Ilpassodoppio della“terzagamba”

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Ilpassodoppio della“terzagamba”
Anno IV - Numero 22
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
25 Marzo 2011
nuovo
Responsabili
Il passo doppio
della “terza gamba”
Rom
Il pregiudizio
non vuole morire
Evasori
Vaticano, addio
paradiso (fiscale)
Palestre
È primavera,
svegliatevi pigroni
QUESTI “VESPRI”
FANNO DISCUTERE
LEGITTIMO ATTUALIZZARE VERDI O SHAKESPEARE? DIVISI I CRITICI
Politica
Il drappello dei Responsabili va all’incasso e si aggiudica il ministero dell’Agricoltura (con riserva)
Il passo doppio della “terza gamba”
Giuseppe Cruciani di Radio 24: “Berlusconi non cadrà per uno Scilipoti”
Tommaso Rodano
In Italia oggi comandano i Responsabili, il drappello di parlamentari che ha cambiato casacca in tempo utile per salvare la legislatura e allungare la vita politica di Silvio Berlusconi. Sono la “terza gamba” del governo, la sua architrave. E ora sono
passati all’incasso.
Il nuovo ministro dell’Agricoltura, nonostante la riserva di Giorgio
Napolitano, si chiama Francesco Saverio Romano, ex Udc, indagato per
mafia e corruzione; è il leader dei Popolari di Italia Domani, uno dei
gruppuscoli che compongono la piccola (29 deputati) ma incredibilmente frammentata galassia “responsabile”.
La politica italiana concede a
chiunque una finestra di notorietà
ben più ampia dei quindici minuti
che aveva profetizzato Andy Warhol.
La nostra vita pubblica si satura delle vicende spicciole degli eroi del sottobosco: il mutuo dell’ex Idv Antonio Razzi, il “Cepu” della finiana pentita Catia Polidori, l’Alleanza di Centro di Francesco Pionati e dell’attrice Debora Caprioglio, ex musa di Tinto Brass.
Ma il più celebre è senz’altro Domenico Scilipoti. Dodici anni di an-
ESULE
Domenico Scilipoti
ha lasciato l’Italia
dei valori dopo
dodici anni di
militanza, pochi
giorni prima della
votazione sulla
fiducia al governo
dello scorso 14
dicembre. Insieme a
Calearo e Cesario
ha costituito il
Movimento di
responsabilità
nazionale
tiberlusconismo militante e battaglie
politiche tra le file dell’Italia dei Valori. L’impegno su tematiche alte:
l’usura bancaria, le medicine non convenzionali, i diritti dei lavoratori, eutanasia e testamento biologico. Fino
all’improvvisa rottura con Di Pietro
(“Non posso rimanere in un partito
che non fa niente per l’agopuntura”,
ipse dixit) e la fulminazione sulla via
di Arcore. Non gli fa difetto un certo senso dell’(avan)spettacolo: dal 14
dicembre, giorno della fiducia al governo (rispondendo alla seconda
chiama, con un colpo di teatro), gli
interventi televisivi e radiofonici del
neo-famoso Scilipoti sono una bomba ad orologeria. Ne sa qualcosa
David Parenzo, giornalista e spalla di
Giuseppe Cruciani ne La Zanzara,
show di punta di Radio 24.
Scilipoti lo ha definito “servo”,
“sciocco”, “senza testa”, “commedia
della vita” e infine, rispolverando nozioni della sua specializzazione in ginecologia e ostetricia, “parto anale”.
“Forse stavolta ha esagerato un
po’”, ammette Cruciani, che pure non
ama sventolare la bandiera del politically correct: “Scilipoti ha un’innegabile capacità dialettica ma perde la
testa piuttosto facilmente”.
Il suo programma radiofonico
mette a nudo queste piccole personalità della politica italiana illuminate
da una fama improvvisa. L’effetto
comico è notevole. Ma al di là di qualsiasi ironia, è proprio a loro che è stato affidato il timone del Parlamento
e il destino del governo. “Non esageriamo”, risponde Cruciani: “Noi li
scegliamo perché ‘funzionano’, fan-
Dopo l’ondata di celebrazioni per i 150 anni, in Parlamento si puntualizza
Italia una, ma tante le diversità
Stefano Silvestre
“Noi fummo da secoli calpesti e derisi, perché non siam
popolo, perché siam divisi”.
Chissà se Goffredo Mameli, al
momento della stesura del
Canto degli italiani, nostro
inno nazionale de facto, sapeva quanto sarebbero state ancora attuali le sue parole a oltre 160 anni di distanza.
Inno nazionale che, forse
pochi lo sanno, di strofe ne
contiene altre quattro e deve
essere particolarmente caro
alla deputata del Pdl Paola
Frassinetti, che presenterà alla
Camera un disegno di legge
che prevede l’insegnamento
dell’inno di Mameli ai bambini delle elementari e medie a
partire dall’inizio del prossimo
anno scolastico. Ma il disegno
di legge ha subito incontrato
degli ostacoli. I primi paletti
sono stati i due emendamenti presentati dalla Lega, notoriamente “allergica” ai simboli dello Stato.
Va’ Pensiero e introduzione
dei simboli territoriali. Queste
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le proposte del Carroccio, che
prevedevano anche l’ingresso
nelle scuole dell’insegnamento della storia dei simboli regionali tra cui i canti popolari tipici. Una spallata a una proposta che, in tempo di celebrazioni per i 150 dell’Unità
d’Italia, sembrava essere fatta
per unire, piuttosto che divi-
doleta di Mayr e Lamberti.
Nelle scuole di Roma e dintorni, i pargoli avrebbero potuto cantare successi come
Arrivederci Roma e Er barcarolo romano. E ancora Calabria,
Campania e Sicilia con Calabresella mia, Funiculì Funiculà
e Sciuri Sciuri. E così via, per
ognuna delle 21 regioni.
La Lega voleva affiancare all’inno
anche l’insegnamento del Va’ Pensiero di Verdi
e i canti tipici regionali
dere continuando a sottolineare le storiche differenze
regionali. E a testimoniarlo
c’era un’adesione praticamente unanime alla Camera, dall’Idv al Pd.
E invece, secondo la Lega a
Milano sarebbe stata formativa, tra una lezione sulle strofe di Mameli e l’altra, l’intonazione di canti come O mia bela
Madunina di Giovanni D’Anzi. A Venezia sarebbe calzata a
pennello La biondina in Gon-
A precisare che non si trattava di una boutade del Carroccio, era stata la capogruppo in commissione per la
Lega Paola Goisis, artefice
tra le altre cose della proposta
di affiancare all’inno di Mameli il Va’ Pensiero di Verdi,
tanto caro al partito del Senatùr. Scherzo o provocazione, alla Frassinetti la proposta
dei canti regionali era sembrata “ragionevole”, anche
perché, a suo dire, probabil-
mente sarebbe servita a convincere la Lega a non votare
alla Camera contro il ddl “canoro”.
Niente da fare: gli emendamenti del Carroccio sono affondati in Commissione Cultura e ora la proposta della
Frassinetti proseguirà il suo iter
alla Camera senza altre modifiche. Sempre a patto che la
Lega non alzi ulteriori barricate, come ha detto sibillina
Paola Goisis: “La proposta rischia di morire in Commissione, così si eviteranno fratture nella maggioranza alla
Camera. Insomma la Lega di
“stringersi a coorte”, in questo
caso, non ne vuole proprio sapere.
Il tutto in un momento
non troppo felice per i nostri
simboli nazionali, almeno in
Parlamento. Negli ultimi giorni la maggioranza ha infatti incassato una sconfitta sul decreto legge sull’istituzione del
17 marzo come festa dell’Unità
d’Italia negli anni a venire,
che quindi resterà una tantum
solo per quest’anno.
no spettacolo. E in fondo la politica
è anche questo: promesse, tradimenti, operazioni di piccolo cabotaggio. Ma sostenere che la legislatura
dipenda dagli Scilipoti di turno è una
semplificazione, una forzatura giornalistica. La responsabilità dell’esistenza dei responsabili, se mi passi il
gioco di parole, è soprattutto di chi
dovrebbe rappresentare l’alternativa
a Berlusconi”. A cominciare da Antonio Di Pietro: “Non può essere un
caso”, sostiene Cruciani, “se in un piccolo partito come l’Idv così tanti deputati se ne vadano sbattendo la
porta: Scilipoti non è il primo, né l’ultimo. Questo chiama in causa chi li
ha reclutati, inserendoli nelle liste elettorali”.
Non sarà anche ‘merito’ di chi li lusinga, magari offrendo incarichi e rielezioni? Cruciani non demorde: “Le
promesse politiche sono scritte sull’acqua e bastano pochi secondi a tradirle”. Con il rischio, però, di ‘indebitarsi’ politicamente, se non si accontentano tutte le richieste di chi ha
cambiato casacca. “Alla fine una
quadra si troverà”, conclude. “Non
penso che Berlusconi si faccia ingabbiare da personaggi politicamente irrilevanti. Prodi è caduto per Turigliatto, Berlusconi non cadrà per Scilipoti”.
INNI NAZIONALI, QUESTI SCONOSCIUTI
Tra invettive e canti di guerra
a Madrid invece non c’è testo
■ FRANCIA Composta da Claude Joseph Rouget de Lisle nel
1792 dopo la dichiarazione di guerra della Francia all’Austria, la Marsigliese è un inno cruento, un vero canto di guerra. Significativi i versi che del ritornello: “Alle armi, cittadini! Formate i vostri battaglioni! Marciamo, marciamo, che
un sangue impuro bagni i nostri solchi!”.
■ GERMANIA Oggi viene intonata solo l’ultima strofa del Canto dei tedeschi. Dopo la seconda guerra mondiale non è più
usata la prima, celebre per il Deutschland Uber Alles. I versi incriminati recitavano: “Germania, Germania sopra tutto nel mondo”.
■ SPAGNA La Marcha Real non ha un testo ufficiale, che in
passato era redatto a seconda del re in carica nel paese.
Introdotto nuovamente dopo la morte di Francisco Franco
nel 1975, che lo aveva sostituito con lo Himno de Riego,
nel 2008 è fallito un tentativo di stesura di un nuovo testo.
■ STATI UNITI The Star-spangled Banner, la bandiera “adorna di stelle” è l’inno nazionale statunitense dal 1931. Come
la Marsigliese, è un canto ricco di riferimenti bellici, come
testimonia la strofa “il sangue della compagnia che voleva
privarci della casa e dalla nazione (riferimento agli inglesi)
ha cancellato la contaminazione delle loro impronte”.
■ GIAPPONE L’inno nazionale giapponese, il Kimi ga yo, il
regno del nostro Imperatore, trae origine da una poesia periodo Heian, nel XII secolo. È molto breve ma significativo,
un augurio di vita eterna all’imperatore: “Possa il Vostro regno durare mille, ottomila generazioni, finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio”.
S. S.
Reporter
nuovo
Economia
Grandi gestori a confronto per ridurre il digital divide in Italia: conclusione unanime
Senza fibra ottica la rete soffoca
Ci restano nove anni per attuare la direttiva europea per potenziarla
Francesco Salvatore
Se la rete è occupata dal passaggio di un video di Youtube è difficile che si possa scaricare una cartella clinica, che ci si connetta in videoconferenza o che addirittura ci si
serva del cloud computing, una tecnologia che permette di utilizzare i
computer in remoto. La scarsità
della risorse è sempre stato un problema delle società sviluppate: adesso la necessità dell’uomo moderno
è l’informazione. Avere un maggior
afflusso di dati per poter comunicare con più efficacia e velocità. Il problema diffuso in Italia, però, è che
alla maggiore necessità di comunicazione non è connessa un’infrastruttura tale da supportare il traffico generato. L’Italia è attraversata da
un’autostrada di rame che collega
tutto il Paese e permette una diffusione dei dati insufficiente a sostenere uno sviluppo che solo la banda larga può dare: “La fibra è fondamentale per tutte le aziende e servono investimenti per implementarla” è questo il concetto cardine
dell’Avaya Forum 2011 sulla sostenibilità della rete e i nuovi modelli
di business.
La discussione ha coinvolto diversi esponenti del mondo politico,
FUTURO
L’Unione europea
ha stabilito che
entro il 2020 tutti
dovranno
avere una
connessione in
banda larga a 30
Mbit al secondo
dell’amministrazione pubblica e del
mondo delle comunicazioni che
hanno concordato sulla necessità di
migliorare il passaggio delle informazioni digitali in vista del 2020,
anno in cui, secondo una direttiva
europea, il digital divide sarà ridotto: tutte le famiglie dovranno avere
un contratto internet a 30 Megabit
al secondo e il 50 per cento delle stesse dovrà possedere una connessione a 100 Megabit al secondo: dati che
paragonati ai 20 Megabit forniti
dall’unico operatore che lavora oggi
in fibra ottica fanno sorridere.
Tuttavia, il progetto di rinnovare
la rete informatica, non è di semplice
attuazione perché ha costi ingenti.
Inoltre è da stabilire quali soggetti,
pubblici e privati, se ne faranno carico. Ciò che è chiaro è che una maggiore domanda di informazione non
è supportata da una capacità d’investimento adeguata degli operatori di comunicazione: ovvero, le bollette telefoniche che pagano gli
utenti oggi, non permettono agli operatori privati di accollarsi un investimento che tornerà solo dopo diversi anni.
“Per fare la banda larga ci vogliono degli investimenti che vengono recuperati solo dopo otto anni
- ha detto il vice direttore di Wind,
Romano Giulietti - in Italia ci deve
essere la possibilità di coinvestire insieme allo Stato o a soggetti privati.
Inoltre è necessario rendere possibile
uno switch off, perché al momento
solo Telecom può garantire un investimento che ritorni subito”. Telecom, infatti, è l’operatore che possiede le infrastrutture su cui corrono tutti i dati delle nostre connessioni
Adsl e rappresenta l’asset fondamentale dell’azienda: “Le reti vanno
fatte al minimo prezzo possibile finale - ha detto il responsabile delle
Reti Telecom Stefano Nocentini - perché poi i costi vanno a carico degli
utenti finali. Ciò che fondamentale,
è che vanno fatte da chi le sa fare”.
Si focalizza su un altro punto Nicola D’Angelo, consigliere dell’Autorità Garante per le comunicazioni:
“In primis si deve capire quale deve
essere il ruolo del settore pubblico per
aumentare gli investimenti. Poi definire quanta fibra ottica attualmente esiste in Italia e in fine ci si deve
affidare alle regole, cioè lasciare libero
spazio alla concorrenza e garantire la
competizione”. Roberto Sambuco,
capo dipartimento Telecomunicazione del Ministero dello sviluppo
economico ha una soluzione: “Va
creato un meccanismo industriale e
finanziario per sinergizzare tutte le risorse per investire nella fibra ottica.
Lo Stato può costruire le infrastrutture con questi soldi e poi dopo che
la rete è stata fatta, si può ritornare
al mercato e a chi può gestirla”.
Alla Fiera di Roma si fa il punto sulla vivibilità dei nostri agglomerati urbani
Idee e utopie per salvare le città
Tommaso Rodano
Una porta sul futuro delle
nostre città: Ecopolis è l’expo
& conference organizzata da
Camera di commercio e Fiera di Roma che da tre anni
rappresenta un punto di riferimento per sviluppare proposte e ipotesi di una crescita sostenibile delle aree urbane. L’obiettivo di fondo è ripensare la vita nella polis nel
suo complesso e indicare la
via, se non per la “città ideale”, almeno per una città migliore e vivibile.
Nel 2030 in tutto il mondo 8 miliardi di persone vivranno nelle aree metropolitane: “Non è possibile pensare il futuro delle città”, come
ha sottolineato Pino Tripaldi,
responsabile scientifico di
Ecopolis, “senza stabilire criteri vincolanti di sostenibilità urbanistica, sociale e ambientale”. La “città che vive”
è stata discussa in una tavola
rotonda durante la quale sono
state illustrate le conclusioni
di quattro ricerche, coordinate
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da Retecamere, che hanno declinato un’unica visione di
trasformazione sostenibile
delle città, partendo dalle
priorità, i due obiettivi più urgenti: energia e mobilità sono
le leve fondamentali su cui
agire per delineare uno sviluppo urbano virtuoso. Sono
soprattutto le nuove genera-
Ma il modello di sviluppo
che viene proposto nelle relazioni di Claudio Cipollini,
Lorenzo Bellicini, Carlo Cecere, Enzo Risso e Andrea
Granelli non pare avere punti di contatto con la logora polis contemporanea, o almeno
sembra dimenticare la profondità dei problemi che la af-
“Si è parlato tanto di pianificazione,
ma le questioni vanno risolte subito. Il problema
non è oggi, è ieri”
zioni a reclamare città diverse. Swg ha realizzato una ricerca online, coinvolgendo
un campione di giovani in
una web-discussion su come
immaginano e desiderano il
futuro delle metropoli: centri
urbani armonici, al servizio
delle persone, innovativi e
funzionali, pieni di verde e
tecnologia. La città del futuro è “vivace, godibile, frequentata, gioiosa, accogliente”.
fliggono. Ecopolis propone
soluzioni attuabili che però rischiano di scivolare in un
racconto utopico di sviluppo
armonico delle aree urbane.
La crescita sostenibile, la promozione della coscienza civica
e della consapevolezza del
cittadino, il pieno sfruttamento delle potenzialità del
progresso tecnologico possono e devono essere i vettori su cui costruire il futuro delle nostre città. Ma sono ter-
mini che rischiano di suonare vuoti se applicati alle immagini concrete dei nostri
paesaggi urbani. Lo afferma
chiaramente Alejandro Gutierrez, architetto cileno che
ha lavorato in mezzo mondo,
prima di mettere radici in
Italia: “Qui si è parlato tanto
di pianificazione per la città
del futuro, ma le questioni
cruciali vanno risolte adesso.
L’Italia è già da tempo fuori dai
livelli di competitività europea. Il problema non è domani. Il problema è ieri”.
Dalla “città che vive” tratteggiata da Ecopolis sono rimasti fuori i problemi cronici, quotidiani delle nostre
metropoli. Prima di pianificare il futuro bisognerebbe
essere in grado di gestire
l’ordinaria amministrazione.
E le fotografie delle città italiane oggi vanno scattate alle
strade di Napoli nascoste
dalla spazzatura, ai palazzi
delle borgate, alla discarica
più grande e più satura d’Europa che smaltisce i rifiuti
della Capitale.
SOSTENIBILE Ecopolis cerca soluzioni per una città vivibile
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Primo Piano
Convegno sulla condizione dei 160 mila Rom in Italia condannati all’esclusione sociale
Un pregiudizio che non vuole morire
Decisivo anche il ruolo dei media. Testimonianze e possibili rimedi
Daniele Serio
Presenti in Italia sin dal XV secolo, i Rom costituiscono, per il nostro
paese, una storica minoranza linguistica e culturale. Eppure, la legislazione non li riconosce. Diventa,
quindi, difficile sviluppare un sistema di tutele e di diritti che possa favorirne l’integrazione sociale. Si tratta di uno dei tanti aspetti emersi nel
corso del convegno “NewsRom – Informare senza pregiudizi”, organizzato dall’Associazione Giornalisti
Scuola di Perugia nell’ambito della
campagna “Dosta” (‘Basta’, in lingua
romanès), promossa dal Consiglio
d’Europa e coordinata e finanziata dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) del Ministero per
le pari opportunità.
Innanzitutto, le loro condizioni di
vita. Soltanto a Roma, si contano centinaia di campi, la stragrande maggioranza dei quali abusivi. Secondo
un rapporto stilato dalla Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato, solo sette sono
CASTEL ROMANO Uno degli insediamenti autorizzati dal Comune di Roma
villaggi autorizzati, ovvero costruiti
dal comune e destinati proprio alla
loro accoglienza. “Si tratta, comunque, di ghetti etnici- ha detto Marco
Brazzoduro, prof. di politiche sociali alla Sapienza di Roma - luoghi di
disgregazione che costituiscono una
macchia nella coscienza civile del nostro paese. In Italia si fa la lotta ai poveri anziché alla povertà”. I campi, di
solito, sono roulotte, container o
baracche senza acqua corrente, sistemi fognari, illuminazione e riscaldamento. E le condizioni igienico sanitarie sono molto precarie.
A partire da dicembre del 2006, il
Comune di Roma ha messo in atto
una politica di sgomberi degli insediamenti, senza però offrire valide alternative umanitarie. “Un piano checontinua Brazzoduro- rispecchia la totale ignoranza dell’amministrazione”. Le stime dell’Opera Nomadi
contano, in Italia, tra i 150 e i 160 mila
Rom, lo 0,2 per cento della popolazione. Il 60 per cento ha meno di 18
anni. I giudizi negativi su di loro sono
persistenti e diffusi. Da un sondaggio
dell’Eurobarometro, emerge che nella scala di accettazione delle minoranze risultano sempre come i meno
popolari. Altra nota dolente, la scuola. “Ho visto bimbi Rom lasciare i
campi in cui vivono per salire su pullman con la scritta Rom diretti in classi solo per Rom”, ha raccontato Dijana Pavlovic, attrice e vicepresidente della ‘Federazione Rom e Sinti insieme’. Mi chiedo se sia giusto certificare in questo modo la diversità dei
bimbi, se non sia meglio proteggerli dalla diffidenza, creando scuole private per bambini Rom seguiti da professori Rom”, ha detto con un pò di
sarcasmo”. Un ruolo importante, a
riguardo, dovrebbero giocarlo i media, come ha evidenziato Roberto Natale, segretario della Federazione
Nazionale della Stampa Italiana. “A
tutti noi è richiesto di informare
senza pregiudizi. Non a caso, la Carta di Roma, è parte integrante della
nostra professione”. I giornalisti,
dunque, devono essere responsabili
di un’informazione corretta e libera
dai preconcetti.
Una ricerca svela l’economia del cassonetto, un business da 10 milioni l’anno
E invece gli “zingari” lavorano
Luoghi comuni smentiti da riutilizzo e catering tradizionale
Paolo Riva
Oltre 500 micro-imprese a
conduzione familiare, quasi
2300 addetti e un giro d’affari
annuo del valore di 10 milioni di euro. Non male, per un
gruppo etnico che, secondo il
92 per cento degli italiani “vive
di espedienti e furtarelli”. I
dati, infatti, si riferiscono all’economia Rom dell’usato a
Roma. E a snocciolarli con
grande precisione è Matilde Carabellese, dottoranda all’Orientale di Napoli e presidente della sezione campana
dell’associazione Occhio del
riciclone. “La gestione della
spazzatura nella capitale -spiega- è imperfetta: solo per citare un dato, l’86 per cento dei rifiuti del Lazio finisce in discarica. I Rom, da anni, hanno
mostrato la capacità di inserirsi
nelle sfasature del sistema e, ad
oggi, sono il primo anello del
mercato dell’usato cittadino”.
D’altronde, chi non ha mai
visto uomini e donne con la testa dentro uno dei 45mila cassonetti della capitale alla ricerca
di qualcosa in buono stato?
Quello che è meno noto, forse, è che questa attività per-
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mette ogni anno di recuperare
una mole impressionante di
materiale. Oltre 30 milioni di
oggetti riutilizzabili che, da
Porta Portese a via Sannio, finiscono in mercatini e robivecchi e che consentono a
molte famiglie Rom di sostentarsi. Secondo i dati della Croce Rossa, su 4900 persone
censite, il tasso di disoccupa-
sicurezza e devianza, mentre
questa ricerca evidenzia anche
gli aspetti positivi, economici e
ambientali, del loro lavoro”.
Così come lo fanno egregiamente il biber meso e la pita, i
kola e il baklavà. Sono piatti tipici della ricca cucina Rom che
propone il servizio di catering
Romano Hapè, promosso da
Romà Onlus. “In Spagna siamo
500 micro-imprese per un totale
di 2300 addetti in tutta Roma. I Rom sono
il primo anello del mercato dell’usato
zione supera il 72 per cento, ma
in queste cifre “l’economia del
cassonetto” non viene considerata. La pratica ha anche alcuni aspetti, quelli spesso più
evidenti, insostenibili sia dal
punto di vista igienico sanitario che del decoro urbano al
punto che nel 2008 la giunta
Alemanno propose un’ordinanza anti-rovistaggio. L’associazionismo romano protestò e
l’idea venne accantonata, ma
l’episodio è indice, secondo
Carabellese, “di come dei Rom
si pensi sempre in termini di in-
famosi per la danza col flamenco, nell’est europeo con la
musica, mentre in Italia il nostro popolo non è associato a
nulla di positivo. Noi vogliamo
provarci con il cibo” spiega il
presidente Graziano Halilovic. Da questa intuizione è
nato un progetto. “Le ragazze
sapevano fare matriciana e carbonara –prosegue Halilovic–,
ma conoscevano più le ricette
tipiche. Molte di loro, inoltre,
hanno intrapreso studi alberghieri e così il progetto è diventato anche un’occasione di
emancipazione femminile in
una comunità, come quella
Rom, troppo spesso maschilista”. Due anni fa il tutto si è
concretizzato in un’attività di
catering che ha dato lavoro saltuariamente ad una sessantina
di donne. Una manna per una
comunità che, secondo il rapporto della Commissione del
Senato per i Diritti Umani presentato poche settimane fa,
vive una “condizione lavorativa problematica a livello nazionale, a causa delle costanti
difficoltà di inserimento, della mancanza di qualificazione
professionale, della marginalità sociale”. Ma anche del pregiudizio, secondo Paolo Ciani
responsabile Rom e Sinti della Comunità di Sant’Egidio.
“Quando scrivono i loro
curriculum spesso tralasciano
gli indirizzi dei campi dove vivono. Devono nascondere la
propria origine per trovare lavoro. Abbiamo visto manovali, baby sitter, meccanici e donne delle pulizie avere problemi
quando i datori di lavoro hanno scoperto di aver assunto dei
Rom. È successo anche il contrario, certo, ma sono casi veramente rari”.
TRADIZIONE Una lavoratrice del servizio catering Romano Hapè
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Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini”
della LUISS Guido Carli
Direttore responsabile
Roberto Cotroneo
Comitato di direzione
Sandro Acciari, Alberto Giuliani,
Sandro Marucci
Direzione e redazione
Viale Pola, 12 - 00198 Roma
tel. 0685225558 - 0685225544
fax 0685225515
Stampa
Centro riproduzione dell’Università
Amministrazione
Università LUISS Guido Carli
viale Pola, 12 - 00198 Roma
Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008
[email protected]
!
www.luiss.it/giornalismo
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Primo Piano
Nuzzi, autore dell’inchiesta sugli scandali finanziari: “Svolta epocale ma bisogna attendere”
Vaticano, addio paradiso (fiscale)
Entrano in vigore le norme che lo allineano allo standard internazionale
Francesco Salvatore
Undicesimo comandamento: non
riciclare. Il Vaticano corre ai ripari sulle norme finanziarie e si adegua all’Unione europea. Non saranno le tavole sacre ad essere aggiornate ma il
sistema giuridico fiscale della Santa
Sede. Dal primo aprile entreranno in
vigore le quattro leggi che daranno
trasparenza a un sistema che le inchieste giudiziarie e giornalistiche
hanno mostrato essere opaco. Termina dunque, almeno sulla carta, il
paradiso fiscale della Santa Sede:
grazie all’entrata in vigore dell’Autorità di informazione finanziaria, che
recepirà le norme internazionali in
materia di controllo preventivo sulle operazioni bancarie, l’Istituto per
le Opere di Religione, ovvero la banca vaticana, entrerà in quella White
list stilata dall’Ocse, che permette l’accesso solo a chi rispetta delle regole
di trasparenza finanziaria.
La nuova legge riguarderà “ogni
soggetto, persona fisica o giuridica,
ente ed organismo di qualsivoglia natura, incluse le filiali e le succursali
di soggetti esteri”, che svolgono professionalmente un’attività di tipo
economico o finanziaria legata al
Vaticano o alla Santa Sede.
Ci saranno sanzioni fino a dodi-
BLINDATO
Lo statuto
e gli accordi con
l’Italia consentono
allo Ior una totale
indipendenza.
Gli uffici
non possono
essere perquisiti e
per qualsiasi
informazione
è necessaria
una rogatoria
internazionale
ci anni per il riciclaggio e a quindici
per reati legati al terrorismo. Ci sarà
un controllo costante del denaro
contante che entrerà e uscirà dallo
Stato. In questo modo il Vaticano si
allineerà agli standard internazionali, costituendo un’autorità ad hoc, l’Aif
diretta dal cardinale Attilio Nicora, per
i controlli antiriciclaggio e antiterrorismo. Tuttavia un passato oscuro fatto di scandali finanziari e un presente
in cui lo Ior è al centro di un’inchiesta della procura di Roma, con 23 milioni di euro sequestrati per la presunta violazione delle norme antiri-
ciclaggio italiane legittimano degli interrogativi sull’attuazione di queste regole. “Bisogna prendere atto che c’è
una linea di riforma, certo bisogna vedere se si seguirà. Io sono in una posizione attendista - ha detto a Reporter
Nuovo Gianluigi Nuzzi, autore dell’inchiesta giornalistica Vaticano
S.p.A. - Capiremo che le misure
funzionano, se l’Aif risponderà quando verrà interpellata da una procura
in merito a qualche operazione sospetta. Finora le rogatorie sono sempre state respinte o le autorità vaticane
hanno risposto in modo parziale”.
Inchieste come quella di Nuzzi,
hanno messo in evidenza nel passato un comportamento spregiudicato
dei dirigenti della banca vaticana: “Il
problema è la struttura dello Ior. Fino
all’arrivo di Gotti Tedeschi nel 2009
si poteva aprire un conto e agire da
prestanome per qualcun altro. Ed è
quello che è stato fatto nella Prima Repubblica quando si sono aperti dei
conti vantaggiosi ad alcuni politici italiani in modo non trasparente. Adesso c’è un sistema di autocontrollo interno. Sono stati introdotti dei parametri. Se un piccolo prelato ha del-
le movimentazioni incongrue rispetto al suo reddito scatta la segnalazione automatica. Il problema,
però, è quando ci si trova davanti un
grande cardinale con movimenti
bancari più ingenti: è difficile in
quel caso che un laico che lavora allo
Ior, gli vada a chiedere da dove provengano i soldi. Questo perché in Vaticano il rapporto tra il laico e l’uomo
di chiesa è come tra il cancelliere e il
giudice in procura”.
I passi avanti comunque sono
stati fatti: “E’ una svolta epocale. E’ la
prima volta che viene introdotta una
norma antiriciclaggio nella storia
del Vaticano e anche un’unità di
controllo conforme alla linea politica voluta da Ratzinger. In un certo
senso, però, sono stati costretti dagli
eventi. Dopo l’11 settembre la situazione del mercato del denaro è cambiata e il sistema finanziario si è modificato. La comunità internazionale si è attrezzata anche con sistemi di
autodenuncia delle operazioni poco
trasparenti. La lotta ai paradisi fiscali è diventata più stringente e anche
il Vaticano non si è potuto esimere”.
Forse, parafrasando Marcinkus, segretario dello Ior coinvolto in diversi scandali del passato, è arrivato il
momento che la chiesa si amministri
con le Ave Maria.
Daniele Serio
RIFUGIO
Il monte La Rocca, a San
Marino. Il piccolo stato è
considerato un rifugio sicuro
per evasori e capitali illeciti.
Oggi, però, rivendica i suoi
successi in favore della
trasparenza bancaria
Diciannove magistrati italiani, di recente, sono finiti nel
mirino della Guardia di Finanza con l’accusa di aver dichiarato di risiedere nella Repubblica di San Marino mentre, in realtà, vivono in Italia.
Hanno così il vantaggio di
omettere il pagamento delle
imposte sul reddito.
Già, perché la piccola enclave situata all’interno dei
confini nostrani, è notoriamente considerata feudo della tassazione agevolata, delle
frodi fiscali, di rifugio di capitali e via dicendo. Un vero
e proprio paradiso, al pari della Svizzera o di Montecarlo. O,
data la sua particolare natura
geografica, dello Stato Vaticano.
Tecnicamente, un paradiso fiscale è una nazione dove
la tassazione non esiste o è
molto bassa. Posto ideale per
la costituzione di società “fittizie”, a cui poter attribuire
profitti di altre società (vere)
presentata da alcuni parlamentari del Partito Democratico sullo stato dei rapporti
con l’Italia. “I progressi registrati non sono tali da assicurare la trasparenza e la cooperazione necessaria a combattere la criminalità”. Secondo la Viale, “il Titano è
sempre più rifugio per i capitali di origine illecita e, da ciò,
deriva che sia anche meta
per la malavita organizzata”.
Dal canto suo, il governo
sanmarinese, pur condividendo i timori di infiltrazioni malavitose nel proprio territorio, dichiara di attendere
da circa un anno di procedere alla firma di un accordo di
collaborazione per la prevenzione e la repressione della criminalità organizzata, “la cui
mancata conclusione non è
certamente attribuibile al nostro esecutivo”.
Reporter
nuovo
La Repubblica del Titano prova a liberarsi dell’etichetta di rifugio fiscale
San Marino chiude agli evasori?
per scampare alla tassazione
dei paesi di effettiva residenza.
Ma anche luogo in cui si
garantisce un segreto bancario impenetrabile, consentendo di compiere transazioni coperte, nascoste agli occhi
indiscreti del fisco del proprio
paese.
Ma l’attuale amministrazione cosa starebbe facendo
per liberarsi dall’etichetta di
regno delle frodi?
Una risposta l’aveva data
qualche mese fa Antonella
Mularoni, segretario agli Este-
ri del governo di San Marino,
in un’intervista a La Stampa:
“Siamo entrati in carica che
eravamo nella lista nera dell’Ocse e in due anni abbiamo
abolito le società anonime e il
segreto bancario, allineandoci agli standard internazionali sulla trasparenza bancaria.
Saremmo perfino pronti a firmare due accordi sulla collaborazione tra la nostra polizia
e quella italiana e sulla possibilità che gli ispettori di Bankitalia possano entrare negli
istituti della Repubblica. Solo
che Tremonti sul punto non
ci risponde”, aveva detto la
Mularoni.
Il dato più eloquente, fino
ad ora, è il consistente deflusso di capitali verso la repubblica del Titano. Secondo
quanto riportato da un recente bollettino della banca
centrale di San Marino, il
calo sarebbe di almeno il 35
per cento.
Che l’impegno di questo
piccolo stato contro i reati finanziari si stia facendo sempre più concreto, lo confermano anche fonti vicine all’ambasciata che ha sede in
Italia. Nonostante le bocche
cucite, dalla rappresentanza,
tengano a far sapere che “San
Marino non è un paradiso fiscale”, sottolineando che sono
in corso delle non meglio
precisate “trattative in merito
alla regolamentazione del sistema bancario sanmarinese”.
Peccato, però, che poche
settimane fa era arrivata una
sonora bocciatura nei confronti di San Marino da parte di Sonia Viale, sottosegretario italiano all’economia, in
risposta ad un’interpellanza
25 Marzo 2011
5
Mondo
Amico di Gheddafi
al punto
da offrirgli
ospitalità,
è al potere
dall’indipendenza.
Il paese è in crisi,
ma lui ne sfrutta
le ricchezze
e vive da Re
INTERESSI A sinistra, l’immobile che Mugabe avrebbe acquistato a Hong Kong e che rivela i legami tra Harare e Pechino. A destra, lo stesso presidente
Dove c’è Mugabe c’è casa
Il presidente dello Zimbabwe e le sue residenze da sogno
Paolo Riva
Nonostante la sorte di
Gheddafi sia sempre più incerta, i paesi pronti ad accogliere il dittatore libico, in
caso di esilio, non mancano e
tra questi lo Zimbabwe di
Mugabe è sempre stato in prima fila. E, qualora non riuscisse a scappare insieme alla
sua celebre tenda beduina, ad
Harare il Colonnello potrebbe
trovare una dimora che potrebbe non fargli rimpiangere
Tripoli. Il suo amico Robert
Mugabe, infatti, con il quale si
sospetta abbia una collaborazione foriera di armi e mercenari, pare si sia costruito una
residenza tanto lussuosa quanto stridente se confrontata con
la disastrosa situazione nella
quale versa il paese.
Il presidente, in carica da
ventiquattro anni, si sarebbe
costruito un palazzo del valore di almeno cinque milioni di
euro, nel bel mezzo di un
paese dove l’80 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. É qui che
avrebbe festeggiato nel 2009 il
NONOSTANTE TUTTO
Verso un nuovo bis (e con la Cina)
Arriverà fino allo Zimbabwe l’onda lunga delle rivolte in Medio Oriente? Difficile
da stabilire. Di certo Robert Mugabe ha già
preso le contromisure per restare in sella. Innanzitutto, ha imprigionato , torturato e poi
rilasciato decine di attivisti che avevano organizzato delle riunioni per discutere della primavera araba. Sul fronte politico, invece, il presidente vorrebbe andare alle
elezioni a ottobre e rompere così la poco proficua alleanza di governo con la storica opposizione dell’Mdc che, guidata dal premier
Morgan Tsvangirai, vorrebbe riformare la costituzione.
Una situazione con poche luci e tante ombre. Cinesi. Il quotidiano sudafricano Times,
suo ottantacinquesimo compleanno a base di aragoste e
champagne,
spendendo
250mila dollari mentre i suoi
connazionali venivano falcidiati dal colera e la disoccupazione toccava quota 95 per
cento. Ma le ricchezze e gli immobili di Mugabe non finiscono qui. E se la villa della ca-
infatti, accusa un misterioso uomo d’affari
di sovvenzionare i servizi segreti zimbabwesi
al fine di mantenere Mugabe al potere attraverso il voto. Il suo nome sarebbe Sam Pa,
avrebbe interessi petroliferi e minerari anche in altri stati africani e verrebbe proprio
di Hong Kong. Al di là delle indiscrezioni
giornalistiche, quel che è certo è che la collaborazione tra Pechino e Harare si fa sempre più stretta, con il ministro degli Esteri
Yang Jiechi che, nel corso della sua recente visita, ha promesso 7 milioni di dollari di
sovvenzioni. In un paese dove un milione
e mezzo di persone ha bisogno di aiuti alimentari a causa della siccità, ce n’è disperato
bisogno.
P.R.
pitale rimane avvolta dal mistero con foto rubate che rivelano uno stile architettonico cinese di dubbio gusto e
una serie di mail che spacciavano per autentiche le immagini, in realtà, di una residenza hollywoodiana, maggiori
certezze si hanno in merito alla
sua residenza di Hong Kong.
Il presidente, infatti, secondo il Sunday Times, avrebbe acquistato un edificio di tre
piani in un’area esclusiva dell’importante centro economico cinese. E nonostante la
residenza non sia poi così
sfarzosa (foto in alto) è cruciale per capire i profondi legami tra il regime di Mugabe
e la Cina. Secondo indiscrezioni riportate dal britannico
Telegraph, il paese del dragone avrebbe sovvenzionato anche la costruzione della villa
di Harare.
Il gigante asiatico, infatti,
non solo si è assicurato nel
2005 un canale preferenziale
per sfruttare le ingenti risorse
minerarie dello Zimbabwe,
ma sarebbe coinvolto anche in
un vasto commercio di diamanti provenienti dalla miniera di Marange, recentemente scoperta e divenuta
una delle più produttive al
mondo.
A denunciarlo la Frankfurter Allgemeine Zeitung,
secondo cui i diamanti più
pregiati arriverebbero sul mercato cinese grazie a una gestione autoritaria della stessa
miniera affidata all’esercito, a
una rete di funzionari corrotti
del partito di Mugabe, all’operato disinvolto della first
lady Grace Mugabe e a una
sconosciuta holding dietro cui
ci sarebbero i servizi segreti di
Pechino. La sede della società? Hong Kong, ovviamente.
L’esodo di Cuba del 1980 prefigura quanto potrebbe accadere a Lampedusa
Gheddafi sulle orme di Fidel
Stefano Silvestre
ALLARME Il leader libico
Gheddafi ha minacciato un’invasione di profughi
6
25 Marzo 2011
Aprile 1980, Cuba. “Chiunque non abbia il cuore per adattarsi allo sforzo e all’eroismo di una rivoluzione, noi non lo
vogliamo, non ne abbiamo bisogno”. Con
queste parole, Fidel Castro motivò “l’esodo di Mariel”, la partenza di migliaia di
cubani diretti in Florida resa celebre dal
film Scarface.
Una migrazione di massa che trova le
sue radici nella politica “delle braccia aperte” promossa dalla gestione Carter a partire dal 1977. Ma la tensione tra i due paesi aumentò esponenzialmente nei tre anni
successivi e Castro fu accusato, anche da
alcuni articoli del New York Times, di aver
riversato di proposito sulle coste ameri-
cane migliaia di “indesiderabili”, tra cui
malati di mente e pericolosi criminali. Alla
fine, i rifugiati arrivati in Florida nei mesi
successivi allo sbarco di Mariel saranno
oltre 120 mila.
Marzo 2011, Libia. “Senza di me, migliaia di migranti sulle coste europee”. Parole che somigliano a quelle di Castro,
pronunciate 31 anni dopo da Muhammar
Gheddafi. Oggi, con la crisi che avanza
in nordafrica, sono più di 5 mila i migranti
sbarcati a Lampedusa, quasi quanto la popolazione stessa dell’isola. E in arrivo, secondo il ministero dell’Interno, ci sarebbero altre 40 mila persone. Sistemazione, gestione e riconoscimento degli immigranti, molti dei quali mentono sulla
provenienza per assumere lo status di ri-
fugiato politico.
Trent’anni fa, in Florida, gli immigrati ispanici vennero accusati di aver fatto
innalzare il tasso di criminalità e di aver
contribuito ad aumentare il tasso di disoccupazione. E oggi in Italia i timori
sono gli stessi. Ma i dati svelano una diversa realtà. David Card, professore di
Economia a Berkeley, ha infatti notato
come gli effetti degli sbarchi di massa sul
mercato del lavoro in Florida siano stati marginali se comparati agli altri stati dell’Unione nello stesso periodo e le cifre relative all’incidenza sulla criminalità sono
state notevolmente ridimensionate, fino
a far assumere alla “paura dell’ispanico”
la forma di una psicosi di massa dettata
dagli avvenimenti politici dell’epoca.
SUPER DIMORE
Gli altri
maniaci
del lusso
Mugabe non è il primo
né tantomeno l’unico
uomo politico a concedersi certi lussi mentre il
suo popolo fa la fame. La
lista è purtroppo ben nutrita, soprattutto nel continente africano, ma, complici le sollevazioni che di
recente stanno attraversando il mondo arabo, gli
uomini di potere dei quali si sono scoperte le fortune immobiliari provengono soprattutto dal
Maghreb.
Il primo a essere caduto pare fosse anche il più
esoso. Le proprietà della
famiglia dell’ex presidente tunisino Ben Ali, infatti, erano dislocate per
mezza Parigi. Senza contare la casa per l’estate in
Costa Azzurra e quella
per l’inverno sulle Alpi
Francesi. In totale, immobili per un valore vicino ai cinque miliardi di
dollari.
Più “sobria”, invece,
la famiglia Mubarak. Gamal, figlio quarantasettenne del presidente Hosni e sicuro candidato alla
successione prima della rivoluzione di piazza Tahrir,
pare sia fuggito a Londra,
Il suo buen retiro nel raffinato quartiere di Knightsbridge sarebbe un palazzo di sei piani in stile
georgiano che varrebbe
“solamente” 10 milioni
di euro.
Infine, l’eccezione sovietica. In gennaio un sito
russo emule di WikiLeaks,
ru.leaks.net, ha mostrato
le immagini della reggia di
Vladimir Putin sul Mar
Nero. Un palazzo in stile
italiano, iniziato nel 2005
e completato quattro anni
più tardi. Il costo? Vicino
al miliardo di dollari.
P. R.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Il dibattito sulle attualizzazioni delle opere teatrali liriche o di prosa. Il parere degli esperti
Fedeltà al testo oppure pertinenza
Emiliani: «C’è chi esagera». Rita Sala: «Ben vengano se fatte bene»
Stefano Petrelli
I Vespri siciliani ambientata al
tempo di Giovanni Falcone. La rappresentazione dell’opera di Verdi a Torino, realizzata dal regista Davide Livermore, è l’ultimo caso, in ordine di
tempo, di operazioni registiche che
fanno discutere critica e pubblico. Ma
è giusto attualizzare un testo teatrale sia che si tratti di prosa sia che si
tratti di opera. Lo abbiamo chiesto a
Rita Sala che scrive di Teatro per il
Messaggero e a Vittorio Emiliani, che
è stato membro del Consiglio di
amministrazione dell’Accademia di
Santa Cecilia.
«Molto spesso queste trasposizioni
sono arbitrarie – dice Emiliani Un’opera, la sua musica e il suo libretto nascono in un periodo definito,
e quindi sono storicamente legati a
quel periodo. Per cui, ambientare la
Tosca o il Rigoletto, che sono le opere più vessate, durante l’occupazione nazista, non c’entra nulla con l’opera di Puccini. Tosca è un’opera impregnata di anticlericalismo, e il conflitto fra erotismo e sentimento religioso che emerge si giustifica in quel
periodo in cui Puccini ambienta la Tosca. Ci sono melodrammi, come il
Guglielmo Tell di Rossini, che forse si
prestano di più all’attualizzazione, ma
TRADIZIONE
Così in un quadro
di Hayez
i Vespri siciliani
ricostruiti
nell’epoca storica
in cui
avvennero
ambientare un’opera in un altro tempo e in un altro luogo toglie forza al
messaggio politico dell’opera».
Secondo Rita Sala, invece, la questione non è scegliere tra tradizione
e attualizzazione: «Credo che sia la
pertinenza il punto centrale. Esistono attualizzazioni così pertinenti
che si autorizzano da sole, altre invece
sono assolutamente gratuite e bisognerebbe evitarle. Il regista canadese Robert Carsen, ad esempio, ha fatto delle attualizzazioni ottime. Tra l’al-
tro ha realizzato una versione della
Traviata ambientata nella Roma pariolina degli anni Settanta. Quello
spettacolo, rappresentato per la prima volta al teatro la Fenice di Venezia, era il frutto di un’attualizzazione
così giusta che fu apprezzata sia dal
pubblico che dalla critica. Quando
non c’è nulla di gratuito, e c’è la capacità di mettere in evidenza che un
capolavoro musicale scritto nell’Ottocento può essere ambientato e
reso plausibile anche nell’attualità, va
benissimo».
«Si tenta l’attualizzazione per una
voglia di innovazione che rischia di
far prevalere la regia sulla musica e sul
canto – incalza Emiliani - Ho visto
un’Italiana in Algeri con la regia di Dario Fo a Pesaro, eccessiva, con mille
sovrapposizioni e un Signor Bruschino di Rossini, diretto da Daniele
Abbado, in cui il senso dell’opera di
Verdi si era perso. Fo faceva cantare
la soprano Jennifer Larmore, mentre
andava sull’altalena, un’operazione
che mette a rischio l’esecuzione. Il regista dovrebbe seguire il testo, perché
queste sono macchine teatrali validissime. Giorgio Strehler, che è stato un grande regista anche di melodramma non ha mai fatto queste operazioni, lo stesso vale per Virginio
Puencher, Pierluigi Pizzi non ha mai
forzato un’opera. Piuttosto che attualizzare, secondo me, è meglio riproporre le opere in forma di concerto. Anche per quanto riguarda il
teatro di prosa credo che si sia andati
troppo oltre. Attualizzare il teatro di
D’Annunzio con quel linguaggio lirico, totalizzante, che è espressione
del decadentismo mi sembra un’operazione arbitraria. Anche i testi di Moliére vengono sempre forzati, per non
parlare di Shakespeare, rifatto in tutte le salse».
«Ci sono anche delle rappresentazioni del tutto atemporali che
però riescono a restituire sia il capolavoro musicale sia il significato
profondo di un’opera – ribatte Rita
Sala – Ben vengano le attualizzazioni
se si tratta di rappresentazioni di valore, pertinenti e che hanno buon
gusto. L’operazione, però, deve essere
funzionale e, nel caso del teatro
d’opera, non deve dar fastidio alla
musica. Certo, questo non sempre
avviene».
FOTOGRAMMI
Una scena da
Come vinsi la guerra
di Buster Keaton.
A fianco, un fermo immagine
del western muto
Bucking Broadway
di John Ford
Giacomo Perra
Centoquarantasette film a
portata di click, tutti visibili integralmente e, soprattutto, gratuitamente. Dai capolavori del cinema muto
fino ad alcune introvabili
pellicole tedesche degli anni
Sessanta e Settanta. Da uno
dei primi film di John Ford,
il western muto Bucking Broadway del 1917, a Giorno lunare, del 1975, il racconto,
onirico ma appassionato, dei
travagli psicologici di un ragazzino, diretto da Haro
Senft, uno dei fondatori del
Nuovo Cinema Tedesco. È
l’inestimabile patrimonio raccolto in Europa film treasures, il primo archivio digitale del cinema europeo e
mondiale.
Inaugurato il 3 luglio del
2008, il sito ha restituito
alla vasta platea dei cinefili di
Internet film rarissimi o inediti, con la possibilità di apprezzarli in lingua originale
o sottotitolati. Senza alcuna
distinzione di genere, dalla
Reporter
nuovo
Su Europa film treasures 147 film introvabili, da John Ford a Buster Keaton
In rete rari gioielli d’autore
commedia alla fantascienza, dai documentari ai musical, ogni gusto è stato soddisfatto. Per ciascuna pellicola, poi, è consultabile un
testo che racconta l’ambiente storico e la trama del film
e fornisce informazioni su
vita e opere del regista e degli attori principali. I film
non si possono scaricare ma
si possono visionare in streaming.
Il promotore del progetto
è il francese Serge Bromberg, produttore cinematografico, conduttore televisi-
vo e proprietario della Lobster Films, società che da
anni si occupa del restauro di
film classici. A sostegno dell’iniziativa ha chiamato in
aiuto alcune tra le cineteche
più prestigiose del Vecchio
Continente: il British Film
Institut, la Filmoteca Spagnola di Madrid, gli archivi
del Cinema di Praga, l’Institut Lumiere di Lione e tante altre ancora. L’Italia partecipa con la Cineteca del
Friuli, la Cineteca di Bologna, la Fondazione Cineteca
Italiana di Milano e il Museo
Nazionale del Cinema di Torino. In totale hanno aderito al progetto ventotto istituzioni di diciannove paesi,
che hanno il compito di selezionare, grazie all’impegno di una squadra di esperti, le pellicole da salvare e di
aggiornare periodicamente
l’archivio. Un impegno quasi a costo zero, dato che a finanziare l’attività del portale, con un onere che supera
il 50 percento dell’investimento totale, è Media 2007,
il programma europeo di sostegno al settore audiovisivo.
Attivo fino al 2013, è dotato
di uno stanziamento di bilancio pari a 755 milioni di
euro.
Tra le gemme scoperte da
Europa film treasures spicca The love nest (Nido d’amore), l’unico film scritto, sceneggiato e diretto interamente da solo da Buster
Keaton. La pellicola (del
1927, anno in cui il grande
attore e regista statunitense
realizzò il suo primo lungometraggio) è una farsa muta
in cui si narrano i viaggi e le
peripezie per mare di uno
scalcinato quanto simpatico
navigatore solitario. Imperdibili anche i lavori di Georges Melies, il regista e illusionista francese considerato con i fratelli Lumiere il
padre del cinema: a lui si devono, infatti, l’introduzione
e la sperimentazione di numerose novità tecniche e
narrative come l’esposizione
multipla, la dissolvenza e il
colore, dipinto a mano direttamente sulla pellicola.
Si tratta per la maggior parte di piccolissimi corti, della durata massima di 3-4
minuti minuti, risalenti alla
fine dell’Ottocento e alla prima decade del Novecento.
Tra questi, Le juif errant,
(L’ebreo errante), del 1897, in
cui Melies rivisita nel suo inconfondibile stile l’omonima
leggenda della mitologia cristiana.
25 Marzo 2011
7
Costume & Società
Con la bella stagione le strutture sportive acquistano iscritti preoccupati dalla prova costume
È primavera, svegliatevi pigroni
Il dottor Antonio Migliaccio: “La palestra? Meglio un corso di ballo”
«F
orza ragazzi che l’estate è
dietro l’angolo!». In realtà Leonardo ripete questa
frase ai suoi affaticatissimi allievi da
gennaio quando, nonostante la bella stagione fosse ancora lontana, sarebbe stato giusto iniziare ad allenarsi
per essere davvero in forma. Ma c’è
un esercito di ritardatari che si ricorda
della palestra solo a pochi mesi dalla prova costume.
E se sono tanti quelli che scelgono un allenamento autonomo, invadendo parchi e piste ciclabili soprattutto nei weekend, è testato che nelle palestre dall’inizio della primavera si verifica un incremento delle iscrizioni. Un rapido giro nelle più grandi strutture sportive della Capitale, infatti, non lascia spazio a dubbi: sono
circa il venti per cento in più le persone che decidono di rimettersi in forma quando l’estate si avvicina. Ed
ecco che le palestre cittadine si riempiono di questi nuovi arrivati che cominciano, spesso abbastanza impreparati, a fare esercizi con i pesi o la cyclette per perdere più peso possibile
e tentare di scolpire un po’ i propri
muscoli. Quasi sempre i risultati di
queste grandi sudate sono al di sotto delle aspettative, anche perché molto spesso un esercizio fisico limitato
a un breve periodo dell’anno non ri-
L’ESPERTO
Il professor Pietro Antonio Migliaccio.
Accanto una vignetta ironizza
sul “macho” da palestra
solve i problemi legati al sovrappeso.
Sembra, infatti, che questi saltuari frequantatori delle palestre abbiano
quasi tutti lo stesso vizietto: iscriversi,
per poi abbandonare quasi subito. La
verità è che il momento in cui pensare al costume andava colto nelle
fredde giornate autunnali o per smaltire le abbuffate natalizie.
C’è un altro particolare da sottolineare: chi crede che lo stress del
peso-forma riguardi solo le ragazze
ventenni, fanatiche del fisico da mo-
della, sbaglia di grosso. La vanità non
è più donna e non è più solo dei giovani. Così nelle palestre si incontrano signore e soprattutto signori di
mezza e di terza età, volenterosi di diminuire un po’ quella pancetta che,
nonostante i vari detti, sembra essere poco gradita al mondo femminile e viceversa.
Ma quanto è utile veramente tutto questo sforzo? E soprattutto, può
essere pericoloso?
«Il movimento e il dispendio
energetico è indispensabile per tutti, specialmente per chi ha bisogno di
dimagrire – spiega il professor Pietro
Antonio Migliaccio, presidente della Società italiana di scienza dell’alimentazione – Di solito si va in palestra per un’ora, ma considerando il
tempo in cui entri, ti spogli, fai dei
movimenti, poi fai la doccia e ti rivesti, si perde mezz’ora. Non al posto, ma oltre alla palestra, infatti, è necessario anche camminare almeno
30/40 minuti al giorno. Anche per-
ché il dispendio energetico in palestra è difficilmente riscontrabile,
mentre l’articolarità, cioè il mettere in
moto tutte le articolazioni, può essere
veramente positiva».
La paura è che una persona che segue una dieta molto stretta possa correre dei rischi frequentado alla stesso tempo assiduamente la palestra.
«Quando si fa una dieta equilibrata,
corretta e ipocalorica cioè con le giuste calorie rispetto alle necessità – assicura Migliaccio – di solito non
succede niente. Quello che io raccomando è di non prendere assolutamente integratori che spesso vengono venduti illegalmente e sotto banco nelle palestre. Se si ha la necessità di prenderne è meglio farlo su
consiglio del medico. Un’altra accortezza: un’oretta prima di fare attività sportiva è sempre bene ingerire dei carboidrati. Quaranta grammi di pane con un po’ di marmellata, biscotti, fette biscottate, una merendina, cose rapide che immediatamente ti danno energia. Subito
dopo l’attività, invece, è sufficiente
bere dell’acqua. Ma vuole sapere qual
è il mio vero consiglio? Piuttosto che
la palestra è meglio seguire un corso di ballo: unisce dispendio di calorie, socializzazione e il piacere della musica».
Viaggio tra gli strani cibi della Roma multietnica. Un paese per ogni quartiere
Il gusto di assaggiare altre culture
Carne di montone cotta in
umido, accompagnata da berberè, un sugo ricco di paprika
piccante, e verdure varie. Il tutto servito su uno strato di injerà, una sottile sfoglia molle e
tenera fatta con un cereale
chiamato tef. Rigorosamente
da mangiare con le mani. Stiamo parlando dello zighinì e anche se a leggersi così sembra
solo un nome strano non molto invitante, la consistenza è
davvero deliziosa. E’ il cibo africano più conosciuto, il piatto
nazionale di Etiopia, Somalia
e Eritrea. Ma non è necessario
raggiungere questi paesi per assaggiarlo. Esiste una Roma
multietnica, piena di ristoranti caratteristici dove gustare i piatti più particolari provenienti da tutto il mondo.
Sono due i quartieri che pullulano di questi locali: l’Esquilino e il Pigneto. Ma non solo.
E’ una multietnicità “a chiazze”, quella culinaria a Roma: a
ciascuna zona della città la sua
etnia. Termini e dintorni per il
cibo africano, Trastevere per il
greco, il Pigneto è mediterra-
8
25 Marzo 2011
neo orientale, Prati è cino-giapponese, a Monti si mangia indiano, fino all’Equilino che è
un po’ la babele del gusto, oltre che dei popoli.
Per continuare con il cibo
africano, il miglior ristorante si
trova in via Gaeta, vicino alla
stazione Termini, appunto. A
non spaventare deve essere il
cissimo thè insaporito con i
chiodi di garofano.
Continuando poi verso
piazza Fiume si trova il ristorante “Da Alfonso”. Appena
entrati si respira subito un’aria
particolare: quella dei locali etnici di prima generazione, nati
cioè prima della società 2.0 in
cui viviamo. Un’atmosfera
Termini e dintorni per il cibo africano,
Trastevere per il greco, il Pigneto è
mediterraneo orientale, a Monti l’indiano
piccante. L’antipasto di Kategnà
è cucinato con pane injerà, ripieno di sugo piccante al berberé e necessita di un bicchiere
d’acqua al seguito. Ma per chi
ama i sapori forti è il massimo,
come sono ottimi, anche se
poco conosciuti, il Gored Gored e il Kitfç: pezzettoni di filetto alla griglia il primo, e una
sorta di tartare di ottima carne insaporita dal burro etiope,
il secondo. Dopo la grande
mangiata, per digerire, un dol-
molto calda, quasi familiare. Ai
tavoli, infatti, serve lo stesso
chef, Ramy, che è il figlio dell’Alfonso che dà il nome al ristorante. Si intrattiene volentieri con i clienti ed è sempre
ben disposto a illustrare la
genesi di quello che crea. Il suo
piatto forte: il cous cous cucinato secondo la tradizione
ebraico-orientale, nella fattispecie della comunità ebraica
residente in Libia. La formula
del ristorante è molto accattivante: con 20 euro si prende
un piatto enorme di cous
cous, con a parte sia le polpette
che il bollito di vitello in salsa verde e poi le verdure, che
vanno dalle patate in salsa
piccante alle crudité di carote
e fagiolini. E per concludere
una porzione di dolce accompagnata da un ottimo thé verde del deserto, aromatizzato
alla menta e forte come un caffè lungo.
Ma anche il cuore del centro storico è ormai abitato da
numerosissimi ristoranti la
cui cucina è quanto mai lontana dalla classica tradizione
romana. Su corso Rinascimento è possibile assaggiare le
tipiche empanadas, zuppe vegetariane di zucca, fagioli neri,
mais giallo e manioca, i ravioli, i timballi, le insalate o la carne di angus, dolci tipici come
il budino di pane al rum e altre specialità dell’Argentina.
Ma si mangiano anche cibi eu-
Pagina a cura di Irene Pugliese
INTEGRAZIONE Ragazzi di diverse nazionalità mostrano i loro
piatti multietnici al Festival del cous cous, ogni anno in Italia
ropei, tra i vicoli dietro piazza
Navona. Dallo spagnolo di
via di Tor Millina ai vari ristoranti greci che si incontrano
dall’altra parte del Tevere. E se
di cibi cinesi, giapponesi, africani e spagnoli se ne è sempre
sentito parlare, il quartiere Salario ospita invece una vera
stranezza: il ristorante svedese “Bla Kongo”. Caratterizzato da una cucina internazionale, è un sofisticato bistrot,
che unisce la cultura scandinava con quella mediterranea
e quella indiana. Arredamen-
to essenziale e minimalista,
menu creativo e appassionante: si va dal savarin di riso basmati con gamberi al salmone
alla svedese, dal babacanush
allo tzaziki, dalle polpette alla
svedese al brie con elisir di
Pantelleria e rosmarino. «Un
uomo è quello che mangia»,
diceva Ludwig Feuerbach. E
allora, forzando un po’ le parole del grande filosofo tedesco, assaggiare il cibo di un altro paese diventa il primo passo per avvicinarsi e imparare a
conoscere le altre culture.
Reporter
nuovo