L`inizio di una storia di malattia - Azienda Ospedaliera S. Croce e

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L`inizio di una storia di malattia - Azienda Ospedaliera S. Croce e
L’inizio di una storia di malattia:
la letteratura come strumento di consapevolezza
per la professione medica e infermieristica
Parole che curano. Sempre.
Le applicazioni
Martina Bertolino
S.C. Medicina Interna, A.O. Santa Croce e Carle, Cuneo
Nei contesti di cura si assiste ad una sempre più marcata
negazione della morte, quale rammaricato fallimento
delle cure prestate, evento inaccettabile, occultato e,
troppo spesso, spogliato della sua dimensione umana.
Al di là di paraventi tirati e di porte socchiuse, il volto
mesto ed angosciato di quanti, persone assistite e
famigliari, attendono il sopraggiungere della morte,
rende evidente il forte senso di impotenza di coloro che
tentano di combattere contro una fine che appare
dolorosamente prossima.
La morte: “spettro proibito” del presente
“Ad oggi, la morte è vissuta in
una condizione di continua ribellione
e di costante conflitto e,
abbandonata la vecchia
connotazione sacra,
è divenuta un elemento della vita,
orrido ed irrisolvibile,
da sfidare fino agli ultimi giorni”.
Lucio Pinkus
La sofferenza globale, indotta dalla malattia e dal
presagio di morte imminente, evoca una sensazione di
abbandono e di smarrimento, non solo nel nucleo
famigliare stretto intorno al malato, ma anche in seno
all’équipe di cura, fallace paciere di ansie e di dolori,
falsamente depositaria di ogni rimedio e di ogni risposta.
“La morte è ancora un avvenimento spaventoso e terribile;
la paura della morte è una paura universale,
anche se crediamo di averla dominata a molti livelli.”
Elisabeth Kübler-Ross
Possiamo evitare di parlare della morte o
piuttosto abbiamo il dovere
di affrontarla
quando questa si avvicina?
La “fuga dei curanti”
La morte non lascia indifferenti e la quotidiana vicinanza
con la sofferenza altrui desta inevitabilmente echi
personali ed intimi, capaci di coinvolgere la dimensione
emotiva degli operatori sanitari.
“Neppure gli operatori sanitari sembrerebbero essere immuni dal
condividere l’immagine di una ‘morte tabù’, negata perché
eccessivamente dolorosa, dissimulata poiché destabilizzante e
rifiutata perché evocatrice della loro finitezza.”
Marie de Hennezel
La ‘fuga’ dei curanti si rende particolarmente evidente nei
contesti ospedalieri: tapparelle a mezz’asta, paraventi tirati e
porte socchiuse nascondono ai passanti i visi mesti ed ansiosi
dei morenti e dei loro cari, molto spesso privati della presenza
dei curanti.
Essi entrano rapidamente nelle stanze e, con gesti
ripetitivi e tecnici, accertano i parametri vitali,
ripristinano una corretta posizione nel letto, con la
velocità inquieta e lo sguardo basso di chi avverte su di
sé l’inadeguatezza della propria presenza in quel
momento.
“Molte persone si rifiutano
di vedere i malati, tengono
gli occhi bassi per
rimanere concentrate e per
non essere interpellate.
Leggere l’angoscia sui
volti di tutte quelle persone
probabilmente sarebbe
intollerabile per loro.”
Marie de Hennezel
E’ necessario comprendere e accettare la fragilità di coloro
che assistono malati incurabili, prendendo coscienza della
vulnerabilità che, di fronte alla morte, accomuna persone
assistite, famigliari e curanti.
L’accettazione della dimensione spirituale, del dolore e della
sofferenza del morente non rappresentano attività assistenziali
opzionali, bensì corrispondono ad un compito fondamentale che
va assunto su di sé, prima di ogni altra cosa, in virtù di esseri
umani, sorretti dal nobile proposito di andare incontro alla
persona sofferente nel modo più profondo possibile, per
consentirle di trovare una risposta intima e personale ai timori
della propria vita.
Occorre tuttavia che coloro che assistono i morenti alimentino
la loro riflessione personale, elaborando una propria opinione
in merito alla morte, alle sofferenze, al dolore e al significato
che essi assumono negli ultimi istanti della vita, poiché, ancora
troppo spesso, “i curanti non si sentono abbastanza corazzati
per far fronte all’angoscia e alle emozioni evocate dalla
prossimità della morte”.
La diagnosi di una malattia potenzialmente
mortale
“Morire: quella parola,
lanciata, rimbalza più volte,
come un oggetto incongruo,
gettato
nel mezzo di un torrente
impazzito.”
M. de Hennezel
“Ascolti, le parlerò francamente perché
[…] lei è sempre stato impeccabile sul
piano della malattia.
La smetta con quell’espressione colpevole.
Non è colpa sua se è costretto ad
annunciare brutte notizie alle persone […]
Deve rilassarsi, distendersi.
Non è Dio Padre.
Non è lei a comandare la natura.
Lei è solo un riparatore.”
“Hai ragione, Oscar.
Grazie di avermelo ricordato.”
(E. E. Schmitt)
La diagnosi di una malattia potenzialmente mortale sconvolge
il corso della vita: in seguito ad essa infatti, la quotidianità
subisce un subitaneo cambiamento, esitando nel timore della
morte, nella precarietà, nel titubante cammino verso un futuro
incerto e nella rammaricata perdita dei propri affetti.
Deborah Gordon, antropologa culturale, afferma che “la
malattia tumorale, in virtù della condanna di morte che
trascina con sé, è divenuta, negli anni, non solo una
malattia che la persona ha, ma anche qualcosa che
definisce la persona stessa”.
Gli studi in letteratura riportano che, nei Paesi
Occidentali, la maggior parte dei pazienti desidera essere
informata rispetto alla propria malattia, anche se non tutti
necessitano di informazioni complete e dettagliate.
Le loro preferenze riguarderebbero in particolare la
possibilità di fruire di una comunicazione personalizzata
e graduale, commisurata di volta in volta alla proprie
capacità di comprendere e tollerare, dal punto di vista
emotivo, le notizie che li riguardano.
La possibilità di ricevere informazioni oneste e
veritiere, nel rispetto dei propri tempi e della propria
volontà, rappresenta uno dei bisogni di cura più
significativi.
“Il problema non è dunque comunicare la verità al malato, ma
condividere la verità con il malato.
Una diagnosi infausta scatena meccanismi di autodifesa e di
elusione anche nei famigliari e nel personale curante e richiede
un lavoro su di sé di assunzione della morte e del dolore da
parte di chi deve anche comunicarla e farne partecipe il
malato”.
G. Sala
L’inizio di una storia di malattia:
la letteratura come strumento di consapevolezza per la
professione medica e infermieristica
Obiettivi degli incontri
• Esplorare, approfondire ed alimentare la riflessione personale in materia di
assistenza al termine della vita;
• favorire la comprensione ed il soddisfacimento dei bisogni del morente;
• rendere gli operatori sanitari maggiormente preparati nel comunicare la
diagnosi di una malattia potenzialmente mortale.
Le medical humanities
Le medical humanities rappresentano l’interazione, completa ed
efficace, tra competenze umanistiche e conoscenze scientifiche, al
servizio della persona, considerando la salute non soltanto come
assenza di patologie, ma anche come condizione di benessere
psicologico e sociale.
“Si tratta di una costellazione di saperi, in cui la letteratura entra, a
pieno titolo, insieme alle arti e a tutte le riflessioni sull’uomo e sulla
conoscenza dell’uomo stesso, al fine di trasformare i medici, o
almeno alcuni, in veri artisti ed in veri umanisti, capaci di ricercare
il bello, il giusto ed il vero ”.
Giacomo Delvecchio
Metodi e strumenti
- Gli incontri di riflessione sono stati proposti all’intera équipe
medico-infermieristica, a partire dal mese di Maggio;
- i percorsi di riflessione individuale fanno capo a due progetti
distinti, il primo concluso ed il secondo in itinere;
- a ciascun partecipante è stato affidato la lettura e l’analisi dei
riferimenti letterari proposti;
- le opinioni dei partecipanti sono state indagate attraverso la tecnica
del focus group.
I riferimenti letterari proposti
▪ La solitudine e la speranza del morente
“La morte di Ivan Il’ič” (Lev Tolstoj)
▪ La pacificata consapevolezza di malattia
“Un altro giro di giostra” (Tiziano Terzani)
▪ Il dramma dell’incomunicabilità: i sospesi e i bilanci
“Cosa sognano i pesci rossi” (Marco Venturino)
Analisi dei risultati
La solitudine e la speranza del morente
“La morte di Ivan Il’ič”
La comunicazione parziale della diagnosi e della prognosi, le
risposte evasive, l’incapacità di mantenere la propria vicinanza,
il contesto ospedaliero e l’eccessivo tecnicismo confinano il
morente in una dimensione di solitaria attesa.
La solitudine e la speranza del morente
“La morte di Ivan Il’ič”
Nel contesto di una malattia terminale, la speranza rappresenta
un contrappeso tra la disperazione e l’abbandono e, mitigando i
timori, sostiene il morente nella consapevolezza di aver
compiuto appieno il proprio percorso di vita.
La pacificata consapevolezza di malattia
“Un altro giro di giostra”
La consapevolezza di malattia, in termini di diagnosi e prognosi, può
rappresentare un ingaggio motivazionale alla vita, rendendone
manifesta la ricchezza ed il valore.
Permette di incidere
sul tempo rimanente,
portando a termine i propri sospesi.
Il dramma dell’incomunicabilità:
i sospesi e i bilanci
“Cosa sognano i pesci rossi”
La prossimità della morte, alimentando la sofferenza ed il senso di
precarietà, può impedire al morente di portare a compimento la propria
vita, affermando, sino alla fine, la propria volontà.
Ai curanti spetta il dovere morale di sostenere il morente nella
realizzazione di sé, facilitando la ricerca del significato
ultimo della vita.
“Accompagnare significa
condividere la pena, vivere insieme
i momenti belli e quelli brutti,
così come si condividono il pane
bianco
ed il pane nero.
Così come si condivide il pane della
speranza,
si condivide il pane della
disperazione.”
Marie De Hennezel
Conclusioni
Gli incontri di riflessione:
• hanno rappresentato, agli occhi dei partecipanti, l’occasione di entrare in
contatto con la propria interiorità;
• hanno consentito di alimentare la riflessione personale in merito al
significato della malattia, della sofferenza e della morte;
• hanno rappresentato uno strumento utile alla comprensione e al
soddisfacimento dei bisogni del malato-morente;
• hanno reso i partecipanti maggiormente consapevoli del proprio ruolo nel
comunicare la diagnosi di una patologia potenzialmente mortale.
“Quello che importa, sia
durante la vita,
sia di fronte alla morte,
è non sentirsi
abbandonati e soli”.
Gigi Ghirotti