Abitare la follia - Formazione in Psicologia

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Abitare la follia - Formazione in Psicologia
Abitare la follia: architetture terapeutiche nella famiglia a transazione psicotica.
Rossella Aurilio
Le famiglie psicotiche consolidano nel tempo una modalità relazionale che si configura in
costellazioni triangolari fortemente rigide e d’intensa colorazione emotiva. Quando il livello tensivo
all’interno della famiglia sorpassa il limite di tollerabilità, la triangolazione viene realizzata con
persone esterne al sistema,costituendo così un vero e proprio universo geometrico. Il terapeuta che
interagisce con questo tipo di famiglie, non può limitarsi alla classificazione di tali costellazioni, ma
deve coraggiosamente decidere d’entrarne a far parte.
Primi segnali: l’invio e l’inviante.
Una paziente di circa quarant’anni, alta, bruna e di bell’aspetto che chiameremo Marta, stava
terminando il suo processo di psicoterapia e tracciava nelle ultime sedute il routinario bilancio
consuntivo. A suo parere ne usciva in attivo essenzialmente per due aspetti:
1) Aveva superato un grave decennale problema d’alcoldipendenza;
2) Aveva interrotto una sofferente ed ingarbugliata storia sentimentale con un uomo di
vent’anni più grande. Un ricco professionista separato legalmente dalla moglie, con la
quale, però, non aveva mai interrotto una travagliata, ma solida convivenza.
Mentre l’alcool, per quanto identificato come un serio nemico, era vissuto dalla mia paziente come
un periodo di facile identificazione, la forte dipendenza nei confronti di quest’uomo, sia di tipo
economico che emotivo era da lei vissuta come una minaccia ancora attuale, capace di minare la
libertà dei suoi comportamenti.
Verso la fine della terapia, dunque, chiede se mi è possibile farmi carico di una giovane ragazza
che, a suo dire ha problemi psicologici ed esistenziali, figlia dell’uomo al quale era stata legata.
“E’ la figlia del mio ex compagno, dottoressa, e siamo ancora oggi molto legate. ha sofferto per
aver avuto una mamma fredda ed aggressiva e medici che l’hanno riempita solo di farmaci.”
la ragazza in questione, che chiameremo Giulia, aveva ventidue anni, soffriva in realtà già da
diverso tempo di schizofrenia paranoide, aveva consultato tutti i possibili psichiatri e psicoterapeuti
della città e molti ancora in altre città italiane.
Pur non avendo questo tipo di informazioni al momento della conversazione con la mia paziente,
era evidente, come frequentemente accade nell’invio di una famiglia a transazione psicotica, che
questi primi scambi rappresentavano i segnali di un gioco complesso proveniente dall’estrema
propaggine di un nucleo familiare a me ancora sconosciuto.
La mia inviante, dunque, non resistendo alle lusinghe di Giulia di farle da madre alternativa,
cercava di trascinarmi nel ruolo parallelo di fare la dottoressa “alternativa” e ovviamente “migliore”
dei terapeuti consultati prima. Ci sono “giochi” relazionali così complessi e vincolanti che per
essere giocati richiedono un impegno dell’intera vita e se un giocatore dovesse per ventura riuscire
a svincolarsi, il patto implicitamente stipulato è che favorisca l’ingresso di qualche altro.
Cosicchè Giulia chiedeva spesso di me alla mia paziente, che a sua volta parlava con lei volentieri
dell’esperienza terapeutica e di quanto l’avesse aiutata.
Dovevano essersi innescate, a mia insaputa, fantasie ed aspettative che alla lunga avranno portato
Giulia alla convinzione che potessi rappresentare un giocatore conveniente per il suo tipo di gioco.
Diedi a Marta l’autorizzazione a farmi contattare dalla ragazza, che come prima mossa al telefono,
mi chiese di incontrarmi da sola ed in assoluto segreto. Palesò forti timori che la madre potesse
venire a conoscenza di questo incontro ed opporsi con ogni mezzo a quest’iniziativa. D’altronde
specificò, fatti del genere erano già accaduti per altre iniziative prese autonomamente.
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E’ chiaro che qui siamo in presenza di una prima esplicita configurazione triangolare che vede
Giulia cercare un’immediata coalizione contro la madre ancor prima di conoscermi.
Come tutti noi ben sappiamo le strutture triangolari sono comuni modalità interattive dei sistemi e
non solo quelli familiari. La loro realtà non è necessariamente legata alle relazioni patologiche, ma
il grado di rigidità di una simile struttura unita a una sorta di impossibilità di interscambio tra i
componenti ne determina la disfunzionalità.
Sia che aderiamo alla visione di Haley dei triangoli, quando il gioco è due contro uno, o a quella
omeostatica di Bowen che evidenzia la funzione equilibratrice delle tensioni del sistema emozionale
familiare o che sposiamo la tesi Selviniana di un “imbroglio” trans generazionale che alimenterebbe
lo stallo di coppia, in ogni caso resta fondamentale prendere in considerazione tre punti.
Il primo riguarda la capacità del terapeuta di fare una “diagnosi precoce” delle triangolazioni messe
in atto soprattutto quando tali modalità lo riguardano e lo investono direttamente.
il secondo consiste nel “giocare di anticipo”, cioè prevenire i tentativi di triangolazione con cui la
famiglia potrebbe invalidare il lavoro terapeutico nei suoi momenti cruciali.
Il terzo punto, non ultimo per importanza, è poter usufruire sempre e inderogabilmente del lavoro di
èquipe, che resta la garanzia più solida per un’analisi del vissuto emotivo del terapeuta. Da tale
valutazione scaturirà la scelta del tempo e della modalità utilizzata dal terapeuta per detriangolarsi.
Durante il colloquio telefonico risposi a Giulia che avrei accettato di vederla una prima volta, ma
che, pur capendo le sue preoccupazioni, sul segreto non potevo garantire. Se fossi contattata dalla
madre non me la sarei sentita di mentire, nè prevedevo alcun impegno per il futuro, avremmo
discusso di tutto questo dopo il primo incontro.
Smascherare del tutto le regole di un gioco alla prima mossa, significa rischiare di non giocare
affatto. I sistemi, in qualità di organizzazioni autodeterminate, possiedono precisi codici di accesso
che bisogna prima individuare e poi necessariamente utilizzare.
La strategia del “Sì, ma” qui adottata con la paziente è una delle tecniche che permette di stare al
gioco, ma non a tutte le sue regole.
Abitare la follia: progetto di villa a tre piani con discesa a mare e senza vie di uscita.
Nino, è il nome che diamo al padre di Giulia.
Nino aveva compiuto da poco trentacinque anni, viveva nella sua famiglia di origine, unico maschio
di una facoltosa famiglia napoletana con tre sorelle; non era ancora sposato quando decide di
progettare e far costruire una sua casa, un’enorme villa a tre piani sulla collina di Posillipo. Non
avendo problemi economici, non bada a spese e sceglie con cura ogni particolare della struttura, poi
l’arreda non trascurando alcun elemento.
T: (durante una seduta con la famiglia al completo rivolta all’architetto) “ Sono colpita dal fatto che
per uno scapolo lei progettasse una casa così grande e sontuosa. Cosa pensava di farsene di tutte
quelle stanze?”
N: “ Non pensavo che l’avrei abitate da solo. Fin dal primo momento l’ho immaginata per la mia
futura famiglia. Ho suddiviso lo spazio in modo funzionale, per degli eventuali bambini, cercando
di creare una casa prima di tutto confortevole, (rivolto agli altri). Loro dovrebbero dire se ci sono
riuscito”.
Sicchè questa famiglia viene in un certo senso progettata assieme alla futura abitazione, ma a
differenza di quest’ultima che era presente in tutta la sua concretezza, l’altra, la famiglia, prendeva
forma e vita solo in modo fantasmatico.
Nella testa del progettista, dunque, e vedremo come solo nella sua, casa e famiglia sono unite
assieme indissolubilmente anzi ancor di più l’una abita l’altra in un confusivo gioco di
sovrapposizioni.
Terapeuta rivolta alla moglie: “ Ricorda le prime impressioni di questa casa? Quando l’ha vista la
prima volta? “Soltanto dopo il matrimonio, la trovai indubbiamente bella, ma.... come dire, ebbi una
sensazione strana, non piacevole, anzi angosciante..., non l’ho amata. Per molti anni, più di dieci,
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non sono riuscita a fare neanche una piccola modifica, spostare un lume, un soprammobile. Adesso
va meglio, sono riuscita ad avere un angolo tutto mio”.
L’architetto quando ebbe finita la sua opera decise che era tempo di prendere moglie, durente un
viaggio di lavoro in Germania conosce una ragazza di bell’aspetto, alta e bionda che chiameremo
Ute, unica figlia femmina di una facoltosa famiglia tedesca con tre fratelli maschi. Si sposano poco
dopo ed hanno tre figli in ordine cronologico: Sergio ventiquattro anni, Giulia ventidue, Fabio venti.
Giulia durante una seduta con l’intera famiglia: “Ora ho bisogno di parlare io. Loro, dottoressa, con
il loro comportamento mi creano difficoltà, non mi lasciano i miei spazi, mi sento mancare l’aria”.
T.: “ Puoi fare un esempio sul loro comportamento? Non capisco perchè quando dici loro ti riferisci
alla tua famiglia per intero. Possibile che non ci siano differenze?”
P.: “ A tavola per esempio, quando siamo a tavola non posso deglutire. Tutta la stanza da pranzo è
contaminata dal tavolo al salotto. Spesso cerco di andare a mangiare in qualche posto tranquillo e
per un pò funziona, ma Fabio sembra che lo faccia apposta dottoressa, quando mi vede bella
tranquilla viene ed invade il mio territorio, contamina anche quello.”
Giulia nel suo disagio viveva una strana assimilazione tra la casa ed i suoi abitanti, tra il desiderio di
perfezione del padre ed il rifiuto, l’antipatia per quella casa, mai agita dalla madre.
T.: “ Sicchè le zone contaminate della casa cambiano nel tempo? Voglio dire c’è la possibilità che
una stanza contaminata in seguito si possa decontaminare?”
P.: (Riflette attentamente) “Si, ma ci sono stanze come le stanze da letto, soprattutto quella di
mamma, ma anche quella di Fabio, che non è possibile ripulire. Quindi tutto il 3° piano mi dà
problemi.”
T.: “Scusa e la stanza di papà?”
G.: (guardando la madre) “Non è al terzo piano, lui dorme al primo piano.”
T.: “ Sei brava col disegno? Puoi disegnarmi su questo grande foglio come senti la situazione
adesso piano per piano? Potresti contrassegnare col rosso le zone più contaminate?”
Aveva un atteggiamento di disapprovazione, Ute, la madre di Giulia, durante la seduta. Tutte le
volte che si lavorava sulle tematiche deliranti era invasa dalla paura. Aveva spesso verbalmente
espresso la sua perplessità sul fatto che la terapia sembrava favorire queste idee strampalate della
figlia o per lo meno non ostacolarle, mentre lei “recitava” una sorta di fiducia che spiegando
razionalmente quegli assurdi, Giulia potesse ritrovare la ragione.
La richiesta “clandestina” di terapia individuale, dunque, era stata ridefinita in un lavoro con l’intera
famiglia, pur rassicurando Giulia che la terapeuta sarebbe stata disponibile ad incontrarla da sola, a
seguire e sostenere i suoi sforzi, nel momento in cui il lavoro che stavano svolgendo con la famiglia
avesse restituito maggiore autonomia ad entrambe.
Intanto la terapia trovava nell’atteggiamento della coppia gli ostacoli maggiori.
Fortemente decisi a non incrinare il loro “non equilibrio” nè a mettere in discussione i precedenti
accordi, i genitori cercavano come unico terreno di confronto e di scontro la figlia, ma anche qui più
che a un vero scontro si assisteva ad una rassegnata rappresentazione di un vecchio copione.
non sembravano concordare su nulla, dalle regole comportamentali alla strada terapeutica da
percorrere.
Avevano consultato molti terapeuti in cerca apparentemente di aiuto. Nino aveva delegato a Ute
ogni decisione che riguardasse la terapia e questa, rivendicando una competenza acquisita, spesso
disapprovava, e più spesso bocciava i diversi approcci e le diverse impostazioni.
Nino non esprimeva volentieri la sua opinione ed anche se sollecitato stentava a prendere posizione,
tranne poi agire a casa, con Giulia, comportamenti opposti alla linea terapeutica concordata.
La loro attuale relazione non poteva non risentire della loro vicenda matrimoniale. Dopo poco più di
un anno, infatti, il loro matrimonio era già fortemente in crisi. Lui lamentava un freddo distacco
della moglie di tipica marca nordica, lei giustificava la sua distanza a causa dei clamorosi
tradimenti di lui con altre donne che non si preoccupava neanche di nascondere. Il ruolo di genitori,
dopo la nascita dei figli non sarà sufficiente a interrompere l’altalena di vendette reciproche attuate
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utilizzando tutto quanto li circondava: soldi, viaggi, amici, amantio, figli, domestici. Arrivano a
maturare una separazione legale, ma continuano a coabitare in questa casa costruita da sempre con
l’obiettivo di mantenere la famiglia unita.
Giulia si inserisce in questa realtà, con ruoli e funzioni precisi. Molto presto, a meno di dieci anni è
confidente e “terapeuta” della mamma, confortandola nelle sue notti di lacrime, a tredici ha un
repentino cambiamento di carattere: da dolce e remissiva diventa chiusa ed aggressiva, questo
periodo coincide con un evento significativo, la madre inizia una relazione stabile con un uomo. A
quattordici ha il primo esordio psicotico, aggredisce con un coltello entrambi i genitori e fugge di
casa, riferendo al vicino commissariato di essere stata violentata dal padre.
A sedici diventa la migliore amica e confidente di Marta che ormai ha una relazione stabile con il
padre, utilizzandola ed essendo a sua volta utilizzata in una guerra ferocissima contro la madre.
La guerra all’interno della splendida casa, invece, coinvolgeva tutti gli abitanti senza eccezione
neanche per i domestici, anzi proprio su questi, una ragazza straniera di venticinque anni ed un
uomo italiano di circa quarantacinque, confluivano parte delle tensioni familiari.
Giulia da anni individuava in Antonio, il cameriere, una persona a lei ostile col potere di
contaminare l’ambiente. Vedremo in seguito come Giulia abbia trasportato su questa figura
maschile molte istanze conflittuali della sua relazione col padre.
Ivette, la domestica, invece era invisa alla madre, poichè si alleava con Giulia, assecondandola in
tutte le sue ossessive richieste di lavare e disinfettare ogni cosa.
Tutto era permesso in questa guerra domestica, tutto tranne una mossa: abbandonare il campo di
battaglia.
La famiglia doveva restare compatta.
T.: (rivolta alla coppia) “Nessuno dei due ha mai neanche soltanto fantasticato di allontanarsi? Di
cambiare casa?”
Ute: “Io certamente. Ho anche provato, ma non mi è stato possibile. I ragazzi non volevano lasciare
la casa del padre, sarebbero rimasti con lui ed io non volevo lasciare loro.”
La casa, dunque, li teneva uniti e prigionieri e, apparentemente non sembravano esserci soluzioni
possibili.
A volte i figli avevano proposto ai genitori di cercare casa altrove e di lasciare quella abitazione per
loro.
Solo Giulia sembrava nutrire un desiderio di andare via, spesso fuggiva o vagabondava in città
senza meta o chiedeva con insistenza di essere iscritta in qualche collegio lontano da Napoli.
Dai sedici ai diciotto anni le crisi diventano così frequenti che viene ricoverata in una clinica di
Lugano dove una terapia farmacologica l’aiuta a riprendersi. A tutt’oggi assume farmaci controllata
dagli stessi medici.
Dalla psicoterapia con la famiglia sono emersi elementi sufficienti per ipotizzare ciò che la Selvini
definisce un “illecito” transgenerazionale.
Le arti seduttive del padre che conquistava spesso le sue donne irretendole con la disponibilità di
denaro, comportamento questo tanto spesso confuso con la generosità, avevano coinvolto anche
Giulia. Fin da piccola, infatti, poteva disporre di grandi somme di denaro e via via crescendo era il
padre che provvedeva alle sue richieste, come costosi viaggi o capi di vestiario dell’alta moda.
Gli oggetti a cui teneva di più, ed in particolare modo i vestiti, vengono progressivamente coinvolti
nell’organizzazione delirante del pensiero. Abiti appena comprati non potevano più essere indossati
perchè contaminati dagli armadi di casa. Gioielli e oggetti di valore dovevano essere messi da parte.
In questo vano tentativo di purificarsi, di espiare e far esapiare, l’intera abitazione progettata dal
padre con tanta dediszione era diventato un luogo angusto e soffocante da cui non riusciva ad
uscire.
Spesso, come abbiamo già detto, Giulia adoperando una trasposizione, attribuiva al cameriere
intenzioni e comportamenti seduttivi nei suoi confronti. E’ interessante notare come durtante il
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lavoro di psicoterapia, questo contenuto ideativo, che pur era stato presente per molti anni,
scompare del tutto, lasciando posto ad una maggiore consapevolezza del comportamento paterno.
G.: “Credo proprio che mio padre abbia una nuova donna, io mi accorgo subito quando lui inizia
una nuova storia. Ormai aono anni che si comporta sempre allo stesso modo. Inizialmente è
contento come un ragazzino.”
Nel variegato e complesso universo dei problemi che caratterizzano le famiglie con un membro
psicotico il terapeuta deve poter conservare una stabilità di obiettivi.
Nel nostro caso è stato di fondamentale importanza condurre i genitori ad una visione realistica
della condizione della figlia, poichè inizialmente oscillavano tra una posizione di negazione più
assoluta ad una di massimo sconforto. Nel primo caso diventa prioritario che Giulia mantenesse un
ritmo di vita quanto più normale possibile, sostenendo il suo impegno universitario, nel secondo,
nessun miglioramento di Giulia sembrava potesse risollevarli e davano spazio alle loro fantasie più
catastrofiche immaginando peggioramenti negli anni futuri fino alla perdita completa
dell’autonomia. Ciascuna di queste posizioni se perpetuata portava al sabotaggio di qualsiasi
progetto terapeutico minimamente realizzabile.
Altro importante obiettivo di tutto il processo è stato sventare le triangolazioni messe in atto da tutti
i membri della famiglia che a tale scopo utilizzavano i meccanismi a cui erano maggiormente
avezzi:
non definirsi mai ed avere sempre un’alternativa pronta, una porta da cui uscire: due uomini, due
donne, due terapeuti, due madri, due domestici.
Successiva finalità è stata quella di immaginare Giulia sempre più partecipe e protagonista del
progetto terapeutico visto che nel tempo si era guadagnata il suo tanto sospirato supporto
psicoterapico individuale.
E’ stato deciso che la terapia individuale fosse effettuata dallo stesso terapeuta della famiglia visto
l’alto livello di manipolazione dei membri del sistema.
Tema centrale del lavoro è stato l’abitare, la ricerca di un luogo dove poter raccogliere le proprie
parti sofferenti senza sentirsi incalzati da minacciose presenze ed essere costretti a riprendere la
fuga. Si è esplorato molto lentamente, con cautela la concreta possibilità di vivere altrove, ma
certamente non è semplice infrangere una regola così pregnante per la famiglia e che nessun
membro fino ad oggi è riuscito neanche soltanto ad intaccare.
Poter mantenere costanza e fermezza degli obiettivi terapeutici con sistemi di simile struttura
rimanda alla stabilità emozionale del terapeuta. Come sostenere l’onere, l’alto grado di
responsabilità e le frequenti pressioni che necessariamente comporta il lavoro psicoterapeutico?
Una risposta, abbiamo detto, la dopbbiamo necessariamente cercare nell’équipe terapeutica, in quel
sottile lavoro di “filo da terra” capace di garantire la via del ritorno quando il percorso con la
famiglia psicotica ci spinge oltre il nostro abituale livello di guardia.
Altre risposte il terapeuta coinvolto in prima persona nella relazione le troverà via via disseminate
lungo il percorso terapeutico; starà a lui cogliere e conservare come bene prezioso quelle che sente
potranno sostenerlo nelle difficoltà.
Il “maleficio” di Giulia che tutto inesorabilmente contaminava, precludendole ogni spazio, si
arrestava sulla soglia del nostro Istituto. L’intero appartamento, la stanza di terapia e la mia stessa
persona erano preservati, nessuno poteva contaminarmi. Giulia si dava e mi dava una possibilità e
coraggiosamente la difendeva. Potevamo abitare uno spazio insieme ai componenti della sua
famiglia senza subire minacce.
Le famiglie psicotiche consolidano nel tempo una modalità relazionale che si configura in
costellazioni triangolari fortemente rigide e d’intensa colorazione emotiva, spesso in questo
percorso la colorazione sperimentata è stata quella dell’angoscia, ma siamo lentamente giunti ad
esplorare costellazioni che pur restando triangolari avevano toni emozionali certamente meno cupi,
fino a poter sperimentare un gioco del “Sì, ma” arioso e divertente.
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G.: “Vorrei qualcosa di suo da portare a Lugano adesso che salgo per il controllo, anche una
sciocchezza. Le dispiace?”
T.: “Mi stai chiedendo un regalo o un portafortuna? Nel primo caso è più facile accontentarti, nel
secondo, invece, dovrei documentarmi su quali talismani funzionano meglio.”
G.: “Ma no, volevo solo una cosina qualsiasi che mi ricordi di lei e mi faccia sentire meno sola
quando sarò con i medici svizzeri, per me lei è una persona importante.”
Giulia dissew tutto questo con la solita voce metallica, fredda ed inespressiva e con la solita
scoraggiante incongruità tra il livello analogico ed il contenuto verbale così pregnante.
T.: “Ci penserò e ti prometto che rischierò di farti un regalino, rischierò perchè sono certa che non
mi diresti mai cosa ti hanno regalato i medici svizzeri quando hai fatto loro la stessa richiesta prima
di ritornare in Italia.”
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