La riforma del pubblico impiego
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La riforma del pubblico impiego
La riforma del pubblico impiego: un excursus tra i saggi a cura di Dell’Aringa e Della Rocca Carmelo Marazia ([email protected]) Consulente di organizzazione - Butera e Partners Bilancio a tredici anni dalla privatizzazione nel comparto pubblico Il saggio su “Contrattazione collettiva e costo del lavoro” Dell’Aringa parte dall’analisi degli obiettivi della riforma del pubblico impiego dell’inizio degli anni Novanta e ne valuta il raggiungimento. Stabilizzazione del costo del lavoro, rafforzato grazie alla compiacenza dei Governi, con le conseguenze su inflazione e deficit, aumento della bassa produttività, ma al tempo stesso correzione dell’accentuato andamento ciclico (allentamento dei vincoli, strette salariali, rincorsa successiva) che creava malcontento per i ritardi degli adeguamenti: erano questi gli obiettivi di partenza. La conclusione dell’autore, già Presidente dell’ARAN (l’agenzia che rappresenta la parte pubblica nella contrattazione), rifacendosi per molti aspetti alle analisi di alcuni altri autori, e agli indici retributivi, è che per troppi versi i risultati non siano stati raggiunti. Ci si rifà ad una patologia ben nota a chi ha operato all’interno dei comparti del pubblico impiego: la pratica reale, la quale innanzitutto in sede decentrata, si è discostata parecchio dalle dichiarazioni politiche e dalle prescrizioni normative. Il funzionamento “privato” non è avvenuto perché “sono mancati lo spirito e i comportamenti del ‘privato datore di lavoro’”. A chi non ha troppa dimestichezza con questi temi, va ricordato che il d.lgs del ’93 aveva operato una scelta fondamentale e rivoluzionaria: il datore di lavoro (ai sensi del Codice Civile) nelle pubbliche amministrazioni era identificato con il dirigente. Questi è diventato quindi, in quanto responsabile della gestione e, dentro certi limiti, dell’organizzazione, il rappresentante delle amministrazioni nella contrattazione e nella gestione degli istituti contrattuali a livello decentrato. Ebbene, uno dei più pesanti ostacoli al funzionamento di questa norma è stato che per tradizione gli interessi retributivi dei dirigenti sono coincisi con quelli della “controparte”, che in realtà non era il sindacato, ma il Ministero del Tesoro e la Corte dei Conti, verso i quali si cercava di massimizzare le risorse a disposizione di tutti i dipendenti delle amministrazioni. In questo senso la cultura e i comportamenti del passato hanno resistito. Aggiungendo una nostra considerazione personale, il dato è troppo evidente a chi ha esperienza di responsabilità del personale o della delegazione trattante di parte pubblica perché ci si è trovati accanto colleghi solo formalmente schierati dalla stessa parte del tavolo. Questo dato della “debolezza” del datore di lavoro è per noi il problema. È un filo rosso che si ritrova anche in tutta la pubblicazione che qui commentiamo. Il perdurare di tale situazione, all’inizio di questo decennio, ha comportato una nuova esplosione delle dinamiche delle retribuzioni pubbliche. Ad aumentare gli effetti “perversi” della stagione riformatrice sono le prestazioni delle procedure di contrattazione nazionale. Una delle caratteristiche, riproposta dalla cronaca recente, è il sistematico ritardo con cui si giunge ai rinnovi contrattuali, con l’effetto di esasperare le attese dei lavoratori. Le ragioni principali stanno nella circostanza, gravida di altre conseguenze, che la vera trattativa, non prevista e regolata da nessuna normativa, non è con ARAN, ma è con il Governo, e riguarda l’ammontare delle risorse economiche, e “quando ARAN e i sindacati si siedono al tavolo per avviare la trattativa […] la trattativa è già conclusa!”. Inoltre, questa stessa trattativa informale, prima di concludersi, in molti casi ha dovuto aspettare il varo di una nuova finanziaria, per poter accedere alle richieste sindacali. Da qui passa un anno intero prima di potere accedere alle trattative formali, prolungata poi dai controlli della Corte dei Conti. Sottolineiamo l’aspetto della scarsa rappresentatività e autonomia della rappresentanza datoriale, l’ARAN, che in realtà rappresenta soprattutto il Governo (poiché i comitati di settore giocano un ruolo scarsamente incisivo). Come dirà più sotto Carmine Russo, “ARAN non ha nulla delle strutture di rappresentanza confederali datoriali”. Il saggio di Vignocchi “Tre tornate di contrattazione negli enti locali: cosa salvare di un’esperienza controversa” conduce un’istruttiva analisi dell’evoluzione dei “fondi”, che rappresentano le voci di maggiore autonomia nella gestione soprattutto della retribuzione accessoria e variabile, da parte della contrattazione decentrata. Noi ci permettiamo di commentare che ciò aiuta a criticare visioni ingenue (spesso fintamente ingenue) della gestione degli incentivi. Inoltre sottolineiamo come l’egualitarismo, che trova sostegno in queste difficoltà e nella superficialità di molti approcci di “taylorismo amministrativo” (ricordiamo la vicenda della misurazione dei carichi di lavoro), sia prima di tutto una politica e una cultura, che trova corrispondenza nella pretesa della cosiddetta “oggettività” delle misurazioni e del rifiuto del ruolo valutativo e discrezionale dei manager, nella valutazione delle risorse e dei risultati. L’analisi di Bordogna, “La contrattazione collettiva. Un nuovo equilibrio tra contrattazione e decentramento?” è di tipo più qualitativo, e parte dalla verifica della riuscita del disegno perseguito: riformare il pubblico impiego attraverso la contrattualizzazione e la “privatizzazione”, accompagnata dalle riforme organizzative, cioè la separazione tra politica e amministrazione, la responsabilizzazione della dirigenza, l’incentivazione economica dei risultati, il controllo dei costi. La coerenza teorica del disegno (abbastanza originale nel contesto europeo) è stata messa in crisi a livello della contrattazione decentrata, dove l’efficacia del quadro nazionale nel contenere le dinamiche retributive entro quelle inflattive, e l’introduzione di importanti nuovi strumenti di gestione, quali le progressioni di carriera legate alla professionalità (prima inesistenti) e le retribuzioni legate alle posizioni (le cosiddette posizioni organizzative), è stata contraddetta da una pratica di inflazione di questi strumenti, fino a “bruciare” tutte le risorse esistenti in operazioni di progressione immediata e generalizzata, con le conseguenze di svalutazione degli impatti gestionali degli istituti. Lo stesso avviene per le retribuzioni ad incentivo, ridotte ad un sempre più limitato utilizzo. La dirigenza è investita da un forte ruolo teorico di “datore di lavoro” nella gestione del decentramento contrattuale e “privatizzato”, ma che “non è direttamente esposto alle possibili ricadute (positive o negative) dei propri comportamenti contrattuali e gestionali nella medesima misura in cui lo è l’imprenditore privato”. Il suggerimento dell’autore è quindi di agire su questo versante, attraverso la responsabilizzazione, o il federalismo fiscale, e l’attivazione di meccanismi di exit e voice dei cittadini con cui la dirigenza e le amministrazioni debbano confrontarsi in maniera più stringente. Pena il ritorno verso la centralizzazione che i vincoli delle più recenti finanziarie hanno già paventato. Della Rocca, “Management delle risorse umane e contrattazione collettiva: limiti di un’esperienza”, va alle radici culturali dell’impostazione prevalente nelle relazioni industriali e nella visione dell’organizzazione nella storia recente dell’amministrazione italiana. Il ragionamento di fondo può essere sintetizzato così: l’impostazione scelta è stata quella di affrontare il tema del cambiamento nella pubblica amministrazione attraverso la contrattazione. Il “sovraccarico nell’utilizzo dello strumento contrattuale” ha fatto sì che tutto il tema della gestione delle risorse umane venisse appiattito sugli adempimenti contrattuali. Gli strumenti su cui si è principalmente investito sono quelli già citati degli incentivi, in particolare la retribuzione di risultato secondo una logica di M.B.O. (Gestione per Obiettivi), e la progressione di carriera attraverso inquadramenti professionali per fasce larghe legati non alle mansioni ma alla valutazione delle competenze. L’impostazione della gestione delle risorse così legata alla contrattazione ha comportato da un lato valutazioni “certe”, su “elementi oggettivi” e principalmente di fatto formali (presenze, corsi di formazione ecc.), avendo come nemico dichiarato ogni discrezionalità dei manager-valutatori. L’applicazione delle teorie del cosiddetto New Public Mangement, cioè dell’approccio del management professionale e delle risorse umane applicato alla Pa, è avvenuto privilegiando gli aspetti hard, con un’idea della motivazione esclusivamente legata agli aspetti retributivi e di carriera formale. Tutti i valori e le leve soft, legati alla effettiva soddisfazione conseguente al cambiamento organizzativo e al benessere da esso generato, alla rispondenza ai nuovi diritti di cittadinanza e allo stile di direzione, sono rimasti estranei alla prassi reale, e questo perché “la coda si è mangiata la testa”, e cioè i nuovi strumenti di gestione non sono scaturiti da “un’autonoma strategia di costruzione di un capitale sociale all’altezza dei tempi” da parte delle amministrazioni pubbliche in cui coinvolgere ed adeguare la contrattazione, ma all’inverso dalla contrattazione. La proposta di Della Rocca evoca la “democrazia industriale” e va nel senso della netta distinzione delle procedure della partecipazione, da quelle della contrattazione (le prime sinora concepite e praticate come pura estensione delle seconde) come una delle vie per arrivare ad un obiettivo principale: distinguere le “procedure per lo sviluppo delle risorse umane dalla contrattazione con la finalità di rafforzare la responsabilità e la cultura del management”. Il saggio di Talamo, “Per una dirigenza pubblica riformata contro lo spoil system all’italiana” esamina l’evoluzione dell’assetto normativo della dirigenza pubblica. L’autore chiarisce le caratteristiche di quello che è stato chiamato lo spoil system all’italiana, in cui l’incarico dirigenziale è di origine politica, ma la durata è legata al provvedimento di conferimento dell’incarico e non è a decadenza automatica e contestuale all’organo politico. Inoltre con la cessazione dell’incarico non viene risolto il rapporto di servizio. Quindi in gioco sono solo la natura e il livello degli incarichi, e quindi il livello retributivo. Attraverso l’esame dei vari provvedimenti di legge, l’autore vede il segno principale nella precarizzazione degli incarichi dirigenziali e della progressiva accentuazione dell’elemento fiduciario rispetto alla direzione politica, accompagnato dal mancato funzionamento dei sistemi di valutazione. La conseguenza è che cade il principio dell’imparzialità della pubblica amministrazione, prevale l’elemento della fiduciarietà, e il principio della distinzione tra organo politico e dirigenza diventa puramente formale. Per uscire dall’’alternativa del diavolo’, tra una dirigenza politicamente asservita e una dirigenza “adespota, ovvero incontrollabile e inamovibile”, propone una nuova riforma che sostanzialmente passa per il rafforzamento del ruolo della valutazione nella motivazione degli incarichi, e dell’incardinamento del processo valutativo nel sistema di programmazione e controllo. Il saggio conclusivo di Russo analizza “Il ruolo del sindacato nella riforma del lavoro pubblico” un ruolo che, sin dagli anni ’80, è quello di ispirare, orientare ma anche mettere la contrattazione “al servizio” della riforma della pubblica amministrazione, e di rappresentarne il “tutore”. Questa evoluzione ha comportato un “credito politico guadagnato […] che prescinde […] dalla rappresentatività categoriale negoziale”. I corollari di questo sistema sono lo scarso ruolo delle rappresentanze aziendali (RSU) elette, e la strumentalizzazione degli istituti aziendali di riconoscimento della produttività e della professionalità ai fini di adeguamento stipendiale “statico” e generalizzato. La conclusione dell’autore è comunque di riconoscimento del ruolo del sindacato nel promuovere la riforma del lavoro pubblico, che probabilmente altrimenti non ci sarebbe stata, e la proposta di riforma della contrattazione che vada nel senso della “depoliticizzazione”, con un maggiore ruolo dei Comitati di Settore (i rappresentanti delle amministrazioni nei vari comparti) rispetto al Governo, sul versante ARAN, della esclusione delle Confederazioni dalle trattative di rinnovo dei CCNL, da affidarsi totalmente alle federazioni di categoria e, al livello decentrato, alle RSU. Una proposta che lo stesso autore definisce soft, che non mette in discussione un modello che ha comunque garantito il cambiamento. COMMENTO In che cosa questo volume, che ci ha procurato il piacere di trovare finalmente una trattazione seria, che va al nodo reale dei problemi del pubblico impiego, ci aiuta a capire di più sulla pubblica amministrazione? Innanzitutto i dati di fatto: nonostante le molte buone intenzioni alla base delle riforme di cui si è trattato, la spesa pubblica non è affatto sotto controllo, e la ragione sta principalmente nel cattivo funzionamento della contrattazione decentrata, affidata ad attori non all’altezza del ruolo che loro toccherebbe. Al tempo stesso, manca la soddisfazione degli addetti della Pa sia per le disfunzioni e i ritardi del ciclo della contrattazione nazionale, come descritte dagli autori, ma anche per la gestione degli istituti che dovrebbero incentivare e compensare la produttività e la professionalità degli operatori che, tra contrattualismo ed egualitarismo, non riescono ad operare nel senso di un serio riconoscimento del contributo dei lavoratori. Le pagine di Della Rocca sono illuminanti in questo senso. Le “ragioni” dei nullafacenti possono essere anche queste. I motivi stanno dal lato dei modelli contrattuali, e dal lato degli attori, e molto meno dal lato delle riforme legislative generali, che hanno dato tutto quello che potevano dare. Vogliamo insistere su quello che anche le diverse trattazioni prese in esame mettono al centro delle problematiche: lo spirito e il comportamento del datore di lavoro pubblico. Perché manca? Ed è possibile farne a meno? La risposta al secondo interrogativo, da parte degli autori, sta nell’insistenza con cui argomentano sul tema della responsabilizzazione e della cultura del management, e nel rifiuto di una nuova centralizzazione che neghi ogni spazio alla gestione nelle organizzazioni. Infatti il sistema della Pa è un sistema di organizzazioni, che vanno gestite come tali, per quante “agenzie” e “authority” per la produttività, e sovrastrutture varie, si vogliano costituire. A nostro parere, un controllo che non contraddica e rafforzi il principio della responsabilizzazione andrebbe esercitato, prima di tutto attraverso la trasparenza verso i cittadini, attraverso il funzionamento dei sistemi di valutazione. Un altro terreno importante della responsabilizzazione è poi quello della contrattazione, a partire dal livello nazionale, in cui le trattative, come si deduce dai saggi, vengono sentite come “affare non proprio”, il prodotto normativo risulta “calato sulla testa” di chi gestisce a livello decentrato, lontano dalla prassi reale e quindi dà un reale commitment all’applicazione corretta, sino alla “depurazione” di troppe commistioni previste dalla normativa, a livello decentrato, tra responsabilità dei manager, contrattazione e concertazione. Alla prima domanda sulle cause, la risposta poggia sostanzialmente sulla storia di tutta la vicenda italiana, e all’interno di questa, su fatti strutturali, e non tanto genericamente culturali. La storia di una riforma amministrativa che non si è preoccupata di creare le condizioni della propria attuazione, e cioè di incardinare gli interessi dei dirigenti e, più in generale, dei “responsabili della gestione” in quello dell’interesse pubblico, appiattendo invece gli stessi sul lato degli interessi del consenso politico attraverso la spesa pubblica, appiattimento che lo spoil system “all’italiana” tende a rinnovare. Va tenuto presente che nella maggior parte dei comuni italiani, i funzionari responsabili della gestione non sono inquadrati come dirigenti, e i contratti per questi sono gli stessi dei dipendenti, il che si offrirebbe a molte considerazioni. Un’ultima considerazione: pensiamo che la pubblica amministrazione e lo Stato, nel nostro Paese, debba pagare un riscatto ad una riforma amministrativa che è nata, a suo tempo, ed anche meritoriamente, principalmente su spinta sindacale: un altro caso di supplenza rispetto ai ritardi della politica.