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Società a crisi adolescenziale oggi sembra declinarsi in un contesto familiare, scolastico, sociale e di presidio specialistico profondamente diverso dai decenni precedenti, che la prospettiva teorica dei codici affettivi definisce l’“adolescenza nella società senza padri”1. Tale prospettiva evidenzia, inoltre, la pluridecennale crisi dell’autorità paterna nell’attuale società metropolitana e i connotati particolari che essa ha assunto nei vari contesti. La metafora della “società senza padri” fa riferimento «alla simultanea carenza di valori dell’area paterna nel processo di socializzazione predisposto dalla famiglia, nell’area di socializzazione e apprendimento predisposto dalla scuola, e nei valori mitici provenienti dalla cosiddetta “società dei consumi”» (G.P.Charmet, p.7). Nella famiglia mononucleare attuale, la quale si va caratterizzando per la procreazione di un unico figlio, s’ipotizza una diffusa “maternalizzazione” del ruolo del padre, che ha assunto connotazioni ed intenzionalità peculiari, e una strisciante “paternalizzazione” di quello della madre, che via via si è appropriata dei valori dell’autonomia, della capacità, della legge. Il ruolo genitoriale va quindi orientandosi verso una sostanziale omogeneizzazione, che sembra direzionarsi verso l’istituzione del “genitore unico”, con interscambiabilità funzionale e affettiva: l’eccedenza di valori materni nella famiglia sembra favorire la saturazione dei bisogni primari dell’appartenenza, piuttosto che un’efficace trasmissione etica. L’attuale situazione storica sembra caratterizzarsi, inoltre, per l’affermarsi di un modello sociale di adolescenza protratta. L Codici affettivi e valori nella famiglia, nelle istituzioni, nella società La teoria dei Codici Affettivi di F. Fornari considera lo studio dell’evoluzione individuale in un’ottica psicosociale che analizza in chiave evolutiva la complessa interazione tra personalità del singolo, organizzazione familiare e sociale. Con riferimento all’adolescenza, si osserva una cultura familiare “maternalizzata” con preminenza di valori di tipo fusionale - è centrale la protezione e la soddisfazione dei bisogni- e svalorizzazione del ruolo paterno e dei valori ad esso collegati a livello familiare e sociale. L’istituzione familiare secondo Fornari si fonda su veri e propri “codici affettivi di base”, fissati nelle strutture psichiche della nostra specie, che orientano i comportamenti affettivi nell’ambito del gruppo familiare. Fornari ha descritto: “un codice materno”, centrato sull’accoglimento del bisogno di dipendenza del bambino; un “codice del bambino”, incentrato sull’affermazione onnipotente del bambino; un “codice paterno”, fondato sull’autonomizzazione del bambino; un “codice dei fratelli”, basato sulla competizione/collaborazione. Tale prospettiva, inoltre, fornisce un metacriterio che può consentire di valutare in che misura i codici affettivi s’integrano e si armonizzano tra loro nelle varie situazioni istituzionali e sociali. Solo un’armoniosa e dialettica collaborazione dei codici, ciascuno dei quali può apportare il proprio segmento di verità, si definisce “buona famiglia interna”, distinta da quella “esterna” o reale. La “famiglia interna” di Fornari (C. Riva Prugnola, p.101), concetto chiave per comprendere feno- meni che attengono al funzionamento mentale, ipotizza l’esistenza di una pluralità di “codici affettivi” inconsci - competenza affettiva insita in ogni uomo - suddivisibile in due insiemi ristretti: quello dei “codici familiari”, collegato alle istanze legate alle figure parentali ed ai relativi valori affettivi (codice materno, paterno, infantile, fraterno); quello dei “codici sessuali” (codice maschile/femminile), informati dai valori pertinenti ai ruoli sessuali. Caratteristico dell’adolescenza, rivisitata in termini di codici, è il passaggio critico dal codice del figlio al “codice erotemico” (G.P.Charmet, p.21), maschile o femminile. Anche la fonte dei nostri sistemi valoriali trarrebbe origine dai valori appresi in ambito familiare. Il “codice materno” per Fornari è come l’“acqua”, il simbolo materno per eccellenza, entrambi indispensabili per la sopravvivenza ma potenzialmente distruttivi. Il rapporto tra madre e bambino, fondato su un’asimmetria, è un legame che rimanda ad una dipendenza radicale, alla sacrificalità materna. Il “codice paterno” sembra deputato ad arginare le potenzialità distruttive dell’invasività di quello materno, sin dal momento del parto. I codici affettivi, “preconcezioni insature”, si attiverebbero nell’incontro con le vicende storiche reali nell’ambito della vita familiare prima (f. reale “esterna”), collettiva poi - nei vari gruppi istituzionali e comunità sociali - allo scopo di garantire la sopravvivenza del bambino, del gruppo familiare e sociale. L’ipotesi è che nelle comunità umane esiste una tendenza fondamentale «a conservare nei progetti sociali la struttura affettiva di base che informa la vita familiare» (C.Riva Prugnola, p.102). La famiglia storica ottimale, co- Cecilia Armenise* Il ruolo genitoriale va orientandosi verso una sostanziale omogeneizzazione, che sembra direzionarsi verso l’istituzione del “genitore unico” 29 Società Non potendo più negare la sua esistenza, la mafia ha assegnato alla donna il compito di parlare, esprimendo la forza e la durezza delle regole mafiose 30 sì come il gruppo sociale e la comunità ben funzionante, dovrebbero essere “idealmente” animate da una famiglia interna “buona”, nel senso descritto. Nella nostra società la sacrificalità materna, sradicata dal suo ambito naturale di cura del bambino, è andata declinandosi in contesti quali la religione, la politica, la scuola, creando dipendenze esterne. Il padre progressivamente sembra aver rinunciato ad assumere quegli atteggiamenti autorevoli, necessari in un processo educativo per una corretta trasmissione etica ed una sana individuazione, con conseguenze immaginabili. Sappiamo, infatti, che il nucleo essenziale del conflitto in questa fase è legato al tentativo di «sciogliere i legami», con tutte le tematiche connesse al «secondo processo d’individuazione e separazione» (cfr. Blos 1979). Da una prospettiva diversa alcuni autori2 evidenziano a livello istituzionale - nell’ambito della giustizia minorile -, una progressiva “maternalizzazione” del ruolo del giudice, il quale più che assumere un atteggiamento di padre autorevole sembra fondersi con gli operatori in quest’opera di contenimento materno. Talvolta i giudici manifesterebbero una tendenza ad aiutare a tutti i costi (ideologia della rieducazione), correlabile ad una profonda ansia compensatoria: il desiderio di “trattamento” per chi, di volta in volta, è percepito come malato, sfortunato e soprattutto non colpevole della sua condizione, che, come evidenziato da Segal, esprime una profonda fantasia di “riparare”. Il ruolo paterno del giudice sembra “maleficato” e respinto quale persecutorio e non idoneo all’esigenze di crescita e educative del minore: sembra riproporsi quella cultura familiare “maternalizzata” caratterizzata da valori di tipo fusionale, che privilegia la “dipendenza” e garantisce il “sostegno”. Ci si riferisce al sentimento d’identità afferente al codice “paterno”, al ruolo istituzionale che dovrebbe coltivare il giudice (accertamento della colpevolezza, scelta delle modalità punitive e d’intervento più consone), se non vuole apparire ambivalente e confusivo. La prospettiva terapeutico-rieducativa per essere efficace, infatti, richiede un’assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori: ragazzo, famiglia, istituzione, poiché «l’adolescente ha bisogno di una famiglia (naturale o istituzionale) capace non solo di far rispettare le regole ma anche di proteggerlo ed aiutarlo a crescere»3. Non si tratta di auspicare il ripristino del dominio paterno, quanto un ridimensionamento del dilagare del codice materno in accompagnamento al codice paterno (regole e realtà), per creare rapporti più autonomi e gratificanti a livello soggettivo e più produttivi per la società. C a s i p a r ti c o l a r i : “ M a d r i l a t in e ” e “Madri di Mafia” I diversi stili educativi e l’educazione morale, in cui un ruolo determinante è svolto dai ruoli parentali e anche dagli adulti significativi, sono importanti fattori protettivi dal rischio. Una particolare fattispecie problematica del ruolo parentale, la “madre latina”,4 ci riviene da una prospettiva pedagogica: la locuzione è culturale, non biologica, anche se tuttora è più frequente che siano le madri “biologiche” ad avere un ruolo centrale. Il riferimento è alla condizione di “non indipendenza” in cui le “madri latine” cercano di tenere i figli: si tratta di un “cordone ombelicale artificiale”, che comporterà che il figlio non saprà essere autonomo entro le norme e le leggi del contesto di vita. Un caso per certi versi estremo, del repertorio di “madri latine”è quello della lettera aperta che Antonia Bagarella -Ninetta Bagarella in Riina- mandò al già Procuratore Capo di Firenze, Pier Luigi Vigna (p.80). E’ un esempio d’investimento esistenziale acritico in conflitto con la realtà: una sovrapposizione della famiglia nucleare, privata, chiusa, allo Stato. Manca la percezione della gravità dei reati commessi dal marito-padre, come se il legame affettivo e di parentela esentasse da un atteggiamento critico e responsabilizzante e legittimasse l’occultamento delle responsabilità. Non può neanche definirsi amore, se non nella sua espressione “strumentalizzata”, piegata alla latitanza ed alla mafiosità. Quest’esempio di morale collusiva c’introduce, in una prospettiva psicodinamica5, ad un’interessante lettura del ruolo della donna nella cultura mafiosa. In antitesi con lo stereotipo che vorrebbe la cultura mafiosa di “Cosa Nostra” come una realtà criminale e mentale in cui prevalgono i codici della violenza, di virilità e d’onore -mentre la donna sarebbe relegata in una posizione di marginalità, solitudine e vittimizzazione- si sostiene la “centralità sommersa” della donna. In un’intervista Giovanni Falcone evidenziava come l’adesione a “Cosa Nostra” richiedesse determinate qualità: «essere valorosi, capaci di compiere azioni violente, quindi di saper uccidere, e, tra le qualità indispensabili, il sesso maschile» (pag.30). La mafia è per soli uomini: nell’esclusione della donna fonda la sua identità (Di Forti, 1982) e la coesione di gruppo (Siebert, 1994). «L’identità mafiosa è l’identità maschile portata all’esasperazione» e quindi comporta il rifiuto di tutte quelle qualità e caratteristiche generalmente attribuite al genere femminile. Innamorarsi di una donna, essere infedele o, peggio, omosessuale (spesso l’unica opzione per chi, anziché uccidere, preferisce relegarsi nella marginalità della condizione femminile), sono comportamenti che attentano alla fedeltà alla cultura mafiosa e soprattutto all’integrità dell’organizzazione e al codice d’onore, e pertanto possono provocare con- Società flitti e scontri tra gruppi. Le donne siciliane, diversamente dalle fasi in cui il modello organizzativo mafioso era più forte (prima delle stragi del ’92) e quando pur essendo a conoscenza di tutto erano “donne di silenzio”, hanno gradualmente acquisito un ruolo centrale nella comunicazione. Non potendo più negare la sua esistenza, la mafia ha assegnato alla donna il compito di parlare, esprimendo la forza e la durezza delle regole mafiose, consentendo così una prima conoscenza dei meccanismi “femminili” all’interno di questa cultura. L’essere donne non comporta quindi capacità aggressive o di gestione degli affari, ma, per esempio, un ruolo di rilievo nella conservazione di una memoria storica dell’organizzazione e della famiglia. Portatrici e trasmettitrici di valori, le donne rivestono un ruolo centrale poiché riproducono “il sentire mafioso”, mentre gli uomini garantiscono l’organizzazione mafiosa. La madre è detentrice della memoria familiare, memoria di sangue; esercita con profonda e sottile malizia il ruolo di memoria storica, incitando alla vendetta ed instillando nei figli maschi, sin dalla più tenera età, l’odio per certe famiglie o gruppi; è istigatrice, mandante di molte disgrazie. E’ donna di pace e di guerra: anello di congiunzione tra famiglie in lotta, merce di scambio per far cessare scontri e inutili perdite di vite umane; un ruolo di sottomissione al volere dell’uomo che però le attribuisce fette di potere e di controllo. Le donne ricordano i doveri del giuramento a mariti, fratelli, padri; deputate a convincerli a non collaborare esprimono, anche attraverso i massmedia, sentenze inequivocabili di morte. Ciò richiede che la donna, da una posizione poco visibile ma centrale, si adatti ad una duplice e collusiva morale: da una parte quella dei valori pseudoreligiosi che preservano la forza e la sacralità familiare, dall’altra quella che rivendica la trasmissione di codici di significazione mafiosa. E’ una funzione iscritta nel ruolo materno: la donna è in primo luogo madre dei propri figli, meritevole se dà alla luce un figlio maschio. E’ lei che “intenziona” i figli maschi, donando loro i codici di significazione dell’esistente. Al contempo buona e cattiva, la donna è percepita in una dimensione doppia: la “donna-madre”, da rispettare, la “donna-puttana”, da usare e disprezzare. Se da un lato sono in una condizione periferica, estranee, dall’altra le donne sono «complici e venerate come le uniche capaci di custodire onore e rispettabilità» (pag.32). Le donne che spezzano questo copione, per esempio testimoniando nei processi, sono ripudiate dalla famiglia d’origine ed emarginate dal contesto sociale. Anche il gergo utilizzato da Cosa Nostra rivela la presenza della donna: la mafia è la “Grande Mamma”, il capo mafia è il “Mammasantissima”. «Uno dei punti di forza dell’organizzazione Cosa nostra, storicamente, è stato costituito dall’essersi posta e proposta ad immagine e somiglianza della famiglia»... «Come molti collaboranti hanno spesso dichiarato, la Famiglia mafiosa diveniva, al momento dell’affiliazione, il nucleo supremo cui fare riferimento, molto al di sopra nella scala valoriale della stessa famiglia d’origine o dei nuclei di nuova costruzione».6 Il sentire mafioso di cui è portatrice la madre (attraverso i valori che veicola), connettore culturale e psicologico che replica nel sociale i codici di comportamento mafioso, non richiede necessariamente un’adesione formale all’organizzazione criminale. Esiste una connessione, infatti, fra cultura dell’organizzazione e sentire mafioso: «La cultura di Cosa Nostra e quella della realtà in cui è presente un forte sentire mafioso si scambiano per osmosi fondamentali codici di significazione (il simbolismo del sangue, la cultura della vendetta, l’istigazione all’odio, il silenzio omertoso, la chiusura dogmatica…) che appaiono come “precipitati culturali” di un preciso ruolo materno» (F.Di Maria, G.Lavanco p.32). I valori portati dal sentire mafioso della madre investono: la relazione di coppia, trasformata all’interno dei codici complementari con preponderanza del “codice materno” (dell’attaccamento e accudimento) di Fornari; la relazione madre-figlio, centrata sull’invasività della figura materna, sulla pretesa di un’eterna adolescenza e sulla necessità di controllo e approvazione delle scelte maschili; la relazione madre-figlia contraddistinta dalla richiesta materna di replicazione della propria storia, dal conf litto trigenerazionale (nonnamadre-figlia) e da pressioni sulle scelte di vita. Le configurazioni individuate tratteggiano l’“ombra della madre” come un “intenzionamento familiare”, dove per “intenzionamento” s’intende un «progressivo adattamento alle richieste esplicite ed implicite della matrice familiare, fino ad una condivisione dei presupposti delle sue scelte» (p.33). La madre veicola valori di dogmatismo, chiusura, difficoltà a reggere la relazione con i pari, elementi che consentono la sopravvivenza e il rafforzamento della cultura mafiosa: l’esclusione dei “codici dei pari”, sia nel caso del ruolo del padre sia della madre, connota la dimensione collusiva tra uomini e donne. L’identità maschile, nella sua debolezza, non è in grado di pensare a sé in una relazione di collaborazione e cooperazione con l’altro. «Ma una madre che trova nell’ombra l’unica possibilità di essere donna può nutrire i codici del sentire mafioso più del padre persecutore. E più della stessa potenza economica di Cosa Nostra»(p.35). Scuola, istituzioni e società -ipo tesi preventiveE’ facile che una famiglia orientata su valori materni operi una «sistematica maleficazione del 31 Società 32 sociale e dello Stato» (G.P.Charmet, p.40), offrendo un sostegno debole al processo d’individuazione ed alle problematiche che pone la crisi adolescenziale. La prevenzione del rischio, il quale può essere favorito da un contesto povero di valori paterni, deve implementare ideali di stampo paterno nell’area di crescita degli adolescenti, per ridurre le probabilità d’insuccesso nel perseguimento dei complessi compiti evolutivi di questa fase. Ciò richiede una nuova negoziazione ed alleanza fra gli adulti che la presidiano, tramite l’integrazione dei servizi e l’avvio di nuove sinergie tra scuola, famiglia, servizi psicosociosanitari territoriali. La scuola, importante agenzia di socializzazione influenzante non solo la dimensione cognitiva, ma altri aspetti dello sviluppo - attitudini, valori, percezioni di sé e delle relazioni con gli altri - può svolgere un’“educazione protettiva” (trasformando i meccanismi legati alla vulnerabilità al rischio). In particolare la classe, prezioso laboratorio in cui si negozia si apprende si verifica la cultura dei pari, può costituire un fattore di protezione e consentire nuove configurazioni dello stare insieme. La scuola può offrire nuove proposte di relazionalità, una nuova teoria della mente che educhi al rispetto dell’altro ed alla consapevolezza che esistono punti di vista molteplici, favorendo il superamento di una visione dicotomica della realtà. Il superamento del sentire mafioso è collegato proprio alla capacità di prefigurare realtà diverse, relazioni altre; «si fonda sulla capacità del soggetto di percepire la possibilità di avere uno spazio mentale in cui il cambiamento non solo è agibile, ma soprattutto “pensabile”»7, perché il presupposto per costruire azioni sta nella percezione e nella motivazione al cambiamento. I problemi della devianza rendono ancora più impellente la necessità di una salda sinergia fra le varie agenzie di socializzazione. Finora la ricerca e l’orga- nizzazione dei servizi psicosociosanitari hanno privilegiato interventi volti alla prevenzione, senza investire la medesima energia e creatività nel presidiare la nascita sociale degli adolescenti, illudendosi che bastasse investire sulla prima infanzia. La sinergia fra le varie agenzie rappresenta una risposta istituzionale tangibile e funzionale al modo con il quale l’adolescente in crisi spesso risolve il conflitto - l’agito - talvolta grave, sconcertante ed enigmatico, comunicazione peculiare di questa fase, ricca di funzioni di appello e creativa, soluzione immediata del conflitto. Difficile da elaborare e capire, esso necessita di un grande “distillatore”, uno strumento «in grado di restituire senso alle azioni insensate, pensiero all’impensabile, parole agli affetti muti e ai bisogni strozzati» (G.P.Charmet, p.46). E’ proprio l’agito dell’adolescente che spesso induce a dissapori e recriminazioni la scuola con la famiglia e coi servizi, e i servizi fra loro. Esso, perciò, impone l’integrazione per essere compreso, e per scongiurare il rischio che i vari ruoli coinvolti si lascino coinvolgere in una catena di controagiti familiari e didattici, con conseguenze inimmaginabili sulla risoluzione del conflitto. La recente letteratura sulla devianza minorile individua proprio nelle funzioni/disfunzioni familiari e dell’intervento sociale e istituzionale, tra le altre variabili, possibili fattori di rischio/protezione ambientale8: gli interventi, da risorsa protettiva, a volte rivelano problematicità ed interazioni paradossali e perverse, sostenendo o perfino rafforzando la devianza (De Leo G.1992;1998) L’integrazione dei servizi e l’organizzazione di una cultura degli adulti integrata e capace di superare la selettiva barriera intergenerazionale, appaiono quindi indispensabili per la prevenzione del disagio adolescenziale. I servizi dell’Ente Locale e dell’Ausl, insieme alle altre agenzie ed istituzioni preposte a vario titolo al la- voro con adolescenti, quali la Giustizia Minorile, attraverso il lavoro in èquipe possono offrire agli adulti uno strumento privilegiato per rispondere efficacemente all’agito. Naturalmente sono necessari anche interventi sulla famiglia “esterna”, di sostegno alla genitorialità; un supporto educativo che accompagni l’adolescente “contattandolo” nei suoi contesti di vita, anche gruppali (educativa di strada); interventi volti a favorirne l’autonomia e la nascita sociale (es.formazione professionale, lavoro) e strategie dirette a ridurre la complessiva situazione di problematicità sull’asse psicosociopedagogica. Occorre inoltre riflettere sulla necessità di allestire uno spazio di accoglimento specifico per la domanda degli adolescenti, che non amano frequentare contesti rivolti anche a bambini o ad utenti portatori di problematiche peculiari; uno spazio che veda operare in sinergia varie figure professionali perché la complessità dei bisogni e degli agiti richiede multidisciplinarietà, formazione congiunta e condivisa ed un’alta professionalità. *Assistente sociale presso l’U.S.S.M. di Bari, Dipartimento Giustizia Minorile. Note bibliografiche G.Pietropolli Charmet (a cura di): L’adolescente nella società senza padri”, Ed.Unicopli, 1997, Milano (cfr. pag.7,37-42) 2 P. Gallina Fiorentini: “Sul ruolo “materno” della Giustizia Minorile”, in Rassegna di Criminologia, vol.24, 1993 3 F.Giori in“L’adolescente nella società senza padri”,p.257 4 F. Blezza: “Pedagogia professionale odierna e problemi di genere”1977, copyright F.B. (p.54-58,67, 80 e seg.) 5 F. Di Maria, G. Lavanco: “ Mafia e codici familiari. L’ombra della Madre”, in Psicologia Contemporanea 155/99, Ed.Giunti,pagg.28-35 6 F. Di Maria,G.Lavanco,C. Lo Piccolo: “Il dogma e il segreto.Percorsi per capire la comunità mafiosa”(a cura di F.Di Maria); ed.F.Angeli,Milano, 1997, p.118, p.148 7 F.Di Maria, G.Lavanco, idem,p.155 8 Eiss: “Il servizio sociale nel sistema giustizia e la devianza minorile”, in Rassegna di Servizio Sociale n.2/2000 1