Mostri di Rosario Esposito La Rossa

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Mostri di Rosario Esposito La Rossa
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Le zanzare
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Rosario Esposito La Rossa
MOSTRI
Marotta & Cafiero
editori
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Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons “Attribuzione Non Commerciale
- Non opere derivate 2.0”, consultabile in rete all’indirizzo http://creativecommons.org.
Pertanto questo libro è libero e può essere riprodotto e distribuito con ogni mezzo fisico,
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e senza modifiche, ad uso privato e a fini non commerciali.
Attribuzione - Non Commerciale - Non opere derivate 2.0
A zio Rosario,
per ciò che mi hai dato,
per ciò che sei.
A te, un padre.
Tu sei libero:
• di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire o recitare l'opera.
Alle seguenti condizioni:
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©Marotta & Cafiero editori
Via Andrea Pazienza 25
80144 Napoli
www.marottaecafiero.it
ISBN: 978-88-88234-81-6
Copertina di Carmine Luino
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Il sonno della ragione genera mostri.
Francisco Goya
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Prefazione
Libera la parola!
Ho letto di un fiato il malloppo portatomi da Rosario. Ne
sono rimasto pietrificato, come se fossi stato colpito da una
fitta sassaiola. Mi sembrava un testo molto bello, ma senza
speranza. Che prefazione avrei potuto scrivere?
Telefonai a Rosario che tentò di spiegarmi la genesi di
questo scritto e poi aggiunse che mancava sia la postfazione
dell’amico Gubitosa che l’ultima storia, cioè la nascita di un
bimbo con la scritta di Tagore: “Finché nasce un bimbo è segno che Dio non si è ancora stancato dell’umanità.”
Dopo aver letto il tutto, incominciai ad inquadrare meglio
il testo e a capirne il suo significato e la sua portata. Raccontando drammatiche e violente storie, questi giovani vogliono
che comprendiamo la loro rabbia per essere nati e costretti a crescere a Scampia, il quartiere mostro di Napoli, è proprio vero che il sonno della ragione genera mostri! Penso infatti che prima di arrestare i camorristi di Scampia, le forze
dell’ordine dovrebbero arrestare e portare in tribunale i politici e gli architetti che hanno costruito quel mostro, non ho
mai visto un quartiere disumanizzante come quello!
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Scampia deve essere distrutta e ricostruita in ambiente
più umano e vivibile. La Scampia attuale non può che generare rabbia e violenza, che emanano anche da queste pagine.
E capisco la rabbia di questi ragazzi.
Le baraccopoli di Korogocho, a Nairobi in Kenya, dove
sono vissuto per dodici anni lunghi, mi hanno aiutato a leggere la realtà partendo dal basso, dai sotterranei della vita e della
storia. E quando si guarda il mondo con lo sguardo degli impoveriti e degli oppressi, come fanno questi ragazzi di Scampia, lo si legge con altri occhi.
Si tenta semplicemente, dicono questi ragazzi, di alzare quel
sudicio lenzuolo di menzogna che avvolge luoghi, deserti e persone, per vedere cosa c’è sotto, ma soprattutto chi c’è sotto.
Questi giovani che si ritrovano in Voci di Scampia, un’associazione giovanile, hanno avuto la grazia di leggere la loro realtà, nuda e cruda. In questo libro trovo un’incredibile passione
per la verità, ma una verità proclamata pubblicamente.
Questo è un libro dalle periferie del mondo, che ci aiuta
a leggere la realtà per quella che è. È questo il passo fondamentale verso la liberazione. Il “vedere” è il dono più bello
che possiamo ricevere. È il dono dei diseredati, degli emarginati, degli esclusi. È il dono delle Voci di Scampia, voci negate, voci soppresse, voci allontanate. È quanto fanno i ricchi
dei quartieri bene di Napoli, i vari Posillipo, Vomero, Chiaia,
che tengono lontani i giovani di Scampia e non vogliono che
penetrino nel loro territorio.
Napoli: la città dai due volti. La collina dei ricchi e i palazzoni di Scampia. Come Nairobi con i suoi bellissimi quartieri residenziali, Lang’ata, Karen, Muthaiga, e le immense baraccopoli che la circondano come una corona di spine. Sono
due mondi, divisi da un muro che è sempre più alto e sempre più invalicabile. Un muro che divide chi ha, da chi non
ha. Altro che muro di Berlino! Riusciranno questi due mondi a guardarsi in volto, ad ascoltarsi, ad accogliersi? È l’unica
via questa per guarire.
Almeno questi giovani di Scampia hanno incominciato a
guarire perché hanno incominciato a vedere, a leggere il sistema, ’o Sistema, entro cui vivono, un sistema economico-finanziario che ammazza per fame, per guerra e così finisce per
ammazzare il pianeta. È un tema questo che attraversa i quaranta racconti di questo libro, proprio come i quarant’anni
del popolo ebraico nel deserto. Ma soprattutto perché hanno deciso di non fuggire, ma di rimanere a Scampia, per impegnarsi contro i mostri, contro il drago, tutto questo mentre c’è una incredibile fuga giovanile da questa città.
È un impegno nonviolento il loro, che vogliono portare
avanti insieme, come comunità. Non si può resistere da soli ai mostri! Questo unire le forze dal basso è un altro aspetto fondamentale in questa Napoli dove il mettersi insieme,
il fare “rete” è la cosa più ostica che ci sia. Questo fenomeno è chiamato dalle Voci di Scampia defrag, un tipico linguaggio giovanile per dire deframmentazione, eliminazione dei
vuoti.
Questi ragazzi e ragazze di Scampia hanno deciso di restare, di non partire da dove sono nati, di cercare lavoro dove
lavoro non c’è. Scrivono, è un rischio, lo sappiamo, ma l’unico vero rischio nella vita è non correre alcun rischio. E questo vostro “rischio” ha trovato altre centocinquanta persone
che hanno “rischiato”, vi hanno dato credito perché possiate realizzare questo primo volume. Avete creato così una re-
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te, ben più larga di Scampia, avete rischiato gettando le reti
ed avete avuto una pesca miracolosa.
Questa è la strada! È la strada lillipuziana per legare il gigante, il mostro.
E la speranza nasce proprio da questa volontà di non arrendersi davanti alla violenza e al sangue, neanche davanti al
sangue innocente di Antonio, disabile ammazzato dalla camorra, a cui è dedicata l’associazione. Ma avete trasformato
quella tragedia in un momento di vita, in Voci di Scampia.
Non vedo altra strada per far risorgere Scampia, quartiere
simbolo del degrado di questa città. Non vedo altra strada per
far rinascere questa nostra amata città. La guarigione di Scampia sarà anche la guarigione di questa immensa metropoli.
La speranza nasce dal basso. Dall’alto non possiamo più
aspettarci nulla!
È fondamentale però che le Voci di Scampia si uniscano a
tante altre realtà impegnate in questa città, dai comitati acqua,
alle associazioni rom, a quelle per la pace e il disarmo.
“Il processo di cambiamento inizia,” afferma il noto pensatore statunitense, David Korten, nel suo stupendo volume
The Great Turning, “quando uomini e donne prendono coscienza delle loro potenzialità e trovano il coraggio di rompere il silenzio, parlando apertamente della verità scoperta.
Più siamo capaci di proclamare la verità, più gli altri troveranno il coraggio di proclamarla. Sarà allora più facile ritrovarci e finirla con il nostro isolamento, formando comunità
dove possiamo condividere le nostre intuizioni e rinnovare il
nostro coraggio”.
E questo non solo per Scampia o per Napoli, ma per tutti,
poiché viviamo un momento drammatico della specie Homo
Sapiens, si tratta ormai della sopravvivenza della razza umana.
Viviamo tutti dentro un sistema economico-finanziario
che ammazza milioni di persone ed ora minaccia lo stesso
pianeta, l’unica navicella spaziale che abbiamo.
“Il nostro tempo,” conclude giustamente David Korten,
“deve scambiare i dolori dell’Impero con le gioie della comunità Terra Madre. Ci auguriamo che i nostri posteri potranno
guardare a questo periodo storico come il tempo della grande
svolta, quando l’umanità è stata capace di fare una scelta coraggiosa per agevolare l’arrivo di una nuova era votata a realizzare le più alte potenzialità della natura umana.”
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Alex Zanotelli
Defrag
ovvero introduzione e ringraziamenti
Non è facile spiegare cos’è Mostri, potrei banalmente ridurre il tutto a una raccolta di racconti sui diritti umani, storie di ultimi, schiacciati, oppressi, ma non voglio gettare il lavoro di questi quattro lunghi anni, in quel calderone editoriale che si compiace del dolore. Non c’è pena in quest’inchiostro, non c’è quella maledetta morale borghese di chi guarda
il mondo dall’alto, con le mani pulite. Si tenta semplicemente
di alzare quel sudicio lenzuolo di menzogna, che avvolge luoghi, disastri e persone, per vedere cosa c’è sotto, ma soprattutto chi c’è sotto. Tante volte i personaggi di questo libro si
mettono ad urlare, ma ciò che veramente tappa le arterie sono i silenzi. Assordanti silenzi di chi rivendica diritti affogati
nel petrolio, seppelliti tra le mine dei conflitti, rinchiusi nelle
banche dei potenti. Cosa ha da dire questo libro? Forse niente a chi ha vissuto il Vietnam, la Guerra Fredda, le crisi del
Medio Oriente, ma sono sicuro che sarà una spina nel fianco per i giovani, per quella generazione che conosce la storia
ufficiale fino alle seconda guerra mondiale. Non è colpa loro, i programmi questo impongono, ma quel vuoto di informazioni, quello spaccato di storia, gli ultimi sessant’anni, gli
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anni che hanno generato i nostri giorni, beh forse vale la pena di capire. Non tanto conoscere le date, i generali, quella
storia raccontata dai vinti, piuttosto capire, farsi le domande.
Perché questo titolo? Mostri. Perché quattrocento anni fa, un
vecchio sordo spagnolo, un pittore, Francisco Goya, scrisse il
sonno della ragione genera mostri. Questo libro non ha la pretesa
di dare soluzioni, di cancellare quella nebbia che spesso avvolge la mente di noi umani, però per distruggere quei Mostri chiamati guerre, genocidi, stupri, razzismo, Halabja, Srebrenica, Majak, Korogocho, il Kurdistan, bisogna conoscerli,
bisogna comprendere le cause, gli interessi, i perché.
Mostri è un libro composto da oltre quaranta racconti,
ognuno è un flash, una luce abbagliante negli occhi del lettore, non è un testo di fotografie scritte, chi viene fotografato,
chi ci mette la faccia, è il lettore. Perché queste storie sembrano dire: e ora che farai? Chiuderai questo libro nella tua preziosa libreria e correrai alla tua vita di sempre, vita che consuma, vita che spende, vita che conta se sei solo attraente.
Non che il mondo avesse bisogno di questo libro, però
per me queste pagine sono anche una testimonianza, un presa di posizione, una scelta. Qualcosa che rimane.
Mostri è un libro registrato con licenza Creative Commons,
è un libro libero. Chiunque può fotocopiare interamente questo testo, utilizzarlo per realizzare lavori teatrali e cinematografici, chiunque può distribuire, modificare, esporre in pubblico queste pagine. Dieci euro, questo libro costa dieci euro, un prezzo folle vista la mole del prodotto, ma volevamo
realizzare qualcosa che tutti si potessero permettere, un libro acquistabile da qualsiasi famiglia, indipendentemente dal
portafogli. Per la stessa ragione abbiamo realizzato un ebo-
ok che tutti possono scaricare da internet senza pagare un
centesimo.
Contemporaneamente a questo libro è stato prodotto anche un audiolibro per i non vedenti, che sarà distribuito gratuitamente a chiunque lo richieda. Mostri è un libro realizzato in carta riciclata e per ogni mille copie stampate verranno piantati dieci alberi autoctoni, vogliamo creare un piccolo bosco, il bosco dei Mostri.
Ho sempre creduto nel potere dei libri, perché un libro
può essere anche altro, perché un libro dev’essere sempre
un punto di partenza. Grazie a questo libro è nata a Scampia una casa editrice, un gruppo di pazzi, una cooperativa di
giovani. Non è solo una provocazione, la realtà socio-commerciale nel quartiere martoriato dalla criminalità, nel pericolosissimo impero della camorra napoletana, questa cooperativa è qualcosa di tangibile, fatta di ragazzi e ragazze che
hanno deciso di restare, di partire da dove sono nati, di creare lavoro dove il lavoro non c’è. È un rischio lo sappiamo,
ma l’unico vero rischio nella vita è non correre alcun rischio.
Non abbiamo cercato il fiore nel deserto, lo abbiamo piantato. Ora è un germoglio fragile, che ha bisogno di protezione, per questo abbiamo deciso di destinare alla nascente cooperativa editoriale tutti i soldi ricavati dalla vendita
di questo libro. Acquistarlo non significa solo comprare un
oggetto, significa dare la possibilità ad un gruppo di giovani
scampioti di portare avanti un sogno, una scommessa, una
realtà lavorativa.
Defrag dice il titolo di questa sorta di presentazione. Defrag tradotto in italiano deframmentazione, eliminazione
dei vuoti. Infondo Mostri è questo, una deframmentazione
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storica e spaziale. Tenta di avvicinare fatti, storie, pensieri,
ma soprattutto uomini.
Ricordo il giorno in cui io e Lena decidemmo di partire
con questa idea pazzoide del libro coprodotto, della produzione dal basso.
Senti Lé, io ho pensato una cosa, perché non trasformiamo questo libro in qualcosa di speciale? È vero possiamo investire noi, prendere i soldi, stampare e vendere, però alla fine, cosa c’è di magico, di diverso, di sincero? Che ci mettiamo a fare i capitalisti? Perché non trasformiamo il lettore in
editore, praticamente dobbiamo solo trovare centocinquanta
persone disposte a comprare qualcosa che non esiste ancora, i soldi da loro investiti li utilizziamo per stampare il libro,
così loro diventano i nostri coeditori, il loro nome lo mettiamo nel libro e ricevono anche una copia a casa. Che ne dici,
le troviamo centocinquanta persone disposte a fidarsi di noi?
Secondo me è una cazzata, centocinquanta sono troppe.
No, mi disse Lena, non è una cazzata, si fideranno.
E così è stato. Centocinquanta benedette persone le abbiamo trovate, le abbiamo deframmentate ed hanno stipulato con noi un patto, dove a farci da testimoni c’erano solo il
sole, la luna e le stelle. Senza vincoli giudiziari, senza leggi o
contratti, si sono fidati dei nostri occhi, delle nostre parole,
di noi e per questo li ringrazio immensamente.
Da Catania a Trieste, passando per Napoli, Fermo, Aosta,
Trento, Cuneo, Brindisi, Asti, Torino, Sassuolo, Biella, Vercelli, c’è sempre stato almeno un matto che ha detto io voglio fare l’editore. Un particolare ringraziamento però va al
Piemonte, regione pilastro di questo libro, e a Novara la città con il maggior numero di aderenti, una città umana, una
città dove abbiamo lasciato un pezzo del cuore. E parlando
di Piemonte mi preme ringraziare Maria Josè Fava, una donna fantastica, che per noi ha dato tantissimo, con una disponibilità immensa, un senso dell’organizzazione impeccabile,
un’amica che ci ha trattato da amici.
Ringrazio Tommaso Marotta e Anna Cafiero, perché hanno fatto accendere in noi la scintilla dell’editoria, ci hanno
fornito i primi strumenti, il loro appoggio, la loro competenza ed esperienza. Ringrazio Carla Saponaro, per aver passato
i suoi pomeriggi a correggere le pagine di questo libro, ringrazio Carlo Cerciello per averci permesso di pubblicare “Il cielo
di Palestina”, per il suo teatro di impegno, politico, vero. Ringrazio padre Alex Zanotelli e Carlo Gubitosa, per aver dedicato le loro parole a questo libro, li ringrazio perché ci siamo
nutriti delle loro idee, perché abbiamo fatto tesoro delle loro
esperienze, perché sono per noi esempi da seguire.
Ringrazio la professoressa Lucarelli, non dimenticherò
mai che tutto è partito dalle sua parole: “scrivi perché le parole se usate bene possono far più male dei ciottoli”. Forse
la scuola non dovrebbe essere quella cupa prigione di nozioni, gerarchie e imposizioni, ma una catena indelebile tra chi
dà e chi riceve, tra chi insegna e chi apprende. Il ricordo della mia scuola felice è rinchiuso nei minuscoli occhi della professoressa Lucarelli.
Ringrazio Lena perché è la linfa della mia anima. Perché
non dice mai di no, perché mi segue sempre, mi appoggia,
perché crede in me. La ringrazio per quei suoi occhi dal color che non esiste, perché solo lei sa cos’è davvero questo libro, questi quattro lunghi anni passati a scrivere, correggere, riflettere, inventare. La ringrazio perché non si è mai tira-
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ta indietro, perché ha messo da parte i suoi sogni, perché ci
mette la faccia. Lei lo sa che mi emoziono a parlare di queste
cose, mi basta dirle lo sai solo tu.
Se un’altra vita ci sarà io voglio incontrarti ancora.
Rosario Esposito La Rossa
Ride e spara
La guerra! È una cosa troppo seria
per affidarla ai generali.
Georges Clemenceau
Sento degli spari. Resto seduta dove sto, in un angolo del
salotto. Entra un soldato. È americano. Si guarda intorno, indossa la mimetica, un fucile e l’elmetto. Si ferma e mi fissa. Ha
la bocca aperta. Inizia a parlare, non capisco nulla, lui continua e si avvicina, io non parlo, lui si riavvicina e io non parlo.
Inizia ad urlare, urla qualcosa che non capisco. Urlo anch’io,
è vicinissimo. Mi tappa la bocca, puzza di birra quella mano.
Si avvinghia su di me, mi getta sul divano. Io urlo, mi lascia
urlare. Fuori sento altre urla. Lo graffio, ma lui ride. Sì, ride. Mi strappa i vestiti di dosso, la camicetta, il reggiseno. Mi
morde, mi morde il seno, mi lecca tutta, mi viene da vomitare. Infila la sua mano dovunque, mi stringe forte il culo, scava tra le gambe e io urlo, urlo, benedetto il cielo, urlo. Urlo!
Lui ride, ride e si spoglia, lascia cadere il giubbotto antiproiettili, una bomba a mano scivola sotto il divano. Lui ride e
si tocca freneticamente. Mi strappa le calze e poi le mutande.
Le annusa, se le mette in tasca. Tira fuori una pistola, me la
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punta alla testa. È fredda. Gelida. Continua a leccarmi, sento i suoi genitali strisciare sulle mie gambe, strisciano e s’induriscono. Intanto la pistola mi perseguita. Pistola e lingua,
morsi e fregamenti. Mi prende da dietro, mi apre le gambe.
Urlo, urlo, ma lui continua. Mi penetra. Mi penetra e spara in
aria, spara in aria e mi penetra, io urlo e lui mi penetra, il soffitto traballa, ma lui spara e io urlo, urlo forte, lui spara, spara, spara, spara. Lascia che il suo sperma mi invada. Stanco,
si accascia sul divano. Entra un compagno. Lo trascina fuori e insieme scappano.
Sono dal ginecologo, mi dice che sono incinta. Esco dallo
studio e mi ficco in bocca la bomba a mano lasciata dal soldato. La stringo tra i denti, sento il sapore del metallo sulla
lingua. Poi da qualche parte nella mia testa, qualcuno mi ricorda che il mio cuore batte a coppia. Questo bambino sarà il figlio dell’uomo che ha ammazzato mio padre, mia madre e i miei fratelli.
Sono già passati nove mesi e fra poco il dottore mi chiamerà. Fra poco, in questo sporco ospedale, partorirò. Eccolo
che arriva, mi mettono sulla barella, arriviamo nella sala operatoria. Il bimbo scalcia, sento dolore, il dottore mi dice di
rilassarmi, ma io ho i nervi tesissimi. Fuori è buio, buissimo.
Sarà una nottata lunga, lunga come un libro…
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Addio Tobia
Tutti i grandi sono stati bambini una volta.
Ma pochi di essi se ne ricordano.
Antoine De Saint-Exupéry
Il piccolo Tobia è in cortile, aspetta che la macchina arrivi. Suor Germana gli aggiusta continuamente la camicetta
e il cappotto. Ha le scarpe buone l’orfanello di cinque anni.
Attende i suoi nuovi genitori, quelli che gli daranno una vita diversa.
Io me ne sto in camera mia. Dalla finestra si vede tutto
quello che mi serve vedere. Ogni volta che spiaccico il mio
naso sul vetro si gela per il freddo inverno. Anche il mio gattino Pus ha i brividi. Lo trovai qualche anno fa che rovistava
tra i pochi sacchetti di spazzatura dell’orfanotrofio e da allora non ci siamo più divisi. Ha un manto nero lucido e delle
zampette minuscole. È magro, si vedono le costole, lui mangia le mie rimanenze.
Mi chiamo Rudi, ho tredici anni e sono già vecchio per
una mamma e un papà. Anche se la reverenda madre mi dice di non preoccuparmi, io so già quello che mi aspetta. Altri
cinque anni di reclusione in questo merdaio armeno, ai con25
fini del mondo. Io sorrido sempre davanti alle loro false speranze, ma dentro il vuoto s’infiamma. So che passeranno altre
notti in cui non chiuderò occhio, pensando al volto di quella donna che mai mi canterà la ninna nanna. Nella mia stanza
ho appeso tutti i disegni che ho fatto. Tutti raffigurano la faccia di una donna. Quando si è orfani tua madre potrebbe essere bionda, castana, rossa, cinese, africana, vecchia, giovane,
cattiva, sensibile. Tua madre potrebbe essere chiunque e nessuno. Ecco perché faccio tanti disegni, così se magari un giorno verrà a prendermi, già avrò un regalo per lei.
Sono quasi le dodici, il cielo è cupo. Non c’è nemmeno un
raggio di sole. Tobia freme. Non l’ho mai visto così pulito, di
solito indossa una tutina tutta rotta. Sicuramente la passeranno a Pedro. Le suore sono gentili, ma che possono fare loro
che amano Dio. Il loro figlio si chiama Fede. Spesso ci provo a parlare con quello là, il Signore, ma mi risponde sempre
il silenzio. Forse per avere un appuntamento bisogna essere
preti. Suor Adelaide dice che sono fortunato. Io almeno ho un
pasto tutti i giorni, io almeno non sono stato venduto all’asta.
Qui nessuno mi capisce. Nessuno si mette in testa che non
bastano pasta e piselli.
Sento il motore arrivare. Finalmente ci siamo. Eccoli, i signori Mutin. La suora dà il benvenuto alla coppia fortunata.
Tobia non parla. La sua nuova mamma pesa centodieci chili.
Forse se l’immaginava diversa. L’omone col cappotto lo prende in braccio. Lo conosco bene Tobia, fa finta di sorridere.
Pus gira frettolosamente per la stanza, sicuramente è in
cerca del topo rognoso. Qualche volta ho pensato alla morte.
Non ho paura, ma so che quando arriverà avrò un rimpianto. Morirò senza aver mai detto mamma. Qualche volta di
nascosto, sotto il letto, l’ho detto per vedere com’era: mamma, mammina, mami, mammina mia, ma poi mi dico sempre,
se nessuno mi risponde che lo dico a fare. Da quando sono
qui non ho mai ricevuto un regalo. Il 25 dicembre non esiste
all’orfanotrofio Saint Alexander. Ho sempre pensato che il
camino fosse ostruito, che Babbo Natale fosse troppo grasso per la nostra canna fumaria. Ma poi sul tetto ci sono salito e non c’è niente che chiude il comignolo. Il fumo sale in
aria, senza paura. Mi sa che sulla lista di Babbo Natale non
c’è l’indirizzo dell’orfanotrofio.
Quando vado al mercato, gli altri bambini mi chiamano
bastardo. Loro hanno i capelli lunghi, io sempre rasati per
colpa dei pidocchi. Certe volte mi fissano negli occhi e capisco che provano paura e pena. Lì mi sento un puntino, una
nullità. Allora quando torno nella mia stanza faccio un disegno, lo metto nel cesso e ci piscio sopra. Piscio in faccia al
mio papà che non mi ha saputo difendere, che non mi ha cresciuto. Che si è dimenticato di me. Io non faccio mai male a
nessuno e so cosa significa il dolore, le cinghiate delle suore lasciano il segno. Ma se un giorno incontrerò mio padre
per strada gli dirò: “Merda”. Non lo ucciderò, perché, come
diceva il signor Pastrik, morire in Armenia è meglio che vivere. Il compito di sigillargli lo sguardo glielo lascio al marito delle suore.
Pus è tornato, in bocca tiene il topo. È la quarta volta che
lo becca ed io per la quarta volta lo libero. Sennò questo cazzo di gatto che fa tutto il giorno qui dentro?
La nuova mamma di Tobia gli strattona le guanciotte. La
macchina è già in moto, fra poco se ne andranno. Qui non
cambierà nulla, avremo a testa un boccone in più e un fra-
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tello in meno. Succede sempre così, i primi mesi Tobia verrà a trovarci due volte alla settimana, poi una volta al mese,
poi una volta all’anno e poi non si ricorderà nemmeno più il
mio nome.
Quando uscirò da qui voglio avere un figlio. Uno tutto
mio. La prima cosa di questa terra che appartiene a me. Per
lui farò tutto. Vivrò per lui e mia moglie farà lo stesso. Gli
comprerò tanti libri di favole, tanti giochi e un pesciolino rosso come Pinocchio.
Sul davanzale della finestra due piccioni si proteggono dal
vento. Le piume s’increspano sotto le raffiche. Quanto vorrei essere come i piccioni, volare lontano e beccare le briciole.
Anch’io mi accontento di poco, ma il Signore ha voluto che
io fossi orfano e chi cresce orfano non sempre è un uomo.
Tobia piange, saluta le suore. Se ne va. Speriamo che non
lo riportino indietro. Lui fa sempre le caccole e gli puzzano
i piedi, ma l’orfanotrofio non è un supermercato. Piove. Le
gocce battono sul vetro. Pure il cielo piange oggi. Ma all’orfanotrofio tutti sappiamo che piangere non serve a niente.
Addio Tobia,
non ritornare mai più.
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Short DragonTooth
Due cose mi hanno sempre impressionato:
l’intelligenza degli animali
e la bestialità degli uomini.
Tristan Bernard
Short DragonTooth, ovvero dente di drago corto. È il
nome leggendario della mina antiuomo americana BLU43/B, novanta grammi di nitrometano, esplosivo liquido.
È stata sperimentata dagli americani nelle foreste dei Viet
Cong, ancora oggi brillano all’improvviso. Di quella mina
con il detonatore di tipo idrostatico, l’ingegnere russo Igor
Shalimov conosceva ogni dettaglio. Erano mesi che studiava appunti e progetti di quella maledettissima bombetta. Da
parecchie notti non chiudeva occhio, la sua creatura era quasi giunta alla perfezione. Il vecchio Igor aveva lavorato per
anni con gli italiani fin quando quei figli di puttana di Emergency avevano convinto il governo a vietare la produzione della famosa Valmara 69. Quanto amava la mina italiana l’ingegnere. Tremilatrecento grammi di peso, una prima
carica solleva a ottanta centimetri da terra un cilindro contenente duemila schegge metalliche, la seconda carica gene29
ra la vera esplosione che spara a 360° i frammenti nella zona circostante.
La sua creatura era poco più piccola di una mano, dalla forma inusuale, simile ad un uccello, forse una farfalla. La
PFM 1 ha uno scopo ben preciso. Il suo compito non è ammazzare soldati, la PFM 1 punta ai bambini. Sganciate dagli
elicotteri, grazie alle due alette, devono planare ricoprendo la
massima fetta di territorio possibile. Non devono mimetizzarsi con il terreno. No, devono essere riconoscibili. Il colore è verde, ma nella mente di Igor già esistono versioni rosa
o azzurre. Per maschietti e femminucce. Dev’essere ben visibile, incuriosire l’occhio dei mocciosi. La sua detonazione
non avviene calpestandola. Dà l’illusione di essere un gioco e
può essere tale anche per quaranta ore. Ogni volta che i bambini se la passano tra le mani, ogni volta che provano a farla
volare come aquiloni, il liquido contenuto nell’aletta spugnosa raggiunge il corpo centrale dov’è contenuto il detonatore.
È una mina infallibile, che si diverte con la psiche dei bimbi.
Questo suo ritardo nello scoppio serve proprio a far sì che lo
scopritore della mina condivida il suo nuovo toy con gli altri
amici, cosicché il botto provochi più danni possibili.
Non vede l’ora di mostrarla ai generali sovietici Igor, sa
benissimo che questa mina gli riempirà le tasche di soldi. Ormai tutto è al suo posto, la piastra di chiusura, le rotaie di
bloccaggio, la sicura, la linguetta di armamento. Si sente un
genio Igor, mentre montagne di fogli e floppy sono sparsi nel
suo studio che puzza di caffè marcio. Non mira agli uomini in uniforme il suo progetto, quelli oramai fanno parte delle guerra. Lui è un futurista, va oltre l’immaginario comune.
Oggi bambini, domani soldati, questo si ripete ogni giorno
l’ingegnere meccanico, chimico, spaziale. È un modo crudele, ma efficace di fare guerra. I bambini non moriranno mai
per l’esplosione, ma le loro ferite, la loro cecità, peserà sulle strutture sanitarie del paese, togliendo risorse per la cura
dei soldati feriti.
Guarda la mina e ride Igor, poi con un pennarello mette
la sua firma su un’aletta. Non è una mina quella sul tavolo, è
un assegno da milioni di dollari. Finalmente sua moglie Natasha non lo chiamerà più fallito, non lo sbatterà fuori di casa a Natale. Da oggi in poi sarà diverso, da oggi in poi il suo
conto in banca avrà parecchi zero. Sono le quattro del mattino, a Mosca nevica. Igor indossa il suo cappotto, la sciarpa e
i guanti, poi spegne la luce e nel laboratorio cala il buio.
A Kabul, Ashad segue con gli occhi il suo aquilone, mentre un elicottero sgancia migliaia di farfalle azzurre, migliaia di
mine volanti. Il bambino non ha nemmeno il tempo di accarezzare le ali di ferro, che la PFM 1 di Shalimov tuona. Dopo
alcuni giorni, un elicottero sgancia un altro stormo di farfalle, Ashad è di nuovo lì, questa volta con il suo aquilone stretto forte tra i denti.
Quel figlio di puttana dell’ingegnere si ripara dal sole cocente di Dubai, sotto le palme, mentre la moglie scopa con
gli arabi.
Tra le dune del deserto afgano, Ibrahim raccoglie il suo fenicottero di metallo. Dopo due giorni gli salterà in faccia lasciandolo nel buio, per sempre.
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Anna è una lastra di ghiaccio, bianca come la neve della
Siberia, gli occhi sbarrati. La guardo fissa, rinchiusa in quella
cassa da morto, troppo stretta per lei, bimba bionda. La settimana scorsa giocavamo tra le strade della regione di Majak,
e ora? Ora Anna chi è, che fa, dov’è? Il padre, piangendo in
silenzio, scava la fossa nella sterpaglia. Tutti sappiamo perché
è morta Anna. Tutti lo sappiamo. È morta nello stesso modo in cui è morto mio fratello, mio padre, il signor Vladimir.
L’hanno ammazzata le radiazioni. Mentre a Parigi i bambini
s’ingozzavano di hot dog, la mia amica Anna moriva con le
convulsioni, vomitando anche l’anima. Il mondo se ne fotte
di noi, paesino russo sperduto, e figuriamoci se il Presidente
padrone pensa a noi, quattro gatti.
Majak è stata per cinquant’anni l’impianto chiave dell’industria civile e militare russa. Lontani dal Cremlino quattordicimila chilometri, noi, figli degli Urali, al confine del Kazakistan, noi siamo la pattumiera nucleare d’Europa. Nessuno
lo sa. Meno di cinquant’anni fa, sono stati versati nel fiume
Techa tonnellate di rifiuti tossici. Quell’acqua l’hanno bevuta
i miei genitori, i miei nonni, Anna. Quei maledettissimi rifiuti sono stati riversati anche nei laghi della Siberia. Dove nessuno ci va. Uno di questi laghi si è prosciugato e una tempesta di polvere nucleare ha bagnato Majak, è entrata nelle case di centoventiquattromila contadini. Si è intrufolata nei camini, nei bronchi, nelle speranze.
Ogni tanto leggo i giornali, mai una volta che qualcuno dicesse: “Ehi, fottuti terrestri, ci siete? Volevo semplicemente
avvisarvi che qualche anno fa l’impianto di raffreddamento
del reattore di Majak è scoppiato, un incidente pari alla metà
di Chernobyl, duecentosettanta persone esposte a radiazioni. Tutto qui, volevo solo dirvi questo, ora potete tornare a
guardare la vostra telenovela preferita.”
Nonostante Anna sia morta, mio fratello sia morto, nonostante continuo a vedere tombe di paglia e croci di legno, il
governo russo imperterrito importa rifiuti tossici dalle grandi nazioni del G8. La frase dei potenti stranieri è sempre la
stessa: “Not in my backyard”. Seppellisci questa merda dove vuoi, ma non nel mio giardino. Dove ha messo, caro Presidente, l’uranio impoverito americano? Forse ci sono sopra e non lo so. Forse in quella merda ci coltivo le mie patate. Il Minatom, il ministero per l’energia atomica russo, continua ad importare e stoccare rifiuti tossici per venti miliardi di dollari l’anno. Chi si arricchisce e chi perisce. È inevita-
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Vomitando l’anima
Ma la terra
con cui hai diviso il freddo
mai più
potrai fare a meno di amarla.
Vladimir Majakovskij
bile. È il sistema. Per ogni diecimila Anna morte, c’è un Presidente ricco.
Il padre di Anna tossisce, i suoi figli lo aiutano, ma lui li
caccia, vuole seppellire sua figlia da solo, come già ha fatto
con sua moglie. Tossisce, è un brutto segno, presto anche lui
avrà una bara stretta. Cosa rimarrà di noi, gente di Muslyumovo, tombe di paglia e croci di legno? Faremo la stessa fine di Tatarskaya Karabolka, la città senza abitanti. Diventeremo un villaggio fantasma? Vorrei avere una risposta diversa da quella che la mente mi propone.
Io sono down e la metà della mia classe lo è. Qui gli anormali sono i normali. Chi nasce con due gambe, chi ha il viso
identico al Presidente, chi è diverso da me. Io non dovrei dirlo, ma mamma mi odia. Sono brutta, lei no. Mamma la notte
piange, pure io lo faccio. Certe volte mi accarezza, ma prova ribrezzo perché il mio è un sorriso senza denti. Il signor
Wista da trent’anni fa il becchino, certe volte mi guarda quasi volesse dirmi: “Presto, piccola, dovrò seppellirti”. Mamma
dice che lui ha iniziato a vomitare, chissà chi morirà per primo, qui è una gara. Quando posso vado al museo di embriologia di Chelyabinsk, lì ci sono i bambini nei barattoli. Alcuni
con tre occhi, altri con mezza testa. Non dico bugie. Io vado
là e prego, perché io sono down, ma sono viva. Ce n’è uno di
nome Elvira, è una femminuccia. È un mostro. Io vivo ogni
giorno sperando di non partorire una figlia come Elvira.
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Dieci righe di razzismo
Per vedere cosa c’è sotto il nostro naso
occorre un grande sforzo.
George Orwell
Una signora anziana è stata rapinata da un rumeno del
campo rom della periferia della città. Lo straniero, clandestino, probabilmente ha agito insieme ad altri connazionali. Ha
seguito la vittima, che dopo aver ritirato la pensione, si apprestava a tornare a casa nel lussuoso quartiere della metropoli. Un blitz della polizia al campo rom del rumeno non ha
portato all’arresto di quest’ultimo.
Le indagini della polizia si stanno incentrando su un possibile basista all’interno dell’ufficio postale. La persona in questione è Marco Iodice, che avrebbe fornito le informazioni
necessarie per la rapina. Il rumeno non è pregiudicato, sarebbe penetrato in Italia nel 2002, grazie ad altri rumeni che gli
avrebbero garantito una strada d’ingresso sicura e documenti falsi. I rumeni del campo rom dicono di non conoscerlo. Si
aspettano da un momento all’altro risvolti sul caso. Il rumeno sarebbe nascosto nelle zone rurali della città.
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“La Corte si ritira per deliberare.” La voce del giudice zittisce tutti. Ahmed Assad si alza in piedi. In aula ci sono centinaia di giornalisti, le tv del mondo fanno eco al processo. Ahmed ha denunciato lo Stato d’Israele alla Corte Internazionale
di Giustizia dell’Aia, per l’esproprio illegale del suo pezzo di
terra, con cinque alberi d’ulivo e due pecore, uccise durante
le azioni militari israeliane. Ahmed non ha più una famiglia, il
figlio e la moglie sono morti durante la deportazione in terra libanese. Lui è rimasto solo. I suoi cinque ulivi non ci sono più, al loro posto, il muro della vergogna. Abbassa la testa Ahmed, fra poco saprà se la vita gli avrà reso almeno una
briciola di giustizia.
Nella mente ripercorre i giorni in cui tosava le sue pecore,
schiacciava insieme alla moglie le olive. Un po’ ha paura, stanno svanendo anche i ricordi. Felicia Langer gli accarezza la
mano e migliaia di flash immortalano quel momento di tene-
rezza. È triste la verità di questo processo. Il mondo se ne fotte del povero palestinese quarantacinquenne senza il suo pezzo di terra. Sì, la sentenza sarà anche importante, ma il mondo
mediatico è lì per lei, Felicia Langer, l’avvocato israeliano che
difende i palestinesi. È questo quello che fa notizia, chi appartiene a chi bombarda difende chi viene bombardato.
Felicia ha gli occhi piccoli come un gatto. Quelle due fessure su quel volto sincero raccontano tanto. Un’infanzia in
Polonia, poi la fuga verso l’Unione Sovietica, attendendo la fine del nazismo, la fine dell’orrore dell’olocausto. Felicia Langer era partita dal freddo della Russia, con tanta speranza, verso il nuovo Stato d’Israele, ci credeva nell’unione del suo popolo sparso per il mondo. Ma le cose non sono andate come
sperava. Un popolo vittima si è trasformato in un popolo carnefice. E allora Felicia ha deciso che la carta d’identità conta
poco, che il passato non può essere dimenticato così presto,
che i suoi ideali sono opposti a quelli dello stato che la rappresenta. Le oppressioni subite da un popolo non possono giustificare la negazione dei diritti di un altro, aveva detto pochi
minuti prima, davanti alla giustizia più alta del mondo. Sorrideva mentre guardava Ahmed, quasi volesse dirgli non so se
passerà fratello, ma continueremo a combattere. Sa bene Felicia che non è più solo un avvocato, che il mondo si è accorto delle sue cause, di lei, una scomoda testimone. Gli hanno
conferito il Nobel alternativo, il Right Livelihood Award, un
premio che nessuno conosce perché surclassato dal prestigio
del premio svedese.
Seduto qualche fila più indietro c’è suo marito, Mieciu
Langer. Col pancione, pensieroso. A lui nessuno fa le foto.
Eppure avrebbe tanto da raccontare. È uno dei pochi uomi-
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Amen e Amin
Ci sedemmo dalla parte del torto
visto che tutti gli altri posti
erano occupati.
Bertolt Brecht
ni al mondo che è sopravvissuto a cinque campi di concentramento. Kz-Plaszow, Czestochowa, Buchenwald, Rehmsdorf Bei Zeitz, Theresienstadt. Quando era nei campi pesava trentotto chili, oggi ne pesa ottantatre. Si sono invertiti solo i numeri. Lui è la spalla della moglie, la famosa frase
dietro ogni grande uomo c’è una grande donna si è invertita in questo caso.
Quello che succede in Medio Oriente è un politicidio.
Un massacro deciso a tavolino. Nel 1948, USA, Inghilterra,
Francia, Gran Bretagna e URSS decisero che gli ebrei avevano rotto il cazzo, che comandavano troppo. Meglio non farli ripopolare a questi qua, banchieri, gioiellieri, presta soldi.
Non avete una casa? Ve la diamo noi. E se in quella casa c’è
qualcuno lo cacciamo.
Fa impressione vedere i manifesti della propaganda per la
“Grande Israele”, hanno quasi gli stessi slogan di quelli del
nazismo. Che senso ha l’espansione, che senso ha avuto l’occupazione, il colonialismo nella Striscia di Gaza? In sala c’è
un arabo, urla qualcosa, lo cacceranno sicuramente, le guardie si stanno già insospettendo. È arabo e quindi potrebbe
essere un terrorista, meglio cacciarlo fuori, lui e le bombe.
Ahmed sente quello che dice quell’uomo: “Durante gli anni
dell’olocausto i palestinesi ospitavano gli ebrei nelle loro case,
come fratelli, durante quegli anni le porte delle case palestinesi erano sempre aperte.” Prima di essere sbattuto fuori a calci dalla giustizia internazionale quell’uomo riesce solo a dire:
“Tra Amen e Amin cambia solo una vocale, siamo fratelli.”
Il giudice rientra in aula. C’e fermento. Inizia a leggere la
sentenza. “Questa Corte chiede allo Stato d’Israele la restituzione di sessantotto metri quadri di terra al signor qui pre-
sente Ahmed Assad, con relativi cinque ulivi e due pecore.”
Felicia abbraccia Ahmed che piange. I flash impazziscono.
Dovranno restituire la terra ad Ahmed, magari proprio quella dove abitava venti anni fa. Dove ora c’è il muro, faranno
un buco. Un buco nella vergogna.
“Non voglio la terra” dice Ahmed ai giornalisti. “Al posto del muro costruite un ponte pieno d’ulivi e lasciate che
due pecore vi pascolino in libertà, lasciate che arabi e israeliani possano riscaldarsi con la stessa lana, e ammazzatele pure le due pecore purché al banchetto non ci siano popoli, ma
uomini.”
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Papà era attaccato alla radio. Appiccicato con l’orecchio
all’altoparlante. Piccoli sorrisi intervallavano silenzi e strani
sguardi. Si parlava della guerra. Papà diceva che le carte parlavano chiaro. Avevamo vinto.
La mia casa a Trieste affacciava sul mare. Il mare a Trieste
è sempre increspato, come se sotto bollisse qualcosa, come se
la bora venisse partorita dagli abissi. Quel giorno il mare grigio era calmo. Il vento non soffiava. La gente era in casa. Io
avevo in mano Mister Brown, un rinoceronte di pezza logora. Mister Brown era poggiato sopra il tavolo. Era prigioniero
dei cattivi, dei nemici, ed io nella mia missione immaginaria
dovevo salvarlo. Silenzioso mi avvicinavo, minaccioso guardavo che nessuno arrivasse dal salone o dalla cucina. Giocavo
a far la guerra, giocavo a vincere la guerra. Giocavo.
Il pavimento iniziò a tremare, vibrava come i cingolati dei
carri armati che si avvicinavano. Il tremolio si arrampicò fin
dentro il cuore. Erano arrivati i cattivi. “Ehi, Mister Brown,
tieni duro, siamo ostaggi, mi raccomando bocca chiusa, cucita.” La porta di casa venne sfondata da due soldati. Mio padre alzò le mani e un pugno chiuso. Ci fecero uscire. Non mi
piaceva questo gioco, piangevano tutti. Nascosi Mister Brown
sotto la maglia, poi mio padre mi strinse a sé, sotto il suo cappotto. Ci fecero salire su un camion, andava veloce, Mister
Brown piangeva. “Dài, Mister Brown, non piangere, che credi la guerra è questa, bisogna stringere i denti. Ci sono io qui,
non ti lascio solo.”
Iniziò a piovere. I miei capelli lunghi si attaccarono al viso. Papà mi teneva tra le sue gambe, mi alzava con una mano,
mi nascondeva, per lui alto un metro e novanta ero una pulce. I soldati ci circondarono, iniziarono tutti ad urlare. Mister
Brown, inzuppato, urlava anche lui. “Zitto, Mister Brown, così ci scoprono.” Urlavano tantissimo, uomini e bambini scappavano in tutte le direzioni. I nemici sparavano. Qualcuno
cadeva, qualcuno ferito continuava a correre. Papà mollò la
presa e lo persi per sempre. “Corri, Mister Brown, dobbiamo
trovare papà.” I nemici trascinavano gli uomini in un fosso,
li lanciavano. Lanciarono tutti e lanciarono anche me. Uno di
loro mi prese per la camicia e mi scaraventò nel vuoto. Caddi nel buio per alcuni secondi, muovevo i piedi e non toccavo
mai terra, stavo volando verso il basso. Caddi e svenni.
Qui la storia potrebbe finire, col bambino ammazzato dai
soldati di Tito nelle foibe, gettato come una carcassa in un fosso, schiacciato sotto il peso dei corpi, ma la storia continua.
Aprii gli occhi la sera tardi. Sotto di me decine e decine di
morti, sangue secco, vestiti bagnati. Mi avevano lanciato per
ultimo. Il mio primo atterraggio l’ho fatto sui morti. Morti per
cuscino direbbe qualcuno. Li muovevo, cercavo di svegliar-
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Il pozzo e la luna
Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici,
ma il silenzio dei nostri amici.
Martin Luther King
li, ma nessuno dormiva. “Papà, papà dove sei?” La notte mi
rispondeva col silenzio. Alzai gli occhi e vidi la luna, perfettamente sopra la mia testa, un limone gigantesco nel cielo,
una palla gialla. Vidi anche Mister Brown, appoggiato al giaciglio della foiba. “Ehi, Mister Brown, corri, corri, va a chiamare i rinforzi, siamo tutti qui, abbiamo bisogno di te, Mister
Brown, corri. Dài, Mister Brown, ti daranno una medaglia!”
Ma il rinoceronte di pezza non si mosse, continuò a guardarmi con i suoi occhi bottoni.
Di giorno urlavo, urlavo per farmi sentire da qualcuno.
Ma il giorno mi rispondeva con lo stesso tono della notte.
Silenzio. Parole senza note. Ero inzuppato, avevo freddo.
Scottavo. Forse avevo la febbre. Mia mamma quando avevo la febbre mi preparava sempre la cioccolata calda, ora invece per pranzo e cena avevo solo vermi. Avevo fame, avevo sete, avevo sonno, avevo tutto e non avevo niente. La sera la luna tornava, ci facevamo delle lunghe chiacchierate. Lei
mi raccontava dei suoi abitanti, dei topolini microscopici che
mangiavano i suoi crateri fatti di formaggio. “Ehi, luna, perché non dai anche a me un po’ di formaggio?” Nessuno lo
sa, ma la luna è avida. “Perché non chiedi aiuto, palla gialla,
perché stai zitta? Tu sei in tutto il mondo, basta una parola,
diglielo anche tu, Mister Brown, basta una parola. Mio nonno Gioacchino ti guarda sempre, abita a Venezia, dopo il canale, quello con l’aiuola e i fiori rossi, digli che sono qui, diglielo, lui ci crede che tu parli.” La luna restava sempre lì, con
quella sua espressione stupita.
Mi sentivo sempre più debole, i morti non dicevano una
parola, sembravano di cartone. Perché son caduto per ultimo, perché Mister Brown non sei qui giù insieme a me, alme-
no parlavamo, almeno potevo stringere qualcuno. Non avevo più forze, i piedi congelati e le labbra crepate dal freddo.
Il giorno non passava mai, ma io dovevo parlare con la luna,
ormai ero il suo migliore amico, sapevo tutti i suoi segreti,
le storie dei suoi abitanti, i passaggi nascosti dei topini e conoscevo anche i nomi di tutti i crateri. Non chiedevo tanto,
non sono mai stato un bambino che fa capricci, volevo solo esprimere un desiderio, un piccolo desiderio. Il sole sembrava farmi i dispetti, c’era sempre luce. Il tempo non passava mai. Poi arrivò il buio e le stelle. Urlavo: “Luna, luna!” La
chiamavo: “Dove sei luna, devo dirti una cosa, devi esaudire
un desiderio, luna, luna.” Volevo che per un istante il mondo
si capovolgesse, tutto sotto sopra, alberi a testa in giù, nuvole per pavimento, mari come tetti di case. Tutto sotto sopra
per un solo istante, il tempo di uscire da quel pozzo, prendere Mister Brown e scappare sulle nuvole. “Dài, luna, me lo
devi questo piacere, ti ho anche detto che non amo i fagioli e
che li mangio solo per far contento papà, lo sai era un segreto importante, nemmeno Mister Brown lo conosceva.”
La luna non arrivò, quella notte nessun palloncino giallo
si piazzò nel cielo. Niente chiacchiere, niente rumori. Solo silenzio. Buio e silenzio. Tutto dormiva. Anch’io, per rispetto,
chiesi al mio cuore di star zitto.
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Il kamikaze di Najaf
Chiodo scaccia chiodo,
ma quattro chiodi fanno una croce.
Cesare Pavese
sa un cappuccio di plastica nera soffocante. Il viso è nascosto, sembra uno di quei membri delle sette sataniche. Chissà
a cosa serviranno mai questi cappucci del cavolo. Forse a nascondere gli occhi di un padre che stringe suo figlio. Il piccolino è lì per grazia degli americani salvatori. Hanno permesso al padre di tenerlo con sé. Forse la madre sarà già morta.
La sua espressione è segnata dal calore, il prigioniero gli accarezza la fronte con lo stesso amore di un cristiano o musulmano. Intorno a loro un recinto immenso di filo spinato,
quasi fossero tigri o leopardi.
È il 31 marzo quando Jean-Marc scatta la foto, poi ripreso dagli americani si nasconde nella sua stanza.
“Devo fare presto porcaccio mondo, devo fare presto!”
Jean-Marc Bouju stringe tra le mani la sua reflex. Nell’obiettivo uno dei rari momenti di umanità del campo U.S.A
di Najaf, regione irachena. La fronte del francese s’imperla di
sudore dinanzi alla scena. Il sole del Medio Oriente picchia
forte e lui stenta a scattare, un po’ la mano gli trema.
Jean-Marc è un giornalista dell’Ap, un uomo affermato nel
suo campo, vincitore anche del Pulitzer. Gli americani ancora
devono accorgersi della sua postazione. È stato assegnato alla centounesima divisione aviotrasportata dell’esercito americano, ma i soldati non lo tengono di buon occhio. Non vogliono che renda immortale ciò che succede in quel campo
di torture. Il tempo sembra rallentare, Jean-Marc si fa mille
domande mentre guarda i suoi soggetti.
Seduti sotto il sole cocente ci sono un prigioniero e suo figlio di quattro anni. Il ragazzino è scalzo, poco lontano le sue
scarpette si sciolgono al sole. Il padre vestito di bianco indos-
Pochi mesi dopo il francese Jean-Marc Bouju è il vincitore della quarantasettesima edizione del premio World Press
Photo 2003, nelle sue tasche diecimila euro e la soddisfazione di aver battuto ben sessantatremila scatti. Il salone olandese della premiazione è gremito di giornalisti e fotografi a
caccia di notorietà e successo. Il presidente della fondazione invita Jean-Marc a salire sul palco. Quando stringe tra le
mani il riconoscimento non riesce a parlare, tutti lo applaudono. I suoi pensieri volano lontani. Di quel bimbo e di suo
padre kamikaze non conosce nemmeno il nome, non sa se il
loro cuore batte ancora.
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Discorso all’umanità
di Charlie Chaplin
La gran maggioranza della gente
morirebbe piuttosto che pensare e riflettere.
E lo fa veramente.
Bertrand Russell
Mi dispiace, ma io non voglio fare l’Imperatore: non è il
mio mestiere; non voglio governare né conquistare nessuno.
Vorrei aiutare tutti, se possibile: ebrei, ariani, uomini neri e
bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre,
dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non
odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto
per tutti. La natura è ricca, è sufficiente per tutti noi; la vita
può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato.
L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo
nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca fra le cose più abbiette.
Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici; l’avidità ci ha resi duri e cattivi;
pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità; più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza
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queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto. L’aviazione
e la radio hanno riavvicinato le genti; la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà nell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odono, io dico: non disperate! L’avidità
che ci comanda è solamente un male passeggero, l’amarezza
di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e, qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete
a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi
dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che
vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie.
Non vi consegnate a questa gente senza un’anima, uomini
macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore.
Voi non siete macchine, voi non siete bestie: siete uomini!
Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore, voi non odiate, coloro che odiano sono quelli che non hanno l’amore altrui.
Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate
nel Vangelo di San Luca è scritto: Il Regno di Dio è nel cuore dell’uomo. Non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini. Voi! Voi, il popolo, avete la forza
di creare le macchine, la forza di creare la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare che la vita sia bella e libera; di fare
di questa vita una splendida avventura. Quindi, in nome della democrazia, usiamo questa forza. Uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore! Che dia a tut47
ti gli uomini lavoro; ai giovani un futuro; ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose, dei bruti sono andati al potere, mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse, e
mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono
schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse! Combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere; eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole. Un mondo
in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati, nel nome della democrazia, siate tutti uniti!
Hannah, puoi sentirmi? Dovunque tu sia, abbi fiducia. Guarda in alto, Hannah! Le nuvole si diradano: comincia a splendere il sole. Prima o poi usciremo dall’oscurità, verso la luce
e vivremo in un mondo nuovo. Un mondo più buono in cui
gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità, del
loro odio, della loro brutalità. Guarda in alto, Hannah! L’animo umano troverà le sue ali e finalmente comincerà a volare, a volare sull’arcobaleno verso la luce della speranza, verso il futuro. Il glorioso futuro che appartiene a te, a me, a tutti noi. Guarda in alto Hannah, lassù.
Tratto dal film Il grande dittatore regia di Charlie Chaplin (1940).
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11 settembre
Aqui manda el pueblo y el gobierno obedece.
EZLN
È autunno a Parigi, le foglie gialle iniziano a cadere. Nel
cortile della Sorbona gli studenti si preparano per le lezioni.
Cartelle, occhiali, telefonini e vestiti alla moda. Gioventù del
nuovo millennio. Le classi sono affollate, poche sedie vuote.
I ragazzi si accomodano anche a terra nell’aula 53 del professor Forel. Qualcuno lo definisce insegnante di antropologia, altri di storia, qualcuno di poesia, forse di biotecnologia.
Quando Forel entra in classe si fa subito silenzio. C’è rispetto
per il professore cinquantenne, le sue lezioni sono famose alla Sorbona. Non è uno che si piazza dietro la cattedra e spiega, con lui non ci sono solo libri, c’è passione. Ha due baffi
bianchi il professore di Lione, qualcuno lo chiama lo zingaro
per gli abiti che indossa, mimetiche, gilet e vecchi stracci di
seconda mano. Lui dice che sono ancora buoni.
Inizia la lezione, Forel prende parola. “Chi di voi sa cos’è successo l’11 settembre del 2001?” Tutti alzano la mano
e un piccolo brusio si sparge nell’aria. “Certo è una data che
ha cambiato la storia e le sue conseguenze stanno continuan49
do a cambiarla, ma quanti di voi sanno cos’è successo l’11
settembre del 1973?” Nessuna mano si alza. “Ragazzi miei,
il problema di noi, gente del ventunesimo secolo, è che dimentichiamo troppo in fretta e più dimentichiamo e più siamo portati a fare gli stessi errori.” Si toglie le scarpe e i calzini e sale in piedi sulla cattedra. Narra la storia nello stesso
modo in cui un papà racconta storie fantastiche al suo bambino nella tenda al campeggio.
“Immaginiamoci il Cile, questo lembo di terra sospeso tra
le Ande e l’Oceano Pacifico. Le Ande, le terrazze del mondo.
La parola Cile, per i mapuche, significa dove finisce la terra.
Immaginatevi di camminare per le vie di Santiago nel 1970.
C’è una certa frenesia per le strade, ci sono le elezioni e i candidati sono tre: Salvador Allende dell’Unidad Popular, l’ex
presidente conservatore Alessandri e il democristiano Radomiro Tomic. Tre stelle per un posto in paradiso. Lo ricordo
come se fosse ieri il mio primo viaggio in Cile. Appena atterrai a Santiago, Luis, un mio vecchio amico, mi regalò la bandiera del Cile. Rossa come il sangue versato per l’indipendenza, bianca come la neve delle Ande e blu come l’oceano. Nel
blu una stella, l’unità, lo stare insieme.
Comunque tornando alle elezioni, dopo alcuni problemi
finalmente si votò. Allende 36%, Alessandri il 35% e Tomic
il 27%. Il vantaggio era minimo, ma il congresso decise di decretare la maggioranza ad Allende. Quello fu un bel momento per il Cile, si respirava profumo di fiori nel cielo. Allende iniziò una serie di riforme, scolastica, agraria, la sospensione del debito estero, il latte gratis per i bambini. Nazionalizzò le industrie del rame. Il 78% di queste industrie erano in mano agli americani. Allende si riappropriò delle risor-
se primarie del paese in barba agli yankee. Questa fu una grave perdita per gli Stati Uniti, un brutto colpo in piena Guerra Fredda. Allende aveva poco tempo, solo sei anni per cambiare quel paese, così accelerò le sue riforme diminuendo la
disoccupazione e l’inflazione. Nel ’71 Fidel Castro girò tutto il Cile in quattro settimane, cosa che allarmò i conservatori e gli americani. Quello che si temeva era una nuova Cuba,
un nuovo paese comunista. Per screditarlo gli americani banalizzarono la via del socialismo di Allende, definendolo futuro dittatore comunista. La pressione della bandiera a stelle
e strisce fu fortissima, non solo politica, ma soprattutto economica. Gli USA iniziarono ad appoggiare i partiti d’opposizione e le alleanze politiche di Allende si sciolsero tutte. Gli
americani attuarono una sorta di embargo e pagarono i sindacati per scioperare e protestare. L’ultimo sciopero, quello
dei camionisti, paralizzò il paese.
Quello di buono fatto da Allende si frantumò, il dollaro
americano aveva nuovamente vinto su programmi e riforme.
Dal latte gratis si passò al mercato nero dei prodotti primari. La logica del profitto sconfiggeva nuovamente l’idea dell’uguaglianza.”
Il professore scende dalla cattedra, apre la sua borsa e tira fuori una bomboletta spray. Passa tra i banchi mostrandola a tutti.
“Allende usò uno dei più antichi ed efficaci sistemi del
mondo per le sue elezioni. Il linguaggio visivo. Niente comizi, lettere, comunicati stampa, ma immagini, murales. Raccontava alla gente analfabeta la sua rivoluzione attraverso le
immagini sui muri. In quegli anni Santiago era un museo a
cielo aperto. Ragazzi, quando parlo di murales non intendo
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i graffiti, queste scritte che oggi troviamo sui muri delle metropoli. I graffiti sono nati come marchi di possesso di zone, lì c’è il mio nome quindi comando io. I murales no, hanno intenti politici e sociali. I murales raccontano qualcosa, lasciano un messaggio.”
Prende la bomboletta e inizia a dipingere. Sul muro compare un verme, un verme che striscia e diventa farfalla. I ragazzi restano esterrefatti, un murales nell’aula! E cosa dirà il
rettore? Per di più rosso comunista.
“Vedete ragazzi, questo può essere un disegno su un muro, ma può essere anche qualcos’altro per chi vede con altri
occhi. C’è chi su questo muro scorge soltanto la metamorfosi
di un animale, ma c’è anche chi trasforma il verme in un popolo, in quattordici milioni di persone, che stanche di strisciare alzano la testa e spiccano il volo. Un banale disegno diventa un messaggio politico, storico, sociale. I murales dell’Unidad Popular furono fondamentali per raccontare alla gente il
programma politico di Allende. Il murales è un’arte, un’arte
nobile, che non è rinchiusa nei musei, nessuno deve pagare
per vederla, un’arte di strada nella strada. Un’arte che si confonde con le persone che passano, che scompare lentamente.
Non è l’opera dell’artista, ma il sogno di una comunità.
Ritornando a noi, era il 1973, erano passati appena mille giorni dall’elezione di Allende, i mille giorni di Allende. La
pressione della destra diventò insostenibile, il Congresso cileno chiese aiuto alle forze militari. L’11 settembre del 1973,
le forze armate guidate dal generale Augusto Pinochet marciarono sul Palazzo della Moneda, sede del governo. Gli Stati
Uniti e la CIA hanno avuto un ruolo determinante in quello
che sto per raccontarvi, pensate che il Presidente americano
Kissinger disse in un’intervista: Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un paese
diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.
Il Palazzo della Moneda fu bombardato con caccia Hawker
Hunter di fabbricazione britannica, fu un assedio, un infame
assedio.
Ora chiudete per un attimo gli occhi e immaginatevi questo presidente cileno rinchiuso nel suo ufficio, consapevole
che da un momento all’altro le forze militari del paese, che
legittimamente guida, faranno irruzione nel palazzo del governo. Cosa poteva provare Allende? Cosa pensava in quegli istanti? L’esercito lo cercava, lo bombardava, lo voleva
morto. Quella mattina ad un programma radiofonico Allende disse: Viva Chile! ¡Viva el pueblo! ¡Vivan los trabajadores!
E prima che le trasmissioni fossero definitivamente interrotte aggiunse: Estas son mis últimas palabras y tengo la certeza
de que mi sacrificio no será en vano, tengo la certeza de que,
por lo menos, será una lección moral que castigará la felonía,
la cobardía y la traición.
Io ho passato tante notti ad immaginarmi questo uomo,
che dalla finestra del suo ufficio difende il suo governo e la
sua patria dal colonialismo economico americano. M’immagino questo presidente con gli occhiali appoggiati sul naso
che inerme suda, che difende la sua patria e la democrazia.
Allende quel giorno morì, qualcuno sostiene che si suicidò
con l’AK-47 che gli regalò Fidel Castro, che il suo cranio saltò via. Altri invece dicono che fu ammazzato dalle truppe di
Pinochet. Quel giorno la storia cambiò e siccome la storia a
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raccontarla sono sempre i vincitori, oggi sui vostri libri di storia, Salvador Allende non esiste. E l’11 settembre del ’73 non
è altro che un ricordo, come i murales e il latte gratis.
Il generale Pinochet, invece di consegnare il paese in mano all’opposizione, si proclamò capo del governo, divenne un
dittatore. In diciassette anni di dittatura violò quotidianamente i diritti umani. Torture, desaparecidos, negazione della libertà di stampa. Dichiarò fuorilegge i comunisti, uccise gli oppositori politici, mentre artisti e intellettuali furono costretti
all’esilio, tra questi anche Neruda. Oggi sappiamo benissimo
chi è stato Augusto Pinochet e sappiamo anche che gli USA
hanno distrutto documenti della CIA che certificavano l’appoggio americano per il rovesciamento del governo di Allende. Trentacinquemila casi di tortura denunciati, ventottomila
accertati. Nonostante paesi come l’Italia e la Svezia non abbiano mai riconosciuto il governo del dittatore, Augusto Pinochet era acclamato e sostenuto da molti leader internazionali. Quando nel ’93 Pinochet festeggiò le sue nozze d’oro, da
Roma, dal Vaticano, arrivarono gli omaggi di papa Giovanni
Paolo II: Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarte Rodriguez, in occasione
delle loro nozze d’oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine con grande piacere impartisco, così come
ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale.
Nonostante sia stato accusato da mezza Europa, Pinochet
riuscì ad evitare un vero e proprio processo. Morì all’età di
novantuno anni, gli furono negati i funerali di stato, ma resero omaggio alla sua salma sessantamila persone. Nello stesso
momento in cui il generale veniva seppellito, il popolo cileno
ricordava Salvador Allende.
Pinochet morì nel 2006 senza aver trascorso nemmeno un
giorno in carcere.
Chi dimentica troppo presto finisce per rifare gli stessi errori. Ricordatelo ragazzi. Ah! Per il murales, potete anche cancellarlo, tanto ci sono cose che anche se non restano impresse sui muri, rimangono impresse negli occhi della gente.”
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È l’ennesima volta che poso la penna su questo maledettissimo foglio. Appese al muro ho tutte le cartoline che mi
hai mandato dalla Bosnia. Da queste immagini non è poi tanto male. Sul cuscino c’è la tua foto. Il mio Marco in uniforme, col cappello verde esercito e il tricolore sul petto. Il mio
Marco che non vedo da sei mesi. Il mio principe in missione
di pace. Belli stronzi! La pace coi fucili.
Ogni tanto la radio passa la nostra canzone. A Radio Nuova San Giorgio le ragazze continuano a salutare i fidanzati in
carcere. Magari potessi farlo io, magari tu mi sentissi. Ci pensi, io e te a Radio Sarajevo.
Un po’ mi sento stronza quando leggo le tue lettere. Le
tue frasi contorte senza doppie. Perché ti ho lasciato andare? Perché? Non lo so nemmeno io. “Ciuciù fai la brava, e se
qualcuno fa lo scemo chiamami, che vengo a nuoto.” Me la
ripeto sempre questa frase. Roberto Barbato continua a farmi i complimenti, mannaggia, mi mancano anche le tue sce-
nate di gelosia. Marco mio, ma dove sei andato a finire? Tu
non lo sai nemmeno dove sta la Bosnia. Chissà se tieni al collo ancora il nostro mezzo cuore. Ti ricordi la nostra promessa? Per sempre.
Mi dico che avresti potuto fare il cameriere o l’elettricista
come tuo padre. Ma tu no. Tu e la tua testardaggine. Voglio
fare il soldato, voglio fare il soldato. In fondo hai ragione, un
uomo sceglie per sé, ma che senso ha la mia Scampia senza
te? Sembra ancora più deserta, non riesco neanche più ad affacciarmi alla finestra, la villa comunale, che mi piaceva così
tanto, è diventata motivo di agonia. Vedo noi che ci rincorriamo come dei bambini per poi sdraiarci su quel prato tutti contenti. È strano parlarti così, sai, non so neanche da dove cominciare, forse mi converrebbe farti entrare direttamente nella mia mente, così eviterei di perdere troppo tempo, di
usare mille parole e sicuramente capiresti meglio come mi
sento. Quasi mi vergogno a dirti quanta paura ho, mi sento
una bambina piccola piccola, quasi invisibile, che, muta, non
fa altro che accettare decisioni che non le piacciono. Mi sento impotente. Sì, posso urlare, arrabbiarmi, scassare tutto, e
poi? Niente. Tu non ci sei. Questa situazione mi sta logorando, piano piano, mi toglie la voce per gridare il mio dissenso.
Sono muta, indosso questa maschera ipocrita che non mi appartiene, ma che ora è diventata la mia compagna più stretta.
Che strano, a volte neanche tu ti accorgi di quanto sto male, forse dovevo fare l’attrice. Sono rimasta sola, nessuno mi
aiuta in questa situazione, non potranno mai farlo se ti allontanano da me. Ora che ti chiamo e tu non mi rispondi questa vita mi pesa, ’o core mio sta troppo male. Vorrei sentire
di nuovo la tua voce che mi parla, le tue braccia che mi cer-
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Radio Sarajevo
Il mondo va avanti
perché lo si unge.
Jean-Baptiste P. Molière
cano e invece non so che farmene di questo tempo che passa come un treno impazzito, quel treno che ti ha portato via
da me da un giorno all’altro. E per colpa di chi poi, per cosa te ne sei andato? Quanti interrogativi con una sola risposta. Questo schifo di società ci fa pagare pene che non ci appartengono. Che stupida, dovevo aspettarmelo prima o poi,
le persone oneste non si mischiano all’aria putrida di sangue
e droga. Te ne sei andato cercando l’oro, la pace e ti hanno
sbattuto laggiù. Cinquemila euro al mese. Glieli butterei in
faccia ai generali dietro la scrivania, a quelli che guadagnano il doppio e ti danno gli ordini. Te lo giuro, Marco, appena torni ti sposo e non ti faccio più andare via, vengo con te,
dove vuoi, pure tra le bombe.
Ho sentito al telegiornale di quell’attacco ai soldati italiani.
Sono rimasta pietrificata davanti al televisore per un paio di
minuti. Non sai quanto ho odiato quella cretina che legge le
notizie. Per lei è routine, ma in Bosnia ci sei tu. Mi sembra un
film. Le immagini mi hanno gelata, il fumo, il fuoco, le sirene.
Ho paura che tra tutto quel sangue ci sia anche il tuo.
3208581333. Faccio sempre il tuo numero. Sono davanti
alla cornetta, piango e prego per far sì che tu risponda. Ora ci
riprovo, rifaccio il numero. Dài, Marco, rispondi ti prego!
Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.
In collaborazione con Maddalena Stornaiuolo.
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23 marzo 2271
La felicità non è avere quello che si desidera,
ma desiderare quello che si ha.
Oscar Wilde
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Tesoro, quale scegliamo? L’etichetta di questo embrione
dice che da grande farà il pompiere, ma vivrà solo cinquantaquattro anni. Mi sembra poco. Che dici, prendiamo il solito? Calciatore di successo, capelli biondi e occhi azzurri?
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Romario de Souza Faria
Chi non è mai stato libero
non sa di essere schiavo.
Anonimo
“Messi a Ronaldinho, il fuoriclasse riceve palla a centrocampo, accelerazione sulla destra, salta un uomo, triangolo
con Giuly, si avvicina all’area di rigore, mette a sedere il difensore con un elastico, tiro e rete!!! Barcellona in vantaggio
al ventottesimo con una magia di Gaúcho Ronaldinho. Un
super gol, amici telespettatori, una prodezza da cineteca!”
Rujul è davanti al televisore quando il brasiliano gonfia la
rete. Nella stanza affianco sua sorella Lona lo chiama. Fa caldo a Sialkot, in Pakistan. La paglia non basta per proteggersi
dal sole. La bidonville pullula di mosche e polvere. In giro ci
sono solo gli onnipresenti signori con i bastoni, i padroni della città. Rujul e Lona fabbricano palloni da calcio. Settecento
punti di filo da mettere insieme. A Sialkot vengono prodotti
l’80% dei palloni in commercio su tutta la Terra. I due fratelli hanno ormai le mani deformi per il lavoro disumano. Nessuna macchina riuscirebbe a garantire le prestazioni delle minute mani di Lona. Rujul guarda la sua ultima fatica, sul pal61
lone il volto di Éric Cantona. Non gli è permesso palleggiare,
né giocare con la palla. I signori con i bastoni gli vietano anche di parlare con gli stranieri. Se lo fate perdete il lavoro, dicono. Il bambino pakistano guadagna trentacinque centesimi
per ogni pallone. In Europa le sfere vengono addirittura vendute a centoventi euro. La Puma, la Mitra, Uhlsport, il Blackburn, l’Arsenal, trattano direttamente con i signori coi bastoni. Sono loro che portano in carrucole arrugginite le pelli necessarie per la lavorazione. Per Lona i palloni più facili da cucire sono quelli della Nestlè, i gadget regalati insieme alle merendine. Sono fatti con materiale scadente e spesso li cuciono malissimo perché la richiesta da parte della multinazionale è altissima.
Rujul vorrebbe diventare un calciatore, vorrebbe correre
nei prati del San Siro, accanto a Pirlo e Maldini. È stato proprio lui, insieme agli altri bambini di Sialkot, a cucire i palloni
di Francia ’98. Alla fine del mondiale hanno scoperto che nessuno dei palloni da loro cuciti si era bucato, una piccola soddisfazione in un mare di frustrazione. Sul pallone che Zidane
ha messo in rete nella finale col Brasile di Ronaldo, c’era scritto “cucito a mano” qualcuno aveva dimenticato di aggiungere
“da bambini dai sette ai quattordici anni”. Lona ama gli anelli,
ma oramai le sue dita sono bucate dagli aghi e la sua vista seriamente danneggiata. Spera di sposarsi, ogni volta che termina il suo lavoro, prende il pallone e lo lancia in aria. Nel suo
cuore quel breve volo libera un merlo indiano. Un uccello che
volerà dal suo futuro amore, ovunque lui sia.
Il signor Monish entra in casa, senza salutare si avvicina alla
cesta dei palloni. Nasconde un sorriso, è felice per il gran numero di palle prodotte. Controlla i codici dei palloni per un po’.
Rujul per ingannare il tempo ha imparato a memoria quei
numeri stampati su tutti i palloni. 17461008 200747. Magari
sapesse che quelle cifre servono per truffare i controlli internazionali. Monish guarda Lona, quattordicenne. C’è qualcosa di meschino, spregevole, in quello sguardo avido. Monish
ha il volto sfigurato da un proiettile, non ha né moglie né figli. Rujul sa benissimo che quella mente pazza spoglia sua sorella con gli occhi.
“Signor Monish, mi scusi, potrei farle una domanda?”
Con una gentilezza ipocrita, lo sfruttatore risponde: “Certo che puoi, piccolo mio” e avvicinandosi accarezza il capo
del bambino.
“Cosa significa guaranteed: no child labour, è inglese vero?”
“Ma come, Rujul, un bambino sveglio come te non sa l’inglese? Ma non vai a scuola?”
Poi inizia a ridere di gran gusto per la pessima battuta. Rujul sta per andarsene quando Monish risponde: “Quella frase
vuol dire: questo pallone è fabbricato dal grande e rispettatissimo bambino Rujul, della città di Sialkot.”
“Wow! Allora i campioni leggeranno il mio nome.”
“Sicuro, tutti conoscono il tuo nome, guarda qua, Kakà addirittura mi ha spedito il suo autografo per te.”
Estrae dalla tasca una fattura rovinata dall’umidità e indicando una firma la pone nelle mani del fanciullo. “Dice che
deve alle tue straordinarie mani l’effetto delle sue punizioni.”
Rujul prende il pezzo di carta e lo stringe a sé. La sua mente corre a Milano dal suo nuovo idolo, dal suo nuovo campione. Monish prima di uscire incrocia lo sguardo di Lona. La lingua di quel porco volteggia nell’aria, mentre alla quattordicenne vengono i brividi.
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È notte fonda, solo i grilli nascosti nell’erba cantano. Rujul è ancora davanti alla tv. Vasco da Gama – Sport Recife.
Il Vasco è già in vantaggio con un gol di Felipe. Al terzo minuto del secondo tempo l’arbitro decreta un calcio di rigore in favore del da Gama. Davanti al dischetto il quarantunenne Romario de Souza Faria, 999 gol in carriera. La telecamera zumma sul pallone. Lo riconosce Rujul, è il suo. C’è
l’indelebile marchio delle sue mani. Il doppio punto al quarto esagono laterale. Non ci può credere il bambino, che urla
e si dimena. “Dài vieni, Lona, il mio pallone è in tv!” Romario prende la rincorsa e sigla il suo millesimo gol. Per il bambino è festa, quasi come se il Pakistan avesse vinto il mondiale. La partita viene sospesa per i festeggiamenti e per le
invasioni di campo. A fine gara davanti ai microfoni della tv
brasilera, Romario commosso dichiara: “Sono contentissimo per questo gol che mi rende storia del calcio. Sono lusingato per la statua bronzea che verrà eretta in mio onore allo
stadio São Januário.” Tenendo il pallone sotto il braccio aggiunge: “Conserverò questo pallone nello stesso modo in cui
conservo la medaglia della coppa del mondo. Dedico questo
gol a mia madre, a mia moglie, ai miei figli e a tutti i bambini del mondo.” Rujul con il sorriso impresso sul viso prende un pallone dalla cesta e corre fuori a giocare. Non importa delle bastonate di Monish, su quel pallone c’è scritto il suo
nome e adesso da qualche parte nel mondo, Romario lo leggerà ringraziandolo.
In cucina Lona piange, lei sa leggere, sa che i sogni a
Sialkot sono un lusso per pochi.
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Nel buio
Ci siamo spostati,
ma il nostro esercito è ancora lì.
Saddam Hussein
Mi sveglio tutto sudato. Di colpo. Sono nel letto
dell’ospedale, intorno a me silenzio e il buio fitto del reparto. Ho la gola secca e negli occhi ancora le immagini
di quel maledetto incubo. Piango senza accorgermene. Mi
guardo le due gambe che non ho più. Dei miei piedi non
resta nulla, solo fasce bianche. Vorrei strappare i fotogrammi di quel film che la mia mente continuamente manda in
onda sullo schermo delle mie notti. Io lì che calpesto il tappetto di gomma della mina italiana VS-50, poi il boato, il
dolore terribile, le gambe che volteggiano nell’aria insieme al fango e al sangue. La vista che si annebbia, mia madre che sviene, mio padre che si strappa la camicia e l’avvolge nella poltiglia delle ginocchia. La corsa nel carretto,
l’arrivo in ospedale, il volto del dottor Karl, la siringa nella sua mano.
A me succede una cosa strana. Di solito quando uno fa
un incubo si sveglia e si asciuga la fronte. Ok, tutto è passato, era solo un sogno. A me no. Quando apro gli occhi
vivo l’incubo. Mi guardo le gambe e non le vedo. Mi stro65
fino gli occhi, ma non le vedo. Le mie gambe sono lontane,
sepolte da qualche parte sui monti del Kurdistan.
Accanto al mio letto Omar parla nel sogno. Ripete sempre
il nome del padre ucciso da una scheggia. Non ho più voglia di
dormire, ma la notte è ancora lunga. Guardo il muro davanti
a me, mi sembra di vedere i servizi delle tv di mezzo mondo:
“Nel Kurdistan iracheno tre mine per uomo, l’esercito invisibile continua a macellare braccia e cosce di bambini senza colpa. Ogni tanto mi chiedo il perché, poi lascio perdere.”
Devo far pipì. Le stampelle sono lontane. Non voglio svegliare nessuno, devo farcela da solo. Mi scopro e, passo dopo passo, come un verme, scivolo giù per il letto. Striscio nella polvere, trascinandomi dietro la mia infanzia mutilata. Sono ancora debole, ma voglio farcela. Dopo pochi metri ho già
le braccia a pezzi e le ginocchia in fiamme. Continuo a farmi
forza. Mi accorgo che sanguino e la mia breve scia è già rossa. Sento che la pipì è sul punto di uscire. Le mutande sono
umide. Il bagno è fuori, nel freddo dell’altopiano. Non è altro che un fosso, un pozzo di merda e fetore. Non voglio svegliare l’infermiera. Ha lavorato tutto il giorno sotto il sole. La
sua pelle bianca si sta bruciando. Ho sedici anni, cazzo! Voglio smetterla di provare pena per me stesso mentre, appoggiato alle stampelle, mi abbassano i pantaloni e come un neonato mi fanno pisciare. Basta! Basta. I loro nasi si contorcono mentre dal mio culo esce la rabbia. No, non li chiamo per
nessun motivo.
Finalmente sono fuori. La luna è nel cielo che m’illumina la strada. Il mio sangue fosforeggia nella notte. Sembro
sempre più un verme. La strada è ancora lunga. Le pietruzze
mi scorticano le braccia e la pancia. Il vento mi soffia la sab-
bia negli occhi. Mi fermo dietro al furgone per riposarmi. Alzo lo sguardo al cielo e vedo le stelle. Sono lontane eppure la
loro luce sembra accarezzarmi. Il dottore dice che presto mi
metteranno delle protesi, che ricamminerò da solo. Ci spero.
Quanto vorrei ritornare a correre, volteggiare insieme alle farfalle del deserto.
Il rumore delle ruote sulle pietre distrugge la mia bolla di
silenzio. È un fuoristrada e corre verso l’ospedale. Le luci si
accendono veloci come lampi nelle stanze. Il dottore è già
fuori. Un altro bambino. Non urla, i suoi vestiti e il suo volto sono ricoperti di sangue. Lo trasportano d’urgenza in sala
operatoria. La madre e il padre fuori gridano. Nessuno si accorge di me. Il pantalone si bagna e io galleggio nel mio stesso piscio. La terra sembra rifiutare i miei umori, non assorbe
nemmeno una goccia d’urina. Mentre la puzza si attacca addosso e le lacrime si confondono con il lago giallo, sembro
una nave alla deriva, il Titanic che naufraga. Chiudo gli occhi e mi addormento.
Il giorno dopo è Susan a rialzarmi. Con altri due dell’ospedale mi mettono sulla barella e mi sorridono. Per un’ora mi puliscono le ferite infette alle ginocchia. Il dottore Karl mi ammonisce con lo sguardo. Sotto la doccia la mano di Susan profumata di sapone mi pulisce d’ovunque. Indifferente mi accarezza anche i genitali e il sedere. Abbasso la testa per la vergogna. Da solo chiudo la fontana e lei capisce. Nel letto profumo di gelsomino e vaniglia.
Il bambino di stanotte si chiama Mustafa e dorme due letti
più in là. La sua faccia è avvolta nelle bende. Bevo il latte mentre si sveglia. Il suo urlo è disumano. Raccapricciante.
Mustafa si è svegliato nel buio.
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Quel giorno se ne andò, lo vidi partire con due enormi
valige e al collo l’inseparabile macchina fotografica. Si voltò
con i suoi baffi da padre premuroso e mi guardò, tra l’incredibile confusione dell’aeroporto mi fissò negli occhi. Mio padre, Fernando Pereira, quel giorno partì. A casa restammo ad
aspettarlo io, mia madre e mio fratello Paul.
I giorni passavano lenti senza di lui, ricordo che quando
vedevamo un aereo nel cielo, io e mio fratello ci apprestavamo ad alzare le mani in aria e salutare. In uno di quei giganti di ferro, ci doveva essere nostro padre. Io sono olandese,
mio padre no. Lui è nato in Portogallo, poi è scappato. Non
voleva partecipare alla guerra in Angola del dittatore Salazar.
È passato per la Spagna franchista fino all’Olanda, dove ha
conosciuto mia madre. È sempre stato un pacifista papà, era
nel suo DNA. Proprio per questo, il 6 maggio del 1985, partì per l’Oceania. Era un fotografo freelance per Greenpeace. S’imbarcò alle Hawaii, era membro dell’equipaggio del-
la Rainbow Warrior, la nave dei Guerrieri dell’Arcobaleno,
nome di un’antica profezia degli indiani Cree. Gli sciamani pellerossa raccontavano di un tempo in cui la terra sarebbe stata depredata di tutte le sue ricchezze, i fiumi avvelenati, gli animali massacrati. In quel tempo gli indiani avrebbero recuperato il loro spirito e insegnato ai bianchi il rispetto per la terra, diventando così i guerrieri dell’arcobaleno, i
Rainbow Warrior.
La nave di Greenpeace si dirigeva verso le Isole Marshall,
precisamente verso l’atollo Rongelap, per l’operazione “Esodo”. L’atollo era stato colpito dalle radiazioni dei test nucleari americani dal 1948 al 1956, la percentuale di cancro alla tiroide, di leucemia e di malformazioni fetali, tra i suoi abitanti, era altissima. Al Parlamento delle Isole Marshall, i rappresentanti dell’atollo chiesero aiuto a Greenpeace per trasportare l’intera popolazione sull’isola di Mejato. La situazione
sull’atollo era drastica. Nel primo dopoguerra gli abitanti del
Pacifico subirono gli effetti delle sperimentazioni degli ordigni nucleari occidentali. Otto bombe brillarono su Bikini, ma
nell’intera area oceanica esplosero sessantasei ordigni. Non
so quanti di voi ricordano “Little Boy”, la bomba che a guerra finita distrusse Hiroshima. Nel ’54 gli USA fecero esplodere “Bravo”, una bomba ad idrogeno migliaia di volte più
potente di quella sganciata sul Giappone. Le popolazioni di
Bikini ed Enewetak furono evacuate per evitare che fossero
esposte al fallout radioattivo. A centocinquanta chilometri
di distanza gli abitanti di Rongelap non ebbero la stessa sorte. Dopo poche ore dall’esplosione, una cenere bianca cadde
sull’atollo, cadde per tutto il giorno, coprendo ogni lembo di
terra. Cadde sulla pelle nuda dei bambini, delle donne, degli
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Rainbow Warrior
Chi non sa mentire
non sa regnare.
Ferrante Pallavicino
animali, inquinò l’acqua. Il giorno dopo, con tute antiradiazioni, gli americani sbarcarono sull’isola con contatori Geiger. Ripartirono dopo un quarto d’ora senza dire una parola.
Gli americani erano a conoscenza dell’inquinamento radioattivo dell’atollo e sono molti a pensare che gli abitanti di Rongelap siano stati cavie americane per verificare gli effetti della bomba sull’uomo. Gli americani sapevano anche che il raggio delle piogge causate dalla bomba avrebbe travolto l’atollo e che i forti venti avrebbero portato quella merda bianca
dovunque. Se ne sono letteralmente fottuti delle persone che
vomitavano, che avevano diarrea, bruciori, che perdevano in
pochi istanti tutti i capelli. Oggi, a trent’anni di distanza, più
del 90% dei sopravvissuti ha un tumore alla tiroide. Gli americani, nonostante l’isola fosse in alcuni punti più radioattiva
di Bikini, dissero che era sicura e consigliarono alla popolazione di mangiare cibo in scatola.
Mio padre e Greenpeace intervenirono quando i genitori
di Rongelap urlavano davanti al parlamento delle Isole Marshall: “We love the future of our kids!” L’equipaggio trasportò in dieci giorni più di trecento persone e tonnellate di materiale da costruzione. L’esodo si compì. Dopo l’operazione di salvataggio, la Rainbow Warrior attraccò al porto di
Auckland, in Nuova Zelanda, in attesa di fare rotta per Mururoa, area che i francesi avevano scelto per svolgere i loro
test nucleari.
Era notte, mio padre era nella sua cabina, sistemava gli
obiettivi, li puliva con fare maniacale. Li rimetteva a posto.
Era il 10 luglio del 1985, mancavano dieci minuti alla mezzanotte quando la Rainbow Warrior fu danneggiata da una
bomba. Dopo pochi istanti una seconda esplosione affondò
lo scafo. Mio padre, solo su quella nave, annegò. Morì con
la sua macchina fotografica in mano. Steve Sawyer, Bunny
McDiarmid, Peter Willcox, il resto dell’equipaggio apprese
la notizia pochi minuti dopo. Mio padre era l’unico membro
dell’equipaggio ad aver figli.
Non ci mise tanto la polizia neozelandese a scoprire i colpevoli di quel delitto. Verso le otto e mezza di quello stesso
giorno, alcune persone avevano notato un camper nei pressi
della baia che recuperava un sommozzatore. La coppia che
aveva fittato il camper era francese. Due bombe, me lo ripeto
sempre. Non è un caso. Non volevano danneggiare lo scafo,
volevano eliminarlo. Alain Mafart e Dominique Prieur facevano parte dei servizi segreti francesi, alla fine furono giudicati in Nuova Zelanda, con l’accusa ridotta di omicidio colposo. Dicevano che non volevano far del male a nessuno.
Vennero condannati entrambi a dieci anni di prigione. Dopo la prima sentenza, il primo ministro neozelandese, David
Lange, fu messo sotto una forte pressione economica, diplomatica e finanziaria dalla Francia. Il presidente francese Francois Mitterand voleva a tutti i costi che i due agenti tornassero in Francia. Promise di far scontare la pena fino in fondo.
Le indagini condotte dai francesi sul sabotaggio della Rainbow Warrior hanno sempre escluso un coinvolgimento del
governo parigino.
Il presidente Mitterand si è sempre schierato dalla parte
dei servizi segreti, nonostante il Ministro della Difesa d’oltralpe, Charles Hernu consegnò le dimissioni, ammettendo implicitamente la propria complicità. Quando gli agenti segreti tornarono in Francia furono trattati come degli eroi. Addirittura ricevettero delle medaglie. Per noi, per me, per Paul,
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per la mamma, è stato come se il corpo di papà venisse trascinato nella polvere.
Sono passati vent’anni da quel giorno, vent’anni senza
giustizia. La verità è annegata insieme a mio padre. Certe
volte alzo gli occhi al cielo e guardo gli aerei passare, sorrido,
perché su uno di quelli c’è ancora il mio papà.
L’errore di Cristo
Right or wrong, my country.
Anonimo
Solo un gatto si muove nel mirino. Mirko Kovacevic è appostato col suo fucile M40 d’alta precisione su uno dei tetti
dei palazzi bombardati di Sarajevo. Fa freddo. Nevica. È avvolto in un enorme giaccone. In testa un cappello logoro dell’esercito. Non si muove. Potrebbe essere morto. Potrebbe,
ma non lo è. Il suo occhio è vivo nel mirino, scruta. Attende. Chi, cosa, quando, dove, perché? Non ha importanza. Un
cecchino non si fa domande. Un cecchino deve solo scegliere quand’è il tempo di sparare, annichilire. Un cecchino deve
fondere l’iride col cristallino del mirino e Mirko ha l’occhio
di vetro. Quello che vede da quel cerchietto non è la realtà, è
un tempo sospeso. Tempo di chi decide per qualcun altro. È
lì da due giorni. Appostato, giorno e notte. Un cecchino non
si fa domande, un cecchino esegue. “Resta lì, soldato Kovacevic” ha detto il generale. “Resta lì, cecchino, ricorda il sangue dei tuoi fratelli. Ricorda i canali ricchi dei corpi morti della tua gente.” Se la ripete continuamente Mirko la frase in testa. Non vede a colori da quel mirino, vede rosso.
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Sono tre anni che serve la patria per disinfestarla dagli
sporchi bosniaci. Tre anni in cui valgono solo tre leggi.
Un cecchino non spara ad uomini, un cecchino annichilisce sagome.
Un cecchino non conta gli anni della sua vittima, un cecchino ne individua la nazionalità.
Un cecchino non commette peccati uccidendo, un cecchino epura il mondo dagli errori di Cristo.
Il gatto è ancora nel mirino, mangiucchia una lucertola
morta dal freddo. Lo infastidisce quel felino, vorrebbe farlo
saltare in aria, ma il generale non vuole sprechi di munizioni.
Qualcosa si muove, è una sagoma alta novantasette centimetri, nazionalità bosniaca, velocità di movimento dodici chilometri orari in direzione nordest. Il sangue, appiattito nelle vene, rinvigorisce. I muscoli si tendono, Mirko si sente vivo. La
sagoma-bambino si chiama Pavel, orfano di genitori morti in
guerra. Il gatto è suo, Modì. Persiano scheletrico. La sagoma
si muove in senso disordinato, la sagoma rincorre il gatto, la
sagoma non possiede armi, la sagoma è un errore di Cristo.
Mirko pensa a suo figlio, sepolto sotto una quercia, a Pirot, paese al confine con la Bulgaria. Mirko pensa a suo figlio trovato morto in casa. Decapitato, con la testa nel camino. Aveva solo cinque anni. Mirko lo trascinò su un carretto
della frutta per sessantatre chilometri. Volle riportarlo a casa,
dalla madre. Nove giorni di viaggio. A Pirot il corpo decapitato pullulava di vermi. Mamma Sabrina non c’era più. Per le
autorità era scomparsa durante l’evacuazione. Con un fazzoletto rosso, Mirko legò spalle e testa al figlio. Lo seppellì nella terra umida, senza bara. Sopra ci lasciò un carciofo, l’unico fiore che aveva.
Pavel scava nella spazzatura, rovista tra pezzi di vetro e
ferraglia. Non c’è niente da mangiare. Infila la testa nel cassonetto. Apre i sacchetti. Cerca una fetta di pane con la marmellata, magari con un po’ di burro. Vorrebbe anche del latte, con due uova al tegamino. Mirko lo osserva dal mirino.
Da un sacchetto spunta un braccio. Il bambino non se ne accorge. Mirko vede tutto. La mano del morto ha ancora la fede, è un morto fresco, il cecchino distingue ancora l’apparato venoso del defunto. La mano è pulita, il morto non è stato trascinato nella polvere. Pavel trova una mezza mela. Urla
qualcosa. Da una baracca lì vicina arriva il nonno. Come dei
dannati inghiottono quella mela, mangiano tutto, mangiano
anche quello che non c’è. Mirko accarezza il grilletto. Due
sagome di nazionalità bosniaca sono immobili nel mirino. Si
nutrono. La sagoma ricurva perde liquido rosso dal braccio.
Mirko sente un rumore alle spalle, si gira, vede la sua stessa
uniforme. Gli sono venuti a dare il cambio. Il vecchio ride,
ha quattro denti e mezzo. Mirko spara, lo uccide in silenzio.
Foro di centimetri tre, altezza collo. Il vecchio è a terra, l’ha
beccato nell’arteria, spruzza sangue dappertutto. Il nipote urla mentre la neve si fa rossa. I quattro denti sono sporchi di
mela marcia. Il gatto scappa.
“Ma era solo un vecchio” dice il soldato.
Un cecchino non torna mai a casa senza aver ammazzato un uomo.
Un cecchino non torna mai a casa senza aver cancellato
un errore di Cristo.
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“Gelardi! Spenga immediatamente quell’mp3.”
Al terzo banco, Mario Gelardi spegne il suo mp3 da centotredici euro.
“Mi scusi, professor Petracca.”
All’ultima fila un gruppetto vivace ancora chiacchiera.
“Stronzetti là dietro, statemi a sentire. Dopo parlate delle
canne e delle ragazze di IV C.”
Giuseppe Sorgente all’ultimo banco sbuffa. Che vuole
questo qua, oggi che ci tocca, la perifrastica, quel fallito di
Leopardi o la solita versione di latino?
La III G non è una buona classe. Lo sa bene il professor
Petracca. Si rompe i coglioni di far lezione, nessuno lo ascolta. Il programma ministeriale dice che oggi tocca a Montale,
ma forse non è il caso.
È venerdì 16 ottobre, quattro anni prima il professore
aveva perso il padre. Erano già passati quattro anni, la foto
nel portafogli già ingialliva. Che cazzo gli dico a questi venti imbranati, che gli racconto, pensa Petracca, che senso ha
parlare a Sollazzo, Liccardi, Pollio.
“Professó, allora che facciamo?” dice quel secchione di
D’Avanzo.
“Quel che facciamo tutti i giorni” risponde il professore.
“Niente” aggiunge Sollazzo, scatenando una risata nella classe.
“Parliamo di un coglione oggi.”
“E chi è professó?”
“Mio padre.”
La classe ammutolisce.
“Mio padre era un comunista di merda. Un fissato, utopista, illuso. Per anni mi ha riempito la testa di merdate marxiste. Mi portava ai congressi, mi faceva cantare l’Internazionale ed io gli andavo dietro, col pugno sempre in alto, col cuore sempre più a sinistra. Mio padre ci credeva davvero alla ri-
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K19
Tutti gli animali sono uguali,
ma alcuni sono più uguali degli altri.
George Orwell
Un impero può nascere da un piccolo villaggio / l’estensione si misura solo in base al coraggio / l’alone del terrore è l’arma migliore / uomini e donne impalati e li cadaveri
a marcire / apri i libri di storia vedi gente ammazzata / perché l’imperi hanno bisogno della carne macellata / la storia
non insegna niente e si ripete/ ma oggi è peggio / te giustificano a colpi de cazzate / voglio vedè chi ce rimette le penne
/ voglio bambini morti non la merda della CNN / la guerra
è errore con le armi e col mercato / chi la dichiara oggi c’ha
paura del cadavere impalato / Bush è un pupazzo pieno de
pretese / Gengis Khan era un grande massacrava senza scuse / preparatevi alla nuova Guerra Fredda Mondiale / cade
un muro a Berlino se ne fa un altro in Israele.
voluzione, al mondo diverso, e guai a criticarlo. Il comunismo era per lui un bambino da proteggere, da nutrire, giorno dopo giorno. Ricordo che in segreto, mia madre non sapeva nulla, aveva acquistato da un vecchio russo una collana
d’oro con un pendolo a forma di falce e martello. Custodiva
questo oggetto gelosamente, in garage, dove nessuno poteva vederlo. Mi disse che quello doveva diventare un cimelio
di famiglia, da passare di generazione in generazione. Mi disse che un giorno sarebbe stato mio. Non sempre mio padre
era d’accordo con le scelte del partito, si arrabbiava, ma diceva che dovevamo restare uniti, che non dovevamo disperderci. Ricordo bene quella domenica in cui tutto cambiò. Quella
domenica in cui mio padre scoprì cos’era successo, trent’anni prima, al sottomarino nucleare russo K19.
Il K19 fu il primo sottomarino russo ad avere a bordo
missili nucleari balistici. Varò il 30 aprile del ’61. Fu costruito in fretta e in furia per contrastare l’azione perlustrativa della Marina Americana. Signorina Rosi, come viene definito lo
scontro tra l’URSS e USA?”
“Non mi ricordo, professó.”
“Non si ricorderà mai nulla nella vita se continua ad allisciarsi i capelli invece di seguire la lezione.
Lo scontro tra sovietici e americani è passato alla storia col
nome di Guerra Fredda. Entrambi gli schieramenti cercavano di prevalere l’uno sull’altro militarmente, scientificamente, economicamente, su tutto.
Per costruire il K19 morirono ventisette operai. Mosca riferì che quello era il sacrificio per il progresso. Il sottomarino russo era difficile da maneggiare, sin da subito ebbe molti
problemi. I vertici sovietici se ne fregarono letteralmente, sia
dell’equipaggio insufficientemente addestrato, sia del carburante tossico e corrosivo usato. Durante un’esercitazione nelle acque orientali degli Stati Uniti, un problema al reattore del
sottomarino creò il rischio di un’esplosione termonucleare.
Un’esplosione quattro volte più grande di quella di Hiroshima e Nagasaki. All’epoca era impossibile prevedere il numero di morti che uno scoppio del genere avrebbe causato. La
falla al reattore fu riparata per ben due volte da marinai sovietici. Entravano in uno scompartimento ad alta radioattività immaginando di avere addosso delle tute che proteggessero dalle radiazioni. Nessuno di loro sapeva che quegli stracci a stento proteggevano da materiali chimici. Entrarono otto uomini in squadre da due. Si davano il cambio ogni dieci
minuti. Quando uscivano dalla sala del reattore, avevano la
pelle irrimediabilmente ustionata e deformata. Vomitavano
continuamente. Il medico di bordo, impreparato ad un tale
disastro, non poté far altro che curarli con aspirina. Molti di
loro persero i capelli immediatamente, altri la vista dopo pochi minuti. In tutto il K19 la presenza di radiazioni aumentò
vertiginosamente, il cibo fu contaminato e le trenta tonnellate di acqua potabile furono utilizzate per refrigerare il reattore. A causa della falla il sottomarino utilizzò i soli motori
elettrici, andando alla velocità di cinque nodi. Poco più di nove chilometri all’ora. Per ritornare alla base sovietica più vicina, a quella velocità ci sarebbero voluti giorni. I marinai temevano di friggere lì dentro. Gli otto uomini che ripararono
il reattore furono coperti da bende e isolati. I loro lineamenti trasfigurati dalle radiazioni. Il K19 lanciò messaggi di aiuto via radio. Gli americani subito si prestarono al soccorso,
cosa assai rara in quel periodo. Il Cremlino non volle che la
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tecnologia russa giungesse in mano nemica, così vietò il salvataggio per mano americana. L’equipaggio del K19 dovette
aspettare una nave sovietica da traino. Mosca, però, non voleva dare prova della sua debolezza al mondo intero, così riferì al comandante del K19 di rimanere all’interno del sottomarino, come se nulla fosse successo o stesse per accadere.
Il comandante decise di disobbedire alle direttive del partito.
Mentre i suoi uomini venivano puliti dalle radiazioni, sapeva
benissimo a cosa sarebbe andato incontro. Alla Siberia, al lavoro forzato nei gulag russi. I soviet non vollero privarsi del
K19, gioiellino della marina militare russa, che fu ribattezzato Hiroshima, ma non venne mai smantellato.
Nei giorni successivi gli otto uomini che ripararono il reattore morirono tutti. Altri venti uomini, nei seguenti vent’anni, sono morti per la contaminazione delle radiazioni. Il comandante, difeso da tutti i suoi uomini, venne assolto, ma
non guidò mai più un’imbarcazione. Nessuno dei marinai
del K19 ebbe una medaglia al merito, i morti non furono dichiarati eroi, perché per l’URSS si era trattato solo di un incidente. Tutti gli uomini che erano presenti sul K19 giurarono di mantenere segreto il disastro, furono costretti. Ci sono
voluti ventotto anni, ragazzi, perché il mondo potesse sapere. Abbiamo aspettato che il muro di Berlino crollasse. Mio
padre, quel giorno, quando il mondo scoprì questa tragedia,
prese la sua collana comunista e la lanciò in mare, con rabbia, in solitudine, tornandosene a casa con un bambino morto dentro.
Oggi è l’anniversario della morte di mio padre, ma io sono sicuro che lui morì veramente quella domenica, quel giorno in cui si sentì complice di un’ideologia omicida.
Voglio dirvi una cosa, ragazzi. E voglio che questa ve la ricordiate per tutta la vita. Meglio del dativo, di Garibaldi e del
teorema di Pitagora. Qualsiasi cosa vi venga detta o mostrata,
se c’è qualcuno che vuole inculcarvi un’idea, voi domandatevi sempre perché. Non siate superficiali, mai. Persino adesso
che vi sto raccontando questa storia, fermatevi un attimo a
riflettere e dite perché… perché… perché… perché?
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Al professor Filippo Petracca
Corro perché non so camminare
La struttura alare del calabrone,
in proporzione al suo corpo,
non è idonea al volo,
ma lui non lo sa e vola lo stesso.
Sono quel che sono o sono ciò che ho? Chi non ha non è?
Corro? Corro perché gli altri corrono? Corro perché non voglio restare indietro? Corro per il primo posto? Corro perché
non so camminare?
Sono un uomo di certezze? Cerco le mie certezze? Sono
fatto di certezze? Non amo le certezze? Mi chiedo perché succedono le cose?
Sono uno che si fa delle domande?
Igor Ivanovic Sikorskij
Perché esisto? Cosa lascerò su questa terra? Per cosa morirò? Sono pronto a morire per qualcosa? Vivo per qualcosa?
Qual è il mio più grande sogno? Sono libero? Credo di essere
libero? O sono solo libero di crederlo?
Posso dire tutto quello che voglio? Nel mio paese tutti possono dire quello che vogliono?
Sono schiavo di qualcosa? Qualcuno mi comanda? E io
comando qualcuno? Mi piace un mondo dove nessuno comanda nessuno?
I diversi sono quelli diversi da me? Io li voglio i diversi?
Io sono diverso? Chi sono i normali? È bello un mondo tutto normale?
Esiste la mia strada? Conosco la mia strada? C’è una bomba sulla mia strada? C’è qualcuno che decide se devo cambiare strada?
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Ne catturiamo cinque nella boscaglia. Sono contadini.
“Vi prego, lasciateci in pace. Siamo gente comune.”
“Stai zitto” dice il comandante. “Nel vostro villaggio si nascondono le truppe governative.”
Per un po’ ci supplicano. Poi il comandante decide. Devono scavarsi la fossa con le mani. Qualcuno piange per il dolore
della terra che insanguina le unghie. La donna strilla, altri hanno già gli sguardi morti. Li facciamo mettere a pancia in giù e
li fuciliamo con gli M16. Pochi secondi e il gioco è fatto.
È quasi l’alba. Il villaggio che stiamo per attaccare è uno
dei più grandi del Sierra Leone. Secondo alcuni informatori
l’esercito regolare nasconde lì munizioni e vettovaglie.
“Soldati, fra poco scenderemo in battaglia. Non voglio
pietà. Ricordatevi il marchio che avete sul petto. Noi portiamo la libertà.”
Le parole del capo galvanizzano tutti. Qualcuno si tocca il
marchio del R.U.F. (Fronte Rivoluzionario Unito). Certi so-
no orgogliosi di essere ribelli, di comandare, di avere un fucile in mano.
Mi chiamo Issa ed ho dieci anni. Due anni fa, durante un
agguato dei rivoluzionari nel mio villaggio, sono stato sequestrato. Da allora sono un soldato. Pochi giorni dopo il rapimento, per non farmi scappare, mi hanno impresso a fuoco
il marchio del R.U.F. sul petto. Tutti quelli che lo posseggono vengono uccisi dall’esercito regolare. La mia squadriglia è
composta tutta da bambini. Il più grande ha sedici anni. Non
sappiamo che fine hanno fatto le nostre famiglie. Quelli che
tentano di scappare vengono uccisi. Chi ci riesce, invece, viene rifiutato dai parenti che lo credono un demone.
Davanti al fuoco Sam e Bo fumano marijuana. Fra poco
passerà Sabhat con le pasticche, la droga ci annebbia il cervello e ci permette di compiere qualsiasi massacro. Tutti ne
siamo dipendenti. Mentre mastichiamo foglie di cassava, dei
cani randagi si avvicinano ai corpi dei fucilati e strappano la
loro carne.
Ecco il segnale. Strisciamo nell’erba. Siamo in diciotto. Il
villaggio ancora dorme. Spariamo raffiche di mitra e la gente scappa spaventata. Sam invita tutti a stare calmi e riunirsi nella piazza centrale. Quelli che non lo fanno vengono abbattuti. Saj è un ottimo tiratore nonostante i suoi tredici anni. Per lui non esistono donne, bambini e vecchi. I suoi occhi mirano ombre. Entriamo nelle case e rubiamo tutto quello che serve. Il comandante arriva dopo poco.
“Qui si nascondono soldati del governo. Diteci dove sono oppure morirete tutti.”
Nessuno si fa avanti. Scegliamo otto ragazzi e tre femmine. Entreranno a far parte della squadriglia e le donne servi-
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Issa
Ogni volta che un bimbo dice: io non credo alle fate,
c’è una fatina che da qualche parte cade a terra morta.
James M. Barrie
ranno da premio a noi soldati. Il comandante non ci sta. Il
suo informatore è una persona fidata. Iniziamo con le torture. Sono stanco, il fucile pesa più di me, ma devo obbedire.
Bo ha il compito di uccidere tutti i neonati. Sono d’impiccio.
Con il machete li divide a metà. Il loro pianto disturba il comandante. Ogni volta che ne fa fuori uno il sangue s’intrufola nelle tane dei topi del villaggio.
“Issa!”
“Comandi.”
“Le donne gravide. Sai cosa fare.”
Richiamo tutti gli uomini del villaggio minacciandoli con
il fucile.
“Ditemi dove sono le munizioni.”
Nessuna risposta. Con la baionetta squarcio con un sol
colpo le pance gonfie. Le lascio morire esangui. Sorrido dopo un po’. Sono così bravo che con un sol colpo riesco a tagliare la testolina dei neonati. Sono talmente forte che le incisioni lacerano gli intestini delle donne. I mariti si disperano
senza urlare. Rifaccio la domanda. Stesso esito. Questa volta
costringo le madri a uccidere i propri figli scaraventandoli ripetutamente contro tronchi. I padri piangono e ad ogni raffica che sparo le loro pupille sobbalzano.
“Signore, i prigionieri non forniscono informazioni sui
governativi. Ho già ucciso metà delle donne del villaggio, ma
niente, nessuno dice niente.”
“Bene. Impalali e andiamocene da questo merdaio.”
Prepariamo diciannove pali di legno appuntiti. Non riusciamo a piantarli, ci facciamo aiutare dalle nostre vittime. Infilziamo le aste nei culi o nelle bocche degli uomini. Li sentiamo urlare, ma continuiamo ad eseguire gli ordini. A qualcu-
no gli occhi scappano dalle orbite. In soli trentaquattro minuti sono tutti piantati con il loro stesso sangue ad innaffiarli. Serviranno come avviso ai soldati nemici e ad altri villaggi.
Il sole è alto. Il caldo è insopportabile, così come le mosche
che iniziano a invadere la zona e i cadaveri. Avvoltoi, ratti e
cani sono già appostati. Prima di lasciare il campo chiudiamo
tutte le donne in una capanna e poi diamo loro fuoco. Mentre ce ne torniamo nella boscaglia, alle nostre spalle le fiamme divampano e il terrore delle voci delle donne si liquefa
come i loro corpi.
È notte. Intorno al falò ridiamo e fumiamo. I nuovi arrivati sono terrorizzati. Li schiaffeggiamo e con il ferro rovente li marchiamo a fuoco. Svengono tutti. Le donne sono nelle tende a scopare con gli ufficiali. Se piangono vengono uccise. Bo è un gran figlio di puttana. Obbliga un moccioso di
otto anni a sedersi sotto un albero. Con il suo mitra spara in
continuazione raffiche sull’arbusto. Il bimbo trema.
“Non tremare, cazzo, sei un ribelle!”
Lui non smette.
“Abituati maledizione, abituati al sangue e al piombo.”
Sono di guardia questa notte. Le mie solite tre ore. Non
si vede nulla all’orizzonte e il fuoco è già spento. Mi guardo
intorno, tutti dormono, nessuno si accorgerà di me. Prendo
il mio sacchetto di biglie e inizio a giocare.
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2° CECCHINO: Ci possono essere stati degli errori… sì insomma, che un bambino sia stato ucciso per lo stupido errore
di un soldato. Ma tra di noi questo non l’ho mai sentito.
Il cielo di Palestina
di Carlo Cerciello
INTERVISTATRICE: Cos’è un errore? Si è mosso il fucile?
I ricchi hanno Dio e la polizia.
I poveri hanno le stelle e i poeti.
Mu’in Bsisu
In proscenio, quattro soldati, quattro cecchini israeliani e un’intervistatrice televisiva.
1° CECCHINO: I tiratori scelti ricevono ordini precisi su
quando e come sparare. Gli ordini ci dicono che dobbiamo
essere molto selettivi…
TUTTI: …una persona che tira molotov, deve essere colpita alle gambe…
1° CECCHINO: …ma persone armate possono essere colpite nelle parti alte. Ogni persona uccisa viene fotografata. Così
può essere confermato che non si tratta di una persona sotto
i dodici anni e che aveva un’arma.
2° CECCHINO: Per esempio, qualcuno dice di aver identificato un tipo sospetto, un ragazzo che si stava muovendo in
modo strano. Forse voleva raccogliere una pietra o qualcosa di
simile. Chi lo identifica chiede di poter sparare. Il comandante
non gli dà l’autorizzazione, ma lui continua a chiedere, così il
comandante gli dice: se tu pensi che sia molto sospetto, spara
per spaventarlo, a venti metri e in un’area aperta. Più tardi alla
riunione, viene fuori che il vento… insomma il fucile non ha
mirato così precisamente, e lui gli ha sparato alla testa.
INTERVISTATRICE: Come spieghi che la maggior parte
delle persone è stata colpita nella parte superiore del corpo? È
necessario essere ben addestrati per colpire in questo modo?
1° CECCHINO: Noi spariamo ad ogni persona alla quale è
necessario sparare. Spariamo a chiunque lanci una molotov
che può colpire qualcuno. Non gli spariamo con un’arma automatica, ma con un fucile ad alta precisione, e in molti casi
non da grande distanza. Se un tiratore scelto, a duecento metri, mira alla testa o alla parte alta del corpo…
TUTTI: …non ci sono problemi.
INTERVISTATRICE: I palestinesi mentono quando dicono
che uccidete i bambini?
2° CECCHINO: Come tiratori dobbiamo aver cura di cercare posti dove ci possono essere altri tiratori: case, finestre che
riflettono la luce.
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3° CECCHINO: La cosa che fa paura sono le pallottole vaganti. Maledette pallottole vaganti.
INTERVISTATRICE: L’Autorità Palestinese dice che voi
sparate pallottole ad alta velocità. È vero?
4° CECCHINO: È così. Il loro fuoco non è mirato.
1° CECCHINO: Dipende dalla situazione. La pallottola di
un tiratore se colpisce il corpo…
3° CECCHINO: I Tanzim non sono addestrati e certe volte,
quando alla radio dicono “scambi di fuoco”…
TUTTI: …noi ridiamo.
INTERVISTATRICE: Chi sta per lanciare una molotov si
muove continuamente, come fate a mirarlo?
TUTTI: …uccide.
1° CECCHINO: Le pallottole ad alta velocità hanno una copertura di metallo…
TUTTI: …metal jacket.
2° CECCHINO: Dipende dalle distanze. A cento metri non
è difficile. A cinquecento metri devi considerare il vento e la
deviazione, ma a cento metri è un lavoro molto pulito, semplice. Preciso. Perfetto.
1° CECCHINO: In una pallottola regolare, il fondo non è ricoperto, e questo…
INTERVISTATRICE: È facile sparare alla testa?
1° CECCHINO: L’aria smangia lievemente la punta della
pallottola e gradualmente entra all’interno distorcendone la
direzione. Nelle armi che usano i tiratori questo…
2° CECCHINO: Sì. I ragazzi che tirano molotov hanno l’istinto di fermarsi un secondo per pensare e questo dà al tiratore
cinque o sei secondi. Se lui si ferma, anche se sei lontano…
TUTTI: …incide.
TUTTI: …non accade.
TUTTI: …la sua testa non è un problema.
INTERVISTATRICE: Quindi la punta è tutta di metallo.
INTERVISTATRICE: Nel retro della jeep c’è sempre qualcuno con un fucile. È un tiratore?
1° CECCHINO: Esatto, ed è più aerodinamica. È appuntita ed è lunga.
4° CECCHINO: Di solito spara pallottole di gomma.
2° CECCHINO: Accanto ad ogni tiratore scelto ce n’è un altro con un binocolo. Attraverso il mio mirino riesco a vedere se ho colpito una persona, ma non vedo esattamente dove sta andando la pallottola. Il soldato con il binocolo invece ti dice dove hai colpito e se un tiratore non è preciso con
INTERVISTATRICE: E tu che pallottole spari?
3° CECCHINO: Un tiratore scelto spara pallottole letali.
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la prima pallottola, con la seconda è cosa fatta. Poche sono
le possibilità di fallimento.
INTERVISTATRICE: Vi dicono di mirare alla testa o dipende da voi?
1° CECCHINO: Se un tiratore spara, lo fa per uccidere…
INTERVISTATRICE: Non avrai mica sparato a bambini?
1° CECCHINO: Nessun tiratore ha mai sparato a bambini.
INTERVISTATRICE: Ciò nonostante ci sono bambini palestinesi che sono stati uccisi. A meno che non fossero degli errori…
2° CECCHINO: …i più giovani non sanno trattenersi, sono
contenti di sparare. Certo! Se sei lì, hai un’arma e stai fermo,
seduto tutta la notte, è molto noioso e alla fine vuoi… vuoi
dargli una lezione. Ci sono soldati che caricano prima…
1° CECCHINO: …se erano bambini, si tratta di errori.
TUTTI: …una pallottola normale…
INTERVISTATRICE: Come ve lo dicono?
2° CECCHINO: …e poi una di gomma, così quest’ultima
acquista forza e riesce ad uccidere.
2° CECCHINO: Non sparate a bambini di dodici anni o più
giovani.
4° CECCHINO: Ad uccidere.
INTERVISTATRICE: Ciò significa che avete il permesso
per bambini di dodici anni o più grandi?
TUTTI: Il fuoco palestinese è patetico! Sparano in aria.
INTERVISTATRICE: Allora perché uccidere, non basta ferire? Preferite la morte?
3° CECCHINO: Ferire i dimostranti produce ancora più
rabbia. Molta rabbia.
INTERVISTATRICE: Chi te l’ha detto?
3° CECCHINO: È la mia opinione personale: se tu ferisci
qualcuno, la persona si mette ad urlare, dice che sta provando dolore.
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2° CECCHINO: Gli ufficiali ci vietano di sparare ai bambini. Sono le regole.
3° CECCHINO: Dai dodici anni in su è permesso. Uno a dodici anni non è più un bambino.
INTERVISTATRICE: Il Diritto Internazionale definisce un
bambino una persona che ha meno di diciotto anni.
4° CECCHINO: Fino ai diciotto anni è un bambino?
INTERVISTATRICE: Già.
1° CECCHINO: Secondo l’Israel Defense Forces lo è fino
ai dodici anni. Comunque cerchiamo di vedere che siano sopra i vent’anni.
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INTERVISTATRICE: Nei dieci secondi che hai?
1° CECCHINO: Nei dieci secondi che ho, devo stimare l’età,
in che direzione soffia il vento, le deviazioni e in che modo
lui salterà fra un attimo.
Ad Extirpanda
La storia non dorme mai.
TUTTI: Ma è difficile che ci siano degli errori da parte di tiratori scelti.
Anonimo
INTERVISTATRICE: Insomma, se si colpiscono le teste
dei bambini, tutto ciò è per puro caso?
Dal quotidiano israeliano Ha’aretz del 20 novembre 2000.
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“È in ritardo di un’ora.”
“Non è certo da lui.”
Gli studenti iniziavano a scalpitare. Il professor Forel non
arrivava. Qualcuno sbadigliava, altri parlavano al cellulare,
ma nessuno accennava ad andarsene. Nonostante il ritardo
avevano un gran rispetto del professor Forel. Dopo cinque
minuti il cinquantenne arrivò inzuppato d’acqua e con dozzine di libri fradici in mano.
“Scusate ragazzi, il tempo è imprevedibile come gli esami
della professoressa di scienze naturali!”
Tutti risero.
Si prese altri cinque minuti prima di iniziare la lezione. Sistemò le sue carte, si tolse le scarpe e i calzini, e mettendosi
vicino al termosifone, iniziò la lezione con gli occhiali che gli
penzolavano da un lato.
“Ieri stavo leggendo Harry Potter.”
Tutti risero nuovamente.
“Sul serio dico, stavo leggendo un capitolo in cui si parla
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dei roghi delle streghe. L’autrice in modo simpatico sostiene
che in realtà le streghe non morivano, ma usavano un piccolo incantesimo refrigerante per evitare che il fuoco le disintegrasse. Bella come trovata letteraria, non vi pare?
Tempo fa, parlo di vent’anni fa, al mio trentaduesimo
compleanno, ricevetti un regalo. Me ne stavo a Napoli a quel
tempo, una città d’incommensurabile bellezza e contraddizione. Stavo seguendo lo stesso itinerario di Stendhal. A Napoli, però, stetti così bene che decisi di rimanere più del tempo previsto. Vi dispiace se metto i calzini ad asciugare? Puzzano un po’ e infesteranno sicuramente tutta la classe!”
Nuova risata generale.
“Dove stavo? Ah, sì ecco, al pacco regalo che mi arrivò a
casa. Me lo spediva la mia amica Sylvia von Harden. Una delle donne più intelligenti che io conosca. Una giornalista internazionale che si occupa prevalentemente di diritti umani, ma
soprattutto di violenza sulle donne. Pensate che una volta mi
disse: Preferirei diventare uomo che farmi mettere i piedi in
testa da un uomo. Una di queste volte la invito, ne resterete contenti sicuramente. Lei mi ha insegnato tanto sul mondo femminile e sui diritti che inconsciamente noi maschi neghiamo alle donne. Uno dei suoi chiodi fissi è la grammatica, odia il maschilismo dei vocabolari. È una delle sostenitrici
del neutro. È talmente fissata con le parole che quando aprii
il pacco c’era una lettera che iniziava così: Carissima professoressa Forel, le mando questo regalo per il suo compleanno.
Mi congratulo con lei e spero di rivederla presto. Poi la lettera diceva che, prima di aprire il pacco, dovevo fare una visitina al Duomo di Napoli. Io abitavo a tre passi dal Duomo
così ci andai subito. La lettera diceva anche che avrei dovuto
trovare la tomba di Innocenzo IV e che solo dopo aver letto
l’epigramma sul marmo avrei potuto aprire il pacco. Arrivato
al Duomo, in pochi minuti, trovai questa famosa tomba di cui
parlava Sylvia. Una tomba molto semplice, tipica dei papi diciamo. Sulla lastra di pietra bianca c’era un’incisione: Hic superis dignus, requiescit Papa benignus. Mah, mi dissi, è normale, è stato un papa, cosa potevano scrivere sulla sua tomba.
Non pensai tanto a quello che avevo visto, ma quando tornai
a casa e aprii il pacco capii immediatamente. Avvolto in pregiata carta olandese, c’era un libro, questo libro.”
E impugnando un mattone con le pagine gialle lesse il titolo: “Streghe cristiane”.
Nell’aula 53 della Sorbona ci fu un attimo di sconcerto.
Cosa c’entravano con la lezione, Innocenzo IV, Harry Potter,
l’amica giornalista del professore e soprattutto le streghe?
“Lessi questo libro tutto d’un fiato e mi resi subito conto del perché Sylvia avesse voluto che io visitassi la tomba di
Innocenzo IV. Il libro inizia così:
Nel nome di Cristo e sotto l’influenza dello Spirito Santo, nel 1252 Papa Innocenzo IV, con la bolla “Ad Extirpanda”, autorizzò l’uso dell’inquisizione e della tortura per estorcere confessioni di stregoneria da tutte le donne sospettate
di tale pratica.
Praticamente le persecuzioni contro il sesso femminile sono state benedette, secondo la Chiesa, dal Dio generato dal ventre di Maria. Alcuni secoli dopo, Papa Innocenzo
VIII emetteva la bolla “Summis desiderantes affectibus”, che
ordinava ai fedeli di Cristo di sopprimere sistematicamente la stregoneria e l’eresia in tutta Europa. La Chiesa pubblicò il manuale del perfetto inquisitore, il “Malleus Malefica-
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rum”, scritto dai frati domenicani Heinrich Institor Kramer e
Jacob Sprenger. Per spaventare i fedeli, i due chierici, dedicarono numerosi paragrafi del libro a tutto ciò di cui le streghe
erano la causa.
Uccidono il bambino nel ventre della madre, così come
i feti delle mandrie e dei greggi; tolgono la fertilità ai campi,
mandano a male l’uva delle vigne e la frutta degli alberi; stregano uomini, donne, animali da tiro, mandrie, greggi ed altri
animali domestici; fanno soffrire, soffocare e morire le vigne,
piantagioni di frutta, prati, pascoli, biada, grano e altri cereali; inoltre perseguitano e torturano uomini e donne attraverso spaventose sofferenze e dolorose malattie interne ed esterne; e impediscono infine, agli uomini di procreare, e alle donne di concepire.
Straordinario, no? Pensate che in cinque secoli la Chiesa
ha ucciso migliaia di persone accusate di eresia, senza processo e con tortura. Se confessavano erano dichiarate colpevoli
di stregoneria, se invece non confessavano erano considerate
eretiche e poi arse al rogo. Praticamente non c’era via di fuga.
Quando si scovava una presunta strega, non solo la si torturava, ma veniva spossessata di tutti i suoi beni e conseguenze
disastrose ricadevano anche sulla sua famiglia. Venivano addirittura riesumati i parenti morti della strega per bruciarne le
ossa, era una distruzione totale. Sotto il ben servito di settanta papi, la Chiesa ha ucciso bambine soltanto perché avevano
un neo, una voglia, i capelli rossi, quello che loro definivano il
marchio del diavolo, il Signum Diabolicum.
Perché tutto questo? Perché? Per il trionfo del principio
della forza maschilista, perfettamente incarnato in una religione che vieta il sacerdozio alle donne, nonostante in nessuna
scrittura si faccia riferimento a ciò. Le torture servivano come
sostentamento economico per i chierici, che si impossessavano di tutti i beni delle torturate, quasi sempre povera gente.
Hanno per secoli inculcato superstizioni nella testa ignorante
della gente, che credeva nei gatti neri, negli specchi che si rompono e portano disgrazie. Le donne sono il bersaglio perfetto,
considerate deboli ed inferiori da sempre. La donna è perennemente stata un pericolo per la Chiesa, perché tramandava le
tradizioni, curava gli uomini, era simbolo di saggezza, e tutto
questo metteva fortemente in discussione il potere maschile.
Tutti conoscete Giovanna D’Arco, la donna che sconfisse
gli invasori e riconsegnò il regno di Francia nelle mani del suo
re. Giovanna D’Arco fu arsa al rogo perché indossava pantaloni e perché cavalcava come un uomo. Per la Chiesa la sua impresa era cosa da poco. Pensate che incoerenza, prima si arde
viva una donna e poi oggi la si fa santa.
Attualmente, nel mondo, decine di paesi praticano ancora la tortura e molti boia hanno imparato metodi brutali dal
“Malleus Maleficarum”. Sylvia ha regalato il manuale del perfetto inquisitore anche ad un prete, ma non gli è mai stata data
risposta. Tanto oggi per i peccati della Chiesa bastano le scuse del Papa.
Vi prego ora di seguirmi attentamente e di immaginare, solo per pochi istanti, quello che sto per raccontarvi.”
Il professor Forel di rado era così serio e i suoi alunni se ne
accorsero. Il cinquantenne si accomodò lentamente e, prima di
iniziare a parlare, lasciò la classe in un imbarazzante silenzio.
“Le donne, oltre ad essere arse vive sul rogo in pubblica
piazza, venivano spesso gettate coscienti nei forni o rinchiuse sotto pesantissime presse. I torturatori praticavano il Tor-
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mentum Insomniae, non facevano dormire la strega per intere settimane, provocando uno stress psicofisico tale da indurre le torturate ad azioni di autolesionismo. Laceravano la pelle delle malcapitate e strappavano loro le unghie. Molte erano sottoposte a mastectomia, ovvero l’asportazione dei seni.
È celebre il caso di Anna Pappenheimer, alla quale vennero
tolti i seni e fatti mangiare ai suoi figli adulti. Un’umiliazione
atroce. Numerose fanciulle si ribellavano e quando lo facevano venivano impalate. Sto parlando di un palo di legno appuntito che penetrava l’ano fino a sfondare la testa o fuoriuscire
dalla bocca. Queste poverine venivano esposte come monito
in pubblica piazza. Potevano vederle tutti.
Ho fatto delle fotocopie per voi, per farvi vedere le miniature realizzate dai due frati domenicani, ma soprattutto per
mostrarvi la quantità di torture inventate dalla mente umana
per conto della Chiesa.”
I ragazzi dell’aula 53 si passavano le fotocopie con frenesia, borbottavano, commentavano, esterrefatti si chiedevano
se tutto fosse vero. Poi dalla terza fila si alzò una mano. Era
Peter Oleander. Non so se sia importante per il proseguo di
questa storia specificare che Peter Oleander era il nipote di
uno dei prelati più importanti di Parigi.
“Prego, signor Oleander.”
“Professor Forel, sfogliando le fotocopie che lei ci ha distribuito, ne ho notata una alquanto particolare. La numero 28.
Vi è raffigurata una donna in vestiti principeschi. Mi chiedevo
che tipo di tortura rappresentasse. Forse ora ci dirà che le lesbiche di allora venivano assassinate, smembrate e stuprate da
eleganti suore bavaresi, che strappavano la vita di queste povere creature anormali con lunghe croci cristiane infuocate.”
Nelle sue parole c’era del sarcasmo pungente, provocatorio, beffardo.
“Non è esatto monsieur Oleander. Quella che lei vede sulla fotocopia numero 28 non è una suora, ma un sarcofago.
Tortura nota nel Medioevo col nome di Vergine di Norimberga. La vittima veniva rinchiusa all’interno dello strumento
di tortura, dove era penetrata da lunghe lame, congegnate in
modo che non toccassero mai organi vitali. I lunghi coltelli dilaniavano la carne delle streghe senza ammazzarle. Questo aumentava la sofferenza delle torturate in modo immane. Quando il sarcofago veniva chiuso, assumeva le sembianze di una
bella bavarese, per questo signor Oleander le è parso di vedere
una suora ammazza lesbiche su quella fotocopia. Ma l’elenco
di atrocità riservata alle figlie del diavolo è ancora lungo.
Il Crogiuolo, per esempio, era una tortura molto usata perché poco dispendiosa. Olio bollente o piombo fuso veniva
colato nelle orecchie delle martiri, il liquido cancellava l’intero apparato uditivo e spesso bucava anche il cervello. Lo strumento che vedete sulla fotocopia numero 12 si chiama Pera
e veniva infilato nella vagina o nell’ano delle streghe. Quando
entrava, attraverso un sistema di viti e perni, si allargava lacerando tutte le membra interne. Questa tortura era riservata a
chi aveva avuto rapporti sessuali col maligno.”
Le facce dei ragazzi iniziarono a farsi molto serie, mentre il professore parlava. I disegni ti scavavano dentro e la sola immaginazione di quel terrore ti faceva sudare. Per molti
studenti il tempo si era fermato, qualcuno aveva dimenticato che si trovava all’università, che erano le nove del mattino,
che da un momento all’altro la campanella avrebbe messo fine a quel viaggio nel tempo.
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“Come vi ho già detto, molte volte bastava un particolare insignificante sul corpo di una bambina per scatenare nei
suoi confronti l’ira di un’intera comunità annebbiata da superstizioni ignoranti e religiose. Centinaia di ragazze con i
capelli rossi venivano torturate con la Squassata, un bastone veniva legato ai capelli della strega, poi la vittima veniva
fatta penzolare nel vuoto. La gran parte delle volte lo scalpo si staccava.
Alle donne che venivano accusate di lanciare incantesimi
staccavano la lingua con una pinza.
I preti medievali sostenevano che le creature maligne dovevano purificarsi attraverso la Pulizia dell’Anima, ovvero
attraverso la forzata ingestione di carbone, acqua bollente e
persino sapone.
L’acqua è sempre stato un elemento importante per i cristiani, pensate al Mar Rosso, al diluvio universale, al battesimo. Improvvisamente quella stessa acqua protettrice e purificatrice fu trasformata dalla chiesa medievale in strumento di tortura.
L’Ordalia dell’acqua era una tortura che durava anche tre
giorni. Le donne dovevano immergere le mani nell’acqua bollente, alcune volte anche fino ai gomiti e non sto qui ad elencarvi le conseguenze. C’era anche un’altra variante con l’acqua fredda. Le vittime, completamente legate, venivano gettate in acqua ghiacciata. Se galleggiavano e quindi l’acqua le
rifiutava, erano streghe, se invece sprofondavano erano pure, ma quando scendevano giù, nella maggior parte dei casi,
non risalivano. Altre venivano legate ad uno sgabello e poi
immerse in zone paludose, le vecchie morivano per il freddo
e per i morsi di sanguisughe e altri animali.
Anche le candele che si accendevano e si accendono ai
santi, furono usate per torturare. I boia le infilavano nella
bocca delle streghe, ma le candele di allora non erano come
le nostre e una volta accese raggiungevano temperature altissime, provocando danni alla vista e al volto.
Poi c’era la Forchetta, un attrezzo che veniva posto tra il
collo e il mento. Alle due estremità lo strumento aveva due
arpioni, questo costringeva la vittima a tenere sempre la testa
alta per non essere penetrata dalle lame. La strega, in questo
modo, non poteva addormentarsi.
Si dice che per uccidere una strega bisogna tagliarla sul
soffio, ovvero quel lembo di pelle tra le labbra e il naso. Spesso sfregiavano le donne in quel punto fino a dissanguarle,
l’agonia era tremenda.
Ogni anno distribuisco ai miei alunni queste fotocopie,
ne discutiamo insieme, ragioniamo, proviamo ad immaginare cosa potevano provare queste donne. Io ci ho provato più
volte, ho provato ad immaginare il mio scalpo appeso al soffitto, i miei occhi bruciati da cera incandescente, c’ho provato, ma niente mi è rimasto dentro come la Tortura del topo. Il
ratto veniva infilato nella vagina o nell’ano, poi l’ingresso veniva cucito. Il povero animale, spaventato e senza vie d’uscita, iniziava a mordere e rosicchiare tutte le pareti interne del
corpo della donna.”
Una ragazza intervenne: “Professor Forel, questo libro
viene ancora stampato?”
“No, e non chiedetemi il perché. Mentre noi siamo qui,
qualcuno, nel mondo, subisce queste torture senza che nessuno parli o muova un dito. Ogni anno mi chiedo sempre
perché faccio questa lezione. Forse per le donne e per quel-
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lo che hanno subito, forse perché mi fa schifo che tutto questo sia stato fatto da una chiesa ricca ed imbrogliona. Forse
racconto soltanto affinché voi sappiate. Se davvero a crearci è stato qualcuno a noi superiore, il suo unico errore è stato quello di aver generato esseri umani capaci d’inventare simili cose. Oggi in quest’aula sareste tutte streghe e stregoni.
Mi rifiuto di credere che esista un Dio capace di alimentare
simili cose.”
Don’t forget
Abbiamo disimparato ad interessarci
dell’effetto finale delle cose
di cui siamo collaboratori.
Gunther Anders
La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha deciso
che: la Serbia non ha commesso il genocidio in Bosnia-Erzegovina; la Serbia non ha pianificato il massacro né istigato alle
uccisioni; la Serbia non ha partecipato al genocidio, ma nello
stesso tempo non ha impedito che questo avvenisse.
Piove ad Assen. Piove e fa freddo il 4 dicembre del 2006.
Sono insieme ai miei cinquecento commilitoni davanti alla
Frisokzerne per ricevere la medaglia all’onore per il servizio
prestato nel ’95 in Bosnia. Siamo tutti qui, l’intero battaglione Dutchbat III, non manca nessuno. Mentre le nostre divise si fanno più ingombranti per il peso delle medaglie, decine di persone alle mie spalle manifestano. La pioggia non li
ha mossi di un centimetro. Sono tutti lì con il loro striscione
da cinquanta metri. Uno ad uno leggono i nomi delle ottomilacentosei persone uccise nella strage di Srebrenica. I no104
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mi sono scintille che mi martellano la testa. Mi perseguitano,
girovagano come fantasmi nella mia mente.
Nel luglio del 1995 ero un casco blu e fui assegnato insieme al mio battaglione alla protezione della città di Srebrenica. Nel ’93 l’ONU la dichiarò città protetta insieme a Sarajevo, Tuzla e Zepa. Ricordo bene le parole del sottosegretario alle Nazioni Unite: “Proteggeremo queste cittadine e riserveremo a loro aiuti umanitari, anche con l’uso delle nostre Forze di Protezione.” Balle. L’11 luglio l’esercito serbobosniaco guidato dal generale Ratko Mladic attaccò Srebrenica. Noi olandesi non sparammo nemmeno un colpo e fummo costretti alla ritirata dal governo dei Paesi Bassi. Furono
uccise tutte le persone sotto la nostra protezione. Gli uomini
dai quattordici ai sessantacinque anni furono divisi da donne, bambini ed anziani. Li fucilarono, torturarono e stuprarono tutti. Le Tigri Bianche di Arkan e le Aquile Nere di Mladic attaccarono con l’intento di distruggere la comunità musulmana della Bosnia. Da dietro le colline, dove con il battaglione eravamo al riparo, sentivo gli spari e le urla. In molti
chiudemmo gli occhi quella notte, molti olandesi si tapparono le orecchie per non sentire. Questa medaglia non ha senso, come non ebbe senso la stretta di mano tra il nostro tenente colonnello Thomas Karremans e Mladic, che si scambiarono regali e brindarono alla vittoria della Serbia.
È inutile che oggi ci lamentiamo noi soldati, che ci preoccupiamo della stampa che ci attacca e del nostro stato posttraumatico. Quell’11 luglio 1995 fallimmo. Il governo ha tentato di nascondere la verità. Ma le dichiarazioni di Medici
Senza Frontiere sono vere, quel giorno il generale si rifiutò di
occuparsi anche dei malati e feriti musulmani bosniaci.
Fra poco verrà il mio turno. Ma sono qui solo perché questi sono gli ordini. Ancora una volta l’Europa preferisce seppellire la verità e premiare, con l’appoggio della Commissione Europea, finti eroi. La storia ufficiale vuole che quella notte morissero settemilaottocento musulmani, ma il bilancio fu
molto più alto. Oggi sono stati esumati da quelle fosse comuni cinquemila corpi, ma solo duemila sono stati identificati e qualche decina ha ricevuto una degna sepoltura. Vorrei
poter parlare a questa piazza che protesta. Vorrei poter dire, alle madri di Srebrenica, avete ragione! Mamme senza figli, avete ragione! Questo vorrei dire a queste donne, prime
sostenitrici di una giustizia internazionale che non esiste più
già da tempo.
C’ero anch’io in quell’aula di tribunale quando i legali di
Serbia e Bosnia, Radoslav Stojanovic e Sakib Softic, si strinsero la mano per sigillare negli abissi della menzogna il genocidio di Srebrenica. Certe volte mi chiedo come sia stato
possibile che bosniaci e serbi, persone che lavoravano insieme, si siano massacrati a vicenda. Qualcuno dice che Srebrenica sia stata la vendetta per i massacri che il bosniaco Naser Oric compì la notte del Natale ortodosso, il 7 gennaio, ai
danni dei civili serbi. Nessuno sa che fine abbia fatto Oric,
di lui rimane solo la sua pulizia etnica. Di lui restano le lapidi dei tremila serbi.
Molti di noi militari hanno mentito davanti alla legge e
continuano a farlo attraverso i giornali che preferiscono i nostri racconti eroici a quelli dei parenti delle vittime. Il “Volkskrant”, noto quotidiano progressista, ha dedicato sei pagine
al racconto strappalacrime del soldato Oliver Van Broken e
solo novanta righe alle Madri di Srebrenica e ai progetti che
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il governo olandese dovrebbe attuare in Bosnia. Non è un
caso che questa manifestazione di premiazione sia stata organizzata proprio ora che la politica olandese vive un momento di transizione. In questo modo nessun governo porterà sulle spalle il macigno di aver premiato chi non impedì un genocidio. Il tenente colonnello Karremans, responsabile olandese della missione in Bosnia, volle che foto, video e documenti fossero bruciati e sequestrati. Bisognava
cancellare tutto. Non dovevano esserci prove, di quella storia doveva rimanere solo cenere. Quando ritornò in Olanda
fu promosso e sparì negli Stati Uniti.
Il tribunale presieduto dalla britannica Rosalyn Higgins
ha accusato di genocidio il commando di Mladic, definendo Belgrado esente da tutte le responsabilità. Non ci sono prove che dimostrino che gli ordini di sterminare i musulmani di Srebrenica siano partiti dai vertici serbi. Per la
giustizia internazionale Mladic è il colpevole, non il popolo serbo, accusato solo di non aver collaborato e cooperato con il tribunale. Oggi è in atto un nuovo processo, perché gli ufficiali Dragan Obrenovic e Momir Nikolic hanno ammesso che il massacro di Srebrenica era pianificato e
fu sistematicamente eseguito con il beneplacito del governo. I cinquecento soldati serbi, che parteciparono al massacro di Srebrenica, sono tutti liberi, compreso Mladic. Si nascondono principalmente nella Republika Srpska, controllata dal partito di Radovan Karadzic, criminale della guerra jugoslava, arrestato a Belgrado il 21 luglio del 2008. In
Olanda non è cambiato nulla. Il governo di Wim Kok si è
dimesso, così come il capo delle forze armate olandesi, il
generale Van Ball.
Salgo gli ultimi gradini che mi portano sul palco. Già vedo il luccichio della mia medaglia, il sorriso del presidente che
mi guarda come un eroe. Una bosniaca grida: “La nostra vita
era nelle vostre mani. Srebrenica è in lutto. Nessuna medaglia
per i soldati di Dutchbat III!”
Grida più che puoi sorella bosniaca, grida for don’t forget.
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Intifada
Un po’ più in là
Guerra tra Israele e Palestina.
Forse l’uomo esiste proprio
nel momento in cui incontra l’altro.
Padre Alex Zanotelli
La vittoria è di chi si astiene.
Johann W. Goethe
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“Scendi! Scendi! Ti ho detto scendi!” Non faccio altro
che ripetere questo a quel bambino seduto sul ciglio del burrone. Sotto di lui, una delle discariche più grandi dell’Africa.
“Scendi piccolo, scendi”, ma lui niente. Guarda sotto, guarda l’enorme lago di percolato, i miliardi di colori di spazzatura che si confondono. Si sporge. La puzza lo invade. Guarda un’altra volta il vuoto, una lacrima si stacca dai suoi occhi
e cade giù in un mare di rifiuti. Non dico più nulla, lui scende, lo fa in silenzio. Quando ci fissiamo negli occhi, mi dice
solo: “Aiuta mama, aiuta mama.” Mentre ritorniamo a casa
sua, nella discarica decine di uomini e donne si strattonano,
si spingono tra i rifiuti in cerca di qualcosa di indefinito. Lupi
affamati in un bosco di niente. Cercano qualcosa, lo si vede
dagli occhi, ma quel qualcosa non è lì, non è in quella montagna putrida. Non è la banana mangiucchiata, il pane marcio, il
topo morto, lì ognuno è per sé. L’estrema povertà, così come
l’estrema ricchezza, porta all’estremo individualismo.
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Il bambino mi precede. Cammina a testa bassa. Non sorride, e un bambino che non sorride o non è un bambino o gli
hanno tappato il cuore. È scalzo, alza la polvere mentre struscia i piedi nudi nella strada. Sua madre è sieropositiva. Ha
l’AIDS. Sua madre si chiama Agar. È lui ad aprire la porta di
casa, è lui a mostrarmi la via verso il letto di morte.
Agar è distesa su una tavola di legno. Quando mi vede arrivare sorride. Agar è una puttana. Agar ha tre figli, tutti saltati fuori da relazioni con turisti europei. Agar si prostituiva
negli hotel. Con le mazzette dei bianchi ha tirato su i suoi figli e anche quelli della sorella morta per tumore. Me la ricordo Agar quando mi disse che faceva la prostituta, mi guardò
con quegli occhi di chi aspetta la sentenza da noi borghesi
moralisti, mi guardò e aspettò che io le dicessi che è immorale, che non è giusto. Ma cosa mai potevo dire a quella donna
di venti anni, a quella bambina coi bambini. Te lo sei scordato mi dicevo, qui sei a Korogocho, sei in Africa, sei in Kenya, sei in una baraccopoli di centomila persone. Sei in un posto dove il 50% dei baraccati è sieropositivo. Agar la vedevo
tornare il mattino, infreddolita dalla notte, sporca, quasi nuda, ma camminava con dignità. Quando scoprimmo che aveva l’AIDS, non scoppiò in lacrime, non fece scenate, guardò il Cristo in croce e gli parlò: “Abba, Signore mio. Sapevo
che sarebbe toccato anche a me. Se il mio posto non è qui, su
questa terra, abbi la pietà di risparmiare ai miei figli l’immagine di una madre che muore. Chiamami di notte nel sonno.
Chiamami ed io verrò. Ti prego Abba, non lasciare che questa malattia mi consumi, non lasciare che i miei figli portino
dentro gli occhi l’immagine di una madre che muore.”
Quel giorno, saranno state le mie lacrime, ma io vidi scen-
dere dalla corona di spine del Cristo il sangue dei poveri, il
sangue degli oppressi, il sangue degli ultimi. Quel giorno lo
sguardo di Cristo si posò su Agar.
Ora quella donna magra, deperita, era lì che tendeva le
braccia al figlio. Mi disse, dandomi del pane: “Spezzalo per
noi e mangiamolo insieme.”
Mentre lo dividevo con le mani, nel mio cuore sapevo
quello che stava per accadere. Masticavamo tutti insieme,
quel pane nero si attaccava al palato. Era incinta Agar, mi
guardava ed io pensavo: “Dài, dimmelo, dimmelo che avresti voluto anche questo. Che non fa niente se era stato concepito nel dolore, nella sofferenza di chi offre il proprio corpo per il cibo dei figli. Dài piccola Agar, parlami.”
Lei disse: “È l’apocalisse, fratello?”
Ed io risposi: “No. L’apocalisse non è questa, non è qui,
non è oggi. Non scenderà nessun cavaliere dal cielo, non
scoppierà nessun mondo, non ci sarà nessun giudizio universale. L’apocalisse è la rivelazione, sorella Agar, l’apocalisse è
togliere da Korogocho questo lenzuolo che nasconde i rifiuti dell’impero. L’apocalisse è nascosta nel cuore di tutti noi
ed è lì che scoppierà, dentro, quando ognuno di noi si sentirà responsabile della tua morte.”
Aprii la Bibbia e lessi: “A quel tempo Abramo ebbe un figlio dalla sua schiava, Agar. Sara, moglie di Abramo, la cacciò insieme al nuovo nato. Agar se ne andò e si smarrì per il
deserto di Bersabea. Tutta l’acqua dell’otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo sotto ad un cespuglio, e
andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: Non voglio vedere morire mio figlio. Il bambino
allora pianse e Dio udì la sua voce.”
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Chiusi il testo sacro e lo poggiai sul petto di Agar. Chiamò
intorno a sé le sue amiche, le donne delle baracche, le puttane di Nairobi, la sorellanza. Affidò i suoi tre figli nelle mani
di chi sperava li avrebbe cresciuti. Appoggiò delicatamente il
capo sul cuscino e allargò le braccia. Stava salendo sulla croce, inchiodata a quella tavola di legno, raggiungeva il regno
dei cieli, morendo come Cristo, da ultima, oppressa dall’impero. Inspirò forte, trattenne dentro di sé gli aliti vivi che la
circondavano e morì. Portarono via i suoi figli, una delle donne presenti guardò le altre e disse: “Chi sarà la prossima? Forse sono io e non lo so, forse porto dentro questo male incurabile e non lo so?”
Ci fu il silenzio, il silenzio dei vinti, dei poveri, di chi muore consumato.
Ne avevo viste morire centinaia come Agar, era una vera
e propria epidemia, ma il governo stava zitto, il governo keniano non diceva nulla. Zitti maledetti, state zitti, volete che
i turisti scappino? Non ho mai capito come funziona questo mondo, un milione e settecentomila persone schiacciate
nell’1% del territorio keniano ed elefanti e zebre liberi di pascolare, liberi di essere fotografati dai turisti in safari. Ti hanno seppellita due volte Agar, sul volto porti il peso della terra keniana e il fango di chi si arricchisce su quelle come te.
Nessuno se ne accorse della morte di Agar. La baraccopoli di Korogocho era in fermento. Tutti sapevano che prima
o poi sarebbero arrivate le ruspe. Sarebbero arrivati i bulldozer del comune, che avrebbero distrutto le loro baracche per
costruire centri di benessere. Tutti sapevano che la povertà
sarebbe stata spostata un po’ più in là. È il destino dei poveri. Farsi da parte.
Il giorno dopo, mentre migliaia di baracche cadevano,
seppellimmo Agar. I suoi figli la portarono sulle spalle, tutti
e tre, piccoli, la sollevavano in cielo, attenti a non farla sporcare di polvere. Era una Via Crucis, la Via Crucis del 2000.
Non il Cristo che porta la croce, ma bambini che portano
la madre morta in croce. Mentre camminavo vedevo intorno a me l’esodo. Tutti raccoglievano il nulla che avevano e si
preparavano a morire un po’ più in là. Il corpo di Agar cadde nella polvere durante un blitz delle forze dell’ordine. Respingevano poveri che rivendicavano i loro diritti. Lo scontro durò ore, mi persi tra la folla. Quando ritornai sul posto,
Agar non c’era più.
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Al Pentagono, il generale dei marines, John Sattler, si avvicina al videoregistratore e inserisce la cassetta. Play. Si siede in poltrona e guarda. In tv un uomo stringe un microfono, sullo sfondo città deserto.
Doveva essere la guerra che tutti potevano guardare, la
guerra fotografata e video-documentata, ma non è stato così. L’informazione controllata dai potenti, che sbandierano i
diritti umani per impossessarsi di qualche pozzo di petrolio
in più, ha taciuto. D’altronde tutti sapevamo che dopo l’invasione strategica dell’Afghanistan sarebbe toccato all’Iraq di
Saddam, proprio come ora che aspettiamo l’ultimo pretesto
per cui gli Stati Uniti attaccheranno l’Iran.
In questa videoinchiesta abbiamo dato voce alle gente, la
parola agli ultimi, alle vittime della guerra. Alle nostre spalle Falluja, o almeno quello che ne resta dopo l’attacco NATO dell’8 novembre. La città era il cuore del triangolo sannita, paese di scienza e moschee, la regione più ostile all’occupazione americana, pedina strategica tra Baghdad e la Giordania. Col pretesto di cercare Al Zarqawi, gli americani hanno distrutto trentasettemila case. Una scusa banale dicono
i cittadini di Falluja, che sostengono di non aver mai avuto
contatti con i luogotenenti del super ricercato arabo. Alcune donne ci mostrano i corpi morti dei loro bambini. “Perché uccidono i nostri figli? Questo che ho in braccio è un
mujaheddin o forse Al Zarqawi?” Rispondiamo col silenzio.
Il bombardamento di Falluja è iniziato dopo il secondo
mandato Bush. Il Pentagono ha dato ordine di non attaccare
fino a quando non si sarebbero saputi i risultati delle elezioni.
Nella città irachena qualsiasi cosa si muovesse doveva essere
abbattuta. Hanno ammazzato anche ragazzini di dieci anni,
anche chi teneva in mano fazzoletti bianchi. Ma ciò che veramente sconvolge di questa battaglia, o meglio, di questo massacro, è l’uso di armi chimiche. Molti di noi ancora ricordano
le parole del presidente Bush, che incitava le Nazioni Unite
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L’appuntamento con la celebrità
Il potere logora
chi non c’è l’ha.
Giulio Andreotti
Sono le tre del pomeriggio, Mark Manning, cotto dal sole californiano, decide di farsi una doccia. Il giornalista americano entra nell’hotel, camera 108, quarto piano, corridoio
a destra. L’albergo è lussuoso, moquette e candelabri. Mentre guarda un vecchio quadro si accorge che la porta della sua
stanza è aperta. È stata forzata. I soldi sono al loro posto, anche le carte di credito. “Maledizione, mancano le videocassette.” Tre nastri sono stati rubati. Riguardavano la battaglia
irachena di Falluja. Mark è stato in Iraq, nei ranger zone, ha
intervistato gente comune, vox populi. Non crede ai suoi occhi mentre stringe le custodie vuote. Si siede sul letto e fissa il muro.
a controllare i bunker di Saddam, convinto dell’arsenale nascosto dall’eterno nemico. Questa guerra menzognera è iniziata per distruggere armi di distruzione di massa e poi, paradosso della storia, i “portatori di pace”, hanno ucciso civili e
medici con le stesse bombe che cercavano. È ormai accertato l’uso del fosforo bianco. Probabilmente simile al napalm
usato in Vietnam. Oggi lo chiamano MK77 e nel linguaggio
militare Willy Pete, sembra il nome di un giocattolo. Queste
bombe quando scoppiano liberano una nuvola incendiaria
capace di distruggere tutto nel raggio di centocinquanta metri. Gli effetti sull’uomo sono raccapriccianti. I corpi dei civili si sciolgono, la pelle si stacca dai muscoli e spesso ciò che
rimane sono solo le ossa. Il fosforo bianco è capace di liquefare volti e qualsiasi cosa contenga ossigeno o particelle d’acqua. Molti dei corpi rinvenuti dopo la battaglia non avevano
segni di proiettile. Di alcuni minuscoli bambini sono rimasti
solo i vestiti: infatti l’arma chimica disintegra la carne, ma non
le fibre tessili. I familiari sopravvissuti alla strage hanno trovato solo pantaloni e camice dei loro parenti. Le persone che
non sono state colpite direttamente dalla nuvola incendiaria
attualmente soffrono di disturbi respiratori e i danni sui nascituri sono spaventosi. Molti neonati hanno il cranio deformato. Tra le vittime di Falluja è stato rinvenuto anche l’imam
di Baghdad, Hassan Nuymy. Ricercato e arrestato più volte, è
stato ucciso insieme ai suoi seguaci. Sul corpo ci sono segni
di torture tipiche dei servizi segreti mediorientali. Pelle ustionata e fori alle mani provocati da trapani.
Nel quartiere di Al Skarj gli americani hanno bruciato
molti morti per nascondere le tracce dell’uso di armi chimiche. La sostanza, una volta a contatto col corpo, trasforma-
va le persone in fiamme umane. Il numero dei morti ufficiali non è stato ancora confermato. Nonostante le prove, il capo dei marines, John Sattler, ha dichiarato che lui non è a conoscenza di nessun civile ucciso. Gli Stati Uniti hanno curato nei minimi dettagli la censura su Falluja. Alcuni giornalisti
di Al Arabiya, che avevano documentato la strage, sono stati
arrestati dalla polizia irachena. Gli unici giornalisti che possono fotografare i resti di Falluja sono quelli pilotati dagli americani. Anche sul web sono stati bloccati siti che denunciavano l’uso di armi chimiche. Non ultimo quello di due soldati
che ne gestivano uno in Colorado, uno degli stati che fornisce maggior uomini all’esercito. Gli Americani a Falluja hanno bombardato tutto quello che c’era da bombardare, hanno
segnato con delle x le case disinfestate dalle milizie della resistenza. Sembra un gioco, ma è la guerra. I soldati americani, ormai frustrati dai mesi di combattimenti, dipingono sui
muri delle moschee croci cristiane e bruciano il Corano. Nazioni “pacifiste”, come Italia e Inghilterra, erano al corrente dell’uso del fosforo bianco, ma hanno preferito il silenzio
alla dignità.
Alla luce del giorno possiamo dichiarare che l’attacco a
Falluja è stato un omicidio di massa.
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John spegne la tv, prende il nastro e lo lancia nel camino. Poi guarda la foto di Mark Manning appesa al muro e
dice: “Il tuo appuntamento con la celebrità è rimandato,
giornalista del cazzo.”
Fra poco morirò. Fra poco sentirò il rumore delle chiavi scavare nella serratura, fra poco la porta si aprirà per l’ultima volta nella mia vita. Il secondino non dirà nulla e io capirò che sarà finita. Questa volta sul serio. In questo autunno nigeriano morirò. Già immagino il mio ultimo sole, che
brucerà la mia pelle nera, sporca e inferiore, inferiore e sottomessa. Pelle mai in possesso delle ricchezze della propria terra. Fra poco morirò e mai, in tutta la mia vita, ho desiderato
sapere con esattezza quanto durerà questo fra poco. Questa
cella puzza di muffa, è buia e senz’aria, almeno morirò con il
vento nigeriano in faccia, almeno morirò col verde e bianco
della mia bandiera negli occhi. Quando vivi e pensi alla morte, ti dici, spero che quel giorno verrà all’improvviso, senza
preavviso, spero che quel giorno non avrò il tempo di pensare che sto morendo. In questa cella muoio poco a poco,
con la mente che si sbriciola sotto la paura di lasciare questo
mondo ingiusto, ma meraviglioso. Non piango per chi soffrirà per la mia mancanza, ma sento dentro che chi rimarrà
vedrà la nuova alba, il nuovo giorno. Il mio popolo farà tesoro della mia morte.
Mi hanno arrestato con un processo fasullo: “Signor
Wiwa, Ken Saro-Wiwa, scrittore e intellettuale, io condanno
a morte lei e i suoi otto collaboratori per aver incitato il popolo all’omicidio contro presunti oppositori del movimento
che lei capitaneggia.” Quel giorno, davanti a quella sentenza, sono morto.
Sono un nigeriano ogoni, una delle popolazioni che da
millenni abita il Delta del Niger. La mia terra è una delle più
ricche del mondo, petrolio, acqua, foreste. Il mio popolo dovrebbe vivere nel benessere, ma non è così. Le multinazionali sono venute qui e ci hanno derubato, si sono impossessate dei nostri giacimenti, si sono arricchite calpestandoci. I
carenti impianti di estrazione del petrolio stanno distruggendo l’ecosistema nigeriano, stanno avvelenando i bambini. È
una strage lenta, silenziosa. La Shell ci sta ammazzando, la
multinazionale della conchiglia costringe al silenzio il nostro
governo, ha il potere per farlo, il potere dei dollari. Non ci illudiamo di votare, di decidere chi ci governerà, i nostri politici sono bambole nella mani di imprenditori dal profitto infinito. Fra poco morirò perché ho parlato, perché abbiamo
creato un movimento, MOSOP (Movement for the Survival of the Ogoni People), trecentomila persone che hanno
urlato, urlato così forte che a Parigi, Londra, Roma, la gente ha ascoltato. Ha sentito e si è indignata. Per questo morirò, perché la morte del mio popolo non sarà più un segre-
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Fra poco morirò
Un uomo che non morirebbe per
qualcosa non è pronto a vivere.
Martin Luther King
Prigione di Port Harcourt, 10 Novembre 1995.
to della Shell e nemmeno dell’Agip e nemmeno degli italiani,
che vengono qui a sotterrare i loro rifiuti tossici. Per questo
morirò, perché ho denunciato, perché ho raccontato, e imprigionato son stato. Il nostro è un movimento non violento e io sto qui in questa cella di muffa con l’accusa di aver invogliato membri del MOSOP all’omicidio. Non è assurdo, è
il dollaro che vince.
Prigioniero di coscienza. Sono un prigioniero di coscienza. Mi ammazzeranno perché non ho obbedito, perché ho
creduto che la terra appartiene a chi in quella terra nasce. Io
morirò, ma altri ogoni nasceranno, il movimento vivrà e prima o poi il petrolio finirà, le foreste scompariranno, solo allora si renderanno conto degli omicidi compiuti, dei massacri,
degli animali estinti. Ho parlato di crimini contro l’ambiente
e l’umanità, sembrano parole sconosciute in questo mondo.
Fra poco morirò, fra poco un nigeriano sarà impiccato insieme ai suoi amici, ma…
La vera prigione
Non è il tetto che perde
Non sono nemmeno le zanzare che ronzano
Nella umida, misera cella.
Non è il rumore metallico della chiave
Mentre il secondino ti chiude dentro.
Non sono le meschine razioni
Insufficienti per uomo o bestia
Neanche il nulla del giorno
Che sprofonda nel vuoto della notte
Non è
Non è
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Non è.
Sono le bugie che ti hanno martellato
Le orecchie per un’intera generazione
È il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida
Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari
In cambio di un misero pasto al giorno.
Il magistrato che scrive sul suo libro
La punizione, lei lo sa, è ingiusta
La decrepitezza morale
L’inettitudine mentale
Che concede alla dittatura una falsa legittimazione
La vigliaccheria travestita da obbedienza
In agguato nelle nostre anime denigrate
È la paura di calzoni inumiditi
Non osiamo eliminare la nostra urina
È questo
È questo
È questo
Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero
In una cupa prigione.
Sono qui col cappio al collo, questa corda è ruvida. Riempio i polmoni della mia ultima aria, dentro il cuore vuol scoppiare. Dentro il cuore piange, e sul volto di chi mi sta uccidendo l’indifferenza. Eccolo che si stringe, non è un cappio,
ma la mano delle multinazionali. Fisso l’orizzonte, fisso quello che non vivrò. La terra sotto i miei piedi scompare. Penzolo, io nigeriano ogoni, penzolo morto per aver detto, per
aver creduto, per aver raccontato.
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Testamento di Ken Saro-Wiwa
Signor Presidente, tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io
sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto
generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte
potranno impedire la nostra vittoria finale. Non siamo sotto processo solo io e i miei compagni. Qui è sotto processo la Shell. Ma questa compagnia non è oggi sul banco degli
imputati. Verrà però certamente quel giorno e le lezioni che
emergono da questo processo potranno essere usate come
prove contro di essa, perché io vi dico, senza alcun dubbio,
che la guerra che la compagnia ha scatenato contro l’ecosistema della regione del delta sarà prima o poi giudicata e che
i crimini di questa guerra saranno debitamente puniti. Così
come saranno puniti i crimini compiuti dalla compagnia nella guerra diretta contro il popolo Ogoni. Davanti alle accuse
false che mi sono state qui rivolte, io chiamo il popolo Ogoni, quelli del delta del Niger e le minoranze etniche oppresse
della Nigeria ad alzarsi e a lottare senza paura e in modo pacifico per i loro diritti. La storia è dalla nostra parte.
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Risposta alla domanda: Che cosa è l’illuminismo?
di Immanuel Kant
Per perdere la testa,
bisogna averne una.
Albert Einstein
Illuminismo è la liberazione dell’uomo dallo stato volontario di minorità intellettuale. Dico minorità intellettuale, l’incapacità di servirsi dell’intelletto senza la guida d’un altro.
Volontaria è questa minorità quando la causa non sta nella mancanza d’intelletto, ma nella mancanza di decisione e
di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. Sapere aude!
Abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto! Questo è il motto dell’illuminismo.
La pigrizia e la viltà sono le cause del perché un così grande numero di uomini, dopo che la natura li ha da un pezzo
dichiarati liberi da direzione straniera, restano tuttavia volentieri, per tutta la vita, minorenni; e perché ad altri riesce così facile il dichiararsene i tutori. È così comodo essere minorenne. Se io ho un libro che ha dell’intelletto per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che giudica del regime per me e così via, io non ho più alcuno sfor125
zo da fare. Se pago, non ho più bisogno di pensare: c’è chi se
ne prende la briga per me. E che la maggior parte dell’umanità (tra cui tutto il bel sesso) tenga la liberazione non solo
per incomoda, ma anche pericolosa, è cura dei sopradetti tutori, i quali si sono benignamente assunti la sovrintendenza.
Dopo d’aver reso stupido il loro bestiame e d’aver impiegato
ogni cura perché questi tranquilli esseri non osino muovere
un passo fuori del carruccio da bambini, in cui li hanno chiusi, essi mostrano loro in appresso il pericolo che li minaccia
se s’arrischiano a camminare da soli. Certo il pericolo non è
grande e dopo qualche capitombolo alla fine imparerebbero
a camminare: ma un caso di questo genere li rende timidi e li
dissuade generalmente da ogni ulteriore tentativo.
È quindi, per ogni singolo, cosa difficile l’uscire da questa tutela diventata quasi in lui natura. Egli l’ha anzi presa in
affezione ed è per il momento realmente incapace di servirsi
del suo intelletto, perché non vi è mai stato abituato. Le regole e le formule, questi strumenti meccanici dell’uso razionale o piuttosto dell’abuso dei suoi doni naturali, sono le catene che lo tengono in questa perpetua tutela. Chi le gettasse
lungi da sé, non farebbe anche sopra il più piccolo fosso che
un salto malsicuro, perché non avvezzo a liberi movimenti.
Pochi sono perciò quelli che sono riusciti, per una autoeducazione del proprio spirito, a liberarsi dalla tutela e tuttavia
ad acquistare un incedere sicuro.
Più facile è che si illumini da sé una collettività; anzi è quasi, quando ne abbia la libertà, inevitabile. Perché si trovano
sempre, anche tra quelli preposti come tutori della grande
massa, alcuni che pensano da sé e che, dopo d’avere scosso
da sé il giogo della tutela, cercano di diffondere intorno a sé
lo spirito d’un razionale apprezzamento del proprio valore e
della vocazione di ogni uomo a pensare da sé. Degno di nota
è questo: che il pubblico, il quale è stato dai suoi tutori sottoposto a questo giogo, costringe essi stessi in seguito a non
uscirne, quando venga a ciò aizzato da quelli, fra i suoi tutori, che sono impenetrabili ad ogni illuminazione: tanto pericoloso è il seminare dei pregiudizi, i quali alla fine si volgono
contro quelli stessi o i successori di quelli stessi, che li hanno
seminati. Quindi un pubblico non può essere illuminato che
lentamente. Una rivoluzione potrà produrre la fine di un despotismo personale e d’una oppressione cupida e dispotica;
ma nuovi pregiudizi serviranno, come gli antichi, a dirigere
ciecamente la grande moltitudine che non pensa.
Per questa illuminazione non s’esige tuttavia altro che libertà e invero la più innocente di tutte le libertà: quella di fare pubblicamente uso del proprio intelletto in tutti i punti.
Io odo bene da tutte le parti esclamare: “Non ragionate!” Il
militare dice: “Non ragionate, ma fate l’esercizio!” L’agente delle tasse dice: “Non ragionate, ma pagate!” Il prete dice: “Non ragionate, ma credete!” Qui abbiamo tante limitazioni della libertà. Ora quale limitazione è contraria alla illuminazione? E quale non vi è contraria, ma anzi vi contribuisce? Io rispondo: il pubblico uso della ragione deve sempre
essere libero ed esso solo può servire ad illuminare gli uomini; l’uso privato della stessa deve invece essere spesso molto strettamente limitato, senza che ciò particolarmente noccia al progresso dell’illuminismo. Io intendo per uso pubblico della ragione quello che uno ne fa, come studioso, dinanzi al pubblico dei lettori. Intendo per uso privato l’uso che
egli deve fare della propria ragione in un dato posto od uffi-
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zio civile a lui affidato. In quelle pratiche, le quali riflettono
il pubblico interesse, è necessario un certo meccanismo, per
virtù del quale alcuni membri della comunità debbono comportarsi del tutto passivamente, al fine di poter essere indirizzati, per un artificioso accordo, verso le finalità pubbliche
o almeno essere trattenuti dalla loro distruzione. Qui certo
non è lecito ragionare: bisogna ubbidire. Ma in quanto questo
membro del meccanismo statale si considera come membro
della comunità, anzi della umanità civile, quindi in qualità di
studioso, esso può benissimo ragionare senza che ne soffrano gli affari, ai quali esso, come membro passivo, è applicato. Così sarebbe esiziale se un militare, comandato dai superiori, volesse in servizio apertamente ragionare sulla convenienza o sull’utilità dei comandi: egli deve ubbidire. Ma non
può equamente venir impedito, come studioso, di fare osservazioni sulle deficienze del servizio bellico e di sottoporle al
giudizio del pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare
le imposte: anzi un biasimo indiscreto, nell’atto che si paga,
può essere punito come uno scandalo (che potrebbe provocare una resistenza generale). Ma con tutto ciò lo stesso non
agisce contro il dovere di cittadino quando, come studioso,
esprime pubblicamente i suoi pensieri contro l’inopportunità ed anche l’ingiustizia di tali imposizioni.
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È polvere negli occhi
Io ho un concetto etico del giornalismo. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che
avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, e
le violenze che non è stato mai capace di combattere.
Giuseppe Fava
“Favorisca i documenti.”
“Ecco il passaporto.”
“Lei è una giornalista?”
“Si, mi chiamo Sylvia von Harden e sono olandese.”
“Prego, passi pure.”
Fortunatamente quando sono atterrata a Mogadiscio non
ho avuto i soliti problemi che noi donne europee abbiamo
nei paesi islamici. Il mio modesto italiano mi ha aiutato parecchio. Il direttore del giornale per cui lavoro non sa che sono qui. Diciamo che queste dovrebbero essere le mie vacanze. Devo incontrare un uomo, Amid. Abbiamo un appuntamento alle sei in punto al bar Jidka, nei pressi di Warehouse. Lo riconosco in un baleno, porta al collo una vistosa stof129
fa rossa. Lui non può far altro che avvicinarsi, sono l’unica
donna nel bar. Ci presentiamo con discrezione, mi fissa negli occhi, resto immobile, non do segni di cedimento. È una
sua risata a rompere il ghiaccio. Finalmente chiacchieriamo.
Sa benissimo perché sono qui. Ilaria Alpi. Tenta di spiegarmi
che non vuole esporsi troppo e che, come pensavo, Amid è
un nome fittizio. Non gli faccio delle domande. Non è uno
al corrente di informazioni utili alla mia causa. Voglio soltanto che mi porti sul luogo del delitto. Accetta. All’alba all’ingresso del bar.
Il mio pernottamento in Somalia mi ha fatto schifo, un
caldo infernale e un maledetto letto di pietra. Non ho chiuso
occhio. Alla fine ho deciso di mettermi sulle mie carte. Nessuno sa di questo libro che sto scrivendo. Tutti mi conoscono come la famigerata e pungente von Harden. L’inappuntabile Harden. I racconti, che con voce soffusa leggo nella notte somala, sono diversi dai miei articoli gelidi, precisi, asciutti, diretti. Leggo e correggo i racconti su Olympe de Gouges,
Anna Kuliscioff, Anna Maria Mozzoni e Kate Millett, Mary
Wollstonecraft. Parole gettate su fogli di carta. Scritte nei lunghi viaggi in treno, quando ho il tempo di pensare. Racconti
che parlano di donne dimenticate, donne che non abbassavano mai la testa. Antagoniste. Questo libro parla proprio di
loro. Voglio vedere con gli occhi dov’è morta Ilaria Alpi. Prima di scrivere di lei, voglio vedere dov’è morta. Dove l’hanno
freddata. Non voglio fare cronache, le parole devono uscire
da sole, dalle viscere.
Amid mi aspetta con la sua jeep. Arriviamo in breve tempo sul posto. Intorno a noi la vita scorre frenetica. La gente
non ricorda più, in fondo quello è solo uno scampolo d’asfal-
to dove una povera stupida giornalista italiana è morta. Non
stiamo parlando del massacro di migliaia di persone, stiamo
parlando di Ilaria Alpi e del suo cameraman Miran Hrovatin.
Che peso avranno mai queste due anime per essere ricordate,
per bloccare la gente davanti al luogo dell’esecuzione? Amid
se ne va. Non accetta i soldi che voglio dargli. È un brav’uomo. Il luogo dell’esecuzione è un anonimo metro quadro di
sabbia e cemento. La gente passa, alza la polvere. Maledizione, vorrei urlare. Qui è morta una giornalista, l’hanno ammazzata, l’hanno fatta fuori. Mi sentite? Bravi, tappatevi le
orecchie. Mi sembra di vederti, cara Ilaria, in piedi in quel metro quadro, che freneticamente scrivi sul tuo taccuino.
Sputerei per terra tutta la rabbia che ho dentro. Ti hanno
ammazzata, sorella Ilaria. Il perché è semplice, perché non
ti facevi i cazzi tuoi, perché non ti accontentavi di startene
dietro la scrivania a scrivere di gossip e malapolitica italiana. No, tu dovevi capire, avevi questo brutto difetto. Capire,
e per capire t’intrufolavi. Tu non eri in Somalia per la guerra, no. Quella guerra che tutto il mondo ogni giorno raccontava. Quella stupida guerra per tre chilometri di terra deserta. Sapevi altre cose Ilaria, scoprivi e mettevi tutto in cassaforte, nel tuo taccuino e nelle cassette di Miran. Parlare della
guerra è facile, ci sono i buoni e i cattivi, chi spara e chi muore, terroristi ed azioni umanitarie. Diciamo che tu ti eri messa di traverso. Vedevi le cose da altri punti di vista. Avevi capito che i buoni vendevano le armi ai cattivi e i cattivi facevano seppellire ai buoni tonnellate di rifiuti tossici nel deserto. Tu lo sapevi, Ilaria, che la Somalia era la pattumiera d’Europa. Sapevi ed altri sapevano che tu sapevi e questo non va
bene. Non va bene, perché i falsi buoni sono personaggi po-
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litici italiani, esponenti dell’esercito. In fondo avevano ragione, Ilaria Alpi, da qualche parte la merda si deve pur gettare,
loro avevano trovato un accordo. Merda per fucili. Tu cosa
c’entravi, perché volevi interferire?
Sarebbe bastato quel tuo ultimo servizio per sputtanare
tutti quanti. Ma ti hanno fermata, ammazzata a bruciapelo. Io
mi immagino sempre quegli ultimi momenti. Tu e Miran seduti sui sedili posteriori, davanti l’autista e la guardia del corpo. Poi immagino il rumore della mitraglietta, dei colpi che
spaccano i vetri e tu e Miran senza vita. Giornalista e cameraman senza vita, autista e guardia del corpo salvi. Sarà un caso? Sarà un complotto? No, Ilaria, per la stampa italiana tu sei
stata ammazzata in un agguato, mica volevano ucciderti, no.
Non volevano. È stato un errore. Perché uno che ti spara a
trenta centimetri di distanza non vuole ammazzarti. No. Uno
che ti spara guardandoti morire non vuole ammazzarti.
Di cose strane sul tuo caso ce ne sono tante. Tantissime.
Quando sei morta, le immagini del tuo corpo senza vita furono riprese dalle reti svizzere RTSI e dagli americani dell’ABC.
Il giornalista svizzero è morto in un incidente di cui ancora oggi non si conosce la causa, mentre l’americano è stato
ammazzato in un albergo a Kabul. Ed è un caso anche il fatto che siano scomparsi alcuni taccuini e certe videocassette.
Quelli che racchiudevano le informazioni più importanti del
tuo dossier sui rifiuti tossici. Dovevano arrivare sigillate le tue
valigie a Roma ed invece le hanno trafugate, hanno impedito
che i sacrifici, quelli che ti sono costati la vita, venissero fuori, affinché tutti sapessero.
Non sto piangendo per te, Ilaria, nemmeno per Miran, è
questa maledetta polvere somala che mi scava gli occhi.
Era il 25 agosto del 1992. Mezzanotte. Era buio. Sarajevo riposava sotto un velo di stelle. Davanti alle scale del Municipio c’era un cane. Un randagio pieno di pulci. Fu il primo a svegliarsi in tutta la città. Fu il primo che alzò il muso
al cielo e sentì il profumo dell’inferno. Bastarono pochi secondi. Quattro aerei serbi sganciarono decine di bombe su
Vijecnica, la Biblioteca Nazionale di Sarajevo. Quattro aerei
e quattro secondi per cancellare quattrocento anni di storia.
Cadevano precise le bombe sull’edificio ricco di libri. Non
era un errore, non era un errore. La biblioteca era il bersaglio
dei serbi. Perché bombardare una biblioteca? Perché sprecare bombe, tempo e uomini per distruggere qualcosa che non
spara? Questo si chiese Ludovic Boban, quando in piazza insieme a decine di giovani, con secchi di acqua sporca, cercava di spegnere le fiamme. Gli rispose Kemal Bakaršic, il bibliotecario: “Perché qui dentro la loro guerra non esiste. Qui
dentro gli scrittori serbi sono nello stesso scaffale di quelli
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Neve nera
La guerra non si può umanizzare,
è solo da abolire.
Albert Einstein
bosniaci. E le culture si mescolano, senza odio, senza etnie,
senza vergogna.”
Avevano distrutto un milione e mezzo di libri, centoquindicimila testi rari, quattrocentosettanta manoscritti e l’archivio completo di tutti i periodici bosniaci.
Lo studente universitario Miroslav Popovic, tra le fiamme, si rivedeva nella grande sala di lettura, immerso nel silenzio. Rivedeva i suoi amici poveri che venivano alla Vijecnica solo per riscaldarsi. Quanti libri aveva letto, era orgoglioso di quel posto. Quando i suoi parenti dalla Slovenia arrivavano in città, lui li portava sempre alla biblioteca. Anche
quando inviava cartoline, sceglieva sempre quelle con la foto
della biblioteca. Pochi mesi prima era toccato all’Università
Orientale di Sarajevo. Lì erano conservati testi arabi, cristiani,
ebrei. Miroslav frequentava proprio quell’università. Lettere
moderne. Passava giorni interi sulle panche di legno a leggere Don Chisciotte e David Copperfield. Nei giorni seguenti i
bombardamenti continuarono, vigili del fuoco, bibliotecari e
semplici volontari crearono un cordone umano, un girotondo d’anime per salvare più libri possibili. Una catena di carne
ed ossa, si passavano libri vecchi, pieni di polvere, bollenti,
senza pagine. Dai tetti di Sarajevo i cecchini serbi sparavano
al cordone. La bibliotecaria Aida Buturovic morì trapassata
da un proiettile. Si accasciò tra le macerie, sommersa dai libri
in fiamme. Si sciolse anche lei in quella biblioteca.
Da una delle finestre di Sarajevo lo scrittore bosniaco Goran Simic scrisse: “Liberati dalla canna fumaria, i personaggi girovagavano per la città, mescolandosi con i passanti e le
anime dei soldati morti. Ho visto Werther seduto sul recinto di un cimitero distrutto; ho visto Quasimodo dondolante
sul minareto di una moschea; Raskolnikov e Meursault sussurravano, per giorni, nella mia cantina; Yossarian già commerciava con il nemico; il giovane Soyer era pronto a vendere, per pochi soldi, il ponte Principov.”
Dietro il vetro di quella finestra vedevo svolazzare nel cielo pezzi di carta in fiamme, bruciata, parole di carbone. I libri della Biblioteca Nazionale di Sarajevo svolazzavano sotto il vento forte d’agosto, tutta la città era ricoperta da pagine scure, neve nera.
Dopo sei giorni i bombardamenti cessarono. La biblioteca era rasa al suolo. Tra i massi crollati dal tetto e gli scaffali capovolti, il violoncellista Vedran Samjlovic, in smoking e
camicia bianca, salì su un cumulo di macerie, impugnò il suo
violoncello e iniziò a suonare. Decine di fotografi dell’Europa occidentale lanciavano flash sui baffi lunghi di quell’uomo che suonava ai funerali della povera gente. Vedran Samilovic suonava l’Adagio di Albinoni, quel suono malinconico,
irreale, alieno eppure così vicino al dolore.
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Non so dove trovarti / Non so come cercarti / ma sento una voce che
nel vento parla di te / Quest’ anima senza cuore, aspetta te / Adagio /
Le notti senza pelle / I sogni senza stelle / Immagini del tuo viso /
che passano all’ improvviso / Mi fanno sperare ancora / che ti troverò / Adagio
Suonò per tre ore tranne un istante in cui si asciugò le lacrime. La musica si perse nella notte di un settembre bosniaco. Qualche nota malinconica, appiccicosa, si attaccò ad un
fiocco di neve nera. Qualcuno tempo fa aveva scritto: fanno
il deserto e lo chiamano pace.
Lee è stato giustiziato circa un mese dopo. Gli hanno sparato dietro la testa. Non sono riusciti a sfigurargli la faccia
perché quel fottuto cinese ha aperto la bocca e il colpo è uscito fuori. Zhang Shiqiang è stato fortunato, è riuscito a scappare. Ha messo su famiglia, ha due figli: Tycoon e Brad. Coltiva le patate nella regione di Chongqing.
Prima della sfortunata rapina, Zhang era il più temuto
bandito della Cina. Era conosciuto come il “Diavolo a nove
dita”. Il padre a tredici anni lo sorprese a rubare e con una
mannaia gli staccò un dito.
Da quando Lee è stato giustiziato, Zhang ha cambiato vita. Sulla sua testa una taglia da centomila renminbi. È latitante. Ha documenti falsi. È stata sua moglie Cho a salvarlo, a
portarlo nelle campagne. Si conobbero la notte della rapina,
Zhang era nervosissimo, c’erano scappati due morti. Quando vide Cho la prese come ostaggio e, da quel momento in
cui le tappò la bocca, non si sono più lasciati.
Sono passati nove anni da quella notte funesta, Zhang è
in giardino, ama passeggiare nel buio della notte, abbandonare le orecchie ai grilli, ama sentire il profumo dell’erba umida.
Cho si avvicina, lo stringe. Passano abbracciati dolci minuti
in silenzio. La costellazione del drago risplende alta nel cielo,
quando Cho annuncia a Zhang di aspettare un bambino. “Lo
chiameremo Lee” sono le prime parole del latitante.
Il giorno dopo, alle sette del mattino, un furgone si avvicina a casa Shiqiang. Dallo stereo la voce di Phil Collins:
How can I just let you walk away / just let you leave without a trace.
A bussare alla porta è un funzionario statale che legge poche
righe: “Signor Zhang Shiqiang, in base alle leggi che regolano lo stato cinese, lei verrà giustiziato oggi, in data 14 aprile 2006, per l’omicidio di due persone durante la rapina del 7
dicembre del 1997. Pertanto la invito a salire sul furgone, dove perderà la vita attraverso un’iniezione letale. Il video della
sua esecuzione sarà trasmesso oggi, alle ore 12.00, in diretta
dalla piazza principale del suo paese di residenza, come monito per tutti i cittadini. Prima di seguirci può salutare i suoi
cari, che per le ceneri del suo corpo potranno rivolgersi in seguito al dipartimento centrale di stato.”
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Don’t want to close my eyes
Ogni persona vale più della sua peggiore azione.
dal film “Dead man walking”
“Cazzo! Cazzo! Fai presto arriva la polizia. Prendi questi
dannati soldi e scappiamo!”
“Dove scappate, figli di puttana, adesso vi sbattiamo dritti in prigione!”
“Maledizione Lee, maledizione! Doveva essere il colpo
del secolo.”
“Che cazzo vuoi, Zhang, ci hanno traditi, ci hanno traditi quei bastardi.”
Li fissa negli occhi Zhang, poi entra per l’ultima volta in
casa. Il televisore è spento, il girasole ancora chiuso. Tutto
è in disordine, come sempre. Apre la porta della stanza dei
suoi figli, bacia Tycoon e Brad. Sua moglie dorme abbracciata al cuscino, gli accarezza la pancia e lascia un bigliettino: “Ti amo”.
A passi lenti il condannato si avvicina al furgone accompagnato da due guardie. Il veicolo è quasi un’ambulanza, tante boccette, siringhe e un letto che non ha nulla di umano. Il
funzionario spiega che la barella è ribaltabile, cosicché al momento del decesso il corpo potrà essere scaricato senza troppa fatica. Mentre un dottore prepara il cocktail letale, Zhang
dolcemente piange. La
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radio sussurra le note degli Aerosmith: Don’t want to close my eyes /I don’t want to fall asleep / Cause
I’d miss you baby / And I don’t want to miss a thing.
Il pubblico ufficiale lo accusa di essere un male per la società. Sostiene che il condannato è un uomo fortunato per la
morte che sta ricevendo. Il suo decesso sarà clinicamente sicuro e i suoi compaesani ne trarranno vantaggio economico
perché non saranno costretti, a causa della sua cattiva condotta, a sborsare soldi per pagare il plotone di esecuzione.
L’iniezione confezionata a Beijing è pronta. Sodio thiopental
per rendere il condannato inconscio, pancuronium bromide
per fermare la respirazione, potassio cloridrico per fermare il
cuore. L’ago entra nella vena, prima di perdere conoscenza,
Zhang ha giusto il tempo di vedere che gli stanno aprendo
il petto per asportargli cuore ed organi vitali. Sente solo un
forte bruciore, un lampo in gola. Chiude gli occhi e muore.
“Giustizia è fatta!” grida il funzionario, mentre nasconde in
borse termiche gli organi destinati al commercio nero.
Il prossimo è un gangster, ha pagato per morire con l’iniezione, non vuole che il suo corpo cada nella polvere dopo
gli spari. Zhang viene bruciato all’obitorio. Le sue ceneri rinchiuse in una boccetta di plastica.
Il numero dei morti uccisi dai furgoni della morte è segreto di stato. Nessun cinese può assistere all’esecuzione né visionare il corpo dopo il decesso.
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Ore 12.00 Cho è nella polvere che si dimena mentre un
ago uccide suo marito. Il video si spegne prima che il dottore squarci il petto di Zhang.
Il Maggiore Doug Rokke è davanti alla sua telecamera appena comprata. L’accende. Si siede e inizia a parlare.
Sono il Maggiore Doug Rokke, ex direttore del progetto
“Uranio Impoverito” del Pentagono degli Stati Uniti d’America. Ho partecipato alla Guerra del Vietnam come pilota di
B52. Ho preso parte alla Guerra del Golfo del 1991 col compito di ripulire sistematicamente Arabia Saudita e Kuwait da
materiale radioattivo.
Affermo, immediatamente, di aver subito gli effetti dell’uranio impoverito. Nel ’91 la radioattività riscontrata nel mio
corpo era cinquemila volte superiore alla soglia massima, una
quantità capace di bruciare un piccolo paese. Ho avuto problemi di respirazione, alla vista e ho subito quindici interventi
chirurgici al fegato per sindrome da uranio. In quanto esperto
in materiale radioattivo posso, senza nessun timore, affermare che le pallottole all’uranio impoverito uccidono e distruggono ogni cosa entro il loro raggio d’azione. Nonostante gli
effetti devastanti, il Pentagono mi ha espressamente riferito di
fare in modo che si continuino ad usare pallottole all’uranio
impoverito perché efficacissime in battaglia. I rischi connessi all’uso dell’uranio impoverito sulla vita delle persone sono
altissimi. Per ogni singola scarica sparata da un carro armato
Abrams vengono liberate dieci libbre di uranio solido, contaminato con plutonio, nettunio e americio. Nel momento
dell’impatto si produce una sottile polvere d’uranio, che rappresenta circa la metà della massa originaria. La polvere può
essere inalata creando avvelenamento da metalli ed effetti radiologici sul corpo. Chi entra in contatto con questo materiale subisce gravi malformazioni alla pelle, esantemi. L’inalazione equivale a un litro di metalli pesanti ingeriti. L’uranio impoverito genera tumori. Persone colpite da pallottole
all’uranio sono morte di tumore. Alcuni che avevano ancora le pallottole conficcate nel corpo avevano tumori proprio
nei pressi dei proiettili.
Michael Klipatrick, responsabile dei veterani per il Pentagono, tempo fa, sostenne che su novanta soldati in missione
nel 1991, nessuno aveva riportato malattie respiratorie o riconducibili all’uranio. Ha mentito al mondo, semplicemente.
Si continua a mentire per evitare che gli Stati Uniti d’America subiscano le conseguenze giudiziarie per l’uso sproporzionato e illegale dell’uranio impoverito in Medio Oriente. Si
continua a mentire per continuare a distruggere.
Nel 2002 il rapporto del dipartimento dei veterani americani scriveva: “Negli USA ci sono centosessantamila veterani
della Guerra del Golfo disabili e altri ottomila sono morti per
la sindrome del Golfo.” I veterani della guerra del ’91 stanno
morendo ad un ritmo di centoquaranta decessi al mese. Questi sono dati in continuo aggiornamento. Dal 1991 al 2002,
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Goodbye Baghdad
La gente cancella in fretta le guerre.
Sally Beauman
duecentocinquantamila soldati americani sono stati esposti a
polvere d’uranio in Medio Oriente. Il numero delle persone
che dovrà morire non è stato ancora accertato. Gli Stati Uniti non hanno provveduto alla bonifica dei territori colpiti da
munizioni all’uranio, la popolazione tutt’oggi ne subisce le
conseguenze. Nell’ultima guerra all’Iraq vengono e verranno
usate nuovamente munizioni all’uranio impoverito. Scienziati di tutto il mondo sono concordi che nelle sola città di Bassora, centomila persone sono state colpite da problemi di salute legate all’uranio. Gli aerei A-10 Warthog sparano colpi
da trenta millimetri con trecento grammi di uranio. In Afghanistan questi aerei hanno usato bombe ad uranio, spargendo
sul territorio oltre diecimila libbre di materiale tossico in un
solo bombardamento.
Come vittima e responsabile dichiaro che l’uso dell’uranio
impoverito è un crimine contro Dio. Non si possono prendere scorie radioattive e gettarle nel cortile di qualcun altro,
astenersi dal prestare cure mediche, non badare alla bonifica
del territorio e dichiararsi con orgoglio uno stato democratico. Non è un crimine di guerra, è un crimine contro Dio.
Le Nazioni Unite, il 10 dicembre 2001, hanno dichiarato che le munizioni all’uranio impoverito sono armi di distruzione di massa e devono essere vietate in ogni angolo del
mondo. Gli Stati Uniti e i suoi alleati si avvalgono del diritto
di seppellire intere città sotto coltri di polveri tossiche e, paradosso della giustizia, nel loro codice penale, prevedono l’arresto per chiunque lasci cinquecento grammi d’uranio in territorio pubblico. Bonificare le zone colpite richiederebbe oltre duecento miliardi di dollari. Ogni veicolo, struttura o zona
colpita dovrebbe essere rimossa fisicamente e il suolo circo-
stante scavato di dieci centimetri per disperdere l’effetto uranico. Gli effetti dei proiettili producono danni per un raggio
di cinquanta chilometri. Il vento può trasportare la polvere
d’uranio in ogni angolo della terra. Baghdad, perennemente
colpita da questi proiettili, non è una città umanamente vivibile. La zona resterà contaminata per quattro miliardi di anni,
supponendo che non venga rimossa fisicamente. Ogni soldato americano indossa tute di protezione durante le missioni
in zone uraniche. I bambini iracheni, invece, vengono lasciati sguazzare con mutandine e maglie logore in fanghi radioattivi. Più di venti milioni di iracheni potrebbero essere colpiti dalle polveri d’uranio. Gli Stati Uniti d’America diventeranno così i responsabili della cancellazione di uno stato mediorientale dalla faccia della terra.
Oggi non abbiamo una mappa completa delle zone contaminate. Probabilmente si continuano a ricostruire città su
zone radioattive. I neonati iracheni saranno le prime vittime
di questa guerra, il loro DNA e RNA subirà cambiamenti genetici a causa delle radiazioni.
Dico tutto questo perché sto per morire di tumore ai polmoni. L’uranio è nei miei respiri.
Dico perché so. Invio questa mia auto-intervista ai giornali di tutto il globo affinché i terrestri sappiano che respirano polveri d’uranio utilizzate dagli USA per impossessarsi di
pozzi petroliferi. Se io non morissi, mi ammazzerebbero. Mi
ammazzerebbero e voi non sapreste che mi hanno ammazzato. Questa è la più grande democrazia del mondo: venti milioni di iracheni contaminati, un intero stato cancellato, quattro miliardi di anni di invivibilità.
Goodbye Baghdad.
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Questa storia potrebbe iniziare con c’era una volta in Romania, oppure tanto tempo fa a Bucarest, e invece inizia con una ragazzina di quindici anni che scappa di casa perché il padre
ubriaco la riempiva di botte.
Mi chiamo Miriam e quando sono scappata di casa ho passato due giorni digiuna, al freddo, poi mi sono infilata nell’inferno, poi sono scesa nelle viscere della terra. Ho aperto un
tombino e sono diventata una ragazza delle fogne. Appena
giunta mi hanno picchiata e rasato i capelli a zero. Ho imparato a vivere in quel posto, sniffando colla e rispondendo
con la violenza alla violenza. Ho visto negli occhi della gente
che mi guardava disprezzo, ripudio, pena, perché la mia casa
era sotto i loro piedi. Siamo i figli di nessuno, abbandonati,
soli, siamo un popolo a parte. La nostra è una guerra tra poveri. Nella mia notte non ci sono stelle, nella mia notte sento scorrere il piscio dei signori del piano di sopra, sento i topi che rodono le mie scarpe. Noi, bambini dei tombini, abbiamo gli occhi tutti uguali, freddi e grigi come i fumi delle
caldaie che ci riscaldano, come l’inferno rumeno. Ho imparato a rubare e a mangiare quello che gli altri gettano via. Casa mia è un girone dell’inferno. Quando ti infili nei tombini, nelle porte di ferro, il cuore batte in modo diverso. I miei
amici si fanno tutti di eroina, tutti, nessuno escluso. Quando
penso al futuro in questo posto penso solo a qualcosa di diverso. Gli altri non pensano più.
Un giorno è arrivato lui, il pagliaccio di Dio. Mi sono sempre chiesta perché un artista, uno che girava il mondo con i
suoi numeri, si è infilato in questo merdaio sotto terra. Miloud, un franco algerino, col viso bianco e il naso rosso. Ho
sempre odiato i pagliacci, perché non mi fanno ridere e perché sono stupidi. Lui no però, lui non fa ridere il volto, lui
fa ridere l’anima. Quel giorno perse il suo treno e salì sul nostro. Si è messo al nostro stesso livello, è venuto giù e ha visto con i suoi occhi. Lui non ha sentito dire da amici, lui ha
visto. Non aveva da darci nient’altro che quello che sapeva
fare. Ci ha insegnato ad andare sui trampoli, sul trapezio, la
magia, la giocoleria. Ha dato ad ognuno di noi un piccolo scopo per vivere un giorno in più. Un mattino di primavera mi
prese la mano e mi portò sul tetto più alto della città, sembrava un altro mondo. Con lui ho girato l’Europa, con lui, con
Miloud Oukili, ho visto Roma, Vienna, Berna, la sua Francia
e le strade di Londra. In quelle piazze abbiamo regalato alla
gente quello che il pagliaccio di Dio aveva regalato a noi. Fare il clown è il mestiere del dono, di chi regala istanti, di chi
si ruba gli attimi, di chi vive per i sorrisi. Miloud è un clown.
Miloud è un padre. Miloud è Miloud.
Io vado sui trampoli, dalle fogne al cielo. Da lassù il mondo si rimpicciolisce e si vedono cose che altri non vedono.
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I bambini dei tombini
Io sono un clown e faccio collezioni di attimi.
Heinrich Böll
Ho imparato che la strada è la mia casa, è il mio teatro, il mio
mondo. Sono passati sedici anni dal giorno in cui Miloud incontrò i bambini dei tombini, da allora sono cambiate tante
cose. Siamo cambiati noi.
Oggi sto per partorire, sto per mettere al mondo il primo
bambino nato dalla prima generazione dei bambini dei tombini. Fra poco arriverà il pagliaccio di Dio, mi guarderà, mi
stringerà la mano e da gentiluomo si toglierà il cappello.
Sento forte le contrazioni, continue, veloci. Presto nascerai, bambino mio, nascerai nelle viscere della terra, nascerai
col volto bianco e il naso rosso.
Relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del
Congresso americano sugli immigrati italiani negli
Stati Uniti, ottobre 1912.
La storia si ripete sempre due volte:
la prima in tragedia, la seconda in farsa.
Karl Marx
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non
amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di
legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro
affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano
di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano
lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e
uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e
sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto
e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo
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perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere, ma soprattutto non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano
nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere
di espedienti o, addirittura, attività criminali.
Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di
comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare.
Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano, purché le
famiglie rimangano unite e non contestino il salario. Gli altri,
quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione,
provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.
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Kubark
manuale per giovani assassini
Da un soldato non mi aspetto
mai che pensi.
George Bernard Shaw
Che fare se un fottutissimo prigioniero figlio di puttana
non vuole darti informazioni importantissime per il proseguo
della guerra? Come si deve comportare un soldato se l’interrogato oppone resistenza? Quali tipi di torture deve usare?
Non è fantascienza. Sono tre domande che alla “School
of the Americas”, un qualsiasi professore avrebbe potuto fare ai propri allievi. Giovani aspiranti soldati che studiavano il
“Kubark Counterintelligence Interrogation”, il manuale sulle
tecniche di interrogatorio “pesanti”, prodotto di derivazione
militare firmato CIA, servizi segreti. Kubark logicamente è un
nome in codice. Data della prima stesura giugno 1963, rimasto segreto fino al 24 gennaio del 1997. Trentaquattro anni.
La CIA è stata costretta dalla Freedom Of Information Act, una
legge che negli Stati Uniti obbliga il governo a rendere noti i
documenti ufficiali, a pubblicare il testo. Logicamente i vertici CIA hanno criptato e censurato numerosi paragrafi.
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Il Kubark è un manuale composto da centoventisei pagine
di precise indicazioni sui metodi d’interrogazione di detenuti
e nemici. Un addestramento per estorcere informazioni utili
alla causa della propria patria. Gli Stati Uniti l’hanno creato
per la sicurezza nazionale, niente di più. D’altronde ogni stato ha il diritto di difendersi. È un libricino diviso in dieci capitoli, l’allievo impara a riconoscere i comportamenti dell’interrogante e dell’interrogato, impara i metodi di verifica, di
indagine e le tecniche del controspionaggio, coercitive e non
coercitive. Il capitolo sui metodi coercitivi si riferisce in modo particolare ai soggetti resistenti, o meglio testardamente
ostinati a non dire quello che l’interrogante vuol sapere.
Nel 1983 il manuale Kubark si dette un nuovo look, cambiando il nome in “Human Resource Exploitation Manual”,
di maggior effetto e sicuramente dal suono più prestigioso. Il
manuale era la Bibbia di ogni soldato impegnato nella Guerra Fredda, fondamentale per le azioni in Vietnam, Panama e
America Latina.
Ma quali sono le direttive precise del Kubark, praticamente cosa bisogna fare se il prigioniero non parla?
Il presunto detentore di informazioni utili va prima trattato con metodi non coercitivi, se oppone resistenza si passa al piano B, come bèccati questo bel bastone in culo, figlio
di puttana di un vietnamita, afghano, iracheno, cubano, coreano! I restii alla collaborazione devono essere manipolati
psicologicamente sino alla resa. Per arrivare a ciò, si può distruggere il legame affettivo del prigioniero con la famiglia,
alterare i suoi ritmi giorno-notte, privarlo degli stimoli sensoriali, minacciarlo con cani da combattimento, colpirlo con
scariche elettriche e bastonate, versare sul suo corpo liquido
a base di fosforo, sbatterlo ripetutamente contro il muro, costringerlo alla nudità forzata seguita da scherno di soldatesse,
simulare atti omosessuali, sodomizzare, e chi più ne ha più
ne metta. Praticamente bisogna spingere il prigioniero a non
controllare più le sue risposte come un adulto. L’interrogante
deve tener presente in ogni momento queste tre parole: debolezza, dipendenza e terrore, vocaboli basilari per indurre il
soggetto ad uno stato di intollerabilità. Per quanto riguarda le
conclusioni, il manuale dice: “Le pressioni violente dovrebbero essere allentate o alleviate una volta ottenuta la resa, il
giudizio etico sulla validità dei metodi coercitivi va al di là dello scopo di questo documento.” Il manuale non è un’autorizzazione all’uso discrezionale dei metodi coercitivi. Infatti non
esistono autorizzazioni scritte per usare tali metodi.
Come già detto, il manuale del perfetto assassino è uno
dei libri di testo della School of the Americas, rinominata nel
2001 Istituto dell’Emisfero Occidentale per la Cooperazione
alla Sicurezza. Nuovo nome, vecchie pratiche.
La scuola per anni è stato un centro di produzione di mostri. Il suo scopo era quello di formare personaggi in grado di
fomentare e preparare le nazioni latino americane a cooperare per gli USA, o meglio, a leccare il culo agli USA.
Diplomati di questa scuola prestigiosissima? Elementi di
spicco della storia dell’America Latina.
Leopoldo Galtieri, dittatore della giunta militare argentina, precursore della Guerra delle Falkland/Malvine e supervisore, dal 1981, della Guerra Sporca.
Roberto Eduardo Viola, argentino. Generale golpista,
condannato per numerosi omicidi, rapimenti e torture durante la Guerra Sporca.
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Hugo Banzer Suárez, boliviano. Responsabile del sanguinoso governo militare del 1971 e della conseguente dittatura protrattasi fino al 1978, ammesso nel 1988 alla Hall of Fame della scuola.
Luis Arce Gómez, boliviano. Leader paramilitare, responsabile, con Garcia Meza Tejada, del golpe del 17 luglio 1980,
attualmente detenuto negli Stati Uniti per traffico di droga.
Guillermo Rodríguez, ecuadoriano. Generale golpista e
dittatore tra il 1972 e il 1976.
Roberto D’Aubuisson, salvadoregno. Diplomato nel 1972,
fu il leader di uno squadrone della morte anticomunista fra il
1978 e il 1992.
Franck Romain, haitiano. Capo dei Tontons Macoutes,
responsabile del massacro della chiesa di San Giovanni Bosco, dell’11 settembre 1988, durante la messa di padre JeanBertrand Aristide.
Héctor Gramajo, guatemalteco. Ex ministro, autore di
politiche militari genocide negli anni ’80.
Manuel Noriega, panamense. De facto leader militare, excollaboratore della CIA, responsabile di violazioni dei diritti umani, attualmente detenuto negli Stati Uniti per relazioni
con il narcotraffico.
Juan Velasco Alvarado, peruviano. Dittatore al potere dal
1968 al 1975.
Vladimiro Montesinos, peruviano. Militare, collaboratore
della CIA, responsabile di repressione politica durante il governo di Alberto Fujimori. Presunto leader dello squadrone
della morte Grupo Colina, accusato di rapporti consistenti
con il narcotraffico.
Omar Torrijos, panamense. Golpista, leader militare.
Non hanno addestrato soldati, ma futuri dittatori. I berretti verdi, il soprannome con cui sono conosciute le United
States Army Special Forces, forze speciali dell’esercito statunitense, addestrarono con manuale alla mano gli ufficiali del
regime dittatoriale cileno di Augusto Pinochet.
Non è la prima volta che documenti di pratiche violente, firmati CIA, vengono mostrati al mondo. Tra gli anni ’50
e ’60, la CIA portò avanti lo scandaloso progetto MKULTRA, che aveva lo scopo di influenzare e controllare il comportamento di determinate persone, il cosiddetto mind self,
attraverso esperimenti che prevedevano la somministrazione di sostanze ipnotiche, LSD e messaggi subliminali. Uno
degli obiettivi principali era quello di alterare la percezione
della realtà degli individui, per indurli a compiere atti in modo inconsapevole. Praticamente volevano creare degli assassini non coscienti. Nel 1977, grazie alla legge sulla libertà di
informazione, furono derubricati alcuni documenti. Uno diceva: “Il direttore della CIA ha rivelato che oltre trenta università e istituzioni sono coinvolte in un programma intensivo di test, che prevede l’uso di droghe su cittadini non consenzienti, appartenenti a tutti i livelli sociali, alti e bassi, nativi
americani e stranieri. Molti di questi test prevedono la somministrazione di LSD. Almeno una morte, quella del dottor
Olson, è attribuibile a queste attività.”
Il progetto MKULTRA è stato battezzato dal direttore
della CIA, Allen Dulles, il 13 aprile 1953, per contrastare
sovietici e cinesi. Doveva essere l’arma in più della Guerra Fredda, l’asso nella manica. Nel 1964 il progetto cambiò
il suo nome in MKSEARCH, da quel momento mirò esclusivamente alla realizzazione di sieri della verità, per estorce-
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re da membri del KGB informazioni preziose per la Guerra
Fredda. Il mostro ideatore di tutti gli esperimenti del progetto MKULTRA è il dottor Sidney Gottlieb, un uomo perverso, che sottoponeva le sue cavie a torture fisiche, all’ascolto di frasi offensive a ciclo continuo e alla somministrazione di pesanti dosi di droga allucinogena. Le vittime di questi
esperimenti furono prostitute, pazienti con disturbi mentali, dipendenti della CIA, personale militare, agenti governativi e gente comune.
La scrittrice statunitense Cathleen Ann O’Brien sostiene
di essere stata vittima di abusi e sperimentazioni per raggiungere il controllo della sua mente. Ha raccontato tutto nei suoi
libri, scritti insieme a Mark Phillips, suo presunto salvatore.
Molti documenti, relativi al progetto MKULTRA, sono stati
distrutti dal direttore della CIA Richard Helms.
Siamo tutti pazzi o sono i pazzi che vogliono farci credere che siamo tutti pazzi?
Rudolph Joseph Rummel, professore emerito di scienze politiche all’Università delle Hawaii, ha coniato il termine “democidio”. Rummel creò questo termine per includere
tutte le forme di omicidio che vengono compiute dal governo o da organi governativi, i quali non vengono coperti dalla definizione giuridica di genocidio.
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Sharon majnoon
Chi ha cari i valori della cultura
non può non essere pacifista.
Albert Einstein
Mi chiamo Michel Woods e sono un uomo con un cuore
a metà. Ho i piedi appoggiati sull’orlo di un precipizio. Giù
il mare si sfracella sulle rocce. Le pietre che mi reggono non
crollano, il vento non soffia. Sono solo io che ho paura di
morire. Ho paura di passeggiare per un attimo nel vuoto, di
lanciarmi ad occhi aperti, di mettere il punto ai miei giorni. Il
mio futuro è chiuso dentro un baule di una nave affondata,
il mio presente vuoto come un regalo scartato, il mio passato è ciò che mi rimane e che mi ammazza. Vorrei poter, con
una pala, scavare la mia mente e seppellire il ricordo di lei,
vorrei poter dimenticare ciò che è successo, ciò che l’ha portata via da me.
Sono un vigliacco, un maledetto vigliacco fifone, preferisco dimenticare invece di soffrire. Chiamatemi pure bastardo, urlate forte al balcone maledetto, ma io ho paura, ho paura di vivere ricordando chi è morta senza aver paura.
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La mia Rachel non aveva paura. La mia Rachel non c’è
più. La mia Rachel non è tra i riflessi delle nuvole, tra il biancore delle onde, tra il rumore delle foglie. La mia Rachel non
c’è più e non date a quest’uomo su quest’orlo inutili bocconi
di ricordi per consolazione. Non bastano le foto, non bastano i vestiti, non bastano le canzoni. Rachel non c’è. Non ci
sarà mai più. E allora che ci faccio qui, devo rifarmi una vita, devo trovarne un’altra? Un’altra non c’è. Bene, ora direte,
perché leggiamo questa storia, perché continuiamo a leggere frasi contorte di un uomo solo? Perché mi è rimasto solo
questo, fratello, dividere con gli altri il vuoto lasciato dai suoi
occhi. E ora, amico lettore, promettimi una cosa, fallo sul serio però, giurin giuretto, croce sul cuore. Quando avrai finito di leggere questa storia prendi un po’ di pane e lancialo ai
piccioni. Non so il perché, ma Rachel lo faceva sempre.
Rachel Corrie nacque il 10 aprile del 1979, ad Olympia,
nello stato di Washington, era un’attivista statunitense, un
membro dell’ISM (International Solidarity Movement). Partì per la striscia di Gaza il 18 gennaio del 2003. Mi scriveva
ogni giorno. C’era sempre posta per me. In quella terra stuprata, dava lezioni di inglese ad un piccolo palestinese, Naji.
Le prime parole che gli insegnò furono: never, never, never,
give up. Non aveva casa, spesso la gente del posto la ospitava per la notte. Lei era uno dei tanti scudi umani che non
avevano paura. Lei era una che sognava un gemellaggio tra
la sua città natale e Rafah, un villaggio palestinese al confine con l’Egitto.
La mia Rachel non aveva paura dei bulldozer che avanzavano verso di lei, non temeva il rumore dei cingolati che sbriciolavano i pozzi, le strade, le serre. Lei, immobile, li aspet-
tava e col silenzio, senza fucili né pistole, li faceva cambiare
strada. Perché dove c’è chi urla giustizia non c’è posto per chi
rivendica potere. I bulldozer d’Israele abbattevano case e baracche, lei mi diceva cade giù tutto, distruggono senza sapere se dentro c’è gente. Le operazioni di demolizione, secondo il premier israeliano, servivano a portare alla luce ordigni
esplosivi e a distruggere i tunnel dei contrabbandieri palestinesi. Ma, visti i morti sepolti dalle mura delle proprie case, si
sbagliava. Nemmeno mille pagine di libri, mille documentari, mille conferenze o mille racconti avrebbero potuto prepararmi a quello che ho visto qui, mi scrisse in una delle sue
ultime lettere. La gente del posto diceva: “Sharon majnoon,
Bush majnoon.” Sharon e Bush sono pazzi. Chissà se i pazzi sono quelli rinchiusi a suon di elettroshock nei manicomi,
oppure chi ogni giorno, nascosto dietro missioni divine, cancella vite come parole di un racconto. La mia Rachel giocava
a pallone e leggeva poesie di Neruda:
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Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino al cielo,
ciò ch’era addormentato sulla tua anima.
Il 16 marzo del 2003 gruppi di bulldozer, accompagnati da un veicolo da combattimento Nagmachon, ripulivano
erbacce per gli israeliani e demolivano case per i palestinesi.
La mia Rachel salì su un cumulo di terra e macerie, aveva un
giubbotto rosso fluorescente per farsi notare dal conducente del mezzo corazzato. Gridava di girare, di andarsene, ma
il bulldozer avanzava, faceva tremare la terra. La mia Rachel
scivolò e tonnellate di metallo la calpestarono, sciogliendo i
suoi principi in una poltiglia di sangue e terra. Il bulldozer la
coprì di sabbia e facendo marcia indietro la sotterrò definitivamente. Da quel momento una parte del mio cuore è rimasta tra la ruggine dei cingolati di quel bulldozer. La mia Rachel non aveva paura. La mia Rachel è un verso di Neruda
per la pace.
Tutto il mondo ha visto. Tutti sanno che il bulldozer l’aveva notata, mentre difendeva senz’armi una casa di fango. Internet esplode del volto della mia Rachel. Quel viso biondo con una guancia frantumata dal ferro, con gli occhi viola mezzi esplosi, col sangue secco nelle narici e negli angoli di quella bocca che ancora grida pace. È tornata in America avvolta nella bandiera a stelle e strisce. È tornata senz’anima. È tornata la mia Rachel senza paura, ed ora tocca a me
mettere il punto a questa storia senza lieto fine. Show must go
on mi sussurra la vita, ed è vero la ruota va avanti, ma i sorrisi, i piccoli segreti, le idee dei sognatori, quelle non si possono rubare. Appartengono alle stelle.
stanti sono riusciti a mantenersi sempre in vicinanza ai luoghi dei lavori. Si precisa che questi avvenimenti si sono svolti al confine tra Israele ed Egitto, in un’area sotto il controllo israeliano, come stabilito dall’accordo di pace firmato dai
due paesi. Verso le diciassette Rachel Corrie si trovava nascosta da un mucchio di terra, formato dal lavoro delle ruspe, alla vista del conducente, che ignaro ha proseguito nello svolgimento della sua attività. La giovane è quindi stata accidentalmente investita da un oggetto contundente. È stato chiesto immediatamente il soccorso di un’unità medica dell’esercito che si trovava nelle vicinanze, ma quando sono arrivati gli aiuti i compagni della ragazza avevano già provveduto
a trasportarla nei Territori Palestinesi. Per far luce sui fatti di
quel giorno, è stata condotta un’accurata indagine dai vertici dell’esercito. Il risultato delle investigazioni è stato che Rachel Corrie non è stata investita da un veicolo, ma piuttosto
è stata travolta da un oggetto molto pesante, probabilmente una lastra di cemento, caduto per un cedimento del terreno causato dai lavori. Siamo davanti, quindi, ad un incidente
che non ha avuto nulla d’intenzionale.
Lettera inviata dall’Ufficio Stampa dell’Ambasciata d’Israele
presso la Santa Sede.
Durante un’operazione di bonifica di un’area in cui erano nascosti congegni esplosivi, che i terroristi erano intenzionati ad utilizzare contro soldati e civili israeliani, un gruppo di membri dell’ISM è entrato nella zona delle operazioni
cercando di bloccarle. I soldati israeliani hanno tentato di allontanare i dimostranti e nello stesso tempo hanno spostato il luogo delle operazioni per evitare incidenti. I manife158
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Giallo come Buddha
Nel tempo dell’inganno universale,
dire la verità è un atto rivoluzionario.
George Orwell
Alzo la cornetta. 000287200. Il telefono squilla. A rispondermi è Miriam Chu. Un veloce scambio di parole e mi concede l’intervista. Fissiamo l’appuntamento. Quattro giorni
dopo, a New York, alle sedici, davanti a Bloomingdale’s.
Preparo la valigia, tacchi a spillo, tailleur blu e le inseparabili Rothmans. Il viaggio in aereo lo passo a dormire. New
York è avvolta nella neve quando arrivo all’aeroporto. La
città è caotica come sempre, tutti corrono, ognuno per cazzi suoi. Pranzo velocemente, poi, con largo anticipo, sono
sul posto. Miriam Chu arriva puntuale, infagottata in un cappotto marrone. Si vedono solo i suoi capelli neri e gli occhi
a mandorla. Ci stringiamo la mano e chiacchierando ci dirigiamo al Bar Naif. Siamo sole, la sala è vuota. Ordiniamo
due cioccolate calde. Le sue prime parole riguardano il mio
look. Si concede in vistosi complimenti per i miei occhiali e
il carré.
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“Bene signora Chu, come le ho già detto a telefono qualche giorno fa, mi chiamo Sylvia von Harden e lavoro per un
giornale olandese. Vorrei che lei mi spiegasse nei minimi dettagli tutto ciò che le è successo. Adesso io accenderò il registratore, lei faccia finta che non esista.”
“Sono una praticante del Falun Gong dal 1992, praticamente dai primissimi giorni in cui il maestro Li Hongzhi ha
fondato questa disciplina spirituale. Il Falun Gong è un sistema avanzato di coltivazione del corpo e della mente. È
una delle ottantaquattromila vie della scuola di Buddha. Non
parliamo di una religione, ma solo una pratica mistica. Non
si paga niente e non bisogna iscriversi a nessun registro. Fa
vuol dire legge, Lun ruota e Gong coltivazione della propria
anima. Si basa su tre principi: Zhen, Shan e Ren, verità, compassione e tolleranza.”
“Perché si è avvicinata a questa pratica?”
“È stato mio marito ad avvicinarmi al Falun Gong. Spiegarle adesso il perché mi risulta difficile. Posso dirle soltanto che gli esercizi prescritti ogni giorno rallegrano lo spirito
e mantengono vivo il corpo. Potrà sembrarle qualcosa di banale, ma è così.”
“Il governo cinese come ha reagito al successo del Falun
Gong? È vero che i praticanti hanno superato il numero degli iscritti al Partito Comunista?”
“È verissimo, l’ateismo comunista in Cina si è sempre
scontrato con le radici taoiste. Dal ’92 i praticanti sono aumentati a dismisura. Tutto questo ha fatto una gran paura al
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governo. Molti hanno definito il Falun Gong un fantasma.
Uno spettro capace di insediarsi in ogni strato della società, che coinvolge i contadini e gli alti funzionari dello stato.
Un’idea capace di smuovere masse troppo grandi per essere controllate. Ecco perché il presidente Jiang Zemin ha dichiarato che il Falun Gong è una minaccia per la stabilità sociale del paese, per questo ha ordinato persecuzioni contro
chi pratica e diffonde questa disciplina. Dopo tali affermazioni, tutti i praticanti si sono riuniti davanti alla sede del partito comunista in un sit-in pacifico. Questo ha colto di sorpresa il governo, che la notte stessa ha arrestato centinaia e centinaia di persone.”
“Quando parla di persecuzione a cosa si riferisce di preciso? Può essere più chiara?”
“Parlo di vere e proprie torture fisiche e psicologiche. Lo
scopo è sempre stato uno: convincere i praticanti a firmare
un foglio in cui rinunciavano al proprio credo definendolo
un male da radiare e perseguitare.”
“Mi spiega le modalità delle persecuzioni?”
“Gli arrestati vengono trasportati in carceri, in campi di lavoro o in cliniche psichiatriche. In questi posti si consumano
le più terribili torture. I detenuti vengono picchiati con manganelli elettrici, che bruciano il corpo. Nei penitenziari è vietato dormire e in ogni ora del giorno i secondini costringono i praticanti a vedere ed ascoltare video che diffamano il
Falun Gong. Tutto è gestito dall’ufficio 610 che opera al di
sopra della legge. I secondini ricevono ingenti somme di denaro se convincono i detenuti a firmare il foglio di rinuncia.
162
Nel caso contrario viene loro sottratta gran parte dello stipendio. Ecco perché vengono usate torture disumane, perché il governo cinese ha sempre agito in questo modo. Mettendo l’uomo contro l’uomo. A distruggere i detenuti non è
solo ciò che accade nei luoghi di reclusione, ma anche fuori.
Spesso obbligano i familiari a picchiare i praticanti. I parenti
vengono privati di luce, acqua e gas. In alcuni casi sono stati obbligati a divorziare.
Molti uomini sono stati sottoposti alla tavola per dormire, dove con delle corde gli arti sono tirati quasi al punto di
essere spezzati. Alcuni venivano appesi a travi di ferro senza
che i loro piedi toccassero terra. In quella posizione restavano anche per giorni. Venivano bastonati, bagnati con acqua
bollente e nei loro occhi veniva gettata polvere di chili.”
“Per le donne invece?”
“Le donne vengono torturate, picchiate e subiscono abusi sessuali di ogni genere. È stato documentato un caso in cui
diciotto detenute sono state lasciate nude in cella con criminali di sesso maschile. Tra uomini e donne già si contano tremila decessi, e di questi millecinquecento sono documentati con foto e video.”
“In tutto questo cosa centrano le cliniche psichiatriche?”
“Il governo ha attuato le stesse tecniche di Stalin. Rinchiude i prigionieri in cliniche psichiatriche e l’imbottisce di
farmaci, di elettroshock. Li lega con cinghie ai letti e li tortura al punto di farli impazzire. Ogni ora sono costretti a prendere delle droghe psicotrope che causano serissimi danni al
cervello. Ecco perché, nel momento in cui le immagini dei
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prigionieri vengono mostrate all’opinione pubblica, la gente
concorda con la reclusione. Anch’io sono stata rinchiusa in
una clinica, qui ho subito un aborto forzato all’ottavo mese di
gravidanza. Dopo mi hanno portata al campo di lavoro forzato femminile di Masanjia. Lì sono stata violentata anche sei
volte al giorno. Alla fine non ce l’ho fatta e ho firmato il foglio di rinuncia. Mio marito, invece, non si è arreso ed è stato ucciso a calci e pugni.
Adesso mia sorella Theresa Chu si occupa a Taiwan della
mia attività di denuncia nei confronti del governo cinese. È
stata lei ad organizzare a Taipei, davanti al memoriale dedicato a Chiang Kai-Shek, l’assemblea generale contro le persecuzioni. Eravamo in duemila quel giorno, tutti vestiti di giallo. Il colore di Buddha. Abbiamo gridato al mondo intero la
nostra libertà, protestato contro i milioni di libri bruciati e video-tape distrutti del Falun Gong. Contro i siti internet del
movimento bloccati in Cina e le condanne detentive ai giornalisti che hanno documentato i casi di torture con l’accusa
di aver rivelato segreti di stato.”
“In bocca al lupo, signora Chu.”
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Il fantasma Abu
Il potere politico nasce
dalla canna del fucile.
Mao Zedong
Un insetto si è appena poggiato sul mio piede. Non ronza, non vola. Striscia. Intorno al corpo ha piccoli peluzzi, li
muove di qua e di là. Non lo sento nemmeno sul piede. In
questa cella ci siamo io e lui. Buio, ferro e terrore. Che ci fai,
amico insetto, in questo inferno? Vattene via, scappa tu che
puoi sprofondare nella terra e bere acqua dalle radici dei fiori. Esci fuori, amico insetto. Esci dove il sole brilla più di questi neon maledetti.
È il 16 maggio del 2005, sono rinchiuso in questa cella di
quattro metri per quattro. L’aria puzza di uova marce. Questa prigionia mi sta entrando dalle narici fin dentro il cuore.
Si insinua come un lombrico giù per le arterie, fino al petto.
Lascio su questo muro il mio nome, lascio sul cemento armato di questa prigione le lettere del nome che non ho più.
Lo faccio con le unghie che sanguinano, lo faccio con queste mani sporche. Fa freddo in questa cella, il sole iracheno
non batte su questa prigione. Come on, come on, mi dice il sol165
dato americano. Quando mi alzo dal pavimento, sento le ossa
scricchiolare. Mi prende per la camicia come se fossi una pezza da gettare. Non urlo. Quelli che urlano arrivano in cella in
fin di vita. Sono davanti al comandante della prigione irachena di Abu Ghraib. Blatera qualcosa in inglese, non capisco
e dico due parole. Immediatamente mi schiaffeggia, quasi la
mia lingua fosse il dialetto di un diavolo. Si parlano tra loro,
ridono, fanno battute che non comprendo. Come on, come on,
mi ridice il soldato. Mi portano in una stanza verde fogna. A
calci e pugni mi spogliano. Uno degli anfibi del soldato mi fa
saltare un dente. La radice del molare è ancora dentro la mascella, sputo avorio e sangue. Sono nudo, mi impongono di
salire su una scatola di cartone. Ci provo, ma cado. Mi pestano immediatamente. Ci riprovo e ricado, il cartone si piega e
non mi regge. Mi ripicchiano, vedo il piede quarantasei di un
soldato piombarmi in faccia. Ho sentito l’occhio penetrare
nel cervello di due centimetri. Salgo sulla scatola, sono in un
equilibrio precario. Temo di cadere, di sentire sulla faccia la
puzza della gomma degli anfibi. Due soldati arrivano con cavi elettrici. Ne attaccano due alle mie mani e uno al pene. Mi
coprono con uno straccio scuro. Una sorta di tunica lacerata,
quasi trasparente. In testa invece mi mettono un copricapo
di plastica triangolare, come quelli che usano gli uomini delle
sette sataniche. Riesco solo a vedere ch’è verde. Resto con le
braccia aperte come il loro Dio in croce. Scattano foto, sento i flash, il rumore delle digitali. Ridono e gridano Abu ghost,
Abu ghost, il fantasma di Abu Ghraib. Si mettono al mio fianco, mi abbracciano come se fossi una statua, un monumento
di guerra. Scattano foto ricordo. Improvvisamente mi attraversa la corrente. Dalle mani sento la scossa giungermi in te-
sta. Emetto suoni incomprensibili. Non cado, gli anfibi fanno più male delle scosse. Uno di loro si avvicina al mio pene
ustionato. Dopo poco si allontana per la puzza. Per centododici minuti mi fotografano e torturano con la corrente. Alla
cinquantasettesima scossa, crollo sfinito. Mi tolgono i cavi e
tutti gli indumenti. Ho le mani quasi bucate, dai miei genitali sale fumo. Qualcuno di loro gira video, mentre mi accorgo che il mio glande non esiste più. C’è puzza in sala, mi lavano con acqua gelida di un idrante. Dopo quarantasette secondi sono di nuovo in cella, ad aspettarmi c’è lo stesso insetto, schiacciato dalla scarpa di un soldato.
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A parlare è Satar Jabar, prigioniero iracheno recluso ad
Abu Ghraib. La sua foto in equilibrio su un cartone ha fatto il giro del mondo. Abu Ghraib è un istituto di detenzione
di centoquindici ettari, con ventiquattro torrette di guardia.
Una città-prigione. Inaugurato nel 2004, questo penitenziario di guerra è rimbalzato immediatamente alle cronache per
le torture e le umiliazioni che i soldati americani e britannici infliggevano ai detenuti. Satar Jabar non era stato arrestato per terrorismo, ma perché aveva rubato una macchina con
tutti i passeggeri a bordo.
Le autorità americane hanno sostenuto che i cavi non erano elettrificati, che Satar non è mai stato attraversato dalla
corrente elettrica. Il prigioniero ha dichiarato il contrario, sostenendo che quello che lui ha subito era una pratica quotidiana ad Abu Ghraib. Pratiche, che in molti casi, hanno portato i prigionieri alla morte. Jabar è diventato il simbolo delle torture americane. Quando ormai lo scandalo della prigione irachena si era esteso in tutto il mondo, l’amministrazio-
ne Bush, davanti alla comunità internazionale, ha espresso,
per bocca del Ministro della Difesa Donald Rumsfeld, pubbliche scuse per l’accaduto. La storia è stata archiviata così,
con una conferenza stampa. Il carcere, invece, è stato chiuso
nel 2006, dopo lo scandalo. È rimasto chiuso fino al 21 febbraio 2009, quando ha riaperto i battenti col nuovo nome di
Baghdad Central Prison, penitenziario che può ospitare fino
a quattordicimila detenuti. Di Satar Jabar nessuno sa più nulla. Qualcuno sostiene che sia impazzito dopo essere stato seviziato dai soldati, altri dicono che sia morto per le bruciature su tutto il corpo. Forse è ancora ad Abu, gira da una cella all’altra, col suo lenzuolo nero addosso e i cavi ancora attaccati alle mani.
Tv6
La contemplazione è un lusso,
l’azione una necessità.
Henri Bergson
Mark Robles apre la porta della sua villa a Miami. La luna è in cielo da un pezzo. Sono le tre del mattino. Uno degli uomini più ricchi degli States si accomoda in poltrona e
accende il suo LCD da cinquantadue pollici. Finalmente un
po’ di relax dopo una giornata passata tra riunioni e business
plan. La sua casa è vuota. Mark è solo. Ha preferito la carriera alla famiglia.
In tv i soliti film porno e telenovele di merda. Si toglie le
scarpe il manager americano e ascolta il notiziario di Tv6.
“Signore e signori buonanotte, è il vostro Jack Bad che
vi parla…”
San Paolo, Brasile. La Police brasilera ha rinvenuto ventitre cadaveri nella foresta amazzonica. Probabilmente la strage è stata provocata dagli Indios Cinta Larga nel tentativo di
allontanare i cercatori illegali di diamanti. Secondo esperti la
regione sarebbe la più ricca di diamanti di tutto il sud Ame168
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rica. Un indios ha riferito: “Abbiamo ucciso per amore della terra.”
Iraq. Ogni giorno muoiono duecento bambini. Secondo
alcune fonti, dopo l’invasione americana del 2003, il sistema
sanitario iracheno si è ulteriormente degradato. A farne le
spese i bambini, che muoiono per la malnutrizione o per banali malattie. Secondo gli iracheni quattrocentomila bambini
soffrono di perdita di peso e magrezza estrema, tutto ciò contribuisce alla diarrea cronica ed insufficienza proteica.
Cina. Alunni in gita premio assistono all’esecuzione di Ma
Weihua, ventinovenne arrestata per possesso di droga e condannata a morte. La donna era gravida e questo avrebbe dovuto salvarle la vita secondo il codice penale cinese. Nel carcere di Kangati le è stato praticato un aborto forzato. La polizia cinese ha dichiarato: “Il codice penale non dev’essere
un’arma per sottrarsi alle punizioni.”
Mauritania. Secondo un rapporto di Amnesty International nel paese africano l’abolizione della schiavitù è solo pura teoria. Attualmente Moor negri vengono venduti come
schiavi e lo stesso succede alle donne stuprate e vittime di
violenza. I Morr bianchi, detentori del potere, si difendono
da queste accuse. Nonostante in Mauritania la schiavitù sia
abolita dal 1981, chiunque denunci abusi connessi a tale pratica non gode di nessuna protezione legale e spesso è vittima
di discriminazioni.
Sierra Leone. Milleseicento madri muoiono per mancanza di cibo e carenza di strutture prenatali. Trecento bimbi
su mille non arrivano al terzo anno di vita. Gran parte del170
le donne della regione sub-sahariana soffre di problemi vaginali causati da infezioni o problemi relativi al parto. L’Occidente sta a guardare.
Turkmenistan. Ambientalista viene arrestato dal governo
per aver partecipato ad una conferenza sui diritti umani. La
repressione del governo turkmeno non ha limiti.
Baghdad. Centinaia di neonati nascono deformi. Sono gli
stessi medici iracheni a lanciare l’allarme dopo l’aumento del
20% di bambini nati con malformazioni. A causare il problema sarebbero le radiazioni assorbite dalle madri in questo decennio di guerra. Sotto accusa il governo americano per aver
fatto largo uso di uranio impoverito nella Guerra del Golfo del 1991.
Nel mondo duecento milioni di donne scomparse. La violenza sulle donne è la quarta causa di mortalità nel globo.
Una donna su tre è stata vittima di abusi sessuali o violenze carnali.
Gli Inuit eschimesi denunciano gli USA per il massacro
dei popoli artici. Le popolazioni nordiche protestano per i
cambiamenti climatici provocati dall’inquinamento industriale dei vicini yankee. Il governo americano per gli Inuit si
è “criminalmente” rifiutato di firmare il Protocollo di Kyoto
per la salvaguardia dell’ambiente.
Il Niger è il paese più povero al mondo. La crisi coinvolge tre milioni di persone. Ottocentomila bambini rischiano di
morire di fame e sete. Lo spazio dei media dedicato alla ca171
tastrofe è di soli diciannove minuti rispetto alle undici ore e
trentacinque minuti dedicate al gossip.
Lager americano in Kosovo. Trovati rinchiusi venti prigionieri in tuta arancione in casupole di lamiere. Alcuni, barbuti, leggevano il corano. La costruzione del campo è avvenuta senza alcun avviso ed intervento da parte dell’Unione
Europea. Il campo è circondato dall’evoluzione del filo spinato, la concertina wire. A pochi passi un Burger King per
non avere nostalgia di casa.
Lesbiche ordinano bambino sordo. Una coppia americana di lesbiche sorde sin dalla nascita ha chiesto ai medici
una fecondazione assistita con il seme di un uomo che abbia
nel suo corredo genetico almeno cinque generazioni di non
udenti. Le donne vogliono evitare al nascituro tutte le idiozie del mondo, per le due lesbo-idiote si tratta di una scelta morale.
Dottori Frankenstein iracheni festeggiano la prima clonazione animale. Una pecora vissuta solo cinque minuti. L’esperimento, che ha avuto un forte eco in Europa, si è svolto nella centrale nucleare di Isfahan. Anche la Corea del Sud, impegnata nel riarmo nucleare, ha annunciato la prima clonazione
di un cane. Fra qualche anno, miliardari di tutto il mondo potranno richiedere la copia perfetta del loro amato Fido.
una donna cecena prova nel mettere al mondo un solo figlio.
Questa tradizione, secondo fonti certe, ha creato un traffico
di bambini che conta centoventicinquemila individui.
Dopo L’Oréal e Nestlé anche la Coca Cola Company si
aggiunge alle multinazionali indagate per violazione dei diritti umani. Il super marchio è accusato di essere il mandante di otto omicidi, decine di sequestri e intimidazione nei
confronti di sindacalisti e lavoratori. Gli sono stati attribuiti l’80% degli omicidi mondiali di esponenti di sindacati. La
Coca Cola si appoggia a gruppi paramilitari per eliminare persone scomode. È accusata di sfruttamento minorile, infatti i
palloni che distribuisce a scopo pubblicitario sono prodotti
da bambini indiani. L’aspartame presente in una delle sue linee diet può provocare gravissimi danni al cervello, soprattutto nei bambini.
Mark spegne la televisione. Il marchio della Coca Cola si
fa pesante sulla sua giacca.
Cecenia. La mancanza di orfanotrofi porta decine di madri, non in grado di accudire i propri figli, a mettere all’asta i
bambini, acquistati poi da famiglie benestanti. Secondo il capo del reparto di maternità dell’ospedale di Grozny, una delle cause della tragedia sarebbe riconducibile al disonore che
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Quando gli alunni entrano in classe il professor Forel è
già all’opera. Disegni sulla lunga lavagna verde, grafici, statistiche sui banchi. Un insolito sistema viste le variegate lezioni dell’insegnante più amato della Sorbona. Non ci sono molti studenti, la febbre che corre a Parigi ha decimato le classi.
Al centro dell’aula è ben visibile un tavolino con dieci pietre
colorate. È un cenno del professore a decretare l’inizio della
lezione. Forel chiama un ragazzo del primo banco. La classe
rimane spiazzata. Dov’è andata a finire tutta la diversità del
professore, possibile si sia ridotto a grafici e interrogatori?
“Il tuo nome è Philippe, giusto?”
“Sì, professore.”
“Quanti sassi vedi su questo banco?”
“Dieci, professore.”
“Ragazzi, oggi faremo un piccolo esperimento, che vi
chiarirà le idee su un nuovo movimento, che sta prendendo
piede nel mondo. Immaginiamo che Philippe grazie ai rispar-
mi del suo porcellino fondi una società, la Philippe Corporation. Allora Phil, il tuo primo investimento consiste nell’acquisto di una di queste pietre, quale scegli?”
“La blu.”
“Ok, Phil ha scelto la blu, che mettiamo caso indica una
risorsa alimentare, un supermercato. Phil per questa risorsa
spende dieci e nel giro di un anno gli frutta venti. Quale sarà
la seconda mossa di Phil?”
“Comprare una seconda pietra, professore.”
“Giusto figliolo, comprare una seconda pietra, che siccome indica una risorsa energetica, per esempio il petrolio, nel
giro di un semestre gli frutterà il quadruplo del valore investito. Azzardiamo e immaginiamo che la Philippe Corporation,
in soli cinque anni, riesca a fare una scalata mondiale ed affermarsi in molti campi, acquistando nove pietre. Logicamente
dopo aver acquistato nove pietre Phil vorrà mettere in cassaforte anche l’ultima e lo farà, perché avendo in mano il 90%
delle risorse tutto gli è possibile. Ma nel momento in cui tutte le pietre faranno parte della sua azienda, quale sarà la sua
ultima mossa?”
Nessuna risposta. Silenzio.
“La risposta, ragazzi, è la stasi, il blocco e l’abbassamento dei guadagni. Questo piccolo esperimento, direi giochino
stupido, è una piccola dimostrazione della strada futura del
capitalismo.”
Gli studenti si concentrano, il professor Forel non si smentisce mai.
“La nostra economia mira ad un guadagno infinito in un
mondo finito. È un sistema destinato a fallire. Le crisi energetiche e quelle per gli smaltimenti dei rifiuti sono solo l’inizio.
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Spermatozoi in fuga
La libertà di mercato ti consente
di accettare i prezzi che ti impongono.
Eduardo Galeano
L’argomento di questa lezione è la decrescita, ovvero l’inversione di rotta, l’andare controcorrente. Un sistema economico basato su principi ecologici e sociali. Quanti di voi oggi
sanno come si misura il benessere di una nazione, di un paese, di una società? Dal PIL, Prodotto Interno Lordo. In poche parole e senza perderci troppo in chiacchiere, per far sì
che il benessere di una nazione aumenti, deve crescere il PIL
e per far crescere il PIL bisogna consumare. Voi comprate
più vestiti, aumenta il PIL, comprate tre automobili, aumenta
il PIL, fate la doccia sei volte al giorno, aumenta il PIL. Purtroppo il PIL è soltanto un indicatore monetario, un numero,
è un monetizzatore di benessere. Pensate che cosa assurda,
il benessere è l’effetto di quello che consumiamo. Di conseguenza il massimo del benessere richiederebbe consumi infiniti in un mondo che ha risorse limitate e ritorniamo al punto di partenza, che blocca l’economia capitalista.
Questa corsa frenetica al consumo per arricchirsi ha prodotto perdite spaventose non quantificabili in soldi. Facciamo un esempio, una fabbrica di carta ha bisogno di alberi, va
in Congo perché ce ne sono di più e perché costano di meno.
Abbatte centomila piante. La società guadagnerà, i cittadini
penseranno di star meglio perché sale il PIL, ma gli uccellini che abitavano su quegli alberi moriranno. In questo modo perderemo una percentuale di biodiversità irrecuperabile
e inquantificabile. Da poco è nato il PIL verde, un indicatore
che misura i danni all’ambiente e le emissioni di anidride carbonica. Questo strumento è limitato visto che è impossibile
trasformare in perdita di soldi l’estinzione di un animale o di
un vegetale. Capite ragazzi, bisogna decrescere in un mondo
che mira a crescere.”
Gli studenti sono pensierosi, probabilmente la maggior
parte di essi sta calcolando quante docce fa al giorno e quante risme di carta consuma.
“Il PIL non riuscirà mai a dirci com’è la qualità della giustizia in un paese, i rapporti tra i cittadini, la qualità dell’aria, la
qualità di quello che mangiamo. Capite l’assurdità, anche morire, con le rispettive spese per il funerale, fa crescere il PIL.
Vi siete mai chiesti quanto pesate sulla terra? Cioè, di
quanto spazio avete bisogno per produrre ciò che vi serve a
vivere e di quanto spazio avete bisogno per seppellire i vostri
rifiuti? Sto parlando della vostra impronta ecologica, la vostra richiesta alla natura. Provate a scaricare da internet i moduli da compilare per poi creare la vostra statistica personale. Oggi ci sono delle fonti che sono impressionanti. La sola
Europa ha bisogno di tre pianeti Terra per continuare a vivere in questo modo. Logicamente tutto quello che consumiamo è a discapito di altri. Se possediamo novantanove ci
sarà chi avrà solamente uno, ed è questo il divario, la voragine tra i paesi industrializzati e quelli poveri. Chi mangia per
tre e chi digiuna per te.
Dalla decrescita e da altre iniziative equosolidali e biosostenibili sono nate delle piccole risposte ai problemi che abbiamo elencato. Una di queste sono i GAS, Gruppi d’Acquisto Solidale, cioè gruppi di persone che acquistano secondo
logiche ben precise, tenendo conto dei consumi, dei diritti dei lavoratori, della qualità dei prodotti. Persone che non
vogliono restare nelle prigioni delle multinazionali. Su queste esperienze sono nati i sistemi di scambio non monetario,
qualcosa che io reputo preistoricamente eccezionale. Si tratta di persone che si scambiano beni senza l’utilizzo di dena-
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ro, che, come ben sapete, ha il brutto vizio di dar valore ad
ogni cosa. Nella bassa Francia, ho due parenti che hanno aderito a questo sistema. Logicamente in piccola scala, ma vederli all’opera è straordinario. Una famiglia produce pomodori e un’altra uva. Una famiglia darà all’altra pomodori bio
e passate, in cambio di frutta fresca, marmellata e vino. È il
metodo più antico del mondo, il baratto, un metodo sostenibile per il pianeta.
Ma la vera ciliegina sulla torta sono gli ecovillaggi. Famiglie che decidono di vivere secondo principi ecosostenibili. Si
parte dalla creazione di nuclei abitativi a basso impatto ambientale e con materiale edile non inquinante, si continua con
l’uso di energie rinnovabili e si termina con l’autosufficienza
alimentare, attraverso la permacultura, un sistema produttivo molto innovativo. Certe volte l’uomo si impegna così tanto a trovare soluzioni che si dimentica di guardare il primo
maestro assoluto: la natura. La permacultura si basa principalmente sull’imitazione della natura. Si creano piccoli centri
di produzione agricola, che riescono a rinnovarsi con il minimo di energia. Si tratta di riproposizioni di ecosistemi già esistenti. La permacultura non utilizza insetticidi, non inquina e
si basa principalmente sulla forza della natura.
Prima di finire la lezione, visto che si è fatto tardi, volevo
dirvi un’ultima cosa. Secondo un gruppo di studiosi internazionali, i gas di scarico dei mezzi di trasporto e i pesticidi, renderebbero l’uomo sterile entro il 2060, quindi, cari maschietti, tenetevi stretti i vostri spermatozoi!”
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Ti amo Fouad
Quando due elefanti combattono
a rimetterci è sempre l’erba del prato.
Proverbio africano
Immaginatevi un prete. Immaginatevi un prete cristiano
maronita, che benedice le case della sua terra. Prende l’acqua santa e con la mano lancia il liquido sulle porte delle case. Lo fa una, due, tre, sette, otto volte. Alla nona volta concentratevi. Immerge la mano nell’acqua, la tira forte fuori e
via. Cinquantasei gocce partono. Trentanove si stampano sul
portone, sedici cadono a terra ed una rimane in aria. Pensate
a quella goccia, fermate il tempo. Guardatela, è lì sospesa, giratele intorno. Osservatene la limpidezza, la forma precisa, i
riflessi, la frescura. È bella no, non ne avevate mai vista una
così, da vicino dico.
Non vi sto prendendo per il culo, quella goccia c’era davvero il 9 gennaio del 1976 e fu attraversata da un proiettile.
Il colpo passò a tre millimetri dall’orecchio di Don Mansour
Labaky. Il prete sentì un fischio, poi si girò e disse ci hanno attaccati.
Da quel momento in poi non so come spiegarvi bene la
storia, so solo che se ci fosse stato un cameraman a registra179
re il tutto, avreste visto un video confuso, un video che salta, di gente che scappa, che urla, polvere che si alza. Quando
Don Labaky chiude la porta della chiesa alle sue spalle, ha la
fronte imperlata di sudore. Si asciuga con una mano. Dodici gocce gli bagnano i polpastrelli. Se l’aspettava il prete, se
lo sentiva che sarebbero arrivati. “E ora che facciamo, dove
andiamo?” Beve acqua santa. “Magari faccio un miracolo.”
Le truppe terroriste palestinesi di Sa’Iqa hanno attaccato la
cittadina di Damour, venti chilometri a sud di Beirut, venticinquemila abitanti, cinque chiese, qualche cappella e un solo ospedale. Sa’Iqa conta sedicimila uomini, sono tutti legati all’OLP, nei loro ranghi mercenari provenienti da tutto il
mondo arabo, Pakistan, Afghanistan, Iraq. Don Labaky sente forti gli spari, le granate che piombano giù precedute da un
fischio. Gira nervoso in chiesa il prelato, fa sempre lo stesso
cerchio e al settimo giro si ferma, fa un sorso d’acqua santa
e ricomincia. “Che faccio, che faccio?” Alza la cornetta, immediatamente cerca di mettersi in contatto con i suoi superiori, con le altre parrocchie. 043257685.
“Pronto, sono Don Mansour Labaky della parrocchia di
Sant’Elia, siamo stati attaccati, ripeto, siamo stati attaccati.”
Dall’altra parte un ministro di Dio risponde freddo: “Ma
sono palestinesi? E come possiamo fermarli amico mio?”
Labaky attacca.
“Che faccio ora, chiamo direttamente lo Spirito Santo?”
Prova a contattare politici di destra e sinistra. Tutti se ne lavano le mani con scuse banali, tutti sembrano avere le mani
legate, tutti si fanno i cazzi loro. Il prete chiama Kamal Jumblatt, rappresentante parlamentare druso del distretto di Damour, un pezzo grosso.
“Kamal sei tu? Non staccare questo benedetto telefono
sennò quanto è vero Iddio ti scomunico.”
Il prete racconta i fatti, mentre dall’altra parte il parlamentare sente i boati delle granate.
“Non posso farci nulla Labaky, dipende tutto dal Presidente Arafat.”
“Allora trovami questo maledetto numero di Arafat, sei o
non sei un parlamentare, benedetto il cielo!”
“Dammi qualche secondo, Labaky.”
Il prete stacca. Ricomincia a girare frettolosamente.
“Sono in un film, non è possibile. Fuori bombardano ed
io aspetto la telefonata di un parlamentare che deve darmi il
numero di Arafat in persona. O sono pazzo o posso sperare solo in questo.”
Kamal non chiama. I bombardamenti si fanno frequenti,
il pavimento sobbalza. Poi il telefono squilla.
“Il numero è questo 02445643.”
“Grazie Kamal, grazie Kamal.”
02445643. Squilla, forse ci siamo.
“Salve, cerco Yasser Arafat.”
Dall’altra parte qualche secondo di silenzio. Eccolo pensa
Labaky, maledetto Kamal mi ha ingannato, ma l’uomo a telefono risponde: “Un attimo, attenda.”
La cornetta si fa di fuoco. “Risponda Presidente, risponda, la prego.”
Sente qualcosa: “Il leader Arafat in questo momento non
è in sede, può comunicare tutto a me, garantisco che ogni parola sarà riferita.”
“Mi ascolti buon uomo, sono Don Mansour Labaky e la
chiamo da Damour, in Libano. Siamo sotto bombardamen-
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to, le truppe di Sa’Iqa ci sparano addosso. La prego fratello,
faccia qualcosa. Qui tutti hanno votato per Jumblatt, è un uomo vicino a voi. La scongiuro faccia qualcosa.”
“Padre, non si preoccupi, non vogliamo farvi del male.
Se vi stiamo distruggendo, lo facciamo solo per pure ragioni
strategiche.” Bum, il funzionario mette giù.
E ora immaginatevi sto prete con la cornetta in mano e
lo sguardo perso nel vuoto. Senza risposte, senza domande,
senza soluzioni. Che poteva fare, dove poteva andare, quando sarebbe morto? C’era troppo silenzio quella notte e Don
Labaky lo sapeva. Era seduto davanti alla finestra, ad illuminargli il volto solo la luce di una mezza candela. L’aria non
rimbombava più, ma lui sentiva che qualcosa stava per accadere. Se l’immaginava i terroristi, che, silenziosi come spettri, si aggiravano tra i vicoli deserti pronti ad attaccare. L’urlo
di una donna gli confermò che il suo non era solo un incubo.
Non si mosse, se vogliono ammazzarmi, mi ammazzeranno
qui, nella mia chiesa. Restò tutta la notte a pregare, la candela si spense, ma nessuno gli sparò alla testa.
A mezzogiorno in punto aprì la porta della casa di Dio e
fu invaso dalla luce del sole. Era come se un pittore fosse sceso dai monti e avesse dipinto l’inferno di Dante in una sola
notte. Salì su un vecchio apecar, le chiavi erano nascoste sotto il sedile. Lo mise in moto, il mezzo liberò una nube di fumo nero. Lo stesso fumo che dai monti segnalava che i nemici pranzavano con selvaggina e pietanze saccheggiate. A
Damour l’unico rumore che si sentiva era quello del vecchio
apecar, che trotterellando cercava sopravvissuti. Labaky vide
la porta di una casa aperta. Entrò, c’erano due bambini, avevano gambe e braccia amputate e gli occhi cavi. Prese i lo-
ro corpi e li posò delicatamente sull’apecar. Accarezzò quella
fronte lacerata e continuò il suo giro. I vivi, se c’erano, non
uscivano. Lui raccoglieva morti, corpi carbonizzati, non riconosceva più nemmeno il sesso. Sparse per la strada c’erano
ossa di tombe profanate. A molti uomini avevano amputato
i genitali e poi glieli avevano conficcati in bocca. Dopo quindici minuti non c’era più spazio sull’apecar. Labaky rimise in
moto e ripartì sotto il peso di trenta morti. Il mezzo andava
piano e ogni tanto sentiva qualche corpo scivolare nella polvere. Non c’entravano tutti in quel carretto per frutta. A duecento metri dal cimitero, finì la benzina. Don Labaky scese e
spinse l’apecar nonostante i suoi cinquant’anni. Dal cimitero, nascosti nelle fosse, vennero fuori i sopravvissuti. Aiutarono il prete. Mentre seppellivano i morti, i palestinesi ricominciarono a bombardare, quasi volessero dire non è finita
qui. Cinquecento sopravvissuti si ammassarono nella chiesa.
Qui Labaky scoprì che molti erano scappati verso la spiaggia,
sperando di fuggire via mare, ma la tempesta li aveva bloccati. Immagina il prete, donne, vecchi e bambini dinanzi alla
furia del mare in tempesta. Immagina i loro volti silenziosi,
gli sguardi che si perdono nell’incresparsi delle onde, mentre
alle loro spalle Damour è sotto le bombe.
“Padre, hanno ammazzato mio fratello, l’hanno impiccato. Dopo si sono messi in posa accanto a lui, scattavano foto, padre. Vogliono darle ai giornali europei, vogliono far sapere al mondo che loro sono i più forti.”
Sotto l’altare è nascosta una bambina. Ha il volto sporco
di roba violacea. “Perché sei tutta sporca, piccina?”
“È stata mia madre, ha detto che se mi mettevo questa roba in faccia i cattivi non mi avrebbero violentata.”
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“Dov’è tua madre?”
“L’hanno stuprata.”
Lo scemo del villaggio, con tre denti in bocca e un sorriso
stampato sul viso disse: “Issiamo la bandiera bianca, arrendiamoci, solo così ci salveremo.” Molti gli ordinarono di star
zitto. Don Labaky, in silenzio, quasi credesse che quello fosse un messaggio di Dio, prese la tovaglia dell’altare e l’attaccò alla croce di ferro sulla cupola della chiesa. Quando riscese disse ai suoi fratelli: “Se vi dicessi di rifugiarvi sulla spiaggia, so che vi ammazzerebbero. Se vi dicessi di rimanere qui,
so che vi ammazzerebbero.”
In quel silenzio qualcuno bussò alla porta. Si strinsero tutti le mani. Era arrivato il momento. Ribussarono di nuovo.
Don Labaky guardò la bambina tremolante sotto l’altare e le
sorrise. Si alzò e passando tra i fedeli benedì tutti. Si avvicinò
alla porta ed aprì. Due uomini si intrufolarono nella chiesa.
“Il mare non è più in tempesta, ora bisogna scappare, questo è il momento giusto. Vi copriamo noi le spalle, non possiamo perdere altro tempo.”
Cinquecento persone, protette da due uomini armati di
mitragliette, scapparono verso la spiaggia di Camille Chamoun. Scapparono tutti, anche Don Labaky, tutti tranne un
vecchio storpio, che restò lì, solo nella chiesa. Quando l’edificio fu vuoto, la prima bomba toccò terra e le mura tremarono. Mentre aspettava di morire, quel vecchio pensò a sua moglie, che aveva visto correre verso di lui la notte prima, strappandosi i capelli dalla paura. Li vedeva quei capelli di donna, che planavano nel vento libanese, che si perdevano tra la
sabbia del massiccio. Vedeva sua moglie vecchia, acciaccata,
correre verso di lui con gli occhi sbarrati. Leggeva in quella
bocca aperta dal dolore: “Ti amo Fouad!” I palestinesi la uccisero, le spararono alla testa. Due proiettili le uscirono dalla
bocca, sfiorarono Fouad e si conficcarono nel muro alle sue
spalle. Ora il vecchio li aveva in mano quei proiettili e mentre la terra tremava lui diceva: “Perché non avete ucciso anche me, perché a me mi avete punito con la vita?”
La prima granata piombò sulla chiesa di Sant’Elia distruggendo la cupola e l’ingresso. Fouad, coi proiettili stretti in
mano, si sedette immobile sotto l’altare di marmo. I palestinesi lanciarono quarantanove granate e spararono seimila colpi di mortaio. La chiesa fu rasa al suolo. Nella strage
di Damour persero la vita cinquecento persone. Il vecchio
Fouad non morì. Anni dopo fu lui a riferire a padre Labaky
che il macellaio di Damour, Zuhayr Muhsin, capo di Sa’iqa
e responsabile della strage, era stato ucciso il 15 luglio 1979
a Cannes, nel sud della Francia. Mentre lo diceva, appesi al
collo aveva due proiettili, uno per chi è morto e uno per chi
è condannato a vivere.
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John Crossman non vi dirà sicuramente nulla. Sono sicuro
che nessuno di voi nel 1986 lesse l’articolo del Sunday Times,
che parlava di quest’uomo. John è un seppellito vivo dal potere. La sua storia è giunta alle orecchie di chi scrive per caso.
Per sentito dire, amici di amici. Ciò che più mi ha colpito di
lui sono state le sue parole: “È il momento, per il mondo, di
ricordarsi e di preoccuparsi dell’olocausto palestinese.”
Ora logicamente penserete che una frase del genere l’abbia detta un terrorista imbottito di bombe o il padre disperato di un bambino affamato o meglio un umanista pacifista
del cazzo, che gioca a fare l’eroe. E invece no. A pronunciare
questa frase è un israeliano. Nato il 13 ottobre del 1954, nella
madre patria ebraica. John Crossman è il suo secondo nome,
il nome che si è dato da quando si è convertito al cristianesimo, da quando si è lasciato alle spalle l’ebraismo. Il suo primo nome è Mordechai Vanunu. Cosa avrà mai fatto di tanto
straordinario un tecnico nucleare israeliano, un semplice di-
pendente della centrale di Dimona? Non sto parlando di un
capo, del boss della situazione, sto parlando dell’uomo semplice, del fatigador. Ebbene, l’insospettabile, una mattina di
venti anni fa, si sveglia e rivela ad uno dei giornali più letti al
mondo che Israele possiede duecento testate nucleari. Succede un casino, uno scandalo, il coglione di merda, l’insignificante tecnico ha sparlato, ha detto cose che non si possono
dire. Gli israeliani non stettero a guardare e Mordechai venne sequestrato dagli agenti del Mossad, servizi segreti israeliani, a Roma. Fu imprigionato e accusato di alto tradimento.
Il suo processo venne fatto a porte chiuse, senza telecamere,
senza occhi indiscreti. Il caso Crossman doveva scomparire.
E così fu. Il tecnico venne condannato a diciotto anni di carcere, undici dei quali in completo isolamento.
Ed ora tu, lettore spaparanzato sulla poltrona che leggi sto
libro, vatteli ad immaginare undici anni di prigione in completo isolamento. Mordechai non aveva solo parlato, figuriamoci se il mondo si andava a fidare di un tecnico da mille euro. Mordechai aveva anche fotografato, documentato, aveva
svelato al mondo il segreto nucleare israeliano, segreto rinchiuso nella centrale di Dimona, nella regione di Bersabea.
Ma che ci faceva in quella fabbrica lo spione, come lo chiamano i vertici dell’esercito israeliano? Non faceva nient’altro che produrre materiali radioattivi utilizzabili per bombe atomiche. Roba di prima scelta. Enormi quantità di materia fissile per svariati tipi di ordigni top secret. Cazzo però,
nell’86 gli israeliani avevano già duecento bombe atomiche,
e che minchia dovevano fare, conquistare il mondo? Secondo le dichiarazioni di Mordechai, avevano anche cominciato a produrre la bomba H, la bomba all’idrogeno, potentis-
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Il ministro del bavaglio
Se la paura fa 90,
la dignità fa 180.
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sima. Forse volevano far guerra ai marziani. Ma mi viene da
chiederti, caro Mordechai, non lo sai che nel 1986 siamo in
piena Guerra Fredda e le armi nucleari proliferano in tutto il
mondo? Perché ti sei scomodato tanto? D’altronde gli israeliani si stavano solo adeguando agli standard mondiali. Sapete come ha risposto il tecnico israeliano: “L’ho fatto per dare
un contributo alla pace, l’ho fatto per evitare una guerra nucleare in Medio Oriente.”
Cazzo, amico, allora vuoi fare l’eroe, allora ti sei messo in
testa di fare il superman della situazione, che ti aspettavi che
ti dessero una medaglia d’oro da infilarti nel culo nei momenti di stress?
“No, sapevo che mi avrebbero punito, che forse mi avrebbero ammazzato, sapevo anche che le mie dichiarazioni puntavano il dito dritto dritto contro il governo israeliano. Quando mi hanno arrestato nell’aula bunker c’ero solo io e il mio
avvocato. Non mi hanno rinchiuso solo in carcere, hanno
tentato di cancellarmi. Non potevo avere rapporti coi media, non potevo vedere nessuno in carcere e hanno portato
avanti una campagna diffamatoria nei miei confronti. Hanno
sempre avuto il potere mediatico in mano e un bel lavaggio
del cervello all’opinione pubblica sul caso Crossman sicuramente non ha potuto che far bene. Così gli israeliani hanno
creduto che io fossi un malvagio, uno che andava contro gli
interessi dello stato ebraico. Figuriamoci poi se a fare queste accuse è un ex ebreo convertito al cristianesimo, il peggio sulla piazza.”
La famiglia di Mordechai non si è mai schierata, non si è
mai indignata per la situazione carceraria imposta al loro parente. Per loro è stato molto più difficile accettare di avere
un figlio traditore nello spirito, un figlio cristiano. In carcere
Mordechai non se l’è passata bene, i secondini gli riservavano particolari trattamenti mirati allo stress psicofisico. Volevano fargli perdere la calma. Per un anno intero lo hanno sorvegliato giorno e notte con delle telecamere, hanno lasciato
nella sua cella la luce accesa per tre anni di fila. Gli impedivano di dormire, lo picchiavano di continuo. Però, mi verrebbe da dire, che culo fratello Mordechai, almeno non ti hanno
tirato il collo, non sei rimasto appeso nel vuoto. Te la sei cavata, perché il ministro della giustizia di allora, Tommy Lapid, voleva riservarti il trattamento della gallina, corpo da una
parte, testa dall’altra.
Comunque, passa un anno, passano due, passano tre, cade
il muro di Berlino, scoppia la guerra in Iraq, serbi macedoni
albanesi croati bosniaci kosovari sloveni si rompono il culo a
vicenda, cadono le torri gemelle, riscoppia la guerra in Iraq,
e arriviamo finalmente al 21 aprile del 2004, quando il signor
Vanunu viene rilasciato. Evviva, bum bum, champagne, sei
uscito, che te ne fotte che hai passato diciotto anni in carcere e ora hai cinquant’anni, vivi la vida loca, scopa, fotti, sesso, droga e rock and roll. Avrebbe potuto essere così il giorno della scarcerazione di Mordechai, ma il destino volle diversamente. Non erano bastati i continui tentativi dei secondini di spezzare il tecnico mentalmente, dovevano perseguitarlo anche fuori.
Allora signor Vanunu, che cosa crede? che è uscito dal
carcere e può fracassare le palle al supermegaiper potente stato israeliano? Lei non può avere contatti con cittadini di altri paesi che non siano Israele. Non può avvicinarsi ad ambasciate e consolati. Non può possedere un telefono cellula-
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re. Non può accedere ad Internet. Non può lasciare lo Stato di Israele.
“Allora che cazzo mi avete liberato a fare? Io me ne voglio andare da questo merdaio, voglio andare in Canada in
una casetta rossa con tanti fiori di lillà…”
Mordechai vive praticamente rinchiuso in uno stato-prigione. Non ha accesso alle moderne tecnologie e a qualsiasi
mezzo di comunicazione. L’hanno fatto uscire imbavagliato
e possono arrestarlo ogni volta che vogliono, così all’improvviso, perché Israele è uno stato Democraticooooooooooo!
L’anno scorso gli hanno detto che gli era vietato lasciare
Israele per 365 giorni, e quest’anno gli hanno rinnovato la limitazione e l’anno prossimo lo faranno di nuovo. Possono
farlo all’infinito, fino alla morte.
Mi sorge un dubbio, fraterni amici, perché tre quarti del
mondo mette sotto torchio un paese come l’Iran? Perché il
G8 setaccia angolo per angolo l’impero di Persia? Eppure gli
iraniani hanno aperto le porte agli organismi internazionali,
hanno dato il via libera alle ispezioni senza nessun problema.
E come mai, invece, Israele non permette a nessuno di violare i cancelli delle sue centrali nucleari? Per quale motivo Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare?
Trattato firmato da centottanta paesi tra cui tutti i paesi arabi, compresi Egitto, Siria, Libano, Iraq, Giordania, eccetera
eccetera? Vuoi vedere che Shimon Peres al posto della Nutella nei mobili tiene le bombette nucleari? E noi europei del
cazzo, che non facciamo nient’altro che seguire gli americani, perché ce ne strafottiamo di questa situazione e non costringiamo Israele ad aprire le frontiere alle ispezioni AIEA?
Elementare Watson! Non si può. Francia, Gran Bretagna,
Stati Uniti, hanno contribuito all’accrescimento della potenza nucleare israeliana, hanno speso bei soldini, e ora per un
fantomatico gesto di equità, usiamo pure questa brutta parola, di giustizia, buttano all’aria tutto? Ma siete pazzi. Israele è
uno stato coloniale nel mondo arabo. È una bella torretta di
guardia per l’occidente in Medio Oriente. Un bel carroarmato che, un giorno sì e un giorno no, regala stazioni petrolifere
ai cugini inglesi. È tutto un gioco di amicizie e scambi, Israele
ha aiutato Francia e Gran Bretagna a rompere il culo all’Egitto, e Francia e Gran Bretagna aiutano Israele a rompere il culo già rotto dei palestinesi. Ah! Dimenticavo l’Africa del Sud.
C’entra sempre l’Africa del Sud. Dove hanno svolto i test nucleari gli israeliani? In Polinesia? No, lì c’erano i francesi. A
Bikini? No, lì c’erano gli americani. E dove allora? Ma nella
fraterna e amica Africa del Sud, che ha messo a disposizione
della discendenza di re Salomone un intero deserto.
Però, caro Israele, ma che te ne fai di duecento bombe
atomiche. Ma ti sei forse scordata che i tuoi acerrimi nemici,
Siria, Libano, Giordania sono tuoi vicini di casa? E che fai,
piazzi una bomba a Damasco così, dopo, tutte le polveri radioattive renderebbero la vita impossibile anche a Gerusalemme. Che dici? Non lanci nessuna bomba. Ah, ho capito,
la bomba è uno strumento di ricatto politico. Ma tu sei uno
stato figlio di puttana, ma sei furbissimo, caro Israele. Utilizzi la bomba atomica senza farla esplodere, soltanto con la
minaccia di farlo. Così puoi mantenere il tuo status quo. Così puoi fare i cazzi tuoi, puoi svegliarti la mattina e produrre
altre duecento bombe atomiche, puoi decidere di andare in
Palestina e costruire cinquanta colonie. Tu puoi fare quello
che vuoi, a te nessuno ti dice niente, e chi può dire niente a
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chi c’ha duecento bombe nucleari. Allora sai che ti dico, che
da oggi io sono con te, santissimo Stato di Israele, sono con
te e condivido anche la costruzione del muro della vergogna,
che poi tanto vergognoso non è. Potrebbe essere una nuova muraglia cinese, sono opere possenti che si vedono anche dallo spazio. Io da oggi sono filo israeliano, non nel senso che prendo il filo spinato e vado a richiudere palestinesi
morti di fame in campi profughi, nel senso che voglio stare
col più forte e il più forte sei tu.
Da ora in avanti io porterò insieme a te una campagna diffamatoria nei confronti di Mordechai Vanunu, quello spione.
Lui dice che Israele è stato edificato sulla disinformazione,
che quello che lui ha fatto è esattamente il contrario di ogni
atteggiamento politico israeliano, che la muraglia, i posti di
blocco, le colonie, rendono gli ebrei uno stato religioso, nazionalista, razzista. E beh! Chi se ne fotte. Abbiamo sempre
duecento bombe atomiche nuove di zecca. Io mi autocandido a ministro del bavaglio, così nessuno potrà più dire che
Israele è il contrario della democrazia, che non c’è bisogno di
uno stato ebraico, ma di uno stato aperto a tutti senza riguardo alla loro fede religiosa. Nessuno potrà più dire che la soluzione è uno stato unico, che in Medio Oriente ci sono due
stati fondamentalisti, l’Iran e Israele. Con me nessuno potrà
più dirlo. Non chiedo niente in cambio, solo una bombetta
atomica, tanto ne tieni duecento…
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La bambina che non c’è più
di Maddalena Stornaiuolo
Ogni volta che avete fatto questo
al più piccolo dei miei fratelli
lo avete fatto a me.
Matteo (25, 31 - 40)
Mia madre è morta durante il parto perché non c’era
nessuno che la potesse de-infibulare per farla partorire. Mio
fratello è rimasto bloccato dentro di lei. Mio padre non se l’è
mai perdonato, anche se non è colpa sua. Se fosse successo
prima sono sicura che non avrebbe mai permesso che anch’io
e mia sorella fossimo operate. Ora teme che possa succederci
quello che è accaduto a mamma.
Sono incinta, al sesto mese di gravidanza.
Ho una maledetta paura.
Siyad non vede l’ora di conoscere la faccia di suo figlio.
Mio marito c’ha impiegato una settimana per aprirmi bene.
Un male cane. La prima notte di nozze nemmeno lui godeva
perché io piangevo. Era come un trapano che si ferma
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solo quando ha forato la parete. Mi ha aperto lui a furia di
penetrare. Ho perso molto sangue. Sentivo un dolore atroce.
Urlavo, fino a lecerarmi la gola.
Per un attimo ho pensato a quando, da piccola, le mie
amiche mi chiamavano puttana e io allora abbassavo le mie
mutandine colorate e gliela facevo vedere con orgoglio,
guardate, è tutto chiuso, non sono una puttana.
Quando è arrivato il mio momento, ho insistito tanto con
mamma perché potessi farlo insieme a mia sorella. Non lo
so, forse per farci coraggio, forse per crescere insieme. A
sette anni tutte le mie amiche erano già state infibulate e io
mi vergognavo da morire a dire che non lo ero ancora. Mi
sentivo diversa, avevo paura che non mi facessero giocare più
con loro, finsi persino con la mia migliore amica. Inventavo
mille scuse per non farla entrare in bagno con me.
Sono stata circoncisa a otto anni insieme a mia sorella più
piccola. La signora che ci ha operate era grassa, non molto
alta, non faceva paura, non sembrava cattiva. Ha operato
prima mia sorella, poi me. Mia mamma si è chiusa in bagno
per non sentirci piangere. Il giorno dell’operazione ci siamo
alzate molto presto, non ricordo che ora era di preciso, però
non c’era ancora il sole e poi avevo sonno. Non ho chiuso
occhio tutta la notte, pensavo solo all’indomani, ero eccitata
all’idea di diventare donna anch’io. Finalmente.
Quando è arrivato il mio turno, la signora mi ha stesa
su un tavolo. Nuda. Mia madre mi aveva detto che dopo
l’operazione potevamo stare più sicure, più tranquille. Non
ci sarebbe potuto succedere niente di brutto, solo cose belle.
Il tavolo si è sporcato tutto di sangue, lo sentivo scorrere
sulla pelle, ma non mi faceva il solletico. Sentivo solo dolore.
Mi ha tagliato il clitoride e le piccole labbra. Non so se l’ha
fatto con delle forbici o con un coltello. Non potevo vedere.
Poi mi ha cucita con del filo. Non riuscivo a stare ferma,
allora altre due donne hanno dovuto bloccarmi mani e piedi.
Poi la signora mi ha legato le gambe, unite, strette strette,
fino a sotto le ginocchia.
Sono stata a letto così per una settimana. Mi bruciava.
Non riuscivo nemmeno a fare pipì. Non bevevo. Cercavo di
trattenermi. Ho urinato piangendo.
Prima dell’operazione correvo, facevo le capriole, giocavo
con la palla insieme a tutti gli altri bambini. Ora no. Non
potevo più. Ora camminavo piano piano, per non strapparmi.
Ogni passo era un inferno, speriamo che non si riapre tutto
mi dicevo. Sono diventata grande adesso. Sono una donna.
Finalmente.
Mamma ha fatto una buca nel terreno per accendere un
fuoco. Dice che ogni tanto devo chinarmi per far asciugare la
ferita. C’è aria di festa, la mia casa è piena di parenti, hanno
portato un sacco di regali per me.
Per salutare quella bambina che non c’è più.
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È nato. Mio figlio è nato. Ha la pelle chiara e gli occhi azzurri. Gli stessi occhi del padre americano che mi violentò. È paffuto, pochissimi capelli. Dorme beato al mio fianco. Lo guardo. Sono stanca, affannata, debole. Ma lo guardo e so che qualcosa voglio dirgli, che il mio cuore esplode
di parole.
Crescerai figlio mio e assomiglierai a lui, ti farai grande ed
io ti guarderò mentre andrai a scuola. Ti guarderò e penserò a lui. Penserò alle sue mani che sfregavano dentro di me,
alla puzza di birra, alla mia mutandina nascosta nella sua tasca. Forse ti stai già chiedendo perché ti ho messo al mondo. Per torturami, per orgoglio, per rivederlo in te per il resto dei miei giorni? No. Tu sei nato perché so che il mondo
può cambiare, perché so che un uomo può scegliere il proprio destino, le proprie azioni, i propri sogni. Tu non sarai il
fantasma del tuo papà assassino, sarai un iris che nasce dopo
la tempesta in un campo di pietre arido e di spine infestan-
ti. Tu non sarai iracheno, americano, israelita, africano, europeo, cinese, tu sarai un uomo libero, che non ha paura dei
diversi, che non dimenticherà mai da dove viene e mai dove sta andando.
Ti chiamerò Miroslaw, uomo pacifico. Sì, così ti chiamerò piccolo bambino nato tra i fischi delle bombe, tra le urla
delle mamme che vedono i figli morire. Non ci sarà nessuna
coccarda ad annunciarti al mondo, ma non fa niente perché
oggi tu sei qui e questo basta. Non so cosa potrò darti, cosa potrò dirti, mi piacerebbe che tu diventassi un uomo che
piange davanti ad un cielo stellato, alle onde del mare, al silenzio del mondo. Che tu possa trovare la bellezza intorno a
te, Miroslaw. Che i tuoi occhi possano innamorarsi della vita. Perché potranno spazzare via popoli, distruggere foreste,
disintegrare città, ma non potranno mai fermare il miracolo
della vita. E potranno capire come va il mondo, in che verso gira la Terra, quanti miliardi di granelli di sabbia abbiamo
sotto i piedi, ma nessuno potrà mai spiegarti cos’è l’emozione, nessuno avrà mai tante parole in bocca per dirti perché
un bacio cancella il tempo. Non cercare risposte che non potresti mai trovare, non correre perché lo fanno tutti. Siediti,
ascolta il vuoto, le foglie morte, i canneti, il ronzio delle api,
il battito del cuore. Miroslaw non arrenderti mai, non chinare mai la testa e se qualche volta hai voglia di piangere non
farlo. Diceva un vecchio saggio che gli alberi sono lo sforzo
della terra di parlare al cielo. E tu sei una quercia millenaria,
sei un tronco altissimo che squarcia la roccia e si innalza tra
le nuvole colme d’acqua. Tu sei un messaggio, sei un abbraccio, un sorriso per il nostro cielo di morti ammazzati, innocenti, torturati, deboli, ultimi, indifesi.
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L’Inizio
Finché nasce un bambino,
Dio non si è ancora stufato dell’uomo.
Rabindranath Tagore
Ora piangi, mio indifeso Miroslaw, piangi perché hai fame. Il tuo corpo chiede alla natura la forza, vieni qui bambino mio, appoggia il tuo piccolo capo sul mio petto, prosciuga il mio seno, prenditi ciò che è tuo, rendimi pure un fiore senza petali.
Mi sento debole, troppo debole. Sento che il cuore rallenta. Forse non sarò io la donna che al mattino sciacquerà il tuo
bel viso, forse non sarò io la mamma che ti racconterà le favole, forse non sarò io e non posso farci nulla. Sai Miroslaw,
tante volte in sogno ho visto questa finestra che ho davanti
a me. Tante notti ho visto quel papavero laggiù, la nuvola in
cielo a forma di cigno, il pesco in fiore. Magari avessi saputo che questo sarebbe stato il luogo dove sarei morta. Mi sarei lanciata contro il male senza paura, impavida, coraggiosa.
Ma la morte è così, credi sia davanti a te e invece ti sta appiccicata dietro. La morte è così, un fulmine che danza, un serpente pennuto che canta, un carnevale, un attimo. La morte
è un attimo e sono felice di condividere quest’attimo con te.
Vivi Miroslaw, l’uomo non è su questo mondo per esistere,
ma per vivere. Ed ora chiudi gli occhi, concentrati e chiudi
gli occhi. Oggi sentirai il silenzio, l’ultimo battito, il violinista
che allontana l’archetto.
Buona vita figlio mio, questa non è la fine è l’inizio.
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Una modesta proposta
Per evitare che i figli
della povera gente del mondo
diventino un peso per il loro paese e per i genitori, e per
renderli utili alla società.
di Rosario Esposito La Rossa
Liberamente ispirato all’omonima opera di Jonathan Swift
del 1729.
La politica dev’essere l’arte di rendere possibile domani
quello che oggi è impossibile.
Eduardo Galeano
Sulla scena tavoli e sedie. Tutto è addobbato come se fosse un ristorante. Il pubblico non si siede in platea, ma viene fatto accomodare su tutte le sedie disponibili sul palco da tre camerieri. In scena un cuoco, vestito di bianco con il cappello da chef. Prepara qualcosa, canticchia la
canzone “Bella Notte”. Prepara il piatto in modo acrobatico. Entrano tre cuochi, portano in scena enormi pietanze. Iniziano a litigare con
lo chef. Infornano la pietanza che stanno preparando.
Lo chef finalmente li caccia.
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CHEF: Ah! Il silenzio.
CHEF: Zitti, zitti, non dite nulla.
CHEF: È uno schifo! È davvero uno schifo! È triste per tutti
quelli che passano per questa città, che viaggiano per il nostro
paese, vedere sui bordi delle strade queste donne coperte di
stracci chiedere l’elemosina, sempre seguite da tre o quattro
marmocchi, mocciosi puzzolenti. Ma quello che più è disgustoso è l’atto dell’importunare, del distrarti dai tuoi pensieri per render conto a loro, che ti sottraggono illegittimamente i tuoi beni con l’arma della pena. La colpa non è delle madri, che povere non possono lavorare per badare ai cosi sputalatte, che gli prosciugano il petto senza alcun riguardo. Le
donne sono costrette a tale vita, non possono truccarsi, farsi belle, né scegliere di far ciò che vogliono del proprio tempo. Io non so, cari commensali, se siete d’accordo con me,
ma queste donne non fanno altro che nutrire bambini disgustosi, che una volta cresciuti diventeranno ladri, mascalzoni,
delinquenti, da succhia latte a succhia sangue.
Credo che i partiti del mondo siano d’accordo con me quando dico che questi bambini sono motivo di lamentele deplorevoli, vergognose, indegni della civiltà. Ragion per cui credo che chiunque riuscisse a trovare un metodo onesto, facile e poco costoso per rendere questi bambini una parte sana
e utile della comunità, acquisterebbe tali meriti che il popolo
a gran richiesta gli intitolerebbe una strada.
2° CUOCO: E se piangono? Se piangono?
Entrano i tre cuochi, indossano mantelli e maschere da supereroi.
CHEF: Fate attenzione, piangono così tanto che potrebbero allagare il ristorante. E ora andate, senza nessuna paura,
mi raccomando.
1° CUOCO: Per questo ci siamo noi…
Immediatamente rientrano i tre cuochi.
1° CUOCO: Grande chef sono tornati!
2° CUOCO: Sono quattro, sono quattro!
3° CUOCO: Sono tornati, sono tornati!
CHEF: Ma chi? Chi?
TUTTI I CUOCHI: I marmocchi!!!
Si crea una grande confusione, numerosi oggetti sul tavolo si capovolgono. Lo chef consegna freneticamente ai cuochi tre manici di scopa. Poggia sulle loro teste tre secchi.
CHEF: Ora statemi a sentire, non aprite per nessun motivo
la porta. Preparatevi a sferrare anche un attacco se necessario, con i marmocchi non siamo mai al sicuro.
I cuochi hanno un’espressione terrorizzata.
3° CUOCO: Se dicono che hanno fame che facciamo, che
facciamo?
I cuochi escono di scena impauriti.
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2° CUOCO: …Ambara…
3° CUOCO: …bà…
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1° CUOCO: …ciccì …
TUTTI I CUOCHI (indicando lo chef): …coccò!!!
2° CUOCO: E il nostro progetto…
TUTTI I CUOCHI: …marmocchi!!!
1° CUOCO: Il nostro progetto non si occupa solo di questi
luridi mendicanti, il nostro progetto si estende a tutti i bambini che hanno genitori incapaci di nutrirli.
2° CUOCO: Noi, cari commensali, abbiamo studiato le opere dei più grandi pensatori che su questo tema si sono espressi. Nei loro testi abbiamo sempre trovato errori grossolani,
errori così grandi che han reso le loro proposte ridicole.
3° CUOCO: Noi vogliamo soltanto che un bambino di circa
un anno sia utile alla società e non dannoso.
1° CUOCO: Questo nostro progetto, che fra poco vi illustreremo, non solo renderà utili i bambini, ma eviterà quella
vergognosa pratica che è orribile abitudine del mondo: l’elemosina.
CHEF: Forza, prendete il cartellone.
I cuochi tirano fuori da un baule un cartellone gigantesco. Lo appendono alla parete.
CHEF: Nel mondo ci sono sei miliardi e mezzo di persone.
Un miliardo e mezzo muore di fame. Se calcoliamo che di
questo miliardo e mezzo, un terzo sono uomini oltre i venti
anni, un terzo sono donne oltre i venti anni, rimangono mezzo miliardo di bambini che muoiono di fame. Bambini che
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diventeranno probabili barboni, ladri, prepotenti, delinquenti, assassini, stupratori. Domanda: è possibile sfamare cinquecentomila bocche?
3° CUOCO: Direi di no. Direi che questo numero continua
a crescere e che i bambini saranno a carico dei genitori come
minimo fino a sei anni, periodo in cui, secondo un abile ladro
parigino, un bambino può iniziare a rubare e quindi mantenersi da solo, logicamente solo come apprendista. Se calcoliamo che per mantenere un bambino ci vogliono in media dieci
euro al mese, ci troveremo questi assurdi risultati.
Il 3° cuoco prende una calcolatrice e recita con frenesia questi calcoli pigiando con forza i tasti.
3° CUOCO: Dieci euro moltiplicato per dodici mesi, centoventi euro moltiplicato per sei, numero di anni minimi in
cui il bambino viene allevato, settecentoventi euro a bambino. Settecentoventi per cinquecentomilioni uguale trecentosessanta miliardi, necessari per sfamare sommariamente queste bocche.
CHEF: Trecentosessanta miliardi di euro! Tenete ben a mente questo numero.
1° CUOCO (con accento inglese): Vorrei aggiungere una
piccola considerazione. Questi bambini non possono essere
nemmeno venduti, prima dei dodici anni non rappresentano
nemmeno merce vendibile o forza lavoro, il che crea ai genitori solo un danno e non un guadagno.
Chiederei ora a lei, grande chef, di esporre umilmente la nostra proposta che, spero, non sollevi alcuna obiezione.
203
CHEF: Mi è stato assicurato da un dotto capitalista americano che un bambino, se ben allattato, all’età di un anno è il cibo più delizioso, genuino e nutriente che si possa trovare sia
in umido, all’arrosto, al forno, lessato e non ho dubbi anche
al ragù. Un bambino, all’età di un anno, pesa all'incirca…
TUTTI I CUOCHI: …dieci chili…
CHEF: …ma se nutrito a dovere…
TUTTI I CUOCHI: …anche dodici.
CHEF: Un bambino potrebbe essere il piatto, qualitativamente parlando, migliore sul mercato. Tenero e reperibile su
tutta la Terra, tipo i McDonald’s. Il prezzo sarà un po’ caro,
quindi adatto solo alle tavole dei padroni, che, siccome hanno
già ridotto all’osso i genitori dei bambini morti di fame, credo che giustamente abbiano la priorità su queste prelibatezze
che propongo. La carne di bambino sarà di stagione durante
tutto l’anno e il prezzo scenderà nove mesi dopo la Quaresima. Come ci insegna il nostro buon Dio, nel periodo quaresimale si mangia molto pesce, cibo afrodisiaco, che porterà
molti più concepimenti, che, dopo nove mesi si trasformeranno in nascite, che riverseranno sul mercato carne in abbondanza. E voi mi insegnate la regola della richiesta e offerta. Più carne in giro, minore sarà il prezzo. E guarda caso
quando scenderà il prezzo? Sotto Natale, quando fa freddo e
bisogna nutrirsi adeguatamente e perché no, anche quando si
festeggia e si possono preparare pranzetti a dovere. Io…
TUTTI I CUOCHI (con tono di ammonimento): …Noi…
CHEF: …vi sto proponendo…
204
TUTTI I CUOCHI: …vi stiamo proponendo…
CHEF: …una materia prima rinnovabile, non è petrolio qualunque è carne succulenta che l’uomo produrrà per sempre,
eternamente. La nostra (guardando i tre cuochi) proposta è rivoluzionaria, va ben oltre tutte le logiche post-moderne e futuristiche.
A noi, a noi, ci dovrebbero dare qualche premio perché siamo andati oltre, la mossa del cavallo, scacco matto.
I cuochi mimano quello che dice lo chef.
CHEF: Ma ora immaginatevi che catene di montaggio e
quanto lavoro si andrà a creare, nuovi mestieri, per esempio
ammazza bambini, ingrossa bambini, produttore di bambini, sommelier di bambini, e le mamme avranno un ruolo determinante e la figura della donna sarà rivalutata e probabilmente supererà di gran lunga quella dell’uomo. Riflettete un
secondo, il progetto marmocchi in soli due minuti, e dico
due, ha cancellato disoccupazione, capitalismo ed emarginazione della donna.
Applausi dei tre cuochi.
CHEF: Non chiamateci sabotatori, macabri, per il nostro
progetto di capitalizzare la prolificità stessa dei selvaggi a beneficio delle tavole. Dicesi rivoluzione…
1° CUOCO: …etno…
2° CUOCO: …socio…
3° CUOCO: …culinaria.
205
CHEF: Ma voi vi immaginate quanti soldi potrebbero fare i
genitori di questi bambini morti di fame? Ci pensate quanti
soldi? Soldi che trasformerebbero il tenore di vita di migliaia di mamme e papà.
Il 1° cuoco si spoglia in mutande. Si infila un ciuccio in bocca. Sul suo
corpo sono evidenziati con un pennarello alcuni punti.
CHEF: Ora vi faccio vedere quanto un bambino potrebbe
far guadagnare alla sua famiglia.
Il 2° cuoco indica con una lunga stecca i punti nominati dallo chef.
CHEF: Prosciutto di bambino…
3° CUOCO: …dieci euro al chilo.
CHEF: Girello…
3° CUOCO: …undici euro al chilo.
CHEF: Puntina…
CHEF: Costolette…
3° CUOCO: …sei euro al chilo.
CHEF: Ma si potrebbero mangiare anche occhi, cervello, lingua. Un bambino di dieci chili costerebbe intorno ai centocinquanta euro. Soldi liquidi immediati che il papà potrebbe
gestire per comprare un pezzo di terra, una casa, un ipod.
Il 1° cuoco sputa il ciuccio.
1° CUOCO: La novità è che del bambino non si butta niente. Le ossa per esempio? Un bambino conta duecentododici
ossa. Una metà ne facciamo candele e se calcoliamo un euro ad osso abbiamo già guadagnato i primi centosei euro, le
restanti ossa invece ne facciamo manufatti: ombrelli, pettini,
sapone, gingilli, per un guadagno intorno ai settecentotredici
euro. E immaginate quanto lavoro si creerà. Fabbriche di sapone, pettini pregiati, ombrelli in avorio.
CHEF: Gambetto…
2° CUOCO: E le interiora? Oltre a farne trippa dal costo di
sei euro al chilo, maciniamo il tutto e facciamo cibo per animali da allevamento, così eliminiamo la mucca pazza e tutte
le malattie tipo l’aviaria che si mischiano tra gli animali malati. Ma voi vi immaginate un porcellino che mangia intestini
di un bel bambino grassoccio, quello il maialino si fa un bijoux. E ci guadagniamo diciamo altri…
3° CUOCO: …otto euro.
TUTTI I CUOCHI: …cinquanta euro.
CHEF: Arrosto…
3° CUOCO: I capelli? Ne facciamo filo per le sarte e ci guadagniamo altri…
3° CUOCO: …sei euro.
CHEF: Palettina…
3° CUOCO: …nove euro.
3° CUOCO: …tredici euro.
TUTTI I CUOCHI: …dieci euro.
206
207
3° CUOCO: Con la pelle produciamo guanti, giubbotti e perché no anche scarpe caldissime e impermeabili. I dentini diventano portafortuna incastonati in oro diciotto carati e ci
prendiamo un’altra…
TUTTI I CUOCHI: …venti euro.
CHEF: E infine, il pezzo grosso, i teschi di bambini, venduti
a tutti i teatranti del mondo per recitare l’Amleto.
I tre cuochi improvvisano una scenetta dell’Amleto. Il 3° cuoco interpreta il teschio.
CHEF: Signore e signori, questa sera al teatro dell’Opera di
Parigi, l’Amleto con teschio di bambino africano.
1° CUOCO: To be or not to be…
2° CUOCO: …that is the question…
1° CUOCO: …whether ’tis nobler in the mind to suffer…
2° CUOCO: …the slings and arrows of outrageous fortune.
CHEF: In questo modo valorizziamo anche la cultura e perché no anche il teatro che è in decadenza. Un teschio lo vendiamo sui…
TUTTI I CUOCHI: …centosessanta euro…
CHEF: …se è senza fratture.
TUTTI I CUOCHI: Duecento euro…
ri ne trarrebbero verrebbe dagli organi, ma lo sapete quanto
costano gli organi? Sentite un po’ le tariffe.
1° CUOCO: Quindicimila euro cuore.
2° CUOCO: Diecimila rene.
3° CUOCO: Settemila cornee.
1° CUOCO: Tremila retina.
CHEF: E fino a un milione di euro per i testicoli che sono
i più cercati. Ma diciamoci la verità: perché far morire tutti
quei poveri vecchietti miliardari americani, malati di tumore
in ogni dove, reduci dal Vietnam, ricoperti di napalm. Ma sai
quanti dollari sborserebbero arabi e yankee pur di aver un bel
cuoricino nuovo di zecca appena nato? E chi non vorrebbe
avere, al posto della cosiddetta guallara appesa, due belle palle
turgide e sprizzanti! Così faremmo pure un bel piacere a tutte
quelle donne giovanissime che vanno con i vecchi miliardari
per i soldi, almeno si fanno una trombata decente. E poi, signori cari, questi bambini se ne fanno così tanti che cinque o
seimila li possiamo dare anche alla ricerca, prezzo mille euro.
Saltiamo le tappe, io sono un ambientalista, basta con questi
topolini, agiamo direttamente sugli uomini, proviamo sul tessuto umano, la ricerca va più veloce, magari troviamo il gene
che non fa più morire.
Mo guardate qua, ho tolto da mezzo commercio illegale di
organi, notti in bianco, finanziamenti per la ricerca, valorizzazione del teatro. Ma che volete più? Io sono così geniale…
CHEF: …se è femmina, perché hanno la testa più tonda e
lucida e creano l’effetto. Ma il maggior profitto che i genito-
TUTTI I CUOCHI (con tono di ammonimento): …Noi…
208
209
CHEF: …ma così geniale che con questa idea ribalterei tutto l’universo.
TUTTI I CUOCHI: Ribalteremo!
Lo chef continua a dire che l’idea di rendere i bambini utili alla società
è sua. I tre cuochi si innervosiscono alle sue spalle. La tensione sale.
CHEF: Quelli che mi devono appoggiare in questa mia idea
sono i paesi del Terzo Mondo, dove ci sono più bambini
morti di fame. Io farei fare a costoro così tanti soldi che non
sarebbero più Terzo Mondo, ma Primo! Dopo, il sud sarebbe ricco e il nord povero. Poi ti farei vedere come al nord ricomincerebbero a fare figli. La vera rivoluzione per la donna
non è la carriera lavorativa, ma ritornare a fare quello per cui
è stata creata, fare i figli. Qualcuno dice che questo è un progetto comunista, e tutto sommato lo è perché più soldi ce li
avrebbero i proletari, quelli con più figli. Caro Marx ti ho superato, sei roba vecchia vicino a me.
Ma mo facciamo due conti. Dicevamo che per crescere un
bambino ci volevano nei paesi poveri settecentoventi euro
per sei anni, con una spesa complessiva di…
TUTTI I CUOCHI: …trecentosessanta miliardi di euro.
CHEF: Secondo i miei calcoli un bambino farebbe guadagnare alla propria famiglia all’incirca ventimila euro. Che moltiplicati per mezzo miliardo fanno…
TUTTI I CUOCHI: …dieci biliardi di euro.
CHEF: Altro che paesi sottosviluppati, tra spesa e guadagno
non c’è paragone. Spesa?
210
TUTTI I CUOCHI: Zero.
CHEF: Tutt’al più un po’ di latte. Guadagno?
TUTTI I CUOCHI: Ventimila euro.
CHEF: Metti che una mamma cinese tiene cinque figli, a ventimila euro sono centomila euro di guadagno, niente stress,
niente preoccupazione, ma solo benessere e soldi per vacanze a Dubai.
1° CUOCO (con marcato accento tedesco e atteggiamento
mussoliniano): Spiegati in termini economici PIL alle stelle.
Qualcuno dice che questo è cannibalismo, ma io dico che è
solo una dieta alternativa, che rispetta gli animali liberi che
non sono costretti a morire e sacrificarsi sempre loro.
L’atteggiamento del 1° cuoco diventa sempre più minaccioso, impugna
un coltello e lo sventola sotto il naso dello chef. Con violenza ruba il
cappello dello chef.
1° CUOCO: Un mio amico mi ha detto che circa venti anni fa, a Londra, arrivò un indigeno dell’isola di Formosa e
raccontò che il boia, quando uccideva il delinquente che si
era trombato la regina, avvelenato il re, succhiato il pisello al
principe, il boia vendeva il cadavere a caro prezzo, come una
prelibatezza alle alte cariche dello stato. Ma vi sembra la nostra un’idea stupida? Immaginate che profitto ne ricaverebbero i ristoratori e gli osti, invece di zuppe economiche, preparerebbero sempre costosissime coscette di bambino. E immaginate quanti cuochi si diletterebbero a cucinare con ricette variopinte i bambini di mezzo mondo. Io…
211
Gli altri due cuochi provano a dire Noi, ma il 1° cuoco li ammonisce
con lo sguardo.
bistecca di bambino, per i romani amatriciana al bambino,
per i torinesi agnolotti al bambino.
1° CUOCO: …siccome sono l’inventore di questa rivoluzione ho già scritto un libro di ricette. Cameriere!
Il 1° cuoco li picchia e li caccia dalla scena.
2° CUOCO: Comandi!
1° CUOCO: Illustra le mie ricette.
2° CUOCO (accenna ad un balletto): Fegato di marocchino
con tartufo bianco: far bollire per circa due ore il fegato in
pentola, quando l’organo ha assunto un colore violaceo, immergervi anche il tartufo leggermente condito con olio extra
vergine di oliva e un pizzico di sale. Servire il tutto con una
spolverata di rosmarino e una scaglia di gorgonzola.
Mentre il 2° cuoco illustra le ricette, il 3° cuoco e lo chef iniziano a ballare in modo strano.
2° CUOCO: Avambraccio di bambino in salsa di liquirizia e
purè di patate. Trippa di bambino all’acqua pazza rosolata in
melanzane e funghetti. Bistecca di bambino al sangue. Ragù
di bambino. Involtini di bambino.
La lista di ricette diventa un allegro motivo e anche il 2° cuoco si mette a ballare.
2° CUOCO: Carne macinata di bambino, spiedini di bambino, salsicce di bambino, pancetta di bambino, salame di bambino, prosciutto crudo e cotto di bambino, cotechino di bambino, cordon bleu di bambino, sofficini di bambino e polpette di bambino. E per gli amanti dei cani anche crocchette di
bambini. Per i napoletani pizza al bambino, per i fiorentini
212
1° CUOCO: Logicamente ci sono delle differenze. La carne nera come sempre è meno pregiata, ma più sostanziosa, la
gialla ricca di fibre e poco grassa, i bambini scandinavi troppo gelati e quindi più adatti alle scatolette, mentre quelli che
meglio si adatterebbero alla cucina mondiale sono gli italiani, i francesi e gli spagnoli. Mo immaginatevi paesi come il
Congo, diventerebbero produttori mondiali di carne, Congo
& Co. Altro che Coca Cola col sangue dei bambini, t’inventerei certe bevande pazzesche.
Canticchia le parole a seguire con lo stesso motivo precedentemente cantato dai tre cuochi cacciati.
1° CUOCO: Sanguinaccio, sanguinetto, sanguotto, sanguiettino, sanguese.
Entrano i due cuochi prima cacciati e lo chef. Indossano abiti militari,
impugnano forchettoni e cucchiai al posto dei fucili. Hanno in testa scolapasta al posto degli elmetti.
2° CUOCO: Ammutinamento!
CHEF: Libertà ai fornelli!
3° CUOCO: Impugniamo i coltelli!
Inizia una violenta colluttazione, il 1° cuoco viene legato con una corda, lo chef gli piazza in bocca una mela. Il 2° cuoco prende il comando
indossando il cappello da chef.
213
2° CUOCO: Dove eravamo rimasti? Ah, ecco, il problema
della carne. Il problema della carne di bambino è che subito
deve essere consumata e non è molto adatta all’esportazione,
se non sotto sale o sott’olio (dà uno schiaffo al 1° cuoco). Io ho
già preso contatti con Burger King (dà uno schiaffo al 1° cuoco),
che acquisterebbe in esclusiva, al posto delle chele di granchio, manine di bambino da sgranocchiare dolcemente (dà uno
schiaffo al 1° cuoco), azzannare con cautela (dà uno schiaffo al 1°
cuoco) inoltre venderebbe in barattolini da cento grammi piedini sotto aceto (dà uno schiaffo al 1° cuoco). Vedete penso a tutto,
ho già una distribuzione mondiale (dà due schiaffi al 1° cuoco).
A questo tipo di cucina però dovremmo sottrarre diversi
bambini. I finti grassocci, ovvero quelli con il pancione gonfio d’aria.
3° CUOCO e CHEF: Puà!!!
2° CUOCO: Quelli che per fame sniffano colla.
3° CUOCO e CHEF: Puà!!!
2° CUOCO: E quelli che si nutrono di escrementi animali.
3° CUOCO e CHEF: Puà, puà, puà!!!
2° CUOCO: Questi bambini non li possiamo cucinare per
legge, per la tutela della salute del consumatore e per il prestigio dei nostri prodotti. Anche le cubane non possono essere
cucinate. Le bambine cubane sono pericolose. Hanno varie
parti del corpo, giù in basso, come dire… consumate dal turismo col servizio in camera. Per questo sono al palato sgradevoli. Non fate i furbi, non è che per imbrogliare fate come fanno nei ristoranti cinesi, chiedi il coniglio e ti danno il gatto?!
214
Molti non sono d’accordo con la nostra proposta, dicono
sempre e cosa faremo con i bambini oltre i dieci anni, con
quelli che non sono stati ammazzati prima della vostra grande invenzione, che fine faranno, eh? Quelli che sono malnutriti, i quindicenni troppo magri che fine faranno? Certo non
possono mica diventare succulente bistecche fiorentine, però un’utilità la tengono pure loro. Questi quindicenni, siccome hanno la carne troppo dura a causa dell’esercizio fisico,
potrebbero essere venduti alle riserve naturali, dove i grandi
signori miliardari vanno a caccia.
Il 3° cuoco e lo chef improvvisano una battuta di caccia.
2° CUOCO: Certo il guadagno non sarebbe molto, duecento
euro per ogni ragazzino che diventa selvaggina, ma comunque è una minima entrata per la famiglia. Uccidere un ragazzo è una soddisfazione di gran lunga superiore che ammazzare un coniglio. Immaginatevi il miliardario che cerca di scovare il ragazzino nudo nella sua tana, è lì tra gli alberi, eccolo l’ho visto. Bum. Dritto in fronte. Magari dopo lo lascia al
cane. Alla fine a questi ragazzi gli evitiamo una vita di sacrifici e delusioni.
Non so, cari commensali, se siete d’accordo con me, ma io
credo che in questo modo anche nelle famiglie ci sarebbe più
amore, immaginatevi una coppia in dolce attesa…
Lo chef e il 3° cuoco si abbracciano.
2° CUOCO: …si amerebbero di più pensando ai ventimila
euro. Il marito non si sognerebbe mai di picchiare la moglie
rischiando l’aborto e nemmeno di abbandonarla e di creare
così il problema delle ragazze madri. Il marito tratterebbe la
215
moglie come una scrofa che aspetta un maialino. Dall’utero non usciranno più bimbi ma soldi. E poi con questo sistema possono fare tutte le guerre del mondo, attentati, aerei dirottati, muoiono trecento bambini, non fa niente, più
carne per tutti.
Dico questo per il bene della nazione, della collettività e del
mondo intero. Il problema sono i politici e i loro partiti, che
non capiscono niente, dicono sempre che non sono d’accordo, che questo è contro la Dichiarazione Universale dei
Diritti del Fanciullo, ma andassero a chiederlo ai bambini
dell’Uganda se preferiscono campare così o diventare prestigiosi piattini parigini. Questo è un progetto mondiale! Ma
i governi non capiscono, sono stupidi, annebbiati, rinchiusi
nelle gabbie papiste.
A noi ci hanno cacciato. Hanno detto…
3° CUOCO: …banda di mangiabambini…
CHEF: …luridi cuochi spregevoli.
vo con mia madre per Dublino a fare l’elemosina, seduti sui
marciapiedi con stracci per vestiti.
1° CUOCO: Me la ricordo l’Irlanda, io a sei anni che già rubavo i portafogli, mio padre ubriaco che scopava mia sorella di undici anni.
2° CUOCO: Bella l’Irlanda, belle le camice sempre stirate degli inglesi e mia mamma con le mani sanguinanti.
3° CUOCO: Ah, le serate a Natale, quando avevamo tre piselli a testa!
CHEF: I pomeriggi a giocare nei tombini…
1° CUOCO: …a lanciarci merda di cani.
2° CUOCO: Ah, se mi avessero ammazzato a un anno, paffutello, dentro al forno, insieme alle patate, oggi non sarei qui
a cucinare bambini.
Il 1° cuoco riesce a slegarsi.
1° CUOCO: Noi, Corte Suprema d’Irlanda, lecca culo degli
inglesi, vi esiliamo.
2° CUOCO: A noi, a noi i più grandi cuochi di Dublino, a
noi esiliate!
3° CUOCO: Hanno risposto sì drappieri, sì lava pentole, siete esiliati.
Si tolgono tutti i cappelli e si mettono in riga a proscenio.
CHEF: Mi ricordo dell’Irlanda, quando a quattro anni anda216
217
Postfazione
L’energia creativa della penna
Questo libro è un’ottima raccolta di racconti brevi, che ho
letto d’un fiato gustandomi ogni passaggio e ogni ambientazione. E non ci sarebbe da dire nient’altro per presentarlo. Ma c’è tanto da dire su quello che c’è attorno al libro, sui
ragazzi che lo hanno prodotto e sognato assieme, sulla vita
nel quartiere napoletano di Scampia, che spesso costringe a
fuggire, a volare con la fantasia, a trovare nelle parole e nello
scritto quello che spesso si cerca invano per strada.
È un libro che ha pagine fatte di sangue come inchiostro
e di memoria come carta su cui appoggiare le parole per non
farle cadere nel vuoto.
Il sangue è quello di Antonio, un ragazzo di 25 anni ucciso dalla camorra durante una faida. La memoria è quella di
suo cugino Rosario e di altri ragazzi come lui, che hanno trasformato questo episodio di morte in uno strumento di vita, l’associazione Voci di Scampia nata per ricordare Antonio
e per guardare al futuro senza paura.
Questi ragazzi hanno deciso di non fare le valige, questi
ragazzi hanno deciso di restare, ma soprattutto di lavorare sul
territorio, aprendo a Scampia una casa editrice. Per me è un
218
219
grande onore scrivere la postfazione del loro primo libro, che
non a caso si chiama “Mostri”. Le mostruosità di questi racconti servono a combattere i mostri generati dal sonno della
ragione, quel torpore mentale, morale e spirituale del mondo
adulto, che ha spinto questi ragazzi a scrivere e stampare libri
per tenersi svegli, per non mollare, per non abbandonarsi alla
morte interiore del “tanto che posso farci”.
La cooperativa editoriale che nasce attorno a questo libro è
uno schiaffo in faccia alla cultura dominante che toglie sogni
e prospettive, uno scatto d’orgoglio verso chi vorrebbe obbligare questi ragazzi a scegliere se farsi sfruttare da una azienda
o dalla malavita, un gesto concreto per dimostrare che si può
essere liberi e onesti camminando sulle proprie gambe grazie
al potere delle parole.
Sostenere i giovani che costruiscono lavoro è la vera vittoria contro le mafie, e la vittoria è doppia quando questo lavoro
è capace di produrre cultura, pensieri, emozioni, consapevolezza e cambiamento, tutte cose che questo libro è stato capace di far nascere in me ancora prima della sua pubblicazione.
La letteratura del nostro tempo non cercatela nei pomposi premi letterari o nelle classifiche dei best-seller: io l’ho trovata nel cuore di questo libro di periferia e nella voglia di resistere di questi giovani editori. Se “Mostri” riesce a parlare
di guerra, accompagnando il lettore nella violenza che affligge Cina, Iran, Afghanistan, Russia, Jugoslavia, Sierra Leone,
Bosnia, Pakistan, Cile, Niger, Somalia e territori occupati palestinesi, è perché c’è voglia di riscatto, rivincita, cambiamento, nelle mani di chi scrive e produce questo libro. Questi ragazzi, l’assurdità delle morti violente che “Mostri” racconta,
l’hanno guardata negli occhi, imparando a leggere quell’alfa-
beto di orrore impastato a speranza che accomuna i sopravvissuti di tutte le guerre e chi vive in terra di camorra è in uno
stato di guerra permanente.
Sono racconti disperati che trasmettono speranza, sconfiggendo la banale violenza della spada con l’energia creativa della penna.
La via d’uscita ai mali del mondo descritti in questo libro
non la troverete nelle parole dei racconti, ma nella decisione
di scriverle. Scrivere è una potentissima e liberatoria terapia
di guarigione dall’angoscia, dalla paura e dalla disperazione, e
a volte questa terapia passa proprio attraverso la scrittura di
racconti angoscianti, impauriti e disperati. Anche immersi nel
male si può sempre scegliere di raccontare il male che ci avvolge, e già questo è sufficiente per tenerlo a distanza, imparando a guardarlo negli occhi senza mai farsene contaminare. È questa la grande lezione di vita che questo libro ci trasmette con messaggi e significati che vanno al di là del senso
di ogni singolo episodio narrato.
È un libro che mi ha sorpreso come un fiore nel deserto, un grande regalo fatto al mondo da chi ha deciso di stamparlo e di “liberarlo” con una licenza di utilizzo che non lo
rinchiude nella gabbia del copyright tradizionale, e permette
a chiunque di utilizzare come strumento di cultura un testo
che per questo piccolo gruppo di editori esordienti sarà anche una fonte di guadagno, da reinvestire nei loro sogni per
farli diventare realtà.
Oggi più che mai c’è bisogno nel mondo di gente convinta che lo scopo di un libro sia quello di farsi leggere e non di
fare soldi, e questi ragazzi/editori lo sanno benissimo, spinti come sono dalla loro insopprimibile esigenza di gridare
220
221
dai tetti di internet la loro rabbia per tante ingiustizie note,
ma sconosciute, censurate dal nostro disinteresse, dalla nostra fretta e dalla nostra passività nel consumare informazioni predigerite che fanno annegare la conoscenza in un mare
di notizie inutili.
Per tutte queste ragioni, e per la voglia di leggere il prossimo libro di questa collana, auguro ai ragazzi di Voci di Scampia
di trovare il successo che meritano, incontrando un pubblico
di lettori capace di apprezzare la ricchezza interiore, l’umanità e l’onestà che in libreria sono una merce sempre più rara.
In bocca al lupo a loro e buona lettura a noi.
Carlo Gubitosa
222
La Storia
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
223
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui.
Eugenio Montale
224
Elenco dei coeditori grazie ai quali è stato possibile
realizzare questo libro.
Agnellini Luca, Ambrosino Luna, Angela Emanuele, Arena Matteo, Associazione A.M.A., Associazione Acmos, Associazione Chi rom… e chi no, Associazione Giochimpara, Associazione No Mafie, Associazione Terra del Fuoco,
Associazione Voci di Donne, Associazione Wo(r)ld, Aversa Alfonso, Balsofiore Silvia, Bassetti Andrea, Bassetti Milena, Bertino Adalgisa, Biblioteca “Città Studi” di Biella, Biblioteca “Rosalia Aglietta Anderi” di Biella, Biblioteca Civica Comunale di Biella, Bifulco Aldo, Boccalon Luciano,
Bonicatti Maria Luisa, Borgia Vittorio, Bosco Sara, Bottino
Claudia, Buffa Gianluca, Caligaris Andrea, Cappuccio Renata, Carambia Roberta, Cascini Vincenzo, Castellano Giorgio, Centro Territoriale Mammut, Ceresa Chiara, Checcucci Agnese, Checcucci Serena, Chiarini Andrea, Cillerai Francesco, Cipolat Domenico, Collovà Francesca, Comunità dei
Tessitori di Torino, Consulta scuole superiori di Biella, Corradini Cristina, Corradini Francesca, Cortella Gabriele, Cosenza Monica, Cossavella Eleonora, De Ambrogio Martina,
De Lima Rita, De Maria Marika, Declich Roberto, Della Valle Elisabetta, Di Gregorio Paolo, Di Matteo Matilda, Diadoro Mario, Dovenna Sara, Ferrari Irene, Ferrari Paolo, Fidan225
go Roberto, Filiberti Fabrizio, Fino Ignazio, Folk Road (Benenati Francesca, Drago Anais, Greggio Gabriele, Greggio
Maurizio, Franzoni Alessandro), Gambaro Francesca, Gangi
Dino Filippo, Garlanda Stefano, Garzotto Maria Elena, Gelardi Mario, Gelovizza Gabriella, Gioda Daniela, Gionta Marianna, Giorgio Francesco, Gobbi Stefano, Gorlero Silvana,
Iorio Aurora, Ivaldi Mauro, La Magna Mirella, La Terra Lia,
Laganà Maria Carmela, Lannino Francesco, Lombardo Jessica, Lucarelli Daniela, Luciani Carla, Lupi Francesco, Maffia Corrado, Mancini Andrea, Mancini Pamela, Marsano Luigi, Marucco Paolo, Mattiello Davide, Mignemi Niccolò, Milozzi Giulia, Milozzi Marco, Miola Giorgio, Mostardi Ernesto, Naglein Franco, Nota Elena, Oberosler Marco, Odomaro Ferruccio, Odomaro Luciano, Olia Manuela, Osenda Marina, Osenda Paola, Paliotti Genoveffa, Palumbo Lorella, Palumbo Patrizia, Papi Livia, Pezzotti Valeria, Pianese Anna,
Piazza Cristina, Piermartire Marina, Pignataro Martina, Pinnisi Gianluca, Pitacco Giorgio, Presidio di Libera “Barbara Rizzo” di Biella, Presidio di Libera “Rita Atria” di Chieri, Presidio di Libera “Springer – Azoti” di Biella, Prolo Giovanna, Radiosca, Rapè Aldo, rappresentanti d’istituto d’istruzione superiore “Rubens Vaglio” di Biella, Rippa Marina, Rispoli Francesca, Romagnoli Clara, Romano Elio Rocco, Rongoni Andrea, Rosano Carmelo, Rosin Federica, Rossi Domenico, Rossi Giuseppe, Ruzzier Giorgio, Saglio Costanza, Salvatori Marisa, Sanges Gennaro, Santanelli Paolo, Santarelli
Giuseppe, Saporito Annarita, Sarno Diego, Scalamera Paolo, Scarpa Giulia, Scorzato Stefano, Sette Leonardo, Soudaz
Costantino, Stranisci Marco, Suma Simone, Tamagnini Davide, Tommasini Massimo, Tonon Marco, Trapani Emanue-
la, Trapani Flavia, Trento Mariella, Valletti Fabrizio, Vanoli
Cristina, Vitiello Giuseppe, Zampetti Biagio, Zanetta Chiara, Zummo Andrea.
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227
BIBLIOGRAFIA
Suad, Bruciata viva, Piemme – Milano – (2004)
F. Coloane, Cacciatori di Indios, TEA – Milano (2006)
D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli – Milano (2003)
S. Adler, Dovevo morire da vedova nera, Piemme – Milano
(2006)
C. Gubitosa, Elogio della pirateria, Terre di Mezzo – Milano
(2005)
A. Zanotelli, I poveri non ci lasceranno dormire, Editrice Monti –
Varese (2002)
L. Sepulveda, Il potere dei sogni, Guanda – Milano (2005)
K. Gibran, Il profeta, Feltrinelli – Milano (2003)
M. L. King, Il sogno della non violenza, Feltrinelli – Milano
(2006)
A. Arslan, La masseria delle allodole, Rizzoli – Milano (2007)
R. Kapuscinski, La prima guerra del football, Feltrinelli – Milano (2005)
G. Castro Soto, La storia segreta della Coca Cola, Datanews –
Roma (2007)
V. Shiva, Le guerre dell’acqua, Feltrinelli – Milano (2004)
E. Galeano, Le labbra del tempo, Sperling & Kupfer – Milano (2004)
F. Gesualdi, Manuale per un consumo responsabile, Feltrinelli –
Milano (2003)
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K. Vonnegut, Mattatoio n° 5, Feltrinelli – Milano (2005)
I. Beah, Memorie di un bambino soldato, Neri Pozza – Vicenza (2007)
G. Strada, Pappagalli verdi, Feltrinelli – Milano (2003)
G. Albanese, Soldatini di piombo, Feltrinelli – Milano (2007)
J. Sasson, Tradita, Sperling & Kupfer – Milano (2006)
229
FILMOGRAFIA
Amistad, regia di di Steven Spielberg (1997)
Bordertown, regia di Gregory Nava (2007)
Enron, l’economista, regia di Alex Gibney (2005)
Fahrenheit 9/11, regia di Michael Moore (2004)
Hotel Rwanda, regia di Terry George (2004)
Il più crudele dei giorni, regia di Ferdinando Vicentini Orgnani (2003)
Il segreto di Vera Drake, regia di Mike Leigh (2004)
L’ultimo re di Scozia, regia di Kevin Macdonald (2006)
La città di Dio, regia di Fernando Meirelles (2001)
La masseria delle allodole, regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani (2007)
Lettere dal Sahara, regia di Vittorio De Seta (2006)
No man’s land, regia di Danis Tanovic (2001)
Pa-ra-da, regia di Marco Pontecorvo (2008)
Persepolis, regia di di Marjane Satrapi (2008)
Salvador Allende, regia di Patricio Guzmán (2005)
The Corporation, regia di Mark Achbar, Jennifer Abbott, Joel
Bakan (2004)
Train de Vie, regia di Radu Mihaileanu (1998)
Vai e vivrai, regia di Radu Mihaileanu (2005)
Valzer con Bashir, regia di Ari Folman (2008)
230
SITOGRAFIA
www.peacereporter.net
www.remembersarowiwa.com
www.greenpeace.it
www.emergency.it
www.peacelink.it
www.obiezione.it
www.amnesty.it
www.lav.it
www.petatv.com
www.tmcrew.org
www.parada.it
www.nigrizia.com
www.hrw.org
www.libera.it
www.cnms.it
www.barbiana.it
www.fairtradeitalia.it
www.bancaetica.com
www.decrescita.it
www.arcoiris.tv
231
Indice
232
233
234
Libera la parola!
11
Defrag, ovvero introduzione e ringraziamenti
17
Ride e spara
23
Addio Tobia
25
Short DragonTooth
29
Vomitando l’anima
32
Dieci righe di razzismo
35
Amen e Amin
36
Il pozzo e la luna
40
Il kamikaze di Najaf
44
Discorso all’umanità
di Charlie Chaplin
46
11 settembre
49
Radio Sarajevo
56
23 marzo 2271
59
235
Romario de Souza Faria
61
Nel buio
65
Rainbow Warrior
68
L’errore di Cristo
73
K19
76
Corro perché non so camminare
82
Issa
84
Il cielo di Palestina
di Carlo Cerciello
88
Ad Extirpanda
95
Don’t forget
105
Intifada
110
Un pò più in là
111
L’appuntamento con la celebrità
116
Fra poco morirò
120
Risposta alla domanda: Che cosa è l’illuminismo?
di Immanuel Kant
125
È polvere negli occhi
129
Neve nera
133
Don’t want to close my eyes
136
236
Relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione
del Congresso americano sugli immigrati italiani
negli Stati Uniti, ottobre 1912
147
Kubark
149
Sharon majnoon
155
Giallo come Buddha
160
Il fantasma Abu
165
Tv6
169
Spermatozoi in fuga
174
Ti amo Fouad
179
Il ministro del bavaglio
186
La bambina che non c’è più
di Maddalena Stornaiuolo
193
L’inizio
196
Una modesta proposta
199
L’energia creativa della penna
219
La Storia
di Eugenio Montale
223
Elenco dei coeditori
225
Bibliografia
228
237
Filmografia
230
Sitografia
231
238
239
Finito di stampare
nel mese di giugno 2010
da Arti Grafiche Zaccaria
Stampato su carta riciclata al 100%
Per realizzare questo libro non è stato necessario abbattere nessun albero
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