittimità costituzionale: un dato soggettivo (l'essere un giudice) e un dato oggettivo-funzionale
(l'esserci un giudizio); parametri che nella giurisprudenza della Corte costituzionale sono comunque
stati interpretati con una certa elasticità, avendo riguardo alle peculiari esigenze del caso
(giungendosi, in alcune sentenze, ad affermare l'alternatività degli stessi). Alla luce di quanto
affermato, si può quindi distinguere una legittimazione in astratto (sussitente in presenza dei dati
soggettivo ed oggettivo sopra richiamati) e una legittimazione in concreto (sussistente quando il
giudice che sottopone la questione di legittimità costituzionale alla Corte è competente a giudicare
la questione principale del processo; nonché quando egli debba fare applicazione della norma della
cui legittimità costituzionale si dubita, profilo quest'ultimo che tende a sfumare nel diverso concetto
di rilevanza).Il difetto di legittimazione determina l’inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale. La Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimazione degli arbitri a sollevare
questioni di legittimità costituzionale, nella considerazione che l’artbitrato è disciplinato dal codice
di procedura civile e dunque è un procedimento per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso
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concreto, con le garanzie del contraddittorio e dell’imparzialità. Mentre è stata negata tale
legittimazione al p.m. il quale non può essere equiparato ad un giudice in quanto non emette
provvedimenti decisori. Anche la stessa Corte può sollevare questioni di legittimità costituzionale.
Oltre alla legittimazione del giudice, i requisiti di ammissibilità della questione di
legittimità costituzionale sono dati dalla rilevanza e dalla non manifesta infondatezza (cui si
aggiunge, ma solo quando non sussista sul punto un diritto vivente, il fallimento di ogni tentativo di
interpretazione adeguatrice).
La rilevanza, presupposta dalla legge costituzionale n. 1 del 1948 («nel corso di un
giudizio»), viene definita dalla legge n. 87 del 1953 («qualora il giudizio non possa essere definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale»), e rappresenta la
trasposizione in termini processuali dell'incindetalità (e concretezza) del giudizio di legittimità
costituzionale.
Ciò però non significa ancora che il giudice a quo possa emettere l’ordinanza con cui
sospende il giudizio e rimette la questione alla Corte. Infatti perché ciò accada sono necessarie altre
condizioni successive. Innanzitutto la questione deve apparire rilevante, deve essere per il
magistrato non manifestamente infondata ed infine il giudice deve esperire ogni tentativo di
interpretazione adeguatrice, cioè interpretazione conforme a costituzione.
Dovendosi affermare, nonostante alcune incertezze sul punto da parte della giurisprudenza
costituzionale, la non riducibilità della rilevanza (che è un dato oggettivo e necessario) all'interesse
sostanziale della parte (che è, invece, un dato soggettivo ed eventuale), si deve brevemente
accennare alle tesi dell'influenza e dell'applicabilità. Secondo la prima di esse, fedelmente alla
lettera dell'art. 23 comma 2 della legge n. 87 del 1953, la questione di legittimità costituzionale è
rilevante quando l'esito del giudizio a quo è condizionato dall'esito del giudizio costituzionale;
secondo invece la tesi dell'applicabilità, la questione di legittimità costituzionale è rilevante quando,
anche a prescindere da un'influenza della pronuncia del giudice delle leggi sul giudizio principale,
la norma oggetto del giudizio costituzionale deve essere applicata nel giudizio a quo (a riguardo, si
pensi alle norme penale di favore). Più correttamente, ribadendo in ogni caso l'autonomia del
processo costituzionale (il quale, in base al disposto dell'art. 22 delle norme integrative, prosegue
anche quando, «per qualsiasi causa, sia venuto a cessare il giudizio rimasto sospeso di fronte
all'autorità giurisdizionale, che ha promosso il giudizio di legittimità costituzionale»), si deve
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ritenere che, in mancanza di applicabilità della norma indicata dall'ordinanza di rinvio, ci si trovi di
fronte ad una ipotesi di difetto assoluto di rilevanza, versandosi invece in ipotesi di difetto relativo
quando, pur essendo applicabile la norma, non potrebbe avere influenza sul giudizio incidentato la
pronuncia della Corte costituzionale.
La non manifesta infondatezza definisce invece la funzione di filtro del giudice a quo, il
quale deve sottoporre all'attenzione della Corte costituzionale questioni di legittimità costituzionale
«serie» e non meramente dilatorie. Sebbene con l'espressione «non manifesta infondatezza» il
legislatore abbia indicato uno stato dubitativo, ossia una condizione psicologica minima, anche al
fine di evitare eventuali conflitti tra giudici «a quibus» e Corte costituzionale, la giurisprudenza
della Consulta ha sempre richiesto, sul punto, un esame approfondito e non semplicemente
delibatorio, giungendo a non ritenere sufficiente - nelle sentenze additive - un semplice dubbio, ed
esigendosi invece da parte del giudice a quo l'indicazione del verso dell'addizione. Vi deve essere
identità tra l’istanza di parte e l’ordinanza di rimessione del giudice; cioè il giudice deve rimettere
alla corte la stessa questione che è stata sollevata dalla parte mediante la sua istanza al giudice.
Entro venti giorni dalla notificazione dell'ordinanza di rimessione, le parti possono
costituirsi di fronte alla Corte costituzionale, esaminare gli atti, e presentare deduzioni. Entro lo
stesso termine, possono costituirsi il Presidente del Consiglio dei Ministri (in caso di legge statale)
o il Presidente della Giunta regionale (in caso di legge regionale). Mentre le parti del giudizio a
quo, ove costituite, sono portatrici sia di un interesse personale e concreto (traendo un vantaggio
dalla pronuncia della Corte costituzionale), sia dell'interesse generale alla legittimità delle leggi
(potendo quindi, anche, la parte sostenere una posizione il cui accoglimento pregiudicherebbe la sua
posizione sostanziale), il Presidente del Consiglio o il Presidente della Giunta regionale (i quali non
possono essere qualificati, per ragioni formali e sostanziali, come parti, bensì come interventori)
rappresentano, di fronte al giudice delle leggi, il punto di vista degli organi di indirizzo politico.
Anche la Corte costituzionale è sottoposta al principio generale «ne eat iudex extra petita
partium» (così detto principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato), così come si
ricava dall'art. 27 della legge n. 87 del 1953: «la Corte costituzionale [...] dichiara, nei limiti
dell'impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime». Se questo principio
rappresenta, da un lato, la conferma implicita della rilevanza della questione di legittimità
costituzionale e, dall'altro, la codeterminazione della questione di legittimità costituzionale stessa da
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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parte del giudice a quo e della Corte costituzionale, esso presenta delle rilevanti deroghe. Innanzi
tutto, nella sua giurisprudenza, la Consulta ha spesso ampliato o ridotto gli argomenti o i termini o i
profili di una questione di legittimità costituzionale, giungendo anche a impugnare una legge di
fronte a sé medesima (comportandosi, ossia, come giudice a quo). Ma la deroga più evidente è
quella prevista dallo stesso art. 27 della legge n. 87 del 1953: «[la Corte costituzionale] dichiara
altresì quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza della
decisione adottata».
2.3.
In via principale o d'azione
Il procedimento in via principale o di azione può essere attivato dallo Stato e dalle Regioni.
L'art. 127 della Costituzione, così come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001,
stabilisce infatti che «il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza
della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione. La Regione, quando ritenga che una
legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un'altra Regione leda la sua sfera di
competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente valore di
legge».
Sono state quindi parificate, con la riforma del titolo V della Costituzione, le armi
processuali a disposizione dello Stato e delle Regioni, venendo meno la diversità di termini (trenta
giorni per l'impugnazione regionale, sessanta per quella statale), di parametro (qualsiasi norma
costituzionale per l'impugnazione statale, solo quelle sulla competenza per l'impugnazione
regionale), nonché il visto del Commissario del Governo e la relativa disciplina (con impugnazione
successiva della legge statale, e preventiva di quella regionale).
Estremamente rilevante, poi, è il disposto dell'art. 123 della Costituzione, il quale, dopo aver
riconosciuto un'ampia autonomia statutaria alle Regioni, stabilisce che «il Governo della
Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali dinanzi
alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione». Si è registrato, negli anni
successivi alla riforma del titolo V della Costituzione, un ampio contenzioso vertente sulla
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legittimità costituzionale degli Statuti di numerose regioni, contenzioso dalla cui soluzione dipende
l'effettiva configurazione dell'autonomia regionale nel nostro ordinamento.
Per quanto riguarda l'organo competente a proporre l'impugnazione, esso va individuato - a
livello statale - nel Consiglio dei Ministri, e - a livello regionale - nella Giunta regionale.
L'impugnazione, pur dovendo precisare puntualmente i termini positivi della questione e formulare
sinteticamente i motivi, costituisce espressione di valutazioni sia giuridiche che politiche. Per il
carattere personale e concreto del conflitto, poi, non sono configurabili controinteressati o altri
intervenienti.
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3. I conflitti di attribuzione
3.1.
Tra poteri dello Stato
Dispone l'art. 37 della legge n. 87 del 1953 che «il conflitto tra poteri dello Stato è risolto
dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà
del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari
poteri da norme costituzionali».
Per quanto riguarda i profili soggettivi, si deve chiarire la nozione di potere dello Stato.
Posto il carattere policentrico del nostro ordinamento costituzionale, e quindi la non corrispondenza
tra funzione e potere, e considerando inoltre la differenza che si pone tra attribuzione (che si fonda
su disposizioni costituzionali) e competenza (che, essendo la misura dell'attribuzione, trova la sua
fonte in disposizioni legislative), si riduce l'importanza dell'organo-soggetto per aumentare quella
dell'oggetto, ponendosi l'attenzione della Consulta, più che sulle attribuzioni, sulla natura
costituzionale degli interessi. La giurisprudenza della Corte costituzionale, comunque, per
riconoscere un potere dello Stato, richiede che esso sia almeno menzionato dalla Costituzione; che
gli competa una sfera di attribuzioni costituzionali; che ponga in essere atti in posizione di
autonomia e indipendenza; che questi atti siano imputabili allo Stato.
Per ciò che, invece, concerne i profili oggettivi, c'è da sottolineare come qualsiasi atto sia
idoneo ad essere impugnato in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e che il
parametro può essere individuato in qualsiasi norma costituzionale (o anche in norme
subcostituzionali concernenti la competenza).
Il conflitto, oltre alle ipotesi-limite di vindicatio potestatis, può più frequentemente assumere
le forme di conflitto da menomazione o da interferenza.
Rimane infine da sottolineare come la pronuncia della Corte costituzionale riguardi sia l'atto
impugnato sia, per il tramite di esso, la competenza e l'attribuzione.
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3.2.
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Tra Stato e Regione e tra Regioni
Perché si instauri un conflitto di attribuzione tra Stato e Regione (o tra Regioni) si richiede
la presenza di un atto che invada la sfera di competenza assegnata dalla Costituzione allo Stato e
alle Regioni.
Pur notando una sostanziale decostituzionalizzazione del parametro (dovendosi quindi, più
correttamente, parlare di atti illegittimi e non incostituzionali), risulta impugnabile qualsiasi atto, ad
eccezione delle leggi e delle altre fonti primarie, richiedendosi altresì che la lesione sia attuale,
concreta e non meramente virtuale (la Corte costituzionale - ha infatti affermato in una sentenza non è un consulente costituzionale).
La tipologia del conflitto è estremamente simile a quella presentata in sede di analisi di
conflitto tra poteri dello Stato: esso potrà quindi consistere in una rivendicazione, ovvero in un
conflitto da menomazione, interferenza od omissione.
Competente a sollevare il conflitto, come per il giudizio in via principale, è il Consiglio dei
Ministri o la Giunta regionale, con una impugnazione sempre successiva, e caratterizzata da
elementi politici oltre che giuridici. La Corte costituzionale, d'altronde, può sospendere il giudizio e
rimettere di fronte a sé stessa questione di legittimità costituzionale della legge in base alla quale è
stato adottato l'atto impugnato, così come potrà sospendere l'esecuzione del medesimo atto
impugnato.
Anche nel giudizio che risolve un conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni, così come
quello tra poteri dello Stato, oggetto del giudizio, per il tramite dell'atto, è la competenza, sia in
astratto che in concreto.
Particolare rilevanza presenta, nel giudizio di cui si sta trattando, il problema del
contraddittorio. Soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, infatti, si è riconosciuta
una sfera di competenze anche agli enti locali subregionali, i quali rimangono privi di strumenti di
tutela attivabili presso la Corte costituzionale.
3.3.
L'ammissibilità del referendum
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Mentre, a norma dell'art. 32 della legge n. 352 del 1970, l'Ufficio centrale per il referendum,
istituito presso la Corte di Cassazione, è competente a pronunciarsi circa la legittimità del
referendum, a norma del successivo art. 33 della stessa legge n. 352/1970, nonché dell'art. 2 della
legge costituzionale n. 1 del 1953, la Corte costituzionale è competente a pronunciarsi circa
l'ammissibilità del referendum.
La giurisprudenza della Consulta, sul punto, è stata notevolmente innovativa, rispetto alle
scarne disposizioni costituzionali. L'unico limite espresso, infatti, riguarda l'oggetto del quesito
referendario che, a norma dell'art. 75 della Costituzione, non può riguardare leggi tributarie e di
bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Accanto a
queste limitazioni espresse, la Corte ne ha individuate altre, avendo riguardo a proprietà formali o
sostanziali della legge oggetto di referendum (escludendo, in questo modo, le disposizioni di rango
costituzionale, le leggi dotate di una forza passiva rinforzata, le norme a contenuto
costituzionalmente vincolato). Per ciò che, inoltre, riguarda la domanda, la Corte ha precisato che
essa, per corrispondere alla ratio stessa dell'istituto referendario, nonché al valore democratico del
voto, deve rispondere a criteri di razionalità, omogeneità e coerenza. È infine da notarsi come, in
alcune occasioni, si sia avuto un improprio esame della normativa di risulta, sub specie di sindacato
anticipato di ragionevolezza.
Il Presidente della Corte costituzionale, ricevuta comunicazione dell'ordinanza dell'Ufficio
centrale per il referendum che dichiara la legittimità di una o più richieste di referendum, fissa il
giorno della deliberazione in camera di consiglio non oltre il 20 gennaio dell'anno successivo a
quello in cui la predetta ordinanza è stata pronunciata, e nomina il giudice relatore. Nella camera di
consiglio sono ammessi al contraddittorio per essere sentiti i promotori e il Governo. Ma la Corte ha
escluso la partecipazione di altri soggetti in quanto "la richiesta di estendere il contraddittorio ad
altri cointeressati all'esito della vicenda referendaria trova insuperabili ostacoli nella stessa
complessiva strutturazione del procedimento referendario, caratterizzato da precise scansioni
temporali, e nella conseguente esigenza che pure la fase del controllo di ammissibilità si mantenga
in stretta connessione cronologica con le fasi che la precedono e le fasi che la seguono, restando
contenuta entro rigorosi limiti di tempo, che rischierebbero di venire superati per effetto di un
diffuso ed indiscriminato accesso di soggetti, i quali potrebbero poi chiedere di esporre anche
oralmente le proprie ragioni"(Sentenza Corte costituzionale 47/1991). Il giorno della deliberazione
è comunicato ai delegati o presentatori e al Presidente del Consiglio dei Ministri. Entro tre giorni
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prima della deliberazione i delegati o i presentatori e il Governo possono depositare alla Corte
memorie sulla legittimità costituzionale del referendum. La Corte deve decidere con sentenza da
pubblicarsi entro il 10 febbraio, indicando le richieste ammesse e quelle respinte. Della sentenza è
data d'ufficio comunicazione al Presidente della Repubblica, ai presidente delle Camere, al
Presidente del consiglio dei ministri, all'Ufficio centrale per il referendum e ai delegati e
presentatori entro cinque giorni dalla pubblicazione della sentenza e il dispositivo della sentenza è
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
3.4.
I reati presidenziali
La Corte costituzionale, infine, è competente a giudicare del Presidente della Repubblica per
i reati funzionali di alto tradimento e di attentato alla Costituzione (rimanendo la competenza
dell'autorità giudiziaria ordinaria per i reati comuni, e l'irresponsabilità presidenziale - cui si
affianca un obbligo morale di dimissioni, posto che, a norma dell'art. 54 secondo comma «i cittadini
cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore [...]» per i restanti reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni).
In tale ipotesi, il Presidente della Repubblica è messo in stato di accusa dal Parlamento in
seduta comune (richiedendosi la maggioranza assoluta dei membri), e giudicato dalla Corte
costituzionale, integrata nella sua composizione da 16 membri estratti a sorte da un elenco di 45
cittadini aventi i requisiti per l'eleggibilità a senatore.
Si ricorda comunque che, inizialmente, sino alla riforma intervenuta con la legge cost. 1 del
1989, la Corte era competente anche per i reati ministeriali. Oggi tale funzione, pur con procedure
particolari, è assolta dalla giustizia ordinaria.
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