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nagorno-karabakh: una pace attaccata alla canna del
NAGORNO-KARABAKH: UNA PACE ATTACCATA ALLA CANNA DEL GAS
Giovedì 18 Giugno 2009 14:31
di Eugenio Roscini Vitali
Al di là delle reciproche accuse e di una sterile retorica fatta di date e di numeri, quando il
lampo dei cannoni inizia a squarciare l'aria e dal cielo cadono migliaia di palline colorate che
tanto assomigliano a giocattoli, ma che in realtà sono strumenti di guerra che, anche dopo anni,
possono straziare la vita dei civili. E’ impossibile sapere come andrà a finire o quanto durerà o
fare un conto esatto di quale sarà il prezzo da pagare, quante le vite umane e quanto il dolore.
E al di là di quello che veniamo a sapere dalla fredda sintesi dei media, quando dai quartieri in
fiamme iniziano ad alzarsi dense colonne di fumo e le case e le scuole diventano roghi e
macerie che cancellano la storia di intere comunità, è difficile risalire alle ragioni che hanno
portato all’inizio della guerra. Sono questi i pericoli che corre il popolo del Nagorno-Karabakh, la
regione caucasica che Armenia ed Azerbaigian si contendono da quasi vent’anni e che presto
potrebbe tornare ad essere il teatro di un nuovo sanguinoso conflitto, peggiore di quello che
dell’agosto scorso ha visto Russia e Georgia contendersi l’Ossezia del sud e le cui
conseguenze avrebbero effetti devastanti sul futuro di entrambe i paesi. Il Nagorno-Karabakh
è una questione sospesa e non risolta, un conflitto regionale sul quale convergono interessi
continentali che stanno cambiando la natura stessa dello scontro. Quella che tra il febbraio del
1988 e il maggio del 1994 ha causato la morte di 30 mila persone non è stata l’unica guerra tra
Azerbaigian ed Armenia: i primi incidenti, che risalgono al febbraio del 1905, esplodono a Baku
e sono il prologo ad una serie di mutui pogrom che causeranno la morte di centinaia di persone;
nel 1918 le milizie armene ed azere ingaggiano un nuovo confronto armato che si conclude con
un il massacro di 12 mila azeri, uccisi dall’esercito bolscevico intervenuto in sostegno delle unità
armene.
Più di un secolo di ostilità quindi, che potrebbero riprendere in qualsiasi momento, soprattutto
visto che, per riaffermarne la sovranità sulla regione, Baku è ancora disposta a ricorrere all’uso
delle armi e che, nonostante l’embargo sugli armamenti imposto dalla Russia, Yerevan
potrebbe decidere di fermare ogni iniziativa azera lanciando sull’enclave un’azione militare
preventiva. Una situazione resa fragile da quindici anni di “pace armata” e da un cessate il
fuoco che ha lasciato il controllo Nagorno-Karabakh nelle mani delle truppe armene.
Lo scenario, che non può non prendere in considerazione le ferite del passato, azioni che da
una parte e dall’altra hanno sparso odio e rancore, va riallacciato alla forte azerificazione che il
Nagorno-Karabakh ha subito durante gli anni Ottanta, una campagna etnico-religiosa che nel
1988 ha indotto la maggioranza armena a chiedere la riunificazione dell’enclave alla madre
patria. Da quel momento sarà un susseguirsi di fatti, uno più grave dell’altro, che alla fine
porteranno allo scoppio di una guerra lunga e sanguinosa.
Il 27 febbraio, qualche giorno prima dell’inizio della conflitto, a Sumgait, sobborgo industriale a
nord di Baku, i gruppi radicali azeri decidono di vendicare la scomparsa di due giovani morti
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durante uno dei tanti scontri che da settimane vede di fronte le due comunità. Al grido di
“ripuliamo la città dagli assassini” viene attaccato il quartiere armeno; per due giorni la folla
distrugge ed incendia tutto ciò che trova e anche se le stime ufficiali parlano di 32 vittime, alla
fine si conteranno più di 200 morti, centinaia di feriti, sevizie e donne stuprate.
Insieme agli incidenti di Askeran, Spitak e Ghugark, l’episodio di Sumgait fa ripiombare gli
armeni ai tempi dello sterminio turco che tra il 1915 e il 1917 causò la morte di almeno un
milione di persone. Il massacro viene vendicato il 25 febbraio di quattro anni dopo, quando nella
loro avanzata verso nord le truppe armene, appoggiate dall’armata russa, conquistano
l’aeroporto di Stepanakert e circondano la piccola cittadina azera di Khojali.
Assediato e destinato a cadere, il centro abitato verrà martellato dai cannoni dall’artiglieria
russa fino ad essere quasi raso al suolo; entrato in città con il buio, l’esercito armeno finirà
l’opera dando vita ad una vera e propria operazione di pulizia etnica. Un massacro che nel giro
di poche ore causerà la morte di 613 civili: 106 donne, 63 bambini e 70 anziani; verranno fatte
prigioniere 1.275 persone, 150 delle quali sparirono per sempre.
Dopo anni di mediazioni diplomatiche, più o meno fallite, nel 2006 il Gruppo di Minsk (Franca,
Russia e gli Stati Uniti) ha proposto alcuni criteri base su cui impostare la risoluzione del
conflitto: ritorno in Nagorno-Karabakh degli sfollati armeni ed azeri; reciproco impegno a
rendere possibile un voto popolare sullo status finale della regione; rinuncia dell'uso della forza;
sostanziali aiuti internazionali e una missione permanente di peace-keeping. Il 2 novembre
2008 i presidenti di Armenia, Azerbaigian e Russia hanno sottoscritto una dichiarazione
trilaterale che avrebbe dovuto rappresentare l'inizio della fase finale del processo di pace, il
primo vero tentativo di soluzione del conflitto dall’accordo per il cessate il fuoco firmato nel
1994.
La dichiarazione, basata su cinque punti, impegna le parti a supportare la stabilità e la
sicurezza della regione, riconoscere l'importanza e le decisioni prese in seno al Gruppo di
Minsk, accettare che il processo di pace sia accompagnato in ogni sua fase da garanzie
internazionali, continuare tutte le attività necessarie alla soluzione politica del conflitto,
sostenere la creazione di condizioni basate sul rafforzamento di un'atmosfera di fiducia.
Argomenti che suppongono l’abbandono di rivendicazioni territoriali a favore di negoziati basati
su decisioni politiche ma che comunque non mettono limite all’influenza russa (o di qualsiasi
altro paese) sul Caucaso.
Recentemente la questione sul Nagorno-Karabakh e il suo tortuoso cammino verso la pace
hanno però trovato un nuovo ostacolo: la riapertura dei confini tra Armenia e Turchia.
Un’iniziativa che da una parte ha cercato di normalizzare i difficili rapporti che intercorrono tra i
due paesi e dall’altra ha scatenato l’opposizione di Baku che definisce la questione un fattore in
grado di complicare il processo di pace messo in piedi dal Gruppo di Minsk.
Nel tentativo di attenuare l’indignazione azera, il premier turco Erdogan ha poi aggiunto che la
frontiera non verrà riaperta fino a quando Yerevan non ritirerà le proprie truppe dall’enclave;
questo però non ha fatto altro che complicare ulteriormente la situazione e così alle proteste del
presidente azero Ilham Aliyev, si sono aggiunte quelle del capo di Stato armeno, Serzh Azati
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Sargsyan, che ha subito preso le distanze da Ankara.
Oggi, in Nagorno-Karabakh la pace non è più solo una questione legata a fattori
etnico-religiosi: ci sono le relazioni tra la Turchia e l’Azerbaigian, i riflessi della guerra georgiana
e la dipendenza armena dalla Russia, i gasdotti del Caucaso meridionale e gli interessi iraniani.
Ogni anno Ankara acquista da Baku 6 miliardi di metri cubi di gas naturale e il prezzo della
materia prima, attualmente ritenuto molto alto, dipende in particolar modo dalla stabilità delle
relazioni tra i due paesi.
D’altro canto per il governo azero la Turchia ricopre un importanza fondamentale, un ponte
verso l’occidente e un collegamento con la Nato, fatto di per se importante dati gli effetti del
conflitto russo-georgiano sull'assetto politico regionale. L’Armenia infatti, pur essendo il più
piccolo paese del Caucaso meridionale, è un alleato strategico per la Russia e la sua
dipendenza da Mosca è tale che è bastata una richiesta del Cremlino perché Yerevan
decidesse di ritirare il suo esercito dall’esercitazione Nato in Georgia, così come hanno fatto il
Kazakistan, la Moldavia e la Serbia, paesi che per motivi diversi rientrano nella sfera di
influenza russa.
C’è poi il progetto Nabucco: un gasdotto da 7,9 miliardi di euro che dovrebbe diventare
operativo nel 2013 e che dalle riserve del Mar Caspio e del Medio Oriente, attraverso
l'Azerbaigian, la Georgia, la Turchia, la Bulgaria, la Romania, l'Ungheria e l'Austria, dovrebbe
portare in occidente 30 miliardi di metri cubi di gas. Una vera e propria spina nel fianco per
Gazprom, che entro pochi anni sarà costretta a confrontare i suoi prezzi con quelli dell’Iran, del
Kazakstan, del Turkmenistan o di altri paesi dell’Asia centrale.
Nell’immediato futuro c’è anche un altro rischio da non sottovalutare: la questione degli
equilibri militari. Da una parte Yerevan sta infatti aumentando in modo considerevole la spesa
per gli armamenti, dall’altra Baku punta a raggiungere una decisa superiorità tecnico-militare,
soprattutto prima del 2012, anno in cui le entrate derivanti dal petrolio dovrebbero iniziare a
diminuire vertiginosamente. Una pace difficile quindi, forse quanto una guerra che in questo
momento danneggerebbe tutti, soprattutto il Nagorno-Karabakh.
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