ZANGEZI-CHLEBNIKOV, UN`AUTOICONA FRA

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ZANGEZI-CHLEBNIKOV, UN`AUTOICONA FRA
MASSIMO LENZI
LA SCENA DEL VERBO: ZANGEZI-CHLEBNIKOV,
UN’AUTOICONA FRA ULTRAMONDI
Il 16 gennaio 1922, “assemblando e licenziando” per la stampa
Zangezi, Chlebnikov, — il cui astro da un decennio irraggiava nella
pleiade del Futurismo russo elementi espressivi refrattari alle letture
semplificate di quel movimento, e che gli avevano valso il precoce
apprezzamento e sostegno di Annenskij, Vjačeslav Ivanov e Blok, —
attribuisce a quest’opera la definizione di sverchpovest’, ovvero
“superracconto”, “architettura narrativa” che “risulta dalla squadratura
di blocchi verbali variopinti di diversa struttura”.
Cosí, l’impianto ‘tradizionalmente’ drammaturgico del testo si
limita a designare come luogo di ‘azione’, peraltro implosa nella mera
alternanza di dialoghi e monologhi, un unico “tronco” di 20 “superfici
della parola”, funzionalmente equivalenti ad altrettante ‘scene’, entro
la cui virtualità (in linea con i noti presupposti zaumnye, ‘transmentali’, dell’ideologia etico-estetica chlebnikoviana) si succedono,
convenzionalmente assegnati a ‘personaggi-emittenti’ privi di reciproche articolazioni ‘orizzontali’, gli enunciati dei sette “tipi di lingua
poetica” che nei suoi appunti preliminari l’autore si ripromette di
usare in Zangezi: “1) “audiografia” — lingua degli uccelli; 2) lingua
degli dèi; 3) lingua delle stelle; 4) lingua transmentale [zaumnyj] —
“superficie del pensiero”; 5) scomposizione della parola; 6) audiografia; 7) lingua amentale [ovv. bezumnyj = “folle”]”.
Come saggio esemplificativo di questo campionario si è scelto di
presentare qui una resa di ampia parte delle Superfici 1-3 e 5-7,
provvista di note che rendano apprezzabile la quantità e qualità delle
associazioni fonetico-semantiche, senza di che il testo originale stesso
(da noi serbato in mera traslitterazione per quanto riguarda la “lingua
degli uccelli” e quella “degli dèi”) presenta talora la fallace sembianza
di esercizio calembouristico-onomatopeico. Per quanto cospicuo e
pedante rischi di sembrare quest’apparato di notazione, stimiamo (e
speriamo) probabile che esso sia appena bastevole ad un sommario
sentore delle singolari capacità ‘interattive’ di una tale operazione
linguistica.
Il teatro non risultò certo tra gli interessi prevalenti dell’esistenza di
Chlebnikov, ricostruita dagli storici della letteratura russa in termini,
quand’anche non agiografici, nonpertanto spesso proclivi a restituirci
un’immagine crediamo impropriamente circonfusa dall’aureola di
‘inconsapevole’ bislacco-geniale “folle di Dio” (indubbia è comunque,
e viceversa, la consapevole e programmatica elaborazione del ‘personaggio’ Zangezi come autoicona del poeta-Chlebnikov, ente psicobiologico di trasmissione e solo eventuale, ineffabile comunicazione
tra i due reciproci ultramondi mentale e transmentale); e tuttora la
critica si arresta spesso sgomenta dinanzi alla constatazione che le sue
piú sfrenate e partecipate costruzioni avanguardistiche s’incastonano
come gemme, — chi dice d’artificiosa bigiotteria, chi invece di
sinistra riverberanza, — nella riza scabra e ondulata di una produzione
epico-lirica dall’impianto e dall’arsenale figurativo magistralmente
classici.
Né al lettore di questo estratto di Zangezi sfuggiranno gli (apparenti?) abissi stilistici che, attorno ai territori piú arditamente sperimentali abitati da “uccelli” e “dèi”, si spalancano: tra l’impressionismo quasi hamsuniano con cui Chlebnikov ci descrive il “tronco
di superfici della parola”, luogo dell’‘azione’, e le battute convenzionalmente colloquial-quotidiane dei “passanti”; tra il bayreuthismo
quasi inavvertitamente palinodistico che descrive la comparsa “con ali
di cigno” tra “nebbie” ed “erte” degli dèi (la cui personalità divina, si
badi bene, coincide ostentatamente con le corruttibilissime qualità
della materia da cui le diverse culture umane ne hanno tratto le rappresentazioni in forma di idolo), e l’epica studiatamente rozza con cui
Zangezi-Chlebnikov, “minchione del bosco”, lègge “in eloquio transmentale” il proprio Canto delle ‘gesta’ compiute dalle Lettere di un
politeistico Alfabeto equiparato a Tavola degli elementi storico-natural-fatali.
Assai meno che non di matematica e d’ornitologia o di mitologia,
Chlebnikov s’interessò dunque di teatro, — per quanto ad elementari
strutture drammaturgiche, come in Zangezi, egli si fosse affidato in
ripetute occasioni (vedi, in BAUBO 8-9, il curiosamente tardosimbolista L’errore della Morte). Ed anche quando, come nell’aprile
1920, al Teatro Civico di Char’kov ha luogo la rappresentazione di
una scelta “buffonesco-carnevalesca” dal suo pamphlet Ai Presidenti
del Globo terrestre, con la partecipazione degli imaginisti Esenin e
Mariengof, non pare che l’arte scenica abbia avuto per l’opera di
Chlebnikov un’attenzione meno occasionale.
Peraltro è proprio in quei mesi che egli concepisce in parallelo la
nozione compositiva di “superracconto”, e relativamente redige i
primi, numerosissimi elenchi di “episodi”* che avrebbero potuto
essere assemblati in Zangezi, nonché (terminandola il 20 giugno
1920) Gore i Smech (Pena e Riso), l’ultima delle sue 20 “superfici”.
Tra quei mesi e il 16 gennaio 1922, data del ‘si stampi’, era accaduto
che l’Armata Rossa avesse ottenuto la vittoria definitiva nella guerra
civile. E col 1922 iniziò un biennio di vertiginosa intensità nella riarticolazione della vita teatrale moscovita e pietrogradese.
Aldilà delle pur funzionali semplificazioni tra “teatri tradizionali”
e “teatri di sinistra” (peraltro corrispondenti all’infuocato e pressoché
quotidiano dibattito coevo) operate dalla teatrologia sovietica e non, si
possono però elencare alcuni fatti.
A Mosca il Teatro d’Arte di Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko,
indebolito da defezioni piú o meno volontarie già durante la guerra
civile, si accingeva a partire per una biennale tournée negli Stati Uniti,
lasciando ad esile presidio delle sue autorevoli istanze formative un
drappello di Teatri-Studio, alcuni dei quali non avrebbero perso
l’occasione per allontanarsi irreversibilmente dal loro còmpito istituzionale; ed il 28 febbraio, ancor prima che ciò avvenisse, il Terzo di
quegli Studi, di fatto ormai autonomo, presentò al pubblico l’epocale
Princessa Turandot, dove la regía del moriente Vachtangov aveva
indelebilmente impresso quel principio pedagogico del “mostrare
l’atteggiamento verso il personaggio [=obraz]” che costituisce il
definitivo superamento pratico-teorico della questione di cosa, quanto
e come in teatro si debba riprodurre di una ‘realtà’ piú o meno sedicente.
Negli stessi giorni e a qualche isolato di distanza, il Teatro da
Camera di Tairov, sdegnosamente non-allineato nelle polemiche tra
“accademici” (qualifica di cui pure il governo sovietico l’aveva prestigiosamente insignito) e “sinistristi”, mostrava di aver raggiunto
acquisizioni non dissimili con lo spettacolo Žirofle-Žiroflja.
In contemporanea, Mejerchol’d fonda il Teatro dell’Attore (poi
Teatro GITIS, e dal ’23 eponimo del regista), riunendovi in poche
settimane un formidabile collettivo di attori (Il’inskij, Zajčikov,
Babanova), registi (Ejzenštejn, Jutkevič, Ochlopkov), scenografi
(Popova, Šestakov, i Kukryniksy, Šlepjanov), musicisti (Šostakovič) e
drammaturghi (Majakovskij, Fajko, Erdman, Tret’jakov): qui súbito
allestisce Velikodušnyj rogonosec (Le cocu magnifique) e Smert’
*
A titolo meramente esemplificativo, eccone due tra i primi: “1) La folla si raduna;
2) Il sermone; 3) Mare; 4) Gioco della lancia; 5) Estasi; 6) La morte; 7) Il manoscritto della matematica; 8) La filosofia”. “1) Gli uccelli; 2) La Elle; 3) Un cavallo; 4)
Le sorelle; 5) Pena e Riso; 6) Mare; 7) St[epan] Razin; 8) Il manoscritto”.
Tarelkina (La morte di Tarelkin), dove per la prima volta applica i
princípi pedagogico-registici del costruttivismo scenotecnico e della
biomeccanica attoriale.
Nel 1923, mentre Keržencev pubblica la quinta edizione in cinque
anni di Tvorčeskij teatr (Il teatro creativo), ‘vangelo’ teatrale del
Proletkul’t, quest’associazione affida a Ejzenštejn la direzione del
proprio Primo Teatro Operaio, e il giovane regista vi produce quel Na
vsjakogo mudreca dovol’no prostoty (Anche il piú saggio si sbaglia)
che diventa immediatamente il modello delle piú radicali e spericolate,
non meno che rigorose, innovazioni spettacolari, nonché l’occasione
di cimentarsi nel primo cortometraggio (Il diario di Glumov) ed
acquisire cosí gli elementi tecnico-espressívi che negli anni immediatamente successivi gli avrebbero consentito di fondare la sintassi
operativa del linguaggio cinematografico.
In questo contesto, nel maggio di quel 1923, Tatlin, capofila del
costruttivismo in arte ed architettura, tre anni dopo il suo celebre
progetto di un Monumento alla III Internazionale (a cui dunque
lavorava mentre Chlebnikov iniziava a concepire il suo “superracconto” drammaturgico), si risolve ad allestire Zangezi in una sala del
Museo della Cultura Artistica di Pietrogrado, e Chlebnikov redige per
l’occasione una serie di note a tutt’oggi inedite.
Gli schizzi dell’architetto Tatlin per la realizzazione scenica di
quest’“architettura narrativa”, nell’esiguità e laconicità del loro lascito
in pubblicazioni monografiche, non ci consentono né di azzardare
ipotesi sul funzionamento di quella rappresentazione, né tantomeno di
ricavare indicazioni su quali potessero essere le risonanze da essa
suscitate.
Ma Chlebnikov stesso potrebbe averne tenuto conto quando, in
sede di correzione di bozze, aggiunse al testo un’ultima didascalia:
“Continua”.
VELIMIR CHLEBNIKOV1
da ZANGEZI
[...]
IL TRONCO2 DI SUPERFICI DELLA PAROLA
Montagne. Su di un praticello si erge una roccia diritta e ruvida,
simile ad un ago di ferro sottoposto ad una lente d’ingrandimento.
Come un bordone accanto al muro, essa sta a fianco di erte pendici
verticali di roccie petrose coperte da un bosco di conifere. Alla sua
pietra principale si congiunge un ripiano-pontile, che la montagna gli
ha fatto cadere in testa come un cappello di paglia. Questa piattaforma è il posto preferito di Zangezi3. Qui egli si reca ogni mattina per
leggere canti.
Da qui egli legge i suoi sermoni agli uomini o al bosco. Un alto abete,
che sciaborda impetuoso con le onde blu dei suoi rami d’aghiformi,
standole a fianco, nasconde una parte della roccia, pare esserle
amico e proteggerne la quiete.
A volte da sotto le sue radici compaiono a formare un’area nera
foglie petrose della roccia principale. Le radici si attorcono a nocchi
là dove si affacciano gli spigoli dei libri petrosi di un lettore sotterraneo. Giunge il rumore della pineta.
Tra la rugiada,— cuscini di licheni argentei. È la strada della notte
piagnucolosa.
Nere pietre viventi stanno tra i fusti, come corpi oscuri di giganti scesi
in guerra.
1
Traduzione condotta dall’edizione: Sobranie proizvedenij Velimira Chlebnikova
[“Raccolta delle opere di V. Ch.”], sotto la redazione generale di Jur’ij Tynjanov e
N.Stepanov, Leningrad, Izdatel’stvo pisatelej, 1931; vol. III [Stichotvorenija 19171922 (“Poesie”)], pp. 317-368. Successivamente ristampata in: V. V. Chlebnikov,
Sobranie sočinenij II / Gesammelte Werke II. Nachdruck der Bände 3 und 4 der
Ausgabe Moskau 1928-1933, München, Wilhelm Fink Verlag, 1968 e in Tvorenija,
Moskva, Sovetskij pisatel’, 1987.
2
L’originale reca koloda, che ha molti significati, tra i quali “tronco” mi sembra il
piú adatto a restituire il nesso ‘geodesico-verbal-naturalistico’ in questione.
3
Nel corso della stesura-assemblaggio, Chlebnikov approdò al nome Zangezi dopo
avere scartato altre varianti. In Zangezi confluiscono i nomi dei fiumi Gange (Gang
in russo) e Zambesi come princípi ‘geodesici’ dell’orientamento Est-Ovest (Eurasia)
e Nord-Sud (Africa), e quindi sintesi dinamica e geometrica di flussi storiconaturali.
Superficie I - UCCELLI4
BECCOFINO (in cima all’abete, gonfiando la golicina argentea) Pit’
pèt tvičan! Pit’ pèt tvičan! Pit’ pèt tvičan!5
CALENZUOLO (quieto in cima ad un nocciòlo) Kri-ti-ti-ti-ti-i - cy-cycy-sssyy.6
QUERCIAIUOLO V’er-v’ör viru s’ek-s’ek-s’ek! Vèr-vèr viru sek-seksek!7
PASSERO T’örti edigredi (dà un’occhiata agli uomini e si nasconde
nell’alto abete). T’örti edigredi!8
CALENZUOLO (dondolandosi su un ramo) Cy-cy-cy-sssyy.
BECCOFINO VERDE (vagando solitario, come sul verde mare, per le
alte onde, eternamente agitate dal vento, delle cime dei pini) Pryn’!
Pcireb-pcireb! Pcireb! — Cèsèsè.9
CALENZUOLO Cy-sy-sy-ssy (si dondola su di un giunco).
GAZZA Piu! piu! p’jak, p’jak, p’jak!10
RONDINE Civit’! Cizit’!11
4
Nella “lingua degli uccelli” e in quella degli “dèi”, Chlebnikov corsivizza le vocali
su cui far ricadere l’accento tonico; nella nostra traslitterazione si è preferito
conservare questo criterio per riservare l’accento di “è” a designare la vocale russa
corrispondente alla nostra “e aperta” di “trègua”.
5
Pit’ corrisponde alla forma infinitiva del verbo “bere”; pèt è fonicamente intermedio tra un pet’ (= “cantare”) e un pjat’ (= “cinque”); entrambi questi ‘audiogrammi’
chlebnikoviani rimandano alla sequenza consonantica di pticy = “uccelli”, eponimo
della “superficie verbale” in questione.
6
Kri- rimanda alla radice di kričat’ (= “gridare, piangere”); -ti coincide con la
desinenza infinitiva verbale paleoslava (cfr. russo idti = “andare”); cy- rimanda a
cykat’/cyknut’ (= “zittire, far tacere”), ma anche a cypka (= “pulcino”).
7
V’- rimanda alle forme indicative del verbo vit’ (= “avvolgersi, librarsi”); vìru
potrebbe rimandare a vera (= “fede”) e veru (= “io credo”), ma anche a vira,
espressione semionomatopeica corrispondente al nostro “issa!”, nonché e soprattutto
al v’jurok, l’uccello cui è assegnata la ‘battuta’ successiva; sek rimanda a sekač
(=“ascia”), sekira (= “scure”), sekator (= “potatoio”) e alle forme indicative del
verbo seč’ (=“tagliare, spaccare”).
8
Ed- rimanda alle radici coniugative di est’ (=“mangiare”); gred- a quelle di grest’
(=“remare”, ma anche “rastrellare”). Edigredi può dunque suggerire l’azione di
‘rovistare’ per trovare cibo.
9
Pryn’ rimanda forse a prygnut’ (=“fare un salto”), prygun (=“saltatore”), prygan’e
(= “salti, il saltare”); si osserva ancora in pc- l’eco del pticy (=“uccelli”) eponimo
della “superficie”.
10
Piu riecheggia la forma indicativa del verbo pit’ (= “bere”; 1a pers. sing.: p’ju) e,
nella stessa serie semantica, p’jak manifesta assonanza con il tema p’ja-, associabile
a “ebbrezza”, “ubriachezza” ecc. (cfr.: p’jan = “ubriaco”).
CAPINERA Bebotèu-vevjat’!12
CUCULO Ku-ku! ku-ku!13 (si dondola sulla cima).
Silenzio.
Questi sono i discorsi mattutini che gli uccelli fanno al sole.
Passa un ragazzino uccellatore con una gabbia.
Superficie II - DÈI14
La nebbia a poco a poco si dirada, svelando erte simili a fronti severe
di uomini con cui la vita sia stata austera e crudele; diventa chiaro
che ivi nidificano gli dèi. Sui loro corpi trasparenti sventolano ali di
cigno, la loro andatura invisibile fa curvare e frusciare le erbe.
VERITÀ Gli dèi sono vicini! con clamore crescente, è la legione degli
dèi di tutti i popoli a congresso, il loro zingaro accampamento montano.
TIEN stira con un ferro i suoi capelli lunghi sino a terra, che sono
diventati il suo vestito: ne aggiusta le pieghe.
ŠANG-TI si lava dal vólto la fuliggine delle città d’occidente. “Piano
piano va meglio”. Come alle lepri, sugli orecchi gli penzolano due
ciocche di lanugine nivea. Ha i baffi lunghi da cinese.
11
Qui il rimando, scopertamente morfologico, è nel calco della forma infinitiva dei
verbi uscenti in -it’, usata anche comunemente con valenza imperativa; l’analogia è
rafforzata contrastivamente dall’alternanza consonantica v/z, unica ricorrenza nella
“superficie” in questione.
12
In vevjat’ si ha coincidenza con la desinenza verbale infinitiva dei verbi in -jat’;
ivi si ha forse un rimando al tema vja-, designante ‘lentezza’, ‘debolezza’, ‘pigrizia’,
‘appassimento’ (cfr. l’avv. vjalo = “con indolenza”, “mollemente”; vjanut’ =
“appassire”; vjalyj = “appassito” ma anche “lento”, “pigro”); v’è possibile sovrapposizione di forme dei verbi vit’ (= “avvolgere”, “librare”) e vejat’ (= “spirare”,
“soffiare”, “emanare”).
13
È interessante notare come in questa battuta, che conclude la “superficie”
individuata dalla “lingua degli uccelli”, l’“audiogramma” si risolva tutto nell’onomatopea contenuta, analogamente all’italiano, nel nome russo dell’uccello: kukuška;
peraltro, la sillaba tematica ku- ha pressoché esclusivamente tali valenze onomatopeiche: cfr. il v. kukovat’ (= “fare il verso del cuculo”), kukarekat’ (= “fare il verso
del gallo”), l’espress. idiom. kukiš ecc.
14
Il testo di questa “superficie” riprende in via sintetica quello dell’omonima pièce,
scritta da Chlebnikov nel novembre 1921 intieramente ‘in transmentale’. Accanto a
Eros e Giunone, ai cinesi Tien e Shang-Ti, allo zulu Unkulunkulu e allo slavo Veles,
trasferiti in Zangezi, figuravano allora Cupido, Venere, Thor, Kali, Indra, Astarte, il
nipponico Izanagi, lo slavo Perun, l’estone Maa-Emu, il messicano Tzintecoatl, i
mordvini Ange-Patjaj e Compas, l’ostiazco (secondo Chlebnikov, in realtà, orocese)
Unduri, gli slavi Stribog e Lel’, i nibelungici Loki e Baldr.
La bianca GIUNONE, vestita di luppolo verde, con lima assidua si
raschia la spalla niveocandida, pulendo la pietra bianca dalle
impurità.
UNKULUNKULU ascolta il rumore dello scarabeo che si fa strada
tarlando una trave del corpo ligneo del dio.
EROS
Mara-roma,
Biba-bul’!
Uks, kuks, èl’!
Redèdidi dididi!
Piri-pèpi, pa-pa-pi!
Èogi guna, geni-gan!
Al’, El’, Il’!
Ali, Eli, Ili!
Ek, ak, uk!
Gamč’, gèmč’, io!
— Rpi! Rpi!15
DÈI (in risposta)
Na-na-na!
Eèi, uèi, oèi!
Kezi, nezi, dzigaga!
Nizarizi oziri.
Mèamura zimoro!
Pips!
15
Ad un primo sguardo, la “lingua degli dèi”, che nella lista delle sette “lingue
poetiche” utilizzate in Zangezi è enumerata separatamente dalla “lingua transmentale” propriamente detta, si differenzia dalla “lingua degli uccelli” per una marcata
opacizzazione dei rimandi semantici, talora apprezzabili come mera coincidenza
tautologica (per es., ili = “o”, “oppure”), mentre mantengono qualche rilievo i calchi
morfologici (cfr. il passaggio da un’ipotetica desinenza nominativo-singolare ai
rispettivi casi indiretti o al nom. pl. nella sequenza Al’, El’, Il’ / Ali, Eli, Ili!, ed
ancor piú il duplice rpi! finale, calco della forma imperativa, ivi assai plausibile per
la posizione forte in chiusura). Soprattutto, balza in primo piano il livello immediatamente espressivo della pura forma ritmica elementare, modulata internamente
nelle scansioni binarie e ternarie di reiterazioni ed alternanze vocalico-consonantiche
(ma anche infraconsonantiche, con alternanze di varianti ‘dolci’ e ‘dure’ della stessa
consonante: ad es., nelle battute successive, Penč’, panč’, penčc’! o Pic, pač, poč’,
ove è anche rappresentato il fenomeno panindoeuropeo della palatalizzazione, o
ancora, con combinazione a nesso consonantico e alternanza vocalica, Eps’, Aps,
Eps!, dove le maiuscole designano entità personalizzate).Tali osservazioni esauriscono anche un possibile sommario commento delle successive ‘battute’ degli Dèi.
Mazačièi-èimoro!
Pljan’!16
VELES
Bruvuru ru ru ru!
Pice cape sè sè sè!
Bruvu ruru ru-ru-ru!
Sici, lici ci-ci-ci!
Penč’, panč’, pen’č’!
EROS
Emč’, Amč’, Umč’!17
Dumči, damči, domči,
Makarako kiočerk!
Cicilici cicici!
Kukariki kikiku.
Rièi èièi ci-ci-ci.
Ol’ga, El’ga, Al’ga!
Pic, pač, poč’! Echamči!18
GIUNONE
Pirarara - pirururu!
Leolola buaroo!
Vičeolo sèsèsè!
Vièi! Vièi! Ibi-bi!
Zizaziza izazo!
Eps’, Aps, Eps!
16
Si rileva la simmetria del calco imperativo in chiusura (da un ipotetico infinito
pljanut’) e la coincidenza tautologica di oči (= “occhi”). Per ulteriore sottolineatura
della insopprimibile quanto involontaria ridondanza di tali coincidenze, nota che se
ne possono osservare almeno due anche con la lingua italiana: Ali, nella battuta
precedente, e mio oltre, nella battuta di Giunone. Infine, Meamura è anagramma di
Memuara, gen. sing. (inesistente) dal nom. pl. di assimilazione francese memuary =
“memoriale”, “ricordi (letterari)”, ma contiene -amur- (cfr. Amur = “Cupido”).
17
Nota la simmetria ritmico-fonetica tra questo primo verso di Eros e l’ultimo della
precedente battuta di Veles.
18
Nella battuta traspare una certa vis ludica: 1) la triade dum-/dam-/dom- rimanda,
rispettivamente, ai significati “pensiero”/”donna amata”/”casa”; 2) kukariki è
pressoché identico a kukareku = “chicchirichí”; 3) Ol’ga è l’esatta traslitterazione
del nome femminile “Olga” (mentre Al’ga sarebbe l’esatta trascrizione fonetica
dell’italiano “alga”); 4) kiočerk giustappone kiosk (= “edicola”, “chiosco”, “gazebo”) a očerk (= “studio”, “saggio”, “rassegna”, “compendio”, “monografia”,
“schizzo”, “abbozzo”).
Muri-guri rikoko!
Mio, mao, mum!
Ep!
UNKULUNKULU
Rapr, grapr, apr! zaj
Kaf! Bzuj! Kaf!
Zrab, gab, bokv - kuk!
Rtupt! tupt!
(gli dèi corrono via nell’aria)
Di nuovo la caligine rabbuia, spandendosi blu sopra le pietre.
Superficie III - UOMINI (provenienti dal tronco delle superfici
verbali screziate)
UOMINI Oh, madre santissima!
1° PASSANTE Cosí è qui? Quel minchione del bosco?
2° PASSANTE Sí!
1° PASSANTE E che fa?
2° PASSANTE Legge, parla, respira, vede, sente, cammina, la mattina
prega.
1° PASSANTE Prega chi?
2° PASSANTE Non si capisce! i fiori? i moscerini? i rospi del bosco?
1° PASSANTE Un minchione! Il sermone di un minchione del bosco!
[...]
3° PASSANTE Lui sta lassú, e qua sotto la gente fa da sputacchiera
agli scaracchi della sua dottrina?
1° PASSANTE O che forse non ci siano già affogati? nuotano,
bevono, si strozzano...
2° PASSANTE Come preferisci. Sarebbe lui il salvagente gettato dal
cielo?
1° PASSANTE Sí! [...]
Superficie di parole19 V
<DALLA FOLLA> [...] Zangezi è arrivato! Il chiacchierone! Parla, che
noi ti ascoltiamo. Noi siamo il pavimento, cammina sulle nostre
19
In tutte le edizioni, solo qui compare per esteso la definizione di “superficie di
parole”, normativamente adottata da Chlebnikov nei materiali preparatori di Zangezi
per definire le venti ‘scene’ del “superracconto”.
anime. Ardito balzellone! Noi crediamo, noi aspettiamo. I nostri
occhi, le nostre anime fanno da pavimento ai tuoi passi, o sconosciuto.
RIGOGOLO Fio èu.
Superficie VI
[...]
CREDENTI Cantaci le tue canzoni d’elica20! raccontaci di El’21! Lèggi
in eloquio transmentale. Narraci il nostro tempo terribile con le
parole di Alfabeto! [...] Il combattimento degli avversari: Er22 ed
El’, Ka e Pè23! [...] Allora la pelle dei Paesi è mangiata dalla tarma
della guerra civile, le capitali seccano come biscotti, l’umore degli
uomini evapora. Noi conosciamo El’ — l’arresto per l’ampia area
del punto che cade trasversalmente, conosciamo Er — il punto che
ha forato, che ha diviso l’area trasversale. Er si libra, plana, lacera,
fende le barriere, fa alvei e fossati. Lo spazio risuona tramite Alfabeto. Parla!
Superficie VII
ZANGEZI
Voi dite che sono morti i Rjuriki e i Romanovy,
Che caddero i Kalediny, i Krymovy, i Kornilovy e i Kolèaki...24
No! [...] Il ricco piangeva, rideva chi è povero,
Quando la pallottola in se stesso scagliò Kaledin.
E all’Assemblea Costituente mancò il passo.
20
Ho reso cosí il neologistico samovityj (lett. “autoattorto”), aggettivo con cui
Chlebnikov stesso soleva designare l’apparato verbale di alcuni propri componimenti.
21
El’ è il nome della lettera russa L, cosí come, oltre, Er’ = R, Ka = K, Pè = P. — Si
è preferito serbare anche nella traduzione gli originali icasticamente monosillabici,
preferendoli agli equivalenti bisillabici italiani “Elle”, “Erre” ecc.
22
Iniziale di Rus’ o Rossija (= “Russia”) e revoljucija (= “rivoluzione”). — Si
vedano le memorie di Annenkov sull’entusiasmo di Chlebnikov per le sigle delle
nuove realtà istituzionali sovietiche, in primo luogo quella della Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa = R.S.F.S.R, ovvero ‘èr-ès-èf-ès-èr’ (Jurij Annenkov, Dnevnik moich vstreč. Cikl tragedij [“Diario dei miei incontri. Ciclo di
tragedie”], 2 voll., Moskva, Chudozestvennaja literatura, 1991, I, p. 150).
23
Gli ultimi due “avversari” coincidono con la sigla abbreviata del Partito Comunista, ovvero KP = Ka-Pè.
24
Nota sin da ora le programmatiche ricorrenze delle lettere r, l, k in questi nomi di
protagonisti della storia e della guerra civile russa.
E s’abbuiarono i vuoti palazzi.
No, questo è l’“azzi”25 che sprigiona, come il respiro dei morti,
Il bollore dell’urlo selvaggiamente via da labbra che si raffreddano.
È il “Ka” che attacca26!
Sulla nube del potere sono i merli27 di El’.
El’, dov’è la tua centenaria disgrazia!
El’ - centenario eremita della sotterraneità!
Cittadino del mondo dei topi, in tempestosa si scagliarono tempesta
Da te giornate, settimane, mesi, anni — in pellegrinaggio28.
I giorni vennero di El’ — le temperie!
El’, questo solicello di carezze e d’accidia, d’amore29!
[...] Er, Ra, Ro! Tra-ra-ra30!
Fracasso di caccia, risa di guerra31.
Tu congerie di frottole sparate32
Nei chiodi ferrati della Scandinavia.
Vela, sciabordavi per la Rus’,
Cerchione di ferro del carro,
Al sud portavi via.
Di neve forte sul cuore asili notturni.
Nel topo del corpo ficcàti gli artigli del gelo.
Brenna, il vento della Russia ti ha portato.
E i villaggi chiedevano: son forse arrivati ospiti!
25
Traduce “rcy” dal precedente “dvorcy” = “palazzi”, senza poterne rendere però la
qualità fonetica dell’iniziale “r” (ovvero, la lettera “èr”).
26
A partire da qui, la battuta-poema di Zangezi prende ad imperniarsi su sempre piú
frequenti parallelismi tra i nomi delle lettere-fonema ‘celebrate’ e la qualità fonetica
delle parole russe utilizzate per la celebrazione; ovviamente, in una traduzione ‘di
servizio’ tali parallelismi si perdono, o se ne instaurano altri involontari (esemplare
la resa di questo verso: “È il Ka [= nome della lettera k] che attacca”...). Si è
comunque scelto di non perseguire la resa di tale procedimento stilistico, segnalandone peraltro in nota le ricorrenze piú manifeste.
27
Si tratta dei “merli” architettonici.
28
Fatta salva l’aderenza a norme elementari d’intellegibilità, la traduzione cerca di
rendere l’andamento fortemente ed assai originalmente iperbolico della sintassi
originale dell’eloquio epico di Zangezi in questo passo.
29
Nell’orig.: El’, èto solnyško laski i leni, ljubvi — tipico esempio del procedimento
poc’anzi segnalato.
30
Anche nell’originale è tra-ra-ra, e come in italiano è onomatopea di raffica (come
tale, già usata da Blok nel poema Dvenadcat’ [“I dodici”]).
31
Verso estremamente onomatopeico e allitterante: Grochot ochota, chochot vojny.
32
Nell’orig.: Ty turusy na kolësach, lett.: “tu sei il ‘turusy’ [parola senza significato]
sulle ruote”, dall’espressione razvodit’ turusy na kolësach (= “portare in giro
‘turusy’ sulle ruote”) che vuol dire “contar frottole”, “sparar balle” ecc.
Carriaggi di frottole33.
Nel distruggere delizie, non ti sovvenivano ostacoli,
Ma in lontananza si ergeva il bordone di Gè34, spezzato in due.
Er nelle mani di El’!
Se l’aquila, austeramente spianate le ali sghembe, ha nostalgia di
coccole,
Volerà Er, come un pisello dal baccello35, via dalla parola Russia.
Se il popolo si è trasformato in daini,
Se su di lui ferita si somma a ferita,
Se cammina come cervi
Il nero muso bagnato ficcando nelle porte del destino, —
È questo che chiede, che le coccole coccolino,
Le coccole e i puri El’, che il corpo stanco
Di concordia gli circonfonda un alito36.
E la sua testa
È il vocabolario dei soli vocaboli di El’.
Puzzola che braccheggia in terra straniera, vuole che ci si curi di lui!
Er a spron battuto
Corri, senza cadere contro il pavimento!
I volumi della via apprendili dalle barriere.
Tu mendíchi mormoríi
Converti in rumore di popolo,
I lapti37 di tiglio
Li sostituirai col murmure del ruggito38!
Er, tu vapore, tu spingi il treno,
Tu catenella del cug39 di globulenticchie rosse,
Lungo le vene della settentrionale Siberia,
O i palazzi ve li meni a flutti.
La fioritura delle strade vive di te come un girasole.
33
”Carriaggi” chiude la serie associativa semantica segnalata alla nota precedente, e
non realizzata nella nostra resa.
34
Nome della lettera g, iniziale tra l’altro di golod (= “fame”) e gorod (= “città”),
come esplicitato dalla metafora del verso successivo.
35
Nell’orig.: kak goroch iz stručka (concretizza cosí nel materiale fonetico il senso
ulteriore del verso: iz slova Rossija, “via dalla parola Russia”). Sul piano squisitamente transmentale, poi, goroch evoca golod e gorod, non scritti ma impliciti nella
metafora del verso precedente.
36
Čtob leli lelejali, / Leli i čistye Eli, telo ustaloe / Ladom ovejali.
37
Calzature in fibre di tiglio, tipiche dei contadini piú poveri nella Russia zarista.
38
Ty niščich lopot’ / Obraščaeš’ v narodnyj ropot, / Lapti iz lyka, / Zameniš’
ropotom ryka!: quartina a rima baciata e ritmo classico-regolare.
39
Muta o tiro di cavalli attaccati in una o piú file.
Ma El’ è giunto, Er è caduto.
Il popolo naviga sulla barca dell’accidia
E la bellica polvere da sparo la sostituisce col patibolo,
E la tempesta con la pagnotta40.
E coi sudarii la fionda... e con la fame l’antica città,
E i fieri con gl’ignudi41.
Ma Er i prati li sostituirà con la bestemmia42,
La corazza con l’orda43,
L’arma solleverà nuovamente dalla pozzanghera44,
Né si metterà a rovistare, bensí a menar fendenti45!
Al posto del malato metterà il combattente46!
Edificherà in tempio il ciarpame47 e nelle città bandirà la fame48.
E come un ladro trascinerà la volontà49.
Due volte riecheggiasti nel profeta50
E chi era ben forbito fu convertito in cittadini51.
Trafiggendo il buio dei tempi,
Cosí come Ka risuonava in Kolčak,
Ka scudisciava
Ceppi, legge, pali, e quiete e pietre52:
Cose con cui i profeti sono percossi,
In lui53 sono le condanne all’impalatura54.
Quando tu, Er, hai ululato nelle orecchie del nord pantano,
40
Narod plyvët na lodke leni / I poroch boevoj on zamenjaet plachoj, / A burju
bulkoj.
41
Intreccia parossisticamente l’alternanza fonetico-semantica El’/Er, su cui
s’innesta tutto il brano: plaščanica /prašča (= “sudario” / “fionda”); golod / gorod
(= “fame” / “città”); gordyj / golyj (= “fiero, orgoglioso” / “nudo, spoglio”).
42
Lug = “prato” / rugan’e = “bestemmia, parolaccia, ingiuria, insulto”.
43
Laty = “corazza, armatura” / rat’ = “legione, schiera, orda, armata”.
44
Oružie = “arma, strumento” / luža = “pozza, pozzanghera”.
45
Lazit’ = “inerpicarsi; rovistare, frugare” / razit’ = “colpire, fendere”.
46
Bol’noj = “malato” / borec = “combattente, guerriero, lottatore”.
47
Chram = “tempio (non necess. ‘pagano’), edificio adibito al culto” / chlam =
“ciarpame, vecchiume, cianfrusaglie, carabattole, roba di qualità scadente”.
48
Gorod = “città” / golod = “fame”; ulteriore esplicitazione del tema sopra segnalato.
49
Vor = “ladro, borsaiolo, scippatore” / volja = “volontà, libertà”.
50
Prorok = “profeta”.
51
Glaždennyj, part. pass. passivo da gladit’ = “stirare, forbire, lisciare”/ graždanin
= “cittadino”.
52
Okov, zakona, kolov, i pokoja, i kamnej.
53
Cioè, in Ka.
54
Kazni na kol.
Nelle larghe orecchie della palude:
“Lottare, fratelli, lottare!”55, —
La voglia veniva al casolare l’uragano tremendo di rincorrerlo col bianco
veltro,
Perché di nuovo andasse la fanteria, sino all’ultima risata56
Dei due teschi degli ultimi uomini presso la pietanza della guerra.
Nel frattempo con l’andatura grave del suicida andava per la steppa
Ka,
Marciando verso gli El’ con passi malcerti, come d’ubriaco,
E pitturando di sé le nubi del destino,
Dando una nuova sponda all’alveo delle morti umane.
Ultima mossa nella partita persa —
Canna57 alla tempia, procede Ka impallidendo.
Er, ra, ro! Il corno! Il corno!
Il dio della Rus’, il dio dello squasso58. —
Perun59, il tuo dio, nell’enorme sua statura
Non conosce barriere, egli strappa, scava sossopra, taglia, spacca60.
Son balle, che Kaledin sia stato ucciso e Kolcak, che lo sparo sia riecheggiato.
È Ka che ha taciuto, Ka che si è ritirato, che è crollato a terra.
È El’ che costruisce al mare di moría un molo, e alla morte ardite
secche61.
55
”Borot’sja brat, borot’sja!”; anche in contrapposizione a boloto = “palude” e
severa bolotca = “del nord pantano” dei due versi precedenti.
56
Nell’orig.: ochota u chaty = “il casolare ha voglia”; pechota =“fanteria”; chochot
= “risata”.
57
”Canna” di pistola o fucile.
58
Er, ra, ro! / Rog! Rog! / Bog Rusi, bog rucha; dove rog = “corno”, bog = “dio”,
ruch = frammento tematico semionomatopeico (cfr.: ruchnut’ = “crollare, sprofondare, andare in rovina, sfasciarsi, sconquassarsi”).
59
Divinità panslava, con alcuni attributi simili a Zeus-Pater, e per alcuni risalente al
*Dyeus Perqunos indoeuropeo.
60
Cosí nell’originale gli ultimi cinque versi: Er, ra, ro! / Rog! Rog! / Bog Rusi, bog
rucha. - / Perun, tvoj bog, v ogromnom roste / Ne znaet on pregrad, rvët, roet, režet,
rubit.
61
Eto El’ stroit morju mora mol, a smerti smelye meli.