La spiaggia di rena chiara è calda sotto i nostri piedi nudi, contenti

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La spiaggia di rena chiara è calda sotto i nostri piedi nudi, contenti
BASILICATA COAST TO COAST
Un viaggio dalla costa tirrenica a quella Ionica attraverso una delle
regioni meno conosciute dell’Italia e scoperta grazie alle
suggestioni del film di Rocco Papaleo.
di Alessandro Vergari, guida ambientale escursionistica della cooperativa “WALDEN VIAGGI A PIEDI”
La spiaggia di rena chiara è calda sotto i nostri piedi nudi,
contenti di calpestare la sabbia dopo che per ore sono
stati rinchiusi negli scarponi. Il colore del mare è di un
turchese chiaro, assai invitante per un corpo accaldato
dal lungo cammino e dal peso dello zaino. Sullo sfondo il
cielo è di un cupo pervinca, quasi irreale, per le nuvole
basse e dense di un temporale che ci sta passando di
lato, mentre noi siamo nel fascio di luce proveniente da
un ampio squarcio nelle nuvole.
Finalmente siamo arrivati sulla sponda del Mar Ionio, in
un’atmosfera quasi irreale, su questa grande spiaggia di
Nova Siri, deserta di bagnanti, nonostante sia un sabato
di giugno.
Sembra un secolo fa quando siamo partiti da una piccola
spiaggia del Mar Tirreno con a ridosso una ripida
scogliera, per questo viaggio in Basilicata, da una costa
all’altra, tanti sono stati gli incontri fatti, le avventure
superate, i panorami e le cose viste. E sembra strano
che questa regione, di cui si parla sempre poco, sia stata
così intensa.
Non sono stato il solo ad essere stato contagiato da
questa morbo del coast to coast, dopo aver visto il film di Papaleo, che racconta il viaggio, un po’
picaresco, di un gruppo di musicisti per partecipare ad un festival musicale sulla costa ionica
partendo da quella tirrenica, e altre persone si sono aggregate nel seguirmi in questo percorso.
I protagonisti del film hanno un carretto trainato da un cavallo per portare le loro attrezzature, noi
portiamo tutto sulle nostre spalle: il nostro zaino, con sacco a pelo, il materassino, il forellino a gas
e qualcosa da mangiare per avere la possibilità di fermarci dovunque.
Sarà per la leggerezza del racconto e del viaggio che viene fuori dal film, sarà perché fa vedere
uno spaccato di una regione che non si conosce e per questo appare curiosamente nuova, sarà
perché partire da un mare per arrivare ad un altro ha sempre il fascino dell’esplorazione e
dell’avventura; ecco perché siamo arrivati qui, su questa spiaggia, dopo aver compiuto circa 200
chilometri a piedi, con un gruppo di dodici camminatori e camminatrici, soddisfatti e contenti di aver
preso questa “malattia”.
Eravamo partiti dalla spiaggia di Fiumicello un po’ spaesati, appena scesi all’alba dal treno
notturno che dal nord va verso la Sicilia, con ancora il ritmico tutum-tutum negli orecchi, che subito
abbiamo affrontato la prima di tante salite, su antiche stradine e scalinate, per arrivare al centro di
Maratea, l’unico paese della Basilicata che fa da sentinella al Tirreno, ultimo presidio storico di
quella che un tempo era la Lucania, una regione che si estendeva ben più a nord dell’attuale.
Ci accolgono il sindaco e il professor Colangelo per un benvenuto nella piazzetta sotto il municipio
e ci invitano cordialmente a un evento speciale e di cui sono molto orgogliosi: nel pomeriggio
arriverà la Principessa Elettra, figlia di Marconi, che inaugurerà una mostra di radio d’epoca e un
concerto di grammofoni; “rimanete! Siate nostri ospiti!”
L’invito è allettante e la coincidenza curiosa: un ritorno agli albori della comunicazione per noi che
abbiamo scelto di camminare e di tenere spento il cellulare durante il cammino. Ma il Cristo
accanto al santuario di San Biagio, con le sue braccia allargate, ha un fascino più accattivante e
non vediamo l’ora di salire in cima per ammirare uno dei tratti di costa più belli del meridione e per
partire dalla stessa località da cui è partito il viaggio delle “Pale eoliche”, il curioso nome, ma non
troppo, per una regione che sta provando sulla sua pelle cosa vuol dire il petrolio, che avevano
scelto i musicisti della band di Papaleo.
Un’idea di come cambia in pochi chilometri il paesaggio lo
abbiamo all’inizio della valle dei Cantarelli dove, dopo un
ultimo saluto al Cristo in lontananza, saliamo tra pascoli che
ricordano quasi un paesaggio alpino d’alta quota. I
campanacci delle mucche sono l’unico suono che si sente e
verrebbe voglia di salire fino in cima al Monte Crivo o al
santuario qui vicino della Madonna del Soccorso, meta dei
pellegrini di Trecchina, se il cielo non iniziasse ad aggiungere il
suono di un cupo brontolio, non certo rassicurante. In poco
tempo infatti si scatena un nubifragio violento che ci permette
di sperimentare il primo atto di ospitalità dei lucani. Bagnati,
con le nostre mantelle indosso che ci fanno assomigliare a dei
mostri gobbosi, chiediamo di ripararci sotto una tettoia di
fianco a una fattoria isolata, ma provvidenziale. Ed ecco che i
proprietari si fanno in quattro per sistemarci, farci trovare un
posto a sedere e dopo una mezz’oretta, visto che il temporale
non terminava, ci offrono persino tè e caffè.
Arrivare a Trecchina dopo un forte temporale la fa sembrare
ancora più in montagna di quanto sembra, nonostante i suoi 500 metri d’altezza e i boschi di
castagni che la circondano; l’aria è diventata decisamente freddina, nonostante siamo ai primi di
giugno. Maria, la proprietaria dell’albergo che ci accoglie in paese, vista la nostra propensione a
camminare, cerca di coinvolgerci in un prossimo pellegrinaggio a piedi per una “Madonna” distante
due giorni di cammino. Una proposta interessante che mi fa tornare in mente la processione per la
Madonna di Viggiano, che richiama folle di pellegrini da tutta la regione, e di quanto può la fede
popolare per spostare persone che in genere non vedono l’utilità di camminare tutto il giorno
semplicemente per… camminare e basta.
La mattina dopo il sole splende in un cielo blu cobalto e nell’aria tersa il Monte Sirino e i paesi di
Rivello e Lauria sembrano a due passi, tanto sono nitidi, ma c’è da superare una valle e un fiume,
il Noce, e qui la Basilicata ci rivela che andare a giro senza seguire le strade non è facile.
Non è facile perché i sentieri non sono più battuti, la gente non cammina più e anche tratturi o
viottoli fuori del paese che sono stati percorsi per secoli, ormai sono in gran parte invasi dalla
vegetazione. E così, a poche centinaia di metri da grandi arterie stradali, come l’autostrada o la
Sinnica, ci ritroviamo spesso a combattere contro rovi o boscaglie impenetrabili per poter
proseguire su quei puntini che sulla carta erano segnati come mulattiere o sentieri. Purtroppo solo
sporadicamente troviamo indicazioni sui sentieri, che spesso sono vecchi paletti a cui manca un
riscontro cartografico, oppure solo in certe zone, come nel Pollino, esiste una sentieristica degna di
questo nome. Da una parte, almeno per noi, ha più fascino trovare e costruire ogni giorno la strada
per l’altra costa, ma per rendere fruibile ad un turista meno avventuroso questa terra sarebbe
necessario dedicare un po’ di risorse a segnalare gli itinerari escursionistici.
E’ curioso che più di una persona interrogata su un sentiero da prendere che partiva dal suo paese
non abbia saputo nemmeno della sua esistenza e di come, per esempio a Rotondella, un vecchio
sentiero che accorcia di molto la tortuosa strada asfaltata, sia completamente invaso da arbusti,
segno di un abbandono totale decennale.
All’ombra di un pergolato di un bar, nella curiosa località di Panevino, parlo con Angelo, della
Fondazione Enrico Mattei, che sta proprio facendo una ricerca sull’impatto del film di Papaleo sul
turismo nella regione e che sembra abbia dato un impulso non indifferente, soprattutto ai ristornati
e agli agriturismi nelle località citate dal film. Peccato, conclude nella sua ricerca, che siano state
poche le iniziative messe in moto dagli imprenditori e dalle istituzioni locali per cavalcare l’onda di
questa idea di un turismo “slow”.
Parlando sempre del film e chiedendo ad altri lucani un parere, ottengo risposte assai curiose. I più
si lamentano che non ha dato una visione parziale della regione e gli abitanti dei paesi che non
sono stati citati si sentono offesi – l’APT regionale, per ristabilire lo status quo ha prontamente
pubblicato un'altra versione con un contenuto extra che va a riempire i vuoti mancanti e i paesi
tralasciati – gli invidiosi raccontano di un Papaleo che, dopo che è diventato famoso, si dà un po’
troppe arie, i maschi s’indignano per il ruolo della femmina lucana che dal film ne esce… un po’
troppo “facile”, e le donne fanno lo stesso; ma, forse, quella scena del film, era solo una
provocazione.
Per noi camminatori comunque in breve è
diventato un cult movie e non posso fare a
meno di ripensare alla scena dei briganti, ora
che sto passando nella galleria della ferrovia
abbandonata sopra Lauria. Già, i briganti; le
figure di Carmine Crocco e di altri briganti sono
già state rivalutate, come poi tutta la storia del
brigantaggio, che in tempi post-risorgimentali fu
vista come un cancro da togliere con ogni
mezzo, e che al giorno d’oggi è stata rivista
come una vera e propria guerra civile le cui
ripercussioni si sono trascinate fino ai giorni
nostri. Ma anche la storia più antica ha lasciato
tracce interessanti lungo il percorso, come la
malinconica figura di Isabella Morra, poetessa
al tempo del Tasso e dell’Ariosto, che dal triste maniero di Valsinni, dove era stata relegata dagli
invidiosi fratelli perché troppo ribelle e non sottomessa, scrisse poesie piene di dolore e sentimento
che ancora oggi vengono lette negli stretti vicoli del borgo da una compagnia di menestrelli in abito
cinquecentesco.
E gli arabi? A Tursi c’è un quartiere intero che ancora oggi si chiama la Rabatana, nome che
probabilmente deriva dall’antica parola da ribad o ribat, cioè “luogo fortificato” o “città libera”, o
forse dal latinismo arabum tana, tradotto con “tana degli arabi” da cui “Arabetana”, “Arabatana”,
“a’Rabbatana”. Le vecchie case, addossate l’una su l’altra e in bilico sull’orlo di profondi calanchi,
erano gremite di gente fino al dopoguerra, poi lo spopolamento l’aveva portata quasi alla completo
abbandono e al crollo, facendo quasi sparire una storia secolare. Ora la parte più vecchia sta
tornando a nuova vita grazie al lavoro certosino della famiglia Popia che ha restaurato il Palazzo
dei Poeti. La sera mangiamo nell’elegante ristorante, consigliato anche da Slowfood, e per far
onore al nome del luogo e alle parole di Pierro che diceva: ”quella di Tursi era una delle tante
parlate destinate a scomparire, ho dovuto cercare il modo di fissare sulla carta i suoni della mia
gente“, il proprietario si lascia andare all’interpretazione della sue più famosa poesie, “la Rabatana:
“Ma ié le vògghie bbéne 'a Ravatène / cc'amore ca c'è morta mamma méie: / le purtàrene ianca
supr' 'a sègge / cchi mmi nd'i fasce com'a na Maronne / cc'u Bambinèlle mbrazze. / Chi le sàpete u
tempe ch'è passète... / e nun tòrnete ancore a lu pahàzze.
Nell’accalorata recita, a memoria, e nell’immaginarsi la formicolante vita di questo rione popolare
che rivive nella poesia ci prende un brivido d’emozione e ci sentiamo per un attimo più vicini anche
a quanto scritto nelle pagine di Arrigo Levi, nella sua rievocazione della vita dei borghi lucani.
La stessa sensazione ci prende nella visita del minuscolo museo privato di Latronico del signor
Vincenzo Bruno. Tecnico elettricista al tempo della piccola centrale idroelettrica di Bagni - un
paesino poco distante che vanta una ricca sorgente termale, ma amministrata malissimo, a detta
della gente del posto, e quasi deserta - Vincenzo ha raccolto i frammenti rimasti di questa
testimonianza di archeologia industriale con ammirevole dedizione in due stanzine di quella che
era stata la sua abitazione da ragazzo. “Qui ci stava il maiale e questo è lo scolo degli escrementi
che andavano sul vicolo” ci racconta, facendoci vedere interruttori, lampadine e isolatori al posto
del minuscolo stazzo. “E qui c’è l’angolo della sartoria e della musica, perché”, continua a
raccontarci Vincenzo, mostrandoci delle foto, “mio padre che era un valente musicista, autodidatta,
ma capace di comporre melodie e canzoni popolari e fare il sarto nello stesso tempo”.
A spasso per gli stretti vicoli del borgo storico incontriamo Rocco che ci accompagna verso la
fantomatica casa del “barone” illustrandoci e raccontandoci, con vera passione, la storia di una
chiesetta, la leggenda di una “timpa”, di come conosce bene il territorio. E poi l’incontro con il
“barone”, con il suo aiutante indiano, i suoi cavalli, i suoi terreni abbandonati, le sue storie di
antiquario e l’ospitalità spontanea, alla buona, ma sentita. E non posso tralasciare l’accoglienza a
Fardella, nella sede della Protezione Civile locale, un locale nuovo, ben tenuto, efficiente, con un
piccolo museo della memoria del paese e tanti quadri, belli, alle pareti, che sembra di entrare in un
museo di altre moderna. Giuseppe Guarino, il factotum e genius loci di questo posto, è un
ricercatore che, dopo aver lavorato negli USA, ha deciso di ritirarsi in questo paesino per
dipingere, la sua grande passione, ma siccome non poteva fare solo quello, ha coinvolto i 700
cittadini di questo paesino quasi sconosciuto in un progetto di volontariato che ha coinvolto il 14 %
della popolazione, cifre veramente sorprendenti per queste zone.
L’arrivo a San Costantino invece trasmette un’altra sensazione ancora, quella di essere capitati
improvvisamente in un angolo di Albania. Qui le strade non si chiamano vie, ma rruga, e oltre ai
soliti nomi come Roma o Cavour, sono intitolate all’eroe albanese nella lotta contro i turchi
Skanderberg o alla cittadina del Peloponneso di Coronei.
In questo paese, in una delle vallate più remote delle pendici del Pollino e che domina la grande
fiumara del Sarmento, i profughi di origine albanese in fuga dalla città, allora veneziana di Corone,
avevano trovato la loro terra promessa, finalmente al riparo dalla minaccia turca e hanno vissuto
quasi in isolamento fino a pochi decenni fa, mantenendo inalterati usi, costumi e, soprattutto, la
lingua. Pina e Mina, anime e guide del piccolo museo della cultura arbëresh, ci spiegano le usanze
per il matrimonio, i personaggi della festa della Madonna della Stella con i caratteristici pupazzi
denominati nusazit, e ci fa vedere come veniva lavorata e utilizzata l’unica fibra tessile che era
possibile ricavare dalle pendici sassose di queste montagne; la ginestra.
Se, come dice Lao Tse, ogni cosa è
occasione di viaggio, di contemplazione,
anche la sosta presso il Colle dei Greci è
una di quelle occasioni. Qui ci fermiamo
un attimo prima di ripartire per l’ascesa al
Monte Pallereta, sotto il pergolato di una
casetta ben tenuta, con l’orto e un bel
giardino e incontriamo Vincenzo, un
gioviale anziano che ogni giorno viene da
Agromonte, un paese di là dal Sinni e
che, ci racconta, in passato faceva parte
del comune di Castelluccio, ma ne era
così lontano che al tempo del fascismo fu
spostato sotto Latronico, almeno così gli
abitanti non dovevano fare un disagiato
sentiero di montagna per chiedere anche
un semplice atto amministrativo.
“Questa località” continua Vincenzo, contento di avere una folta platea attenta e curiosa, “ si
chiama il Colle dei Greci perché dal terreno sono spuntate ossa e armature risalenti ad un tempo
molto antico, forse addirittura al tempo di quella che era la Magna Grecia, ma ora è tutto stato
sepolto di nuovo dagli archeologi”. Ci porta poco lontano a vedere un piccolo borgo di casette
abbandonate e il tetto crollato. “Qui ci venivo a scuola, eravamo sessanta ragazzi”. Si stenta a
crederlo pensando che ora forse non ci sono nemmeno sessanta persone in un raggio di 5
chilometri.
“E questa casetta ve la vendo volentieri. Chiedo 5000 €. Un professore di Taranto me ne voleva
dare la metà ma io non ho accettato. Qui l’aria è buona”. E non stentiamo a crederli, con un
panorama che arriva alle montagne del Pollino e con le piante di pomodoro già grandi e rigogliose.
Lungo il percorso, le persone anziane ci salutano con un sorriso e si prestano ad indicarci la
strada, qualcuno ci chiede, con curiosità da dove arriviamo, da dove siamo partiti. “Come nel film!”
E’ una delle classiche risposte quando raccontiamo di essere partiti da Maratea. Ma qualcuno, di
solito i camionisti che portano la frutta, ci guarda un po’ storto e ci invita a “lavorare davvero!”.
Per arrivare alla chiesa solitaria e maestosa di Santa Maria d’Anglona, preferiamo passare per il
vecchio sentiero, la Via Marina, percorsa fino a non molti anni fa dagli abitanti di Tursi in
pellegrinaggio. Oggi bisogna farsi largo tra gli spini delle ginestre e scalare i monticelli d’argilla di
una delle zone più spettacolari e impervie del percorso, quella dei calanchi di una vasta zona di
crete che si estende a nord fino a Craco, Aliano e oltre. Due agricoltori non ci credono a vederci
arrivare dal vecchio sentiero, ma il tabernacolo che segnava una pausa nel percorso è stato da
poco restaurato, anche se forse è molto più facile che veda passare un gregge di capre che un
gruppo di pellegrini.
Un riposante bagno nelle vasche dell’acqua termale di Sant’Andrea ci serve a rinfrescarci un po’
prima di compiere l’ultimo balzo per il mare. C’è una buffa storiella su queste vasche che
servivano anche a guarire le malattie alla pelle sia degli animali che dei cristiani; sembra che le
bollicine di gas che escono naturalmente dal fondo sassoso in maniera irregolare e intermittente
registrano un brusco aumento alle parole di “Monaca! Monaca!” Provare per credere.
Gli ultimi chilometri sembrano
interminabili,
passiamo
la
trafficata statale Ionica e una
strada che conserva ancora
l’evocativo nome di Regio
Tratturo Calabria-Puglie e poi
seguiamo un lungo viale verso la
pineta costiera sempre più
vicina. Ai margini dell’ampia
spiaggia deserta mi tolgo gli
scarponi e ripenso all’intervista
che ci hanno fatto e che è finita
anche sul TG3 e il TG2, e alla
domanda
e
risposta
che
riassume
il
messaggio
promozionale della regione:
“Cosa pensa della Basilicata?”
“La Basilicata è davvero una
bella scoperta!”
Ma soprattutto mi hanno colpito le parole di Angela, che ci era venuta a intervistare durante il
percorso, quando parlava della sua terra: “quella di cui le previsioni del tempo non indicano la città,
mettendo il simbolo del sole o della nube tra Puglia e Campania, quella che se ne sta in silenzio a
guardare consapevole di poter dare tanto e negli ultimi anni, soprattutto in termini di promozione e
turismo ha dimostrato, grazie a figure competenti, che non è seconda a nessuno e che quando si
dice male della Basilicata sono i pregiudizi a parlare. La nostra regione ha tante potenzialità, è
come una bimba timida all'inizio di un incontro, ma se la sai prendere non ti mollerà più la mano!”
La Cooperativa Walden viaggi a piedi, www.waldenviaggiapiedi.it organizza, almeno una volta
l’anno e anche su richiesta, questo trekking in Basilicata.