1900-‐1925: storie di atomi e scienziati

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1900-‐1925: storie di atomi e scienziati
1900-­‐1925: storie di atomi e scienziati ovvero, come la fisica di quegli anni ha radicalmente cambiato le nostre idee sul mondo F.Dalfovo Trento, 25 maggio 2013 1. Planck C'era una volta… nel 1900, Max Planck, professore di fisica teorica presso L'Università di Berlino. Quarantadue anni; era già relativamente vecchio come professore (a quel tempo!) e nemmeno considerato tra i migliori. Era arrivato alla cattedra come seconda scelta dell'Università, che avrebbe preferito Heinrich Hertz (che però preferì andare a Bonn). Prima di cominciare gli studi universitari a Monaco si era rivolto ad un professore della sua città (Monaco), tale Philipp von Jolly, che lo mise in guardia dicendogli che nella fisica tutto l'essenziale era già stato scoperto e che ormai bisognava solo chiarire alcuni dettagli. Ma Planck replicò che la sua intenzione non era quella di scoprire cose nuove, ma piuttosto di comprendere a fondo le leggi fondamentali già note. Tra i problemi che lo attraevano di più c'era la comprensione dei fenomeni che coinvolgevano, nella loro interpretazione, tutte tre le teorie fondamentali dell'epoca: la meccanica newtoniana, la termodinamica e l'elettromagnetismo. Le ultime due erano relativamente nuove e c'era ancora qualcosa di sistemare. Ad esempio, come giustificare il II principio della termodinamica su basi meccaniche [legame tra moto delle particelle (ma quali particelle?), calore, entropia,…]. Per questo Planck a Berlino nel 1900 era l'uomo giusto al momento giusto. Infatti, solo tre anni prima era stato fondato, nella stessa città, l'Istituto imperiale di fisica e tecnica, su spinta di un industriale, Werner von Siemens; l'istituto aveva lo scopo di studiare tecniche di misurazione di grandezze fisiche per scopi tecnologici e industriali e il problema più pressante e urgente all'epoca era stabilire degli standard affidabili per la misura dell'efficienza luminosa di sorgenti di luce diverse. In sintesi, conviene illuminare le città con lampade a gas o lampade elettriche, e, una volta deciso, come si fa a migliorarne l'efficienza (più luce a parità di costo)? Invece di confrontare lampade tra loro, conviene confrontarle tutte con una sorgente di emissione standard, se esiste. Gli esperimenti mostrarono che tale sorgente esiste: il corpo nero. Le caratteristiche di emissione del corpo nero venivano misurate con precisione proprio all'Istituto imperiale di Berlino, da Heinrich Rubens e Ferdinand Kurlbaum. I due avevano determinato accuratamente la forma dello spettro, ma non avevano la più pallida idea di quali fossero le leggi fisiche che potessero giustificarlo. Posero il problema a Planck, che ne fu ben contento. Planck aveva già iniziato a lavorare sul corpo nero nel 1894 motivato dal fatto che quel problema, a suo modo di vedere, rappresenta qualcosa di assoluto e "poiché la ricerca dell'assoluto mi è sempre sembrata la ricerca più affascinante, ho cominciato a lavorarci con entusiasmo". A metà ottobre del 1900, dopo un duro lavoro e dopo numerosi tentativi falliti, Planck comunicò a Rubens di aver trovato un'espressione matematica che poteva accordarsi allo spettro misurato. La sera stessa Rubens e i suoi collaboratori andarono in laboratorio e confrontarono i loro dati sperimentali con la formula di Planck, trovando un ottimo accordo. Planck, avvisato già la mattina successiva, ne fu incoraggiato, ma non era ancora del tutto soddisfatto, dato che quella formula l'aveva per così dire "intuita", ma non derivata da qualche legge più profonda. Si mise quindi di nuovo al lavoro, fino al 14 dicembre, quando presentò la derivazione completa della sua formula a partire dalle leggi statistiche della termodinamica precedentemente elaborate da Boltzmann, ma con un'ipotesi aggiuntiva: l'energia scambiata tra le particelle che costituivano il corpo nero e la radiazione emessa poteva assumere solo valori discreti, multipli interi di un "quantum" di energia. In realtà, Planck era molto riluttante ad usare le leggi statistiche di Boltzmann, perché sospettoso delle loro implicazioni fisiche e filosofiche; ma dovette arrendersi perché le altre strade non portavano a nulla. Come affermò lo stesso Planck, si trattò di un "atto di disperazione: ero pronto a sacrificare ogni mia precedente convinzione sulla fisica". Anche l'idea di discretizzare l'energia la prese da Boltzmann, ma nel caso di Boltzmann si trattava di un'ipotesi utile a semplificare il calcolo e che poteva essere rimossa dalla teoria una volta arrivati al risultato. Nel caso di Planck questa rimozione non era possibile senza pregiudicare il risultato stesso. I quanti di energia sopravvivevano all'evidenza sperimentale. Il 14 dicembre 1900 nasceva la fisica dei quanti e si apriva uno spiraglio alla comprensione del mondo fisico degli atomi e della radiazione. Anni dopo, Max Born scrisse a proposito di Planck: "Per natura e per tradizione famigliare egli era conservatore, avverso alle novità rivoluzionarie e scettico riguardo alle speculazioni. Ma la sua fede nel potere imperativo del pensiero logico basato sui fatti era così forte che non esitò a sostenere affermazioni che contraddicevano ogni tradizione, semplicemente perché si era convinto egli stesso del fatto che non esistevano alternative". 2. Einstein C'era una volta… Albert Einstein. Questa storia, mi direte, già la sappiamo. Eh, no. Troppo facile! Quella che raccontiamo qui è una storia diversa, che comincia con un botanico dell'800, Robert Brown. (Einstein: "è possibile che i movimenti che verranno discussi qui siano identici al cosiddetto moto browniano; tuttavia i dettagli che ho potuto accertare in relazione a quest'ultimo sono così imprecisi che non posso farmi un'opinione al riguardo"). Brown era un naturalista e botanico, curioso, diligente, assai pignolo, a volte pedante. Nato nel 1773, nel corso degli anni aveva accumulato una tale raccolta botanica da renderlo famoso, al punto che venne incaricato a dirigere il dipartimento botanico del British Museum. Darwin, che frequentava il Museo e l'ambiente dei botanici inglesi, aveva spesso occasione di discutere con lui. Di lui diceva: "mi sembrava una persona notevole soprattutto per la minuziosità e la precisione delle osservazioni; ma non lo sentii mai proporre opinioni scientifiche di vasta portata nel campo della biologia". S'interessava, tra l'altro, di studiare la forma e le dimensioni dei pollini, allo scopo di capirne le funzioni. Per fare questo usava il microscopio. Ma c'era un problema: i grani di polline si muovevano in continuazione, come soggetti a un moto perpetuo. C'era forse uno spirito vitale che li animava? Brown prese materia inanimata, polveri, minuscoli frammenti di legno pietrificato, perfino un po' di polvere grattata dalla superficie della Sfinge! Tutte queste polveri, queste particelle, una volta messe sulla superficie di una goccia d'acqua, cominciavano a danzare senza fine, con movimenti casuali. Brown, tanto ostinato nelle osservazioni quanto timoroso di tentare delle spiegazioni per paura di sbagliare, si limitò a registrare i fatti in una memoria. Era il 1827. O forse la storia comincia molto prima, con Democrito, 400 anni prima di Cristo, e la si ritrova anche in Lucrezio, nella Roma repubblicana. Lucrezio, De rerum natura. Libro 2, vv. 95-­‐132 Ma se esiste un collegamento tra questo moto fluttuante e caotico delle particelle visibili e il moto sottostante di particelle invisibili (perché troppo piccole) come gli atomi, come si può renderne conto in una teoria fisica compiuta? Ludwig Boltzmann, nella seconda metà dell'800 aveva sviluppato metodi matematici complessi per interpretare le leggi della termodinamica con modelli atomici su basi statistiche. Di passaggio, in uno dei suoi scritti intesi a replicare allo scetticismo degli scienziati e filosofi positivisti, tanto solerti nel negare l'esistenza stessa degli atomi, disse che "i moti osservati delle piccole particelle sospese nei gas possono essere dovuti alla circostanza che la pressione esercitata sulle loro superfici dal gas è ora un po' maggiore ora un po' minore". Un cenno breve, di passaggio, senza un seguito quantitativo. Il commento non attirò l'attenzione di nessuno e forse lo stesso Boltzmann non lo ritenne un problema degno di approfondimento, ignaro forse dei pollini di Brown e dei successivi tentativi di spiegazione da parte di semi-­‐sconosciuti studiosi, per lo più eruditi prelati gesuiti dediti alla botanica. E' qui che arriva Einstein. Scopre un metodo semplice ed efficace per quantificare il movimento delle particelle sospese. Calcola la probabilità di trovarle dopo un certo tempo a una certa distanza dal punto iniziale, assumendo che siano spinte casualmente da fluttuazione di pressione (variazione nel numero e nell'intensità degli urti con molecole del fluido circostante), usando la distribuzione di Maxwell-­‐Boltzmann per le velocità delle molecole. Pubblica i risultati in uno dei quattro articoli apparsi nel 1905 (annus mirabilis). Tre anni più tardi la legge venne confermata dai dati sperimentali raccolti da Jean Perrin, che diventerà a quel punto uno dei sostenitori più entusiasti dell'esistenza degli atomi. I calcoli di Einstein non danno solo un'interpretazione al moto browniano, ma permettono anche di determinare la dimensione delle molecole e il numero di Avogadro. E' come vedere gli atomi (invisibili all'occhio) in azione. I tempi erano maturi. La maggior parte dei fisici aveva già accettato l'idea della materia costituita da atomi e molecole e gli ultimi pregiudizi filosofici contrari all'atomismo venivano definitivamente superati. Ironia della sorte: Einstein aveva cominciato il suo lavoro sul moto casuale delle molecole sospese in un fluido senza essere a conoscenza degli studi del botanico Brown! Solo durante la stesura del lavoro si rese conto che tale fenomeno era noto ai botanici, e più generalmente ai microscopisti. Poco importa. Gli atomi esistono e ora si può cominciare a occuparsi di come sono fatti. [solo quegli scriteriati dei chimici possono osare di rifarsi a una mostruosa congettura materialistica che risale addirittura a Lucrezio. (Lord Kelvin, 1867)] [Un giorno discutevo animatamente della disputa riacutizzatasi tra i fisici sul valore delle teorie atomistiche nella sala dell'Accademia con un gruppo di accademici fra cui il consigliere di corte, Professor Mach. [...] In quel gruppo Mach disse all'improvviso laconicamente: "Non credo che esistano gli atomi". Questa dichiarazione mi rimase in testa. (da Ludwig Boltzmann, Lezione inaugurale del corso di filosofia della scienza, Vienna, 1903)] [Heilbron: "quando lei iniziò la scuola, c'era ancora molto scetticismo riguardo all'esistenza reale degli atomi?" Andrade: "No, non penso. Tutti pensavano che gli atomi esistessero. ... Forse ti riferisci a Oliver Lodge. Lo conoscevo molto bene. Aveva una mente vivace, ma non era un Rutherford. Naturalmente quei magneti fluttuanti, si sa, erano popolari. Ma non ricordo chi fosse a dubitare degli atomi; qualcuno come Nernst. ... No, in genere tutti accettavano l'atomo e, naturalmente, il lavoro di Perrin attraeva grande attenzione. Credo fosse intorno al 1906 o '07. So che Perrin e il moto browniano erano trattati nelle lezioni quand'ero giovane". (Interview with Dr. Edward Andrade, by John L. Heilbron, December 18, 1962)] 3. Rutherford C'era una volta… Ernest Rutherford, quello che una volta disse "la scienza tutta o è fisica o è collezione di francobolli" e poi prese il Nobel per la chimica! Quello che prese a martellate gli atomi per vedere come fossero fatti dentro, e così facendo fondò allo stesso tempo sia la fisica atomica, sia la fisica nucleare. Il giovane Ernest era cresciuto ai margini estremi dell'Impero britannico, tra i campi della Nuova Zelanda. Nel 1895, allora ventiquattrenne, fece domanda di una borsa di studio per Cambridge. Arrivò secondo, ma fortunosamente la borsa andò a lui, perché il primo decise di rinunciare per potersi sposare. All'arrivo della notizia di accettazione, pare che Ernest stesse lavorando nell'orto di famiglia e che il suo primo commento fosse: "questa è l'ultima patata che raccolgo in vita mia". Ragazzone colorito e rumoroso, divoratore di tutti i libri che gli capitavano a tiro, sperimentatore autodidatta di antenne e trasmettitori per onde radio, per carattere e aspetto era quanto di più diverso si potesse immaginare dagli studenti tipici dell'università di Cambridge, i quali lo vedevano come un esemplare di una nuova specie, peraltro assai brillante. In quegli anni la fisica stava facendo scoperte inattese e intriganti. Nel 1895 vennero scoperti i raggi X; nel 1896, Becquerel scoprì accidentalmente nuovi tipi di radiazioni, mentre investigava la fosforescenza dei sali di uranio, e poco tempo dopo Marie Curie individuò alcuni elementi che li emettevano, chiamando tale fenomeno radioattività; nel 1997 J.J.Thomson, proprio nei laboratori di Cambridge identificava gli elettroni nei raggi catodici (frazioni di atomo?). Rutherford intuì che questo era il campo migliore in cui cimentarsi. Alla McGill University di Montreal in Canada, dove nel frattempo gli avevano offerto una cattedra, si mise febbrilmente a montare gli apparati di misura e raccogliere i campioni necessari per gli esperimenti sulla radioattività. In poco tempo, assieme al suo assistente chimico Frederick Soddy, riuscì a caratterizzare il comportamento della radioattività, mostrando che si trattava di un processo in cui un elemento chimico si trasforma in un altro emettendo radiazioni di diverso tipo (alfa, beta, gamma) a seconda della trasformazione ("Santo cielo, Soddy, non chiamiamola trasmutazione!") con un tipico tempo di decadimento. Nel 1907 gli viene offerta una posizione di professore a Manchester. Con la solita efficienza e rapidità riesce a montare nuovi apparati per misure di radioattività e stavolta riesce a isolare i raggi alfa prodotti da decadimenti radioattivi e a dimostrare che sono costituiti da atomi di elio a cui sono stati strappati tutti due gli elettroni. Questo lavoro, assieme ai precedenti esperimenti compiuti in Canada gli vale il premio Nobel nel 1908. Rutherford è ancora giovane, ha soli 37 anni, ed è una forza della natura. Gli viene subito l'idea di usare i raggi alfa, emessi da sorgenti radioattive per bombardare atomi di altri elementi, come fossero proiettili, nella speranza che gli permettessero di vedere cosa c'era dentro gli atomi. Assieme ai suoi assistenti Geiger e Marsden, se ne stava per ore nel seminterrato del dipartimento di fisica, in un sotterraneo buio, dove avevano sistemato l'attrezzatura. Ciò che osservavano, con pazienza e attenzione, attraverso un microscopio puntato contro uno schermo fosforescente all'interno di una camera sotto vuoto, erano "scintillazioni": minuscoli e brevissimi lampi luminosi in coincidenza dell'arrivo di una particella alfa sullo schermo. Le particelle alfa venivano deflesse da una sottile lamina di oro. Contando quanti lampi apparivano in funzione dell'angolo di deflessione, Rutherford si accorse che più particelle del previsto venivano deflesse a grandi angoli, quasi all'indietro rispetto alla direzione di incidenza. "Siamo riusciti ad acciuffare alcune delle particelle alfa mentre rimbalzano indietro! E' stata la cosa più sbalorditiva che mi sia mai capitata. Era incredibile, più o meno come sparare un proiettile di cannone contro un foglio di carta velina e vederselo tornare indietro". Rutherford capì che l'unica spiegazione possibile era che l'atomo fosse costituito da un nucleo, contenente quasi tutta la massa dell'atomo e tutta la carica positiva, concentrato al centro, in uno spazio piccolissimo rispetto alle dimensione dell'atomo stesso, con gli elettroni che si muovevano in questo vasto spazio circostante. Rutherford è davvero riuscito a vedere dentro l'atomo!! Il lavoro fondamentale che contiene il nuovo modello atomico confrontato con i dati di diffusione delle particelle alfa venne pubblicato nel 1911. Nell'ottobre di quello stesso anno Rutherford partecipa ad una cena al laboratorio Cavendish di Cambridge. Un giovane danese, Niels Bohr, che aveva appena finito il dottorato a Copenhagen e che si trovava a Cambridge con una borsa di studio, lo sente parlare e ne rimane affascinato. Alcune settimane dopo Bohr si reca a Manchester e ha l'opportunità di parlare con Rutherford. Riesce a convincerlo ad accoglierlo nel gruppo, non appena finito il semestre di corsi a Cambridge. "Ricordo come fosse ieri" diceva Bohr in una conferenza del 1930, "l'entusiasmo con cui venivano discusse tra gli allievi di Rutherford le nuove prospettive che si aprivano per tutta le scienze fisiche e chimiche a seguito della scoperta dei nuclei atomici". Diceva anche che "indipendentemente dai nuovi dati sulla struttura dell'atomo, vi era un convincimento diffuso che i concetti quantistici avrebbero potuto avere un peso decisivo nella soluzione di tutto il problema della costituzione atomica della materia". Sarà proprio Bohr, nei mesi successivi, a sviluppare un primo modello importante per la struttura degli atomi basato sull'uso dei quanti di Planck. La chiave di volta del lavoro di Bohr fu accorgersi che le sue idee sull'applicazione dei quanti agli atomi trovavano un sorprendente e, nello stesso tempo, assai semplice riscontro negli spettri di emissione e di assorbimento degli atomi. "Appena vidi la formula di Balmer, tutto quanto mi risultò chiaro". Le righe dello spettro fornivano la differenza di energia tra stati stazionari degli elettroni e gli elettroni, di tanto in tanto, saltano da uno stato all'altro emettendo o assorbendo radiazione alla frequenza necessaria per garantire la conservazione dell'energia. Le energie ammissibili per gli stati stazionari sono "discrete". Il 6 marzo scrisse a Rutherford mandandogli una bozza di articolo sul nuovo modello di atomo. La risposta di Rutherford fu la seguente. Caro dottor Bohr, ho ricevuto il Suo lavoro e l'ho letto con grande interesse, ma mi riservo di rivederlo con cura non appena ne avrò il tempo. Le Sue idee sull'origine dello spettro dell'idrogeno sono molto ingegnose e sembrano funzionare bene; ma la mescolanza delle idee di Planck con la vecchia meccanica consente molto difficilmente di formarsi un'idea fisica della base di tutto il discorso. Mi sembra ci sia una grave difficoltà nelle Sue ipotesi, che non penso affatto le sia sfuggita: come fa un elettrone a decidere con quale frequenza deve vibrare quando passa da uno stato stazionario all'altro? Sembra che si debba supporre che l'elettrone sappia in partenza dove andrà a finire. C'è poi una critica di minor conto che farei sulla stesura del lavoro. Penso che nello sforzo di risultare chiaro Lei abbia la tendenza a scrivere troppo e a ripetere i concetti in più punti del lavoro. Penso che questo andrebbe effettivamente abbreviato e che possa esserlo senza alcun sacrificio della chiarezza. [...] Sarò molto lieto di inviarlo al Philosophical Magazine, ma lo sarei di più se il suo volume potesse venire ridotto ad una giusta misura. [...] Cordialmente Suo, Ernest Rutherford 20 marzo 1913 PS: Suppongo che non avrà obiezioni a che io tagli tutto quanto nel suo lavoro mi sembrasse non necessario. Mi faccia sapere qualcosa in proposito. A quel punto Bohr, poco preoccupato dalla prima obiezione ma molto imbarazzato per la seconda (nel frattempo aveva spedito a Rutherford una versione ancora più lunga), pensò bene che la cosa migliore fosse andare a Manchester a parlarne di persona, il prima possibile. Dopo alcune serate di intensa discussione, in cui Rutherford ebbe modo di vedere quanto Bohr fosse ostinato e fermo nel difendere le sue posizioni, l'articolo venne inviato alla rivista Philosophical Magazine il 5 aprile. Era il primo di una trilogia pubblicata da Bohr entro quello stesso anno. Era l'inizio della teoria quantistica degli atomi. Gli esperimenti di Rutherford avevano aperto una strada nuova, feconda di nuove idee e di sorprese. Nota su alcuni tra i collaboratori di Rutherford: -­‐ Chaim Weizmann, ebreo nato in Bielorussia, poi divenuto primo Presidente di Israele. -­‐ Hans Geiger, fisico tedesco, tornato in Germania dopo il 1912 fino alla morte nel 1945. -­‐ Otto Hahn, chimico tedesco, nella prima guerra impiegato dall'esercito tedesco come chimico nella produzione di gas letali ad uso militare. Durante il nazismo fu coraggioso oppositore delle leggi razziali. Si rifiutò pure di partecipare al progetto dei nazisti di produrre una bomba atomica. Fu una delle persone più influenti nel periodo di nascita della Germania Federale. -­‐ Henry Moseley, fisico inglese, morì nel 1915 a Gallipoli in Turchia durante un attacco dei turchi all'esercito inglese in cui si era arruolato. -­‐ James Chadwick, fisico inglese, allo scoppio della prima guerra mondiale si trova a Berlino con una borsa di studio, viene internato in un campo di prigionia, un ippodromo, e trattenuto tre anni. Compie esperimenti di fisica con materiale di fortuna e attrezzature recuperate da Geiger, nel box per cavalli, che era la sua abitazione, usando un dentifricio con tracce di torio come sorgente radioattiva. Dopo la guerra scoprì il neutrone, vinse il Nobel nel 1935 e partecipò al progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica. -­‐ Ernest Marsden, neozelandese, durante la prima guerra mondiale si arruolò corpo di spedizione Neozelandese e si guadagnò una Croce Militare in Francia. -­‐ Pyotr Kapitsa, fisico russo, ha lavorato dieci anni con Rutherford a Cambridge, ma poi è stato costretto da Stalin a rientrare in Russia (gli venne negato il permesso di tornare all'estero dopo una breve vacanza a Mosca), dove divenne lo scienziato più influente, malgrado qualche attrito con il regime (soprattutto con Beria). 4. Heisenberg C'era una volta... un giovane fisico tedesco che soffriva di allergia ai pollini. Siamo a maggio 1925. Wolfgang Pauli (quello del principio di esclusione) in una lettera a un collega diceva: "In questo momento la fisica è ancora una volta nella confusione più completa -­‐ in ogni caso è troppo difficile per me e io vorrei essere un attore comico del cinema o qualcosa del genere e non aver mai sentito parlare di fisica. Spero solo che Bohr ci salvi con qualche nuova idea". Ma Bohr non aveva buone idee in quel momento. Il suo vecchio modello arrancava con difficoltà, tra anomalie nel confronto con gli esperimenti e questioni di principio irrisolte. Bohr, assieme a Kramers e Slater, aveva da poco introdotto una variante del modello allo scopo di tamponare le falle; ma in questa nuova versione, che pure ebbe un significativo, seppur breve successo, comparivano oscillatori virtuali, la cui natura fisica non era chiara e che implicavano un carattere statistico delle predizioni sul comportamento degli elettroni. Il modello sembrava funzionare bene, ma dal punto di vista concettuale creava ulteriore disorientamento. Bohr non aveva nuove idee migliori di quella. A un suo ospite a Copenhagen disse: "Tutto è nelle mani di Heisenberg ora -­‐ lui troverà una via d'uscita dalle difficoltà". Heisenberg aveva allora solo 24 anni. Si era da poco dottorato a Monaco di Baviera e aveva ottenuto una borsa per lavorare con Born a Gottinga. Dal settembre del '24 riuscì anche a spendere diversi mesi a Copenhagen proprio per lavorare con Bohr e Kramers. Le discussioni con Bohr erano profonde ma difficili. Heisenberg maturava sempre più l'idea che il vecchio modello degli atomi con gli elettroni su orbite circolari o ellittiche fosse da archiviare per sempre e che fosse necessario concentrarsi non su cosa sono gli atomi ma su cosa fanno. All'inizio dell'estate del 1925 Heisenberg stava lavorando all'idea di considerare la radiazione emessa dagli atomi come l'effetto di oscillatori, ma senza riferimento diretto alle orbite degli elettroni. Usava il linguaggio delle serie di Fourier, ben noto in matematica, per decomporre qualsiasi funzione in una serie di funzioni periodiche, e cercava di formulare equazioni che potessero rendere conto dello spettro degli atomi in termini di ampiezze di oscillatori nel linguaggio matematico di Fourier. Nel momento di massimo sforzo gli venne una forte febbre da fieno e si trovò costretto al riposo. Il 7 giugno prese il treno per l'isola di Helgoland, nel Mare del Nord, nota per essere un luogo particolarmente libero da pollini. Tra la lettura di Goethe e le passeggiate sull'isola, Heisenberg riprese a pensare ai salti quantici, gli oscillatori e le serie di Fourier, ma stavolta concentrandosi sulla fisica più che sulla matematica del problema. Aveva un'idea su come determinare la posizione e la velocità di una particella nella forma di serie di numeri, ciascuno dei quali rappresentava il contributo di un oscillatore, e dove ciascun oscillatore rappresentava una possibile transizione tra uno stato e l'altro dell'atomo. Ora aveva bisogno di moltiplicare questi numeri in modo da ottenere valori di grandezze misurabili. Moltiplicare due numeri è facile, ma moltiplicare due serie infinite di numeri non porta a nulla di utile se non s'introduce qualche regola che selezioni i contributi importanti ed elimini gli altri. Una nuova regola gli venne in mente pensando di poter ottenere una singola transizione tra uno stato iniziale e uno stato finale come somma su tutte le possibili transizioni tra stati intermedi. Applicando questa regola poteva calcolare ad esempio l'energia meccanica del sistema. Si mise freneticamente al lavoro. I conti tornavano giusti. Non solo, la cosa più stupefacente era che la quantizzazione degli stati dell'atomo usciva automaticamente dal calcolo, senza bisogno di mettercela "a mano" come invece era stato sempre fatto in precedenza, alla maniera di Planck. "Erano circa le tre di notte, quando i risultati finali del calcolo stavano davanti a me. All'inizio ne fui profondamente scosso. Ero così eccitato che non avrei potuto mettermi a dormire. Così uscii di casa e attesi l'alba in cima ad una roccia". Tornato a Gottinga, Heisenberg mostrò i calcoli al Wolfgang Pauli dicendo: "Mi è tutto ancora vago e poco chiaro, ma sembra che gli elettroni non si muovano più in orbite!". Heisenberg scrisse un articolo con i suoi risultati, che venne pubblicato nel settembre di quell'anno, un articolo che l'autore stesso definiva "folle", ma che era destinato a segnare l'inizio di una nuova meccanica, la meccanica quantistica. In una lettera inviata a un amico ai primi di ottobre, a proposito dell'idea di Heisenberg, Pauli diceva: "... mi ha dato una nuova joie de vivre [...] è di nuovo possibile andare avanti". Einstein, dopo aver letto l'articolo di Heisenberg: "Heisenberg ha partorito una grande idea quantistica. A Gottinga ci credono (io no)".