Ilpassodoppio della“terzagamba”
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Ilpassodoppio della“terzagamba”
Anno IV - Numero 22 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 25 Marzo 2011 nuovo Responsabili Il passo doppio della “terza gamba” Rom Il pregiudizio non vuole morire Evasori Vaticano, addio paradiso (fiscale) Palestre È primavera, svegliatevi pigroni QUESTI “VESPRI” FANNO DISCUTERE LEGITTIMO ATTUALIZZARE VERDI O SHAKESPEARE? DIVISI I CRITICI Politica Il drappello dei Responsabili va all’incasso e si aggiudica il ministero dell’Agricoltura (con riserva) Il passo doppio della “terza gamba” Giuseppe Cruciani di Radio 24: “Berlusconi non cadrà per uno Scilipoti” Tommaso Rodano In Italia oggi comandano i Responsabili, il drappello di parlamentari che ha cambiato casacca in tempo utile per salvare la legislatura e allungare la vita politica di Silvio Berlusconi. Sono la “terza gamba” del governo, la sua architrave. E ora sono passati all’incasso. Il nuovo ministro dell’Agricoltura, nonostante la riserva di Giorgio Napolitano, si chiama Francesco Saverio Romano, ex Udc, indagato per mafia e corruzione; è il leader dei Popolari di Italia Domani, uno dei gruppuscoli che compongono la piccola (29 deputati) ma incredibilmente frammentata galassia “responsabile”. La politica italiana concede a chiunque una finestra di notorietà ben più ampia dei quindici minuti che aveva profetizzato Andy Warhol. La nostra vita pubblica si satura delle vicende spicciole degli eroi del sottobosco: il mutuo dell’ex Idv Antonio Razzi, il “Cepu” della finiana pentita Catia Polidori, l’Alleanza di Centro di Francesco Pionati e dell’attrice Debora Caprioglio, ex musa di Tinto Brass. Ma il più celebre è senz’altro Domenico Scilipoti. Dodici anni di an- ESULE Domenico Scilipoti ha lasciato l’Italia dei valori dopo dodici anni di militanza, pochi giorni prima della votazione sulla fiducia al governo dello scorso 14 dicembre. Insieme a Calearo e Cesario ha costituito il Movimento di responsabilità nazionale tiberlusconismo militante e battaglie politiche tra le file dell’Italia dei Valori. L’impegno su tematiche alte: l’usura bancaria, le medicine non convenzionali, i diritti dei lavoratori, eutanasia e testamento biologico. Fino all’improvvisa rottura con Di Pietro (“Non posso rimanere in un partito che non fa niente per l’agopuntura”, ipse dixit) e la fulminazione sulla via di Arcore. Non gli fa difetto un certo senso dell’(avan)spettacolo: dal 14 dicembre, giorno della fiducia al governo (rispondendo alla seconda chiama, con un colpo di teatro), gli interventi televisivi e radiofonici del neo-famoso Scilipoti sono una bomba ad orologeria. Ne sa qualcosa David Parenzo, giornalista e spalla di Giuseppe Cruciani ne La Zanzara, show di punta di Radio 24. Scilipoti lo ha definito “servo”, “sciocco”, “senza testa”, “commedia della vita” e infine, rispolverando nozioni della sua specializzazione in ginecologia e ostetricia, “parto anale”. “Forse stavolta ha esagerato un po’”, ammette Cruciani, che pure non ama sventolare la bandiera del politically correct: “Scilipoti ha un’innegabile capacità dialettica ma perde la testa piuttosto facilmente”. Il suo programma radiofonico mette a nudo queste piccole personalità della politica italiana illuminate da una fama improvvisa. L’effetto comico è notevole. Ma al di là di qualsiasi ironia, è proprio a loro che è stato affidato il timone del Parlamento e il destino del governo. “Non esageriamo”, risponde Cruciani: “Noi li scegliamo perché ‘funzionano’, fan- Dopo l’ondata di celebrazioni per i 150 anni, in Parlamento si puntualizza Italia una, ma tante le diversità Stefano Silvestre “Noi fummo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Chissà se Goffredo Mameli, al momento della stesura del Canto degli italiani, nostro inno nazionale de facto, sapeva quanto sarebbero state ancora attuali le sue parole a oltre 160 anni di distanza. Inno nazionale che, forse pochi lo sanno, di strofe ne contiene altre quattro e deve essere particolarmente caro alla deputata del Pdl Paola Frassinetti, che presenterà alla Camera un disegno di legge che prevede l’insegnamento dell’inno di Mameli ai bambini delle elementari e medie a partire dall’inizio del prossimo anno scolastico. Ma il disegno di legge ha subito incontrato degli ostacoli. I primi paletti sono stati i due emendamenti presentati dalla Lega, notoriamente “allergica” ai simboli dello Stato. Va’ Pensiero e introduzione dei simboli territoriali. Queste 2 25 Marzo 2011 le proposte del Carroccio, che prevedevano anche l’ingresso nelle scuole dell’insegnamento della storia dei simboli regionali tra cui i canti popolari tipici. Una spallata a una proposta che, in tempo di celebrazioni per i 150 dell’Unità d’Italia, sembrava essere fatta per unire, piuttosto che divi- doleta di Mayr e Lamberti. Nelle scuole di Roma e dintorni, i pargoli avrebbero potuto cantare successi come Arrivederci Roma e Er barcarolo romano. E ancora Calabria, Campania e Sicilia con Calabresella mia, Funiculì Funiculà e Sciuri Sciuri. E così via, per ognuna delle 21 regioni. La Lega voleva affiancare all’inno anche l’insegnamento del Va’ Pensiero di Verdi e i canti tipici regionali dere continuando a sottolineare le storiche differenze regionali. E a testimoniarlo c’era un’adesione praticamente unanime alla Camera, dall’Idv al Pd. E invece, secondo la Lega a Milano sarebbe stata formativa, tra una lezione sulle strofe di Mameli e l’altra, l’intonazione di canti come O mia bela Madunina di Giovanni D’Anzi. A Venezia sarebbe calzata a pennello La biondina in Gon- A precisare che non si trattava di una boutade del Carroccio, era stata la capogruppo in commissione per la Lega Paola Goisis, artefice tra le altre cose della proposta di affiancare all’inno di Mameli il Va’ Pensiero di Verdi, tanto caro al partito del Senatùr. Scherzo o provocazione, alla Frassinetti la proposta dei canti regionali era sembrata “ragionevole”, anche perché, a suo dire, probabil- mente sarebbe servita a convincere la Lega a non votare alla Camera contro il ddl “canoro”. Niente da fare: gli emendamenti del Carroccio sono affondati in Commissione Cultura e ora la proposta della Frassinetti proseguirà il suo iter alla Camera senza altre modifiche. Sempre a patto che la Lega non alzi ulteriori barricate, come ha detto sibillina Paola Goisis: “La proposta rischia di morire in Commissione, così si eviteranno fratture nella maggioranza alla Camera. Insomma la Lega di “stringersi a coorte”, in questo caso, non ne vuole proprio sapere. Il tutto in un momento non troppo felice per i nostri simboli nazionali, almeno in Parlamento. Negli ultimi giorni la maggioranza ha infatti incassato una sconfitta sul decreto legge sull’istituzione del 17 marzo come festa dell’Unità d’Italia negli anni a venire, che quindi resterà una tantum solo per quest’anno. no spettacolo. E in fondo la politica è anche questo: promesse, tradimenti, operazioni di piccolo cabotaggio. Ma sostenere che la legislatura dipenda dagli Scilipoti di turno è una semplificazione, una forzatura giornalistica. La responsabilità dell’esistenza dei responsabili, se mi passi il gioco di parole, è soprattutto di chi dovrebbe rappresentare l’alternativa a Berlusconi”. A cominciare da Antonio Di Pietro: “Non può essere un caso”, sostiene Cruciani, “se in un piccolo partito come l’Idv così tanti deputati se ne vadano sbattendo la porta: Scilipoti non è il primo, né l’ultimo. Questo chiama in causa chi li ha reclutati, inserendoli nelle liste elettorali”. Non sarà anche ‘merito’ di chi li lusinga, magari offrendo incarichi e rielezioni? Cruciani non demorde: “Le promesse politiche sono scritte sull’acqua e bastano pochi secondi a tradirle”. Con il rischio, però, di ‘indebitarsi’ politicamente, se non si accontentano tutte le richieste di chi ha cambiato casacca. “Alla fine una quadra si troverà”, conclude. “Non penso che Berlusconi si faccia ingabbiare da personaggi politicamente irrilevanti. Prodi è caduto per Turigliatto, Berlusconi non cadrà per Scilipoti”. INNI NAZIONALI, QUESTI SCONOSCIUTI Tra invettive e canti di guerra a Madrid invece non c’è testo ■ FRANCIA Composta da Claude Joseph Rouget de Lisle nel 1792 dopo la dichiarazione di guerra della Francia all’Austria, la Marsigliese è un inno cruento, un vero canto di guerra. Significativi i versi che del ritornello: “Alle armi, cittadini! Formate i vostri battaglioni! Marciamo, marciamo, che un sangue impuro bagni i nostri solchi!”. ■ GERMANIA Oggi viene intonata solo l’ultima strofa del Canto dei tedeschi. Dopo la seconda guerra mondiale non è più usata la prima, celebre per il Deutschland Uber Alles. I versi incriminati recitavano: “Germania, Germania sopra tutto nel mondo”. ■ SPAGNA La Marcha Real non ha un testo ufficiale, che in passato era redatto a seconda del re in carica nel paese. Introdotto nuovamente dopo la morte di Francisco Franco nel 1975, che lo aveva sostituito con lo Himno de Riego, nel 2008 è fallito un tentativo di stesura di un nuovo testo. ■ STATI UNITI The Star-spangled Banner, la bandiera “adorna di stelle” è l’inno nazionale statunitense dal 1931. Come la Marsigliese, è un canto ricco di riferimenti bellici, come testimonia la strofa “il sangue della compagnia che voleva privarci della casa e dalla nazione (riferimento agli inglesi) ha cancellato la contaminazione delle loro impronte”. ■ GIAPPONE L’inno nazionale giapponese, il Kimi ga yo, il regno del nostro Imperatore, trae origine da una poesia periodo Heian, nel XII secolo. È molto breve ma significativo, un augurio di vita eterna all’imperatore: “Possa il Vostro regno durare mille, ottomila generazioni, finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio”. S. S. Reporter nuovo Economia Grandi gestori a confronto per ridurre il digital divide in Italia: conclusione unanime Senza fibra ottica la rete soffoca Ci restano nove anni per attuare la direttiva europea per potenziarla Francesco Salvatore Se la rete è occupata dal passaggio di un video di Youtube è difficile che si possa scaricare una cartella clinica, che ci si connetta in videoconferenza o che addirittura ci si serva del cloud computing, una tecnologia che permette di utilizzare i computer in remoto. La scarsità della risorse è sempre stato un problema delle società sviluppate: adesso la necessità dell’uomo moderno è l’informazione. Avere un maggior afflusso di dati per poter comunicare con più efficacia e velocità. Il problema diffuso in Italia, però, è che alla maggiore necessità di comunicazione non è connessa un’infrastruttura tale da supportare il traffico generato. L’Italia è attraversata da un’autostrada di rame che collega tutto il Paese e permette una diffusione dei dati insufficiente a sostenere uno sviluppo che solo la banda larga può dare: “La fibra è fondamentale per tutte le aziende e servono investimenti per implementarla” è questo il concetto cardine dell’Avaya Forum 2011 sulla sostenibilità della rete e i nuovi modelli di business. La discussione ha coinvolto diversi esponenti del mondo politico, FUTURO L’Unione europea ha stabilito che entro il 2020 tutti dovranno avere una connessione in banda larga a 30 Mbit al secondo dell’amministrazione pubblica e del mondo delle comunicazioni che hanno concordato sulla necessità di migliorare il passaggio delle informazioni digitali in vista del 2020, anno in cui, secondo una direttiva europea, il digital divide sarà ridotto: tutte le famiglie dovranno avere un contratto internet a 30 Megabit al secondo e il 50 per cento delle stesse dovrà possedere una connessione a 100 Megabit al secondo: dati che paragonati ai 20 Megabit forniti dall’unico operatore che lavora oggi in fibra ottica fanno sorridere. Tuttavia, il progetto di rinnovare la rete informatica, non è di semplice attuazione perché ha costi ingenti. Inoltre è da stabilire quali soggetti, pubblici e privati, se ne faranno carico. Ciò che è chiaro è che una maggiore domanda di informazione non è supportata da una capacità d’investimento adeguata degli operatori di comunicazione: ovvero, le bollette telefoniche che pagano gli utenti oggi, non permettono agli operatori privati di accollarsi un investimento che tornerà solo dopo diversi anni. “Per fare la banda larga ci vogliono degli investimenti che vengono recuperati solo dopo otto anni - ha detto il vice direttore di Wind, Romano Giulietti - in Italia ci deve essere la possibilità di coinvestire insieme allo Stato o a soggetti privati. Inoltre è necessario rendere possibile uno switch off, perché al momento solo Telecom può garantire un investimento che ritorni subito”. Telecom, infatti, è l’operatore che possiede le infrastrutture su cui corrono tutti i dati delle nostre connessioni Adsl e rappresenta l’asset fondamentale dell’azienda: “Le reti vanno fatte al minimo prezzo possibile finale - ha detto il responsabile delle Reti Telecom Stefano Nocentini - perché poi i costi vanno a carico degli utenti finali. Ciò che fondamentale, è che vanno fatte da chi le sa fare”. Si focalizza su un altro punto Nicola D’Angelo, consigliere dell’Autorità Garante per le comunicazioni: “In primis si deve capire quale deve essere il ruolo del settore pubblico per aumentare gli investimenti. Poi definire quanta fibra ottica attualmente esiste in Italia e in fine ci si deve affidare alle regole, cioè lasciare libero spazio alla concorrenza e garantire la competizione”. Roberto Sambuco, capo dipartimento Telecomunicazione del Ministero dello sviluppo economico ha una soluzione: “Va creato un meccanismo industriale e finanziario per sinergizzare tutte le risorse per investire nella fibra ottica. Lo Stato può costruire le infrastrutture con questi soldi e poi dopo che la rete è stata fatta, si può ritornare al mercato e a chi può gestirla”. Alla Fiera di Roma si fa il punto sulla vivibilità dei nostri agglomerati urbani Idee e utopie per salvare le città Tommaso Rodano Una porta sul futuro delle nostre città: Ecopolis è l’expo & conference organizzata da Camera di commercio e Fiera di Roma che da tre anni rappresenta un punto di riferimento per sviluppare proposte e ipotesi di una crescita sostenibile delle aree urbane. L’obiettivo di fondo è ripensare la vita nella polis nel suo complesso e indicare la via, se non per la “città ideale”, almeno per una città migliore e vivibile. Nel 2030 in tutto il mondo 8 miliardi di persone vivranno nelle aree metropolitane: “Non è possibile pensare il futuro delle città”, come ha sottolineato Pino Tripaldi, responsabile scientifico di Ecopolis, “senza stabilire criteri vincolanti di sostenibilità urbanistica, sociale e ambientale”. La “città che vive” è stata discussa in una tavola rotonda durante la quale sono state illustrate le conclusioni di quattro ricerche, coordinate Reporter nuovo da Retecamere, che hanno declinato un’unica visione di trasformazione sostenibile delle città, partendo dalle priorità, i due obiettivi più urgenti: energia e mobilità sono le leve fondamentali su cui agire per delineare uno sviluppo urbano virtuoso. Sono soprattutto le nuove genera- Ma il modello di sviluppo che viene proposto nelle relazioni di Claudio Cipollini, Lorenzo Bellicini, Carlo Cecere, Enzo Risso e Andrea Granelli non pare avere punti di contatto con la logora polis contemporanea, o almeno sembra dimenticare la profondità dei problemi che la af- “Si è parlato tanto di pianificazione, ma le questioni vanno risolte subito. Il problema non è oggi, è ieri” zioni a reclamare città diverse. Swg ha realizzato una ricerca online, coinvolgendo un campione di giovani in una web-discussion su come immaginano e desiderano il futuro delle metropoli: centri urbani armonici, al servizio delle persone, innovativi e funzionali, pieni di verde e tecnologia. La città del futuro è “vivace, godibile, frequentata, gioiosa, accogliente”. fliggono. Ecopolis propone soluzioni attuabili che però rischiano di scivolare in un racconto utopico di sviluppo armonico delle aree urbane. La crescita sostenibile, la promozione della coscienza civica e della consapevolezza del cittadino, il pieno sfruttamento delle potenzialità del progresso tecnologico possono e devono essere i vettori su cui costruire il futuro delle nostre città. Ma sono ter- mini che rischiano di suonare vuoti se applicati alle immagini concrete dei nostri paesaggi urbani. Lo afferma chiaramente Alejandro Gutierrez, architetto cileno che ha lavorato in mezzo mondo, prima di mettere radici in Italia: “Qui si è parlato tanto di pianificazione per la città del futuro, ma le questioni cruciali vanno risolte adesso. L’Italia è già da tempo fuori dai livelli di competitività europea. Il problema non è domani. Il problema è ieri”. Dalla “città che vive” tratteggiata da Ecopolis sono rimasti fuori i problemi cronici, quotidiani delle nostre metropoli. Prima di pianificare il futuro bisognerebbe essere in grado di gestire l’ordinaria amministrazione. E le fotografie delle città italiane oggi vanno scattate alle strade di Napoli nascoste dalla spazzatura, ai palazzi delle borgate, alla discarica più grande e più satura d’Europa che smaltisce i rifiuti della Capitale. SOSTENIBILE Ecopolis cerca soluzioni per una città vivibile 25 Marzo 2011 3 Primo Piano Convegno sulla condizione dei 160 mila Rom in Italia condannati all’esclusione sociale Un pregiudizio che non vuole morire Decisivo anche il ruolo dei media. Testimonianze e possibili rimedi Daniele Serio Presenti in Italia sin dal XV secolo, i Rom costituiscono, per il nostro paese, una storica minoranza linguistica e culturale. Eppure, la legislazione non li riconosce. Diventa, quindi, difficile sviluppare un sistema di tutele e di diritti che possa favorirne l’integrazione sociale. Si tratta di uno dei tanti aspetti emersi nel corso del convegno “NewsRom – Informare senza pregiudizi”, organizzato dall’Associazione Giornalisti Scuola di Perugia nell’ambito della campagna “Dosta” (‘Basta’, in lingua romanès), promossa dal Consiglio d’Europa e coordinata e finanziata dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) del Ministero per le pari opportunità. Innanzitutto, le loro condizioni di vita. Soltanto a Roma, si contano centinaia di campi, la stragrande maggioranza dei quali abusivi. Secondo un rapporto stilato dalla Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, solo sette sono CASTEL ROMANO Uno degli insediamenti autorizzati dal Comune di Roma villaggi autorizzati, ovvero costruiti dal comune e destinati proprio alla loro accoglienza. “Si tratta, comunque, di ghetti etnici- ha detto Marco Brazzoduro, prof. di politiche sociali alla Sapienza di Roma - luoghi di disgregazione che costituiscono una macchia nella coscienza civile del nostro paese. In Italia si fa la lotta ai poveri anziché alla povertà”. I campi, di solito, sono roulotte, container o baracche senza acqua corrente, sistemi fognari, illuminazione e riscaldamento. E le condizioni igienico sanitarie sono molto precarie. A partire da dicembre del 2006, il Comune di Roma ha messo in atto una politica di sgomberi degli insediamenti, senza però offrire valide alternative umanitarie. “Un piano checontinua Brazzoduro- rispecchia la totale ignoranza dell’amministrazione”. Le stime dell’Opera Nomadi contano, in Italia, tra i 150 e i 160 mila Rom, lo 0,2 per cento della popolazione. Il 60 per cento ha meno di 18 anni. I giudizi negativi su di loro sono persistenti e diffusi. Da un sondaggio dell’Eurobarometro, emerge che nella scala di accettazione delle minoranze risultano sempre come i meno popolari. Altra nota dolente, la scuola. “Ho visto bimbi Rom lasciare i campi in cui vivono per salire su pullman con la scritta Rom diretti in classi solo per Rom”, ha raccontato Dijana Pavlovic, attrice e vicepresidente della ‘Federazione Rom e Sinti insieme’. Mi chiedo se sia giusto certificare in questo modo la diversità dei bimbi, se non sia meglio proteggerli dalla diffidenza, creando scuole private per bambini Rom seguiti da professori Rom”, ha detto con un pò di sarcasmo”. Un ruolo importante, a riguardo, dovrebbero giocarlo i media, come ha evidenziato Roberto Natale, segretario della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. “A tutti noi è richiesto di informare senza pregiudizi. Non a caso, la Carta di Roma, è parte integrante della nostra professione”. I giornalisti, dunque, devono essere responsabili di un’informazione corretta e libera dai preconcetti. Una ricerca svela l’economia del cassonetto, un business da 10 milioni l’anno E invece gli “zingari” lavorano Luoghi comuni smentiti da riutilizzo e catering tradizionale Paolo Riva Oltre 500 micro-imprese a conduzione familiare, quasi 2300 addetti e un giro d’affari annuo del valore di 10 milioni di euro. Non male, per un gruppo etnico che, secondo il 92 per cento degli italiani “vive di espedienti e furtarelli”. I dati, infatti, si riferiscono all’economia Rom dell’usato a Roma. E a snocciolarli con grande precisione è Matilde Carabellese, dottoranda all’Orientale di Napoli e presidente della sezione campana dell’associazione Occhio del riciclone. “La gestione della spazzatura nella capitale -spiega- è imperfetta: solo per citare un dato, l’86 per cento dei rifiuti del Lazio finisce in discarica. I Rom, da anni, hanno mostrato la capacità di inserirsi nelle sfasature del sistema e, ad oggi, sono il primo anello del mercato dell’usato cittadino”. D’altronde, chi non ha mai visto uomini e donne con la testa dentro uno dei 45mila cassonetti della capitale alla ricerca di qualcosa in buono stato? Quello che è meno noto, forse, è che questa attività per- 4 25 Marzo 2011 mette ogni anno di recuperare una mole impressionante di materiale. Oltre 30 milioni di oggetti riutilizzabili che, da Porta Portese a via Sannio, finiscono in mercatini e robivecchi e che consentono a molte famiglie Rom di sostentarsi. Secondo i dati della Croce Rossa, su 4900 persone censite, il tasso di disoccupa- sicurezza e devianza, mentre questa ricerca evidenzia anche gli aspetti positivi, economici e ambientali, del loro lavoro”. Così come lo fanno egregiamente il biber meso e la pita, i kola e il baklavà. Sono piatti tipici della ricca cucina Rom che propone il servizio di catering Romano Hapè, promosso da Romà Onlus. “In Spagna siamo 500 micro-imprese per un totale di 2300 addetti in tutta Roma. I Rom sono il primo anello del mercato dell’usato zione supera il 72 per cento, ma in queste cifre “l’economia del cassonetto” non viene considerata. La pratica ha anche alcuni aspetti, quelli spesso più evidenti, insostenibili sia dal punto di vista igienico sanitario che del decoro urbano al punto che nel 2008 la giunta Alemanno propose un’ordinanza anti-rovistaggio. L’associazionismo romano protestò e l’idea venne accantonata, ma l’episodio è indice, secondo Carabellese, “di come dei Rom si pensi sempre in termini di in- famosi per la danza col flamenco, nell’est europeo con la musica, mentre in Italia il nostro popolo non è associato a nulla di positivo. Noi vogliamo provarci con il cibo” spiega il presidente Graziano Halilovic. Da questa intuizione è nato un progetto. “Le ragazze sapevano fare matriciana e carbonara –prosegue Halilovic–, ma conoscevano più le ricette tipiche. Molte di loro, inoltre, hanno intrapreso studi alberghieri e così il progetto è diventato anche un’occasione di emancipazione femminile in una comunità, come quella Rom, troppo spesso maschilista”. Due anni fa il tutto si è concretizzato in un’attività di catering che ha dato lavoro saltuariamente ad una sessantina di donne. Una manna per una comunità che, secondo il rapporto della Commissione del Senato per i Diritti Umani presentato poche settimane fa, vive una “condizione lavorativa problematica a livello nazionale, a causa delle costanti difficoltà di inserimento, della mancanza di qualificazione professionale, della marginalità sociale”. Ma anche del pregiudizio, secondo Paolo Ciani responsabile Rom e Sinti della Comunità di Sant’Egidio. “Quando scrivono i loro curriculum spesso tralasciano gli indirizzi dei campi dove vivono. Devono nascondere la propria origine per trovare lavoro. Abbiamo visto manovali, baby sitter, meccanici e donne delle pulizie avere problemi quando i datori di lavoro hanno scoperto di aver assunto dei Rom. È successo anche il contrario, certo, ma sono casi veramente rari”. TRADIZIONE Una lavoratrice del servizio catering Romano Hapè Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo Primo Piano Nuzzi, autore dell’inchiesta sugli scandali finanziari: “Svolta epocale ma bisogna attendere” Vaticano, addio paradiso (fiscale) Entrano in vigore le norme che lo allineano allo standard internazionale Francesco Salvatore Undicesimo comandamento: non riciclare. Il Vaticano corre ai ripari sulle norme finanziarie e si adegua all’Unione europea. Non saranno le tavole sacre ad essere aggiornate ma il sistema giuridico fiscale della Santa Sede. Dal primo aprile entreranno in vigore le quattro leggi che daranno trasparenza a un sistema che le inchieste giudiziarie e giornalistiche hanno mostrato essere opaco. Termina dunque, almeno sulla carta, il paradiso fiscale della Santa Sede: grazie all’entrata in vigore dell’Autorità di informazione finanziaria, che recepirà le norme internazionali in materia di controllo preventivo sulle operazioni bancarie, l’Istituto per le Opere di Religione, ovvero la banca vaticana, entrerà in quella White list stilata dall’Ocse, che permette l’accesso solo a chi rispetta delle regole di trasparenza finanziaria. La nuova legge riguarderà “ogni soggetto, persona fisica o giuridica, ente ed organismo di qualsivoglia natura, incluse le filiali e le succursali di soggetti esteri”, che svolgono professionalmente un’attività di tipo economico o finanziaria legata al Vaticano o alla Santa Sede. Ci saranno sanzioni fino a dodi- BLINDATO Lo statuto e gli accordi con l’Italia consentono allo Ior una totale indipendenza. Gli uffici non possono essere perquisiti e per qualsiasi informazione è necessaria una rogatoria internazionale ci anni per il riciclaggio e a quindici per reati legati al terrorismo. Ci sarà un controllo costante del denaro contante che entrerà e uscirà dallo Stato. In questo modo il Vaticano si allineerà agli standard internazionali, costituendo un’autorità ad hoc, l’Aif diretta dal cardinale Attilio Nicora, per i controlli antiriciclaggio e antiterrorismo. Tuttavia un passato oscuro fatto di scandali finanziari e un presente in cui lo Ior è al centro di un’inchiesta della procura di Roma, con 23 milioni di euro sequestrati per la presunta violazione delle norme antiri- ciclaggio italiane legittimano degli interrogativi sull’attuazione di queste regole. “Bisogna prendere atto che c’è una linea di riforma, certo bisogna vedere se si seguirà. Io sono in una posizione attendista - ha detto a Reporter Nuovo Gianluigi Nuzzi, autore dell’inchiesta giornalistica Vaticano S.p.A. - Capiremo che le misure funzionano, se l’Aif risponderà quando verrà interpellata da una procura in merito a qualche operazione sospetta. Finora le rogatorie sono sempre state respinte o le autorità vaticane hanno risposto in modo parziale”. Inchieste come quella di Nuzzi, hanno messo in evidenza nel passato un comportamento spregiudicato dei dirigenti della banca vaticana: “Il problema è la struttura dello Ior. Fino all’arrivo di Gotti Tedeschi nel 2009 si poteva aprire un conto e agire da prestanome per qualcun altro. Ed è quello che è stato fatto nella Prima Repubblica quando si sono aperti dei conti vantaggiosi ad alcuni politici italiani in modo non trasparente. Adesso c’è un sistema di autocontrollo interno. Sono stati introdotti dei parametri. Se un piccolo prelato ha del- le movimentazioni incongrue rispetto al suo reddito scatta la segnalazione automatica. Il problema, però, è quando ci si trova davanti un grande cardinale con movimenti bancari più ingenti: è difficile in quel caso che un laico che lavora allo Ior, gli vada a chiedere da dove provengano i soldi. Questo perché in Vaticano il rapporto tra il laico e l’uomo di chiesa è come tra il cancelliere e il giudice in procura”. I passi avanti comunque sono stati fatti: “E’ una svolta epocale. E’ la prima volta che viene introdotta una norma antiriciclaggio nella storia del Vaticano e anche un’unità di controllo conforme alla linea politica voluta da Ratzinger. In un certo senso, però, sono stati costretti dagli eventi. Dopo l’11 settembre la situazione del mercato del denaro è cambiata e il sistema finanziario si è modificato. La comunità internazionale si è attrezzata anche con sistemi di autodenuncia delle operazioni poco trasparenti. La lotta ai paradisi fiscali è diventata più stringente e anche il Vaticano non si è potuto esimere”. Forse, parafrasando Marcinkus, segretario dello Ior coinvolto in diversi scandali del passato, è arrivato il momento che la chiesa si amministri con le Ave Maria. Daniele Serio RIFUGIO Il monte La Rocca, a San Marino. Il piccolo stato è considerato un rifugio sicuro per evasori e capitali illeciti. Oggi, però, rivendica i suoi successi in favore della trasparenza bancaria Diciannove magistrati italiani, di recente, sono finiti nel mirino della Guardia di Finanza con l’accusa di aver dichiarato di risiedere nella Repubblica di San Marino mentre, in realtà, vivono in Italia. Hanno così il vantaggio di omettere il pagamento delle imposte sul reddito. Già, perché la piccola enclave situata all’interno dei confini nostrani, è notoriamente considerata feudo della tassazione agevolata, delle frodi fiscali, di rifugio di capitali e via dicendo. Un vero e proprio paradiso, al pari della Svizzera o di Montecarlo. O, data la sua particolare natura geografica, dello Stato Vaticano. Tecnicamente, un paradiso fiscale è una nazione dove la tassazione non esiste o è molto bassa. Posto ideale per la costituzione di società “fittizie”, a cui poter attribuire profitti di altre società (vere) presentata da alcuni parlamentari del Partito Democratico sullo stato dei rapporti con l’Italia. “I progressi registrati non sono tali da assicurare la trasparenza e la cooperazione necessaria a combattere la criminalità”. Secondo la Viale, “il Titano è sempre più rifugio per i capitali di origine illecita e, da ciò, deriva che sia anche meta per la malavita organizzata”. Dal canto suo, il governo sanmarinese, pur condividendo i timori di infiltrazioni malavitose nel proprio territorio, dichiara di attendere da circa un anno di procedere alla firma di un accordo di collaborazione per la prevenzione e la repressione della criminalità organizzata, “la cui mancata conclusione non è certamente attribuibile al nostro esecutivo”. Reporter nuovo La Repubblica del Titano prova a liberarsi dell’etichetta di rifugio fiscale San Marino chiude agli evasori? per scampare alla tassazione dei paesi di effettiva residenza. Ma anche luogo in cui si garantisce un segreto bancario impenetrabile, consentendo di compiere transazioni coperte, nascoste agli occhi indiscreti del fisco del proprio paese. Ma l’attuale amministrazione cosa starebbe facendo per liberarsi dall’etichetta di regno delle frodi? Una risposta l’aveva data qualche mese fa Antonella Mularoni, segretario agli Este- ri del governo di San Marino, in un’intervista a La Stampa: “Siamo entrati in carica che eravamo nella lista nera dell’Ocse e in due anni abbiamo abolito le società anonime e il segreto bancario, allineandoci agli standard internazionali sulla trasparenza bancaria. Saremmo perfino pronti a firmare due accordi sulla collaborazione tra la nostra polizia e quella italiana e sulla possibilità che gli ispettori di Bankitalia possano entrare negli istituti della Repubblica. Solo che Tremonti sul punto non ci risponde”, aveva detto la Mularoni. Il dato più eloquente, fino ad ora, è il consistente deflusso di capitali verso la repubblica del Titano. Secondo quanto riportato da un recente bollettino della banca centrale di San Marino, il calo sarebbe di almeno il 35 per cento. Che l’impegno di questo piccolo stato contro i reati finanziari si stia facendo sempre più concreto, lo confermano anche fonti vicine all’ambasciata che ha sede in Italia. Nonostante le bocche cucite, dalla rappresentanza, tengano a far sapere che “San Marino non è un paradiso fiscale”, sottolineando che sono in corso delle non meglio precisate “trattative in merito alla regolamentazione del sistema bancario sanmarinese”. Peccato, però, che poche settimane fa era arrivata una sonora bocciatura nei confronti di San Marino da parte di Sonia Viale, sottosegretario italiano all’economia, in risposta ad un’interpellanza 25 Marzo 2011 5 Mondo Amico di Gheddafi al punto da offrirgli ospitalità, è al potere dall’indipendenza. Il paese è in crisi, ma lui ne sfrutta le ricchezze e vive da Re INTERESSI A sinistra, l’immobile che Mugabe avrebbe acquistato a Hong Kong e che rivela i legami tra Harare e Pechino. A destra, lo stesso presidente Dove c’è Mugabe c’è casa Il presidente dello Zimbabwe e le sue residenze da sogno Paolo Riva Nonostante la sorte di Gheddafi sia sempre più incerta, i paesi pronti ad accogliere il dittatore libico, in caso di esilio, non mancano e tra questi lo Zimbabwe di Mugabe è sempre stato in prima fila. E, qualora non riuscisse a scappare insieme alla sua celebre tenda beduina, ad Harare il Colonnello potrebbe trovare una dimora che potrebbe non fargli rimpiangere Tripoli. Il suo amico Robert Mugabe, infatti, con il quale si sospetta abbia una collaborazione foriera di armi e mercenari, pare si sia costruito una residenza tanto lussuosa quanto stridente se confrontata con la disastrosa situazione nella quale versa il paese. Il presidente, in carica da ventiquattro anni, si sarebbe costruito un palazzo del valore di almeno cinque milioni di euro, nel bel mezzo di un paese dove l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. É qui che avrebbe festeggiato nel 2009 il NONOSTANTE TUTTO Verso un nuovo bis (e con la Cina) Arriverà fino allo Zimbabwe l’onda lunga delle rivolte in Medio Oriente? Difficile da stabilire. Di certo Robert Mugabe ha già preso le contromisure per restare in sella. Innanzitutto, ha imprigionato , torturato e poi rilasciato decine di attivisti che avevano organizzato delle riunioni per discutere della primavera araba. Sul fronte politico, invece, il presidente vorrebbe andare alle elezioni a ottobre e rompere così la poco proficua alleanza di governo con la storica opposizione dell’Mdc che, guidata dal premier Morgan Tsvangirai, vorrebbe riformare la costituzione. Una situazione con poche luci e tante ombre. Cinesi. Il quotidiano sudafricano Times, suo ottantacinquesimo compleanno a base di aragoste e champagne, spendendo 250mila dollari mentre i suoi connazionali venivano falcidiati dal colera e la disoccupazione toccava quota 95 per cento. Ma le ricchezze e gli immobili di Mugabe non finiscono qui. E se la villa della ca- infatti, accusa un misterioso uomo d’affari di sovvenzionare i servizi segreti zimbabwesi al fine di mantenere Mugabe al potere attraverso il voto. Il suo nome sarebbe Sam Pa, avrebbe interessi petroliferi e minerari anche in altri stati africani e verrebbe proprio di Hong Kong. Al di là delle indiscrezioni giornalistiche, quel che è certo è che la collaborazione tra Pechino e Harare si fa sempre più stretta, con il ministro degli Esteri Yang Jiechi che, nel corso della sua recente visita, ha promesso 7 milioni di dollari di sovvenzioni. In un paese dove un milione e mezzo di persone ha bisogno di aiuti alimentari a causa della siccità, ce n’è disperato bisogno. P.R. pitale rimane avvolta dal mistero con foto rubate che rivelano uno stile architettonico cinese di dubbio gusto e una serie di mail che spacciavano per autentiche le immagini, in realtà, di una residenza hollywoodiana, maggiori certezze si hanno in merito alla sua residenza di Hong Kong. Il presidente, infatti, secondo il Sunday Times, avrebbe acquistato un edificio di tre piani in un’area esclusiva dell’importante centro economico cinese. E nonostante la residenza non sia poi così sfarzosa (foto in alto) è cruciale per capire i profondi legami tra il regime di Mugabe e la Cina. Secondo indiscrezioni riportate dal britannico Telegraph, il paese del dragone avrebbe sovvenzionato anche la costruzione della villa di Harare. Il gigante asiatico, infatti, non solo si è assicurato nel 2005 un canale preferenziale per sfruttare le ingenti risorse minerarie dello Zimbabwe, ma sarebbe coinvolto anche in un vasto commercio di diamanti provenienti dalla miniera di Marange, recentemente scoperta e divenuta una delle più produttive al mondo. A denunciarlo la Frankfurter Allgemeine Zeitung, secondo cui i diamanti più pregiati arriverebbero sul mercato cinese grazie a una gestione autoritaria della stessa miniera affidata all’esercito, a una rete di funzionari corrotti del partito di Mugabe, all’operato disinvolto della first lady Grace Mugabe e a una sconosciuta holding dietro cui ci sarebbero i servizi segreti di Pechino. La sede della società? Hong Kong, ovviamente. L’esodo di Cuba del 1980 prefigura quanto potrebbe accadere a Lampedusa Gheddafi sulle orme di Fidel Stefano Silvestre ALLARME Il leader libico Gheddafi ha minacciato un’invasione di profughi 6 25 Marzo 2011 Aprile 1980, Cuba. “Chiunque non abbia il cuore per adattarsi allo sforzo e all’eroismo di una rivoluzione, noi non lo vogliamo, non ne abbiamo bisogno”. Con queste parole, Fidel Castro motivò “l’esodo di Mariel”, la partenza di migliaia di cubani diretti in Florida resa celebre dal film Scarface. Una migrazione di massa che trova le sue radici nella politica “delle braccia aperte” promossa dalla gestione Carter a partire dal 1977. Ma la tensione tra i due paesi aumentò esponenzialmente nei tre anni successivi e Castro fu accusato, anche da alcuni articoli del New York Times, di aver riversato di proposito sulle coste ameri- cane migliaia di “indesiderabili”, tra cui malati di mente e pericolosi criminali. Alla fine, i rifugiati arrivati in Florida nei mesi successivi allo sbarco di Mariel saranno oltre 120 mila. Marzo 2011, Libia. “Senza di me, migliaia di migranti sulle coste europee”. Parole che somigliano a quelle di Castro, pronunciate 31 anni dopo da Muhammar Gheddafi. Oggi, con la crisi che avanza in nordafrica, sono più di 5 mila i migranti sbarcati a Lampedusa, quasi quanto la popolazione stessa dell’isola. E in arrivo, secondo il ministero dell’Interno, ci sarebbero altre 40 mila persone. Sistemazione, gestione e riconoscimento degli immigranti, molti dei quali mentono sulla provenienza per assumere lo status di ri- fugiato politico. Trent’anni fa, in Florida, gli immigrati ispanici vennero accusati di aver fatto innalzare il tasso di criminalità e di aver contribuito ad aumentare il tasso di disoccupazione. E oggi in Italia i timori sono gli stessi. Ma i dati svelano una diversa realtà. David Card, professore di Economia a Berkeley, ha infatti notato come gli effetti degli sbarchi di massa sul mercato del lavoro in Florida siano stati marginali se comparati agli altri stati dell’Unione nello stesso periodo e le cifre relative all’incidenza sulla criminalità sono state notevolmente ridimensionate, fino a far assumere alla “paura dell’ispanico” la forma di una psicosi di massa dettata dagli avvenimenti politici dell’epoca. SUPER DIMORE Gli altri maniaci del lusso Mugabe non è il primo né tantomeno l’unico uomo politico a concedersi certi lussi mentre il suo popolo fa la fame. La lista è purtroppo ben nutrita, soprattutto nel continente africano, ma, complici le sollevazioni che di recente stanno attraversando il mondo arabo, gli uomini di potere dei quali si sono scoperte le fortune immobiliari provengono soprattutto dal Maghreb. Il primo a essere caduto pare fosse anche il più esoso. Le proprietà della famiglia dell’ex presidente tunisino Ben Ali, infatti, erano dislocate per mezza Parigi. Senza contare la casa per l’estate in Costa Azzurra e quella per l’inverno sulle Alpi Francesi. In totale, immobili per un valore vicino ai cinque miliardi di dollari. Più “sobria”, invece, la famiglia Mubarak. Gamal, figlio quarantasettenne del presidente Hosni e sicuro candidato alla successione prima della rivoluzione di piazza Tahrir, pare sia fuggito a Londra, Il suo buen retiro nel raffinato quartiere di Knightsbridge sarebbe un palazzo di sei piani in stile georgiano che varrebbe “solamente” 10 milioni di euro. Infine, l’eccezione sovietica. In gennaio un sito russo emule di WikiLeaks, ru.leaks.net, ha mostrato le immagini della reggia di Vladimir Putin sul Mar Nero. Un palazzo in stile italiano, iniziato nel 2005 e completato quattro anni più tardi. Il costo? Vicino al miliardo di dollari. P. R. Reporter nuovo Costume & Società Il dibattito sulle attualizzazioni delle opere teatrali liriche o di prosa. Il parere degli esperti Fedeltà al testo oppure pertinenza Emiliani: «C’è chi esagera». Rita Sala: «Ben vengano se fatte bene» Stefano Petrelli I Vespri siciliani ambientata al tempo di Giovanni Falcone. La rappresentazione dell’opera di Verdi a Torino, realizzata dal regista Davide Livermore, è l’ultimo caso, in ordine di tempo, di operazioni registiche che fanno discutere critica e pubblico. Ma è giusto attualizzare un testo teatrale sia che si tratti di prosa sia che si tratti di opera. Lo abbiamo chiesto a Rita Sala che scrive di Teatro per il Messaggero e a Vittorio Emiliani, che è stato membro del Consiglio di amministrazione dell’Accademia di Santa Cecilia. «Molto spesso queste trasposizioni sono arbitrarie – dice Emiliani Un’opera, la sua musica e il suo libretto nascono in un periodo definito, e quindi sono storicamente legati a quel periodo. Per cui, ambientare la Tosca o il Rigoletto, che sono le opere più vessate, durante l’occupazione nazista, non c’entra nulla con l’opera di Puccini. Tosca è un’opera impregnata di anticlericalismo, e il conflitto fra erotismo e sentimento religioso che emerge si giustifica in quel periodo in cui Puccini ambienta la Tosca. Ci sono melodrammi, come il Guglielmo Tell di Rossini, che forse si prestano di più all’attualizzazione, ma TRADIZIONE Così in un quadro di Hayez i Vespri siciliani ricostruiti nell’epoca storica in cui avvennero ambientare un’opera in un altro tempo e in un altro luogo toglie forza al messaggio politico dell’opera». Secondo Rita Sala, invece, la questione non è scegliere tra tradizione e attualizzazione: «Credo che sia la pertinenza il punto centrale. Esistono attualizzazioni così pertinenti che si autorizzano da sole, altre invece sono assolutamente gratuite e bisognerebbe evitarle. Il regista canadese Robert Carsen, ad esempio, ha fatto delle attualizzazioni ottime. Tra l’al- tro ha realizzato una versione della Traviata ambientata nella Roma pariolina degli anni Settanta. Quello spettacolo, rappresentato per la prima volta al teatro la Fenice di Venezia, era il frutto di un’attualizzazione così giusta che fu apprezzata sia dal pubblico che dalla critica. Quando non c’è nulla di gratuito, e c’è la capacità di mettere in evidenza che un capolavoro musicale scritto nell’Ottocento può essere ambientato e reso plausibile anche nell’attualità, va benissimo». «Si tenta l’attualizzazione per una voglia di innovazione che rischia di far prevalere la regia sulla musica e sul canto – incalza Emiliani - Ho visto un’Italiana in Algeri con la regia di Dario Fo a Pesaro, eccessiva, con mille sovrapposizioni e un Signor Bruschino di Rossini, diretto da Daniele Abbado, in cui il senso dell’opera di Verdi si era perso. Fo faceva cantare la soprano Jennifer Larmore, mentre andava sull’altalena, un’operazione che mette a rischio l’esecuzione. Il regista dovrebbe seguire il testo, perché queste sono macchine teatrali validissime. Giorgio Strehler, che è stato un grande regista anche di melodramma non ha mai fatto queste operazioni, lo stesso vale per Virginio Puencher, Pierluigi Pizzi non ha mai forzato un’opera. Piuttosto che attualizzare, secondo me, è meglio riproporre le opere in forma di concerto. Anche per quanto riguarda il teatro di prosa credo che si sia andati troppo oltre. Attualizzare il teatro di D’Annunzio con quel linguaggio lirico, totalizzante, che è espressione del decadentismo mi sembra un’operazione arbitraria. Anche i testi di Moliére vengono sempre forzati, per non parlare di Shakespeare, rifatto in tutte le salse». «Ci sono anche delle rappresentazioni del tutto atemporali che però riescono a restituire sia il capolavoro musicale sia il significato profondo di un’opera – ribatte Rita Sala – Ben vengano le attualizzazioni se si tratta di rappresentazioni di valore, pertinenti e che hanno buon gusto. L’operazione, però, deve essere funzionale e, nel caso del teatro d’opera, non deve dar fastidio alla musica. Certo, questo non sempre avviene». FOTOGRAMMI Una scena da Come vinsi la guerra di Buster Keaton. A fianco, un fermo immagine del western muto Bucking Broadway di John Ford Giacomo Perra Centoquarantasette film a portata di click, tutti visibili integralmente e, soprattutto, gratuitamente. Dai capolavori del cinema muto fino ad alcune introvabili pellicole tedesche degli anni Sessanta e Settanta. Da uno dei primi film di John Ford, il western muto Bucking Broadway del 1917, a Giorno lunare, del 1975, il racconto, onirico ma appassionato, dei travagli psicologici di un ragazzino, diretto da Haro Senft, uno dei fondatori del Nuovo Cinema Tedesco. È l’inestimabile patrimonio raccolto in Europa film treasures, il primo archivio digitale del cinema europeo e mondiale. Inaugurato il 3 luglio del 2008, il sito ha restituito alla vasta platea dei cinefili di Internet film rarissimi o inediti, con la possibilità di apprezzarli in lingua originale o sottotitolati. Senza alcuna distinzione di genere, dalla Reporter nuovo Su Europa film treasures 147 film introvabili, da John Ford a Buster Keaton In rete rari gioielli d’autore commedia alla fantascienza, dai documentari ai musical, ogni gusto è stato soddisfatto. Per ciascuna pellicola, poi, è consultabile un testo che racconta l’ambiente storico e la trama del film e fornisce informazioni su vita e opere del regista e degli attori principali. I film non si possono scaricare ma si possono visionare in streaming. Il promotore del progetto è il francese Serge Bromberg, produttore cinematografico, conduttore televisi- vo e proprietario della Lobster Films, società che da anni si occupa del restauro di film classici. A sostegno dell’iniziativa ha chiamato in aiuto alcune tra le cineteche più prestigiose del Vecchio Continente: il British Film Institut, la Filmoteca Spagnola di Madrid, gli archivi del Cinema di Praga, l’Institut Lumiere di Lione e tante altre ancora. L’Italia partecipa con la Cineteca del Friuli, la Cineteca di Bologna, la Fondazione Cineteca Italiana di Milano e il Museo Nazionale del Cinema di Torino. In totale hanno aderito al progetto ventotto istituzioni di diciannove paesi, che hanno il compito di selezionare, grazie all’impegno di una squadra di esperti, le pellicole da salvare e di aggiornare periodicamente l’archivio. Un impegno quasi a costo zero, dato che a finanziare l’attività del portale, con un onere che supera il 50 percento dell’investimento totale, è Media 2007, il programma europeo di sostegno al settore audiovisivo. Attivo fino al 2013, è dotato di uno stanziamento di bilancio pari a 755 milioni di euro. Tra le gemme scoperte da Europa film treasures spicca The love nest (Nido d’amore), l’unico film scritto, sceneggiato e diretto interamente da solo da Buster Keaton. La pellicola (del 1927, anno in cui il grande attore e regista statunitense realizzò il suo primo lungometraggio) è una farsa muta in cui si narrano i viaggi e le peripezie per mare di uno scalcinato quanto simpatico navigatore solitario. Imperdibili anche i lavori di Georges Melies, il regista e illusionista francese considerato con i fratelli Lumiere il padre del cinema: a lui si devono, infatti, l’introduzione e la sperimentazione di numerose novità tecniche e narrative come l’esposizione multipla, la dissolvenza e il colore, dipinto a mano direttamente sulla pellicola. Si tratta per la maggior parte di piccolissimi corti, della durata massima di 3-4 minuti minuti, risalenti alla fine dell’Ottocento e alla prima decade del Novecento. Tra questi, Le juif errant, (L’ebreo errante), del 1897, in cui Melies rivisita nel suo inconfondibile stile l’omonima leggenda della mitologia cristiana. 25 Marzo 2011 7 Costume & Società Con la bella stagione le strutture sportive acquistano iscritti preoccupati dalla prova costume È primavera, svegliatevi pigroni Il dottor Antonio Migliaccio: “La palestra? Meglio un corso di ballo” «F orza ragazzi che l’estate è dietro l’angolo!». In realtà Leonardo ripete questa frase ai suoi affaticatissimi allievi da gennaio quando, nonostante la bella stagione fosse ancora lontana, sarebbe stato giusto iniziare ad allenarsi per essere davvero in forma. Ma c’è un esercito di ritardatari che si ricorda della palestra solo a pochi mesi dalla prova costume. E se sono tanti quelli che scelgono un allenamento autonomo, invadendo parchi e piste ciclabili soprattutto nei weekend, è testato che nelle palestre dall’inizio della primavera si verifica un incremento delle iscrizioni. Un rapido giro nelle più grandi strutture sportive della Capitale, infatti, non lascia spazio a dubbi: sono circa il venti per cento in più le persone che decidono di rimettersi in forma quando l’estate si avvicina. Ed ecco che le palestre cittadine si riempiono di questi nuovi arrivati che cominciano, spesso abbastanza impreparati, a fare esercizi con i pesi o la cyclette per perdere più peso possibile e tentare di scolpire un po’ i propri muscoli. Quasi sempre i risultati di queste grandi sudate sono al di sotto delle aspettative, anche perché molto spesso un esercizio fisico limitato a un breve periodo dell’anno non ri- L’ESPERTO Il professor Pietro Antonio Migliaccio. Accanto una vignetta ironizza sul “macho” da palestra solve i problemi legati al sovrappeso. Sembra, infatti, che questi saltuari frequantatori delle palestre abbiano quasi tutti lo stesso vizietto: iscriversi, per poi abbandonare quasi subito. La verità è che il momento in cui pensare al costume andava colto nelle fredde giornate autunnali o per smaltire le abbuffate natalizie. C’è un altro particolare da sottolineare: chi crede che lo stress del peso-forma riguardi solo le ragazze ventenni, fanatiche del fisico da mo- della, sbaglia di grosso. La vanità non è più donna e non è più solo dei giovani. Così nelle palestre si incontrano signore e soprattutto signori di mezza e di terza età, volenterosi di diminuire un po’ quella pancetta che, nonostante i vari detti, sembra essere poco gradita al mondo femminile e viceversa. Ma quanto è utile veramente tutto questo sforzo? E soprattutto, può essere pericoloso? «Il movimento e il dispendio energetico è indispensabile per tutti, specialmente per chi ha bisogno di dimagrire – spiega il professor Pietro Antonio Migliaccio, presidente della Società italiana di scienza dell’alimentazione – Di solito si va in palestra per un’ora, ma considerando il tempo in cui entri, ti spogli, fai dei movimenti, poi fai la doccia e ti rivesti, si perde mezz’ora. Non al posto, ma oltre alla palestra, infatti, è necessario anche camminare almeno 30/40 minuti al giorno. Anche per- ché il dispendio energetico in palestra è difficilmente riscontrabile, mentre l’articolarità, cioè il mettere in moto tutte le articolazioni, può essere veramente positiva». La paura è che una persona che segue una dieta molto stretta possa correre dei rischi frequentado alla stesso tempo assiduamente la palestra. «Quando si fa una dieta equilibrata, corretta e ipocalorica cioè con le giuste calorie rispetto alle necessità – assicura Migliaccio – di solito non succede niente. Quello che io raccomando è di non prendere assolutamente integratori che spesso vengono venduti illegalmente e sotto banco nelle palestre. Se si ha la necessità di prenderne è meglio farlo su consiglio del medico. Un’altra accortezza: un’oretta prima di fare attività sportiva è sempre bene ingerire dei carboidrati. Quaranta grammi di pane con un po’ di marmellata, biscotti, fette biscottate, una merendina, cose rapide che immediatamente ti danno energia. Subito dopo l’attività, invece, è sufficiente bere dell’acqua. Ma vuole sapere qual è il mio vero consiglio? Piuttosto che la palestra è meglio seguire un corso di ballo: unisce dispendio di calorie, socializzazione e il piacere della musica». Viaggio tra gli strani cibi della Roma multietnica. Un paese per ogni quartiere Il gusto di assaggiare altre culture Carne di montone cotta in umido, accompagnata da berberè, un sugo ricco di paprika piccante, e verdure varie. Il tutto servito su uno strato di injerà, una sottile sfoglia molle e tenera fatta con un cereale chiamato tef. Rigorosamente da mangiare con le mani. Stiamo parlando dello zighinì e anche se a leggersi così sembra solo un nome strano non molto invitante, la consistenza è davvero deliziosa. E’ il cibo africano più conosciuto, il piatto nazionale di Etiopia, Somalia e Eritrea. Ma non è necessario raggiungere questi paesi per assaggiarlo. Esiste una Roma multietnica, piena di ristoranti caratteristici dove gustare i piatti più particolari provenienti da tutto il mondo. Sono due i quartieri che pullulano di questi locali: l’Esquilino e il Pigneto. Ma non solo. E’ una multietnicità “a chiazze”, quella culinaria a Roma: a ciascuna zona della città la sua etnia. Termini e dintorni per il cibo africano, Trastevere per il greco, il Pigneto è mediterra- 8 25 Marzo 2011 neo orientale, Prati è cino-giapponese, a Monti si mangia indiano, fino all’Equilino che è un po’ la babele del gusto, oltre che dei popoli. Per continuare con il cibo africano, il miglior ristorante si trova in via Gaeta, vicino alla stazione Termini, appunto. A non spaventare deve essere il cissimo thè insaporito con i chiodi di garofano. Continuando poi verso piazza Fiume si trova il ristorante “Da Alfonso”. Appena entrati si respira subito un’aria particolare: quella dei locali etnici di prima generazione, nati cioè prima della società 2.0 in cui viviamo. Un’atmosfera Termini e dintorni per il cibo africano, Trastevere per il greco, il Pigneto è mediterraneo orientale, a Monti l’indiano piccante. L’antipasto di Kategnà è cucinato con pane injerà, ripieno di sugo piccante al berberé e necessita di un bicchiere d’acqua al seguito. Ma per chi ama i sapori forti è il massimo, come sono ottimi, anche se poco conosciuti, il Gored Gored e il Kitfç: pezzettoni di filetto alla griglia il primo, e una sorta di tartare di ottima carne insaporita dal burro etiope, il secondo. Dopo la grande mangiata, per digerire, un dol- molto calda, quasi familiare. Ai tavoli, infatti, serve lo stesso chef, Ramy, che è il figlio dell’Alfonso che dà il nome al ristorante. Si intrattiene volentieri con i clienti ed è sempre ben disposto a illustrare la genesi di quello che crea. Il suo piatto forte: il cous cous cucinato secondo la tradizione ebraico-orientale, nella fattispecie della comunità ebraica residente in Libia. La formula del ristorante è molto accattivante: con 20 euro si prende un piatto enorme di cous cous, con a parte sia le polpette che il bollito di vitello in salsa verde e poi le verdure, che vanno dalle patate in salsa piccante alle crudité di carote e fagiolini. E per concludere una porzione di dolce accompagnata da un ottimo thé verde del deserto, aromatizzato alla menta e forte come un caffè lungo. Ma anche il cuore del centro storico è ormai abitato da numerosissimi ristoranti la cui cucina è quanto mai lontana dalla classica tradizione romana. Su corso Rinascimento è possibile assaggiare le tipiche empanadas, zuppe vegetariane di zucca, fagioli neri, mais giallo e manioca, i ravioli, i timballi, le insalate o la carne di angus, dolci tipici come il budino di pane al rum e altre specialità dell’Argentina. Ma si mangiano anche cibi eu- Pagina a cura di Irene Pugliese INTEGRAZIONE Ragazzi di diverse nazionalità mostrano i loro piatti multietnici al Festival del cous cous, ogni anno in Italia ropei, tra i vicoli dietro piazza Navona. Dallo spagnolo di via di Tor Millina ai vari ristoranti greci che si incontrano dall’altra parte del Tevere. E se di cibi cinesi, giapponesi, africani e spagnoli se ne è sempre sentito parlare, il quartiere Salario ospita invece una vera stranezza: il ristorante svedese “Bla Kongo”. Caratterizzato da una cucina internazionale, è un sofisticato bistrot, che unisce la cultura scandinava con quella mediterranea e quella indiana. Arredamen- to essenziale e minimalista, menu creativo e appassionante: si va dal savarin di riso basmati con gamberi al salmone alla svedese, dal babacanush allo tzaziki, dalle polpette alla svedese al brie con elisir di Pantelleria e rosmarino. «Un uomo è quello che mangia», diceva Ludwig Feuerbach. E allora, forzando un po’ le parole del grande filosofo tedesco, assaggiare il cibo di un altro paese diventa il primo passo per avvicinarsi e imparare a conoscere le altre culture. Reporter nuovo