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COMITATO EDITORIALE E DI REDAZIONE
ROMA
REDATTORE CAPO: G. RUFFINI
G. BALENA - G. BASILICO - V. BERTOLDI - S. BOCCAGNA
M. BOVE - A. BRIGUGLIO - F. CALLARI - R. CAPONI - B. CAPPONI
A. CARRATTA - C. CECCHELLA - F. CORDOPATRI - C.CORRADO
A. D’ALESSIO - D. DALFINO - F. DESANTIS - R. DONZELLI - B. GAMBINERI
G. GIOIA - M. GRADI - L. IANNICELLI - R. MACCARRONE - R. MARENGO
R. MARTINO - G. MICCOLIS - G. NICOTINA - E. ODORISIO - G. OLIVIERI - I. PAGNI
A. PANZAROLA - L. PICCININNI - E. PICOZZA - R. POLI - G. RAITI - N. RASCIO
S. RECCHIONI - E. RUGGERI - P. SANDULLI - F. SANTANGELI - A. SCALA
G. SCARSELLI - N. SOTGIU - R.TISCINI - G. TRISORIO LIUZZI - S. ZIINO
SEGRETERIA DI REDAZIONE: F. CAPRI - A.NERI - A. PERIN - C. RIZZA
INDIRIZZOREDAZIONE: Viale Bruno Buozzi, 99 - 00197 Roma
E-MAIL: [email protected]
MILANO
REDATTORE CAPO: E. MERLIN
G . BATTAGLIA - M. BINA - G. CANALE - A. CASTAGNOLA - C. CAVALLINI
D. D’ADAMO - M. DANIELE - F. DANOVI - M. DE CRISTOFARO - L. DITTRICH
F. FERRARI - G. FINOCCHIARO - M. F. GHIRGA - M. GIORGETTI - A. GIUSSANI
M. GOZZI - G. GUARNIERI - A. HENKE - F. MARELLI - M. MARINELLI
E. MARINUCCI - R. MARUFFI - M. MONTANARI - R. MUNHOZ DE MELLO
M. NEGRI - N. NISIVOCCIA - P. P. PAULESU - T. PEZZANI
A. A. ROMANO - L. SALVANESCHI - T. F. SALVIONI - C. SPACCAPELO
A. TEDOLDI - M. C. VANZ - M. VANZETTI - D. VIGONI - A. VILLA
S. VILLATA - S. VINCRE - E. VULLO - E. ZANETTI
SEGRETERIA DI REDAZIONE: M. BINA - F. FERRARIS - R. MUNHOZ DE MELLO - M. ZULBERTI
INDIRIZZO REDAZIONE: Viale Bianca Maria, 15 - 20122 Milano
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INDICE DEL FASCICOLO
Anno LXXI (Seconda Serie) - N. 3 - Maggio-Giugno 2016
ARTICOLI
Carmine Punzi, Il principio di autosufficienza e il «protocollo d’intesa» sul ricorso in
cassazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 585
Lotario Dittrich, L’assunzione delle prove nel processo civile italiano . . . . . . . . . . . .
589
Andrea Panzarola, Il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova . . . . . . . . . .
610
Pier Paolo Paulesu, Riflessioni in tema di ne bis in idem europeo . . . . . . . . . . . . . .
637
Marcello Gaboardi, Trasferimento del processo in sede arbitrale e ruolo della volontà
nell’atto processuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
659
Giacomo Cardaci, Il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
683
STORIA E CULTURA DEL PROCESSO
Mario Pisani, Vittorio Grevi verso il diritto dell’esecuzione penale . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 713
DIBATTITI
Mauro Bove, La decisione nel processo del lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 721
Roberto Poli, Ricorso per cassazione improcedibile e sanabilità per raggiungimento
dello scopo: la questione torna alle Sezioni Unite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
738
ATTUALITÀ LEGISLATIVA
Concetta Marino, L’iscrizione a ruolo nel processo esecutivo riformato . . . . . . . . . . . Pag. 753
DIRITTO PROCESSUALE STRANIERO E COMPARATO
Antonio do Passo Cabral, Accordi processuali nel diritto brasiliano . . . . . . . . . . . . . . Pag. 773
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Opere segnalate: Massimo Ceresa-Gastaldo (G. Caneschi); Silvana Dalla Bontà (A.
Tedoldi); Filippo Danovi (A. Saletti); Antonio Didone (a cura di) (A. Cerrato);
Rivista di diritto processuale 3/2016
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II
indice del fascicolo n. 3/2016
Matteo Pacilli (G. Raiti), Gian Franco Ricci (C. Punzi); Shira A. Scheindlin,
Daniel J. Capra (G. Gioia); Aldo Schiavone (N. Nisivoccia) . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 794
NOTE ALLE SENTENZE
Elena Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel
giudizio di primo grado . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 816
Roberta Tiscini, Garanzia propria e impropria: una distinzione superata . . . . . . . . .
835
Laura Baccaglini, Sezioni specializzate per l’impresa e competenza per materia . . . .
857
Gina Gioia, Condanna generica, liquidazione del danno e beneficio di inventario.
868
Carlo Mancuso, Capacità espansiva del principio di scissione degli effetti della notificazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
886
SENTENZE
Domanda giudiziale, domanda di esecuzione di contratto preliminare ex art. 2932
c.c., passaggio a domanda di accertamento degli effetti del contratto definitivo
alla prima udienza di trattazione, ammissibilità, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., 15 giugno 2015, n. 12310 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 807
Chiamata in garanzia, distinzione tra garanzia propria e impropria, rilevanza ai fini
dell’applicazione degli artt. 32, 108 e 331 c.p.c., sussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., 4 dicembre 2015, n. 24707 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
827
Impugnazioni civili, chiamata in garanzia dell’assicuratore, sentenza di accoglimento
sia della domanda principale che della domanda di garanzia, impugnazione
dell’assicurazione su entrambi i capi, effetti anche nei confronti del soggetto
assicurato, sussistenza, necessità di impugnazione incidentale da parte dell’assicurato, insussistenza: Corte di Cassazione, sez. un. civ., 4 dicembre 2015, n.
24707 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
827
Sezioni specializzate per l’impresa, rapporto con la sezione lavoro del medesimo
ufficio giudiziario, natura di competenza, sussistenza, esperibilità del regolamento di competenza, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. VI civ., ordinanza
24 giugno 2015, n. 15619. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
851
Condanna generica e provvisionale, omessa eccezione di accettazione dell’eredità
con beneficio di inventario, deducibilità nella fase successiva di liquidazione
del quantum debeatur, insussistenza: Corte di Cassazione, sez. III civ., 9 aprile
2015, n. 7090 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
867
Condanna generica e provvisionale, necessità di accertamento dell’esistenza del
danno ai fini della pronuncia di condanna generica, sussistenza, accertabilità
in via sommaria e probabilistica, sussistenza: Corte di Cassazione, sez. III civ.,
9 aprile 2015, n. 7090 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
867
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sommario
Notificazione, regola di scissione degli effetti della notificazione per il notificante e il
destinatario, applicabilità ai fini del verificarsi dell’effetto dell’interruzione
della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale, applicabilità, limiti, decorrenza dell’effetto dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario: Corte di
Cassazione, sez. un. civ., 9 dicembre 2015, n. 24822 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
III
882
PANORAMI
Niccolò Nisivoccia, Osservatorio sulla Corte costituzionale (processo civile: 18 marzo 30 aprile) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
899
Paolo Bertollini, Osservatorio sulla Cassazione Civile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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ARTICOLI
IL PRINCIPIO DI AUTOSUFFICIENZA E IL «PROTOCOLLO
D’INTESA» SUL RICORSO IN CASSAZIONE
È certo una novità del ventunesimo secolo la regolamentazione «pattizia» della forma e del contenuto del ricorso per cassazione.
Questa regolamentazione «pattizia» si inserisce nel regime legale del
ricorso per cassazione, qual è previsto in particolare dagli artt. 365 e 366
c.p.c., e ne completa la disciplina.
Parlo di regolamentazione «pattizia» perché essa trova la sua fonte in
un «protocollo d’intesa» tra la Corte di cassazione ed il Consiglio Nazionale Forense, in persona, rispettivamente, del Primo Presidente Santacroce
e del Presidente del C.N.F. Mascherin, sottoscritto in data 17 dicembre
2015, che ha avuto ad oggetto, come precisa il suo stesso titolo, le «regole
redazionali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria», che sono
presentate nella forma di «raccomandazioni».
Il «protocollo» non è stato imposto dall’esistenza di una lacuna normativa.
Si ammette, infatti, nella sua stessa premessa, che si era riscontrata la
«difficoltà di definire (...) il senso e i limiti» del «c.d. principio di autosufficienza» non fissato in una norma di legge, bensı̀ affermato dalla giurisprudenza e che il «sovradimensionamento degli atti difensivi di parte» era
frutto, almeno in parte, «proprio della ragionevole preoccupazione dei
difensori di non incorrere nelle censure di inammissibilità per difetto di
autosufficienza».
E che non si dovesse intervenire per colmare una lacuna normativa,
ma, piuttosto, per definire i limiti del principio di autosufficienza, è dimostrato non solo da queste chiare premesse del «protocollo», ma anche dal
semplice richiamo dei dati normativi qui rilevanti.
Il vero è che una disciplina positiva della forma e del contenuto del
ricorso per cassazione esiste nel codice del 1942 ed è contenuta nell’art.
366 c.p.c. e, per la sottoscrizione del ricorso, nell’art. 365 c.p.c.
Inoltre, per la formulazione dei motivi di ricorso, il d.lgs. n. 40/2006
aveva inserito un art. 366 bis c.p.c., abrogato poi dalla l. n. 69/2009, nel
quale era prevista la necessità della formulazione del «quesito di diritto».
Lo stesso art. 366 bis c.p.c. stabiliva, in particolare, che, nel caso
dell’art. 360, comma 1˚, n. 5, c.p.c. ciascun motivo doveva contenere «a
pena di inammissibilità la chiara indicazione del fatto controverso in rela-
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zione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le
ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende
inidonea a giustificare la decisione».
Ormai abrogato l’art. 366 bis c.p.c. è al solo art. 366 c.p.c. che si deve
far riferimento. E, ai fini che qui interessano, diventa rilevante il n. 6 di
questo articolo, che riguarda la «specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti e accordi collettivi sui quali il ricorso si
fonda», nonché il n. 3 ed il n. 4, che riguardano, rispettivamente, «l’esposizione sommaria dei fatti di causa» nonché i «motivi per i quali si chiede
la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano».
Orbene, né la disciplina originaria del codice del 1942, né tantomeno
la normativa precaria, destinata al rapido tramonto, del d.lgs. n. 40/2006,
potevano giustificare una regola di autosufficienza, qual è stata formulata
in via esclusiva ed autonoma dalla Corte di cassazione.
Non v’è, infatti bisogno di spendere soverchie parole per dimostrare
che la «specifica indicazione» di atti processuali, documenti, accordi e
contratti, che si legge nell’art. 366 c.p.c., non significa affatto «l’integrale
riproduzione» e «trascrizione» di questi atti, sicché la prescrizione legislativa che impone «a pena di inammissibilità» quella «specifica indicazione»
non permette affatto, poi, di estendere la stessa sanzione di inammissibilità
all’omessa integrale trascrizione di atti, documenti e verbali d’udienza,
come ha fatto la giurisprudenza (1), solo con un benevolo temperamento
nel senso di riconoscere rispettato tale precetto anche quando la riproduzione integrale degli atti fosse stata effettuata con l’inserimento nel ricorso
di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito (2).
Quella che gli stessi autorevoli autori del «protocollo» hanno definito
«ragionevole preoccupazione dei difensori di non incorrere» nella sanzione
di inammissibilità per violazione del principio di autosufficienza, quando
fosse stata omessa l’integrale trascrizione degli atti, aveva portato a conseguenze assurde, come la trascrizione, in un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, di tutti gli atti del giudizio di merito: dall’atto di
citazione alla comparsa di risposta, dall’atto di citazione del terzo chiamato
in causa alla comparsa di costituzione di questo (3).
E, dunque, in conclusione, il «protocollo» è intervenuto non per colmare una lacuna legislativa, bensı̀ per correggere un’interpretazione giuri-
(1) Addirittura sino ad epoca successiva alla sottoscrizione del «protocollo d’intesa», v.
Cass. 3 febbraio 2016, n. 20936 e Cass. 24 febbraio 2016, n. 3610.
(2) V. Cass., sez. un., 24 febbraio 2014, n. 4324.
(3) V. Cass. 9 settembre 2010, n. 19255.
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principio di autosufficienza e il «protocollo d’intesa»
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sprudenziale che aveva certamente creato difficoltà per gli avvocati, che
operavano sotto l’incubo della «censura di inammissibilità per difetto di
autosufficienza», ma anche per i magistrati della Cassazione, il cui lavoro
veniva appesantito dal conseguente «sovradimensionamento degli atti difensivi».
In questo «protocollo di intesa» vengono previste, quindi, le «raccomandazioni» per la redazione dei ricorsi, con fissazione anche di un limite
massimo di 5 pagine per la descrizione dello svolgimento del processo, che
deve essere «sommaria» in osservanza dell’art. 366, comma 1˚, n. 3, c.p.c.
nonché «funzionale alla percepibilità delle ragioni poste a fondamento
delle censure poi sviluppate nella parte motiva» e di 30 pagine per l’esposizione sommaria delle argomentazioni a sostegno dei motivi di censura,
motivi di cui deve essere offerta anche una sintesi, racchiusa in non più di
alcune righe, con indicazione delle norme di legge violate e dei temi
trattati.
Il protocollo si conclude con un opportuno chiarimento, che costituisce un evidente revirement rispetto al precedente orientamento della Corte
di cassazione, in ordine al principio di autosufficienza, e cioè la precisazione che tale principio «non comporta un onere di trascrizione integrale
nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi
venga fatto riferimento».
Viene precisato ulteriormente che tale principio deve ritenersi rispettato quando:
a) ciascun motivo di ricorso risponde al «criterio di specificità» imposti dal codice;
b) nel testo di ciascun motivo sia indicato l’atto o il documento e la
parte di esso per cui il motivo si fonda, nonché il tempo e la fase del
procedimento in cui il suo deposito è avvenuto.
Vi è, infine, la novità del «fascicoletto», che deve contenere – a mio
avviso necessariamente in copia – gli atti o i documenti ai quali si fa
riferimento nel ricorso o nel controricorso.
Questo «fascicoletto», la cui funzione è palesemente di permettere al
giudice di consultare tutti i documenti ai quali il ricorrente fa riferimento
nel ricorso, senza doverli ricercare nei fascicoli delle fasi di merito, spesso
ponderosi, deve essere depositato unitamente al ricorso e si aggiunge ai
fascicoli degli atti di parte delle fasi di merito, il cui deposito è richiesto a
pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c.
La dottrina che, in epoca recentissima, si è occupata del «protocollo»,
ha avuto modo di osservare che si tratta di previsioni del tutto ragionevoli
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«ma che possono valere come vive raccomandazioni, non come precetti
legali» (4).
Altri interpreti sembrano sostenere la cogenza delle prescrizioni del
«protocollo».
A mio avviso si tratta certamente di «raccomandazioni» per gli avvocati che devono redigere ricorso e controricorso, ma, pur se non possono
essere considerati certamente come «precetti legali» per i giudici, dovrebbero comunque operare come criterio per la corretta formulazione e applicazione da parte della giurisprudenza del principio di autosufficienza.
Principio che non deve essere deformato e stravolto riducendolo a mero
strumento per alleggerire il carico giudiziario della Corte di cassazione, ma
deve essere ricondotto alla sua funzione genuina, che il legislatore aveva
prefigurato nella formulazione dell’art. 366 del codice di rito: e cioè che i
motivi di ricorso fossero formulati in forma tale che la loro semplice lettura
permettesse di comprendere qual è la censura proposta e su quali elementi
e documenti viene fondata.
Ed è cosı̀ che la Corte di cassazione, originata certamente dall’esigenza
storica di «assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della
legge» (5), può e deve adempiere integralmente la sua funzione che, come
ricorda l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario (r.d. 30 gennaio 1941, n. 12),
è di «organo supremo della giustizia», capace, quindi, di rispondere alla
domanda di giustizia dei cittadini, assicurando anche, nel giudizio di cassazione, quel «giusto processo» che viene garantito in ogni fase e grado
dall’art. 111 della Costituzione della Repubblica.
CARMINE PUNZI
(4) V. F. Carpi, La redazione del ricorso in cassazione in un recente protocollo, in Riv.
trim. dir. proc. civ. 2016, 362. Nello stesso senso, v. M. Finocchiaro, Nuova interpretazione
del principio di autosufficienza, in Guida dir. 2016, 4, 29, il quale, tuttavia, afferma che
sarebbe legittimo per i singoli collegi «disattendere le raccomandazioni in parola ed esigere,
comunque, la trascrizione integrale nel ricorso o nel controricorso degli atti o documenti ai
quali si fa riferimento in ricorso». L’a. aggiunge che sarebbe onere del ricorrente e del
controricorrente depositare «in più copie» anche il «fascicoletto». La tesi secondo cui «i
fatti processuali da riportare sono solo e soltanto quelli che possano avere una qualche
pertinenza con il giudizio di cassazione» e che l’omissione di tutti gli altri fatti processuali
«non comporta difetto sotto il principio di autosufficienza del ricorso» è sostenuta da G.
Scarselli, Note sulle buone regole redazionali dei ricorsi per cassazione in materia civile, in
Foro it. 2016, V, 61.
(5) Questa formula trova la sua origine nell’art. 86 del Regolamento organico della
giustizia civile e punitiva per il Regno d’Italia del 1806, che affermava che «la Corte di
cassazione è istituita per mantenere l’esatta osservanza della legge».
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L’ASSUNZIONE DELLE PROVE NEL PROCESSO CIVILE
ITALIANO (1)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Delimitazione dell’ambito dell’indagine. – 3. Le regole generali
in materia di assunzione dei mezzi di prova. – 4. L’ordine di ispezione e di esibizione. –
5. L’assunzione della prova testimoniale. – 6. La testimonianza scritta. – 7. La «testimonianza» della parte: l’interrogatorio libero. – 8. Segue: l’interrogatorio formale. – 9.
Segue: il giuramento. – 10. La consulenza tecnica e l’introduzione di nuove circostanze
di fatto e di nuovi elementi di prova – 11. Le modalità di assunzione e di controllo della
consulenza tecnica. – 12. Conclusioni.
1. – Nell’ambito degli studi continentali sulle prove la parte dedicata
alle modalità di assunzione è certamente ancillare rispetto ai concetti fondamentali su cui si è costruita la teoria generale delle prove nel processo
civile: e mi riferisco in particolare ai ben noti dibattiti in ordine al potere
istruttorio d’ufficio del giudice, e dunque all’esistenza o meno di una
signoria delle parti sulle prove (concetti riassunti nelle note formule di
Untersuchungmaxime e Verhandlungsmaxime), nonché, ancor prima, nella
identificazione dello stesso oggetto del processo, che si concepisce come
un momento anteriore ed autonomo rispetto alla raccolta dei mezzi istruttori.
Si tratta tra l’altro di una distinzione che trova più di un eco nell’ambito dei codici di rito di origine napoleonica, ove la parte di «diritto
naturale» delle prove, avente ad oggetto in particolare la definizione dei
mezzi istruttori e il loro oggetto, è tradizionalmente disciplinata nel codice
civile, mentre le modalità di assunzione, che si vogliono per definizione
mutevoli e transeunti, trovano la loro sede nel codice di diritto processuale
civile: quasi a significare che le modalità di somministrazione della prova
sono questione meramente tecnica, che non influisce direttamente sulla
struttura del processo.
Sembrerebbe allora che trattare delle modalità di assunzione delle
prove significhi trattare gli argomenti secondari, o addirittura ancillari,
quali le modalità di verbalizzazione delle prove costituende, la conduzione
delle udienze di prova, e altri istituti di simile portata.
In realtà, le cose stanno diversamente.
(1) Questo contributo riproduce, con alcune modifiche, la relazione svolta al Max
Planck Institute Luxembourg for Procedural Law dal titolo «L’administration de la preuve
en droit de la procédure civile italienne», destinato alla pubblicazione nel volume, di prossima edizione, dal titolo L’office du juge. Études de droit comparé, a cura di C. Chainais, B.
Hess, A. Saletti et J.-Fr. van Drooghenbroeck.
Rivista di diritto processuale 3/2016
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Già gli scritti di Chiovenda (2) avevano sottolineato la stretta connessione esistente tra le modalità, scritta od orale, di svolgimento della trattazione e dell’istruzione del processo con la sua efficienza ed idoneità a
raggiungere una decisione giusta.
Si deve poi a Bruno Cavallone, nel suo saggio non a caso titolato «La
crisi delle Maximen e disciplina dell’istruzione probatoria» (3), la negazione
dell’efficacia anche solo descrittiva dei principi del Untersuchungsmaxime
e Verhandlungsmaxime per descrivere l’effettivo funzionamento dell’istruzione probatoria; in particolare, giustamente questo autore ha sottolineato
che l’efficienza dell’istruzione probatoria dipende molto più dalle concrete
modalità di assunzione delle prove, piuttosto che dai principi generali in
ordine ai poteri ufficiosi del giudice o alle discussioni in ordine al diritto
alla prova.
Fiumi di inchiostro sono stati scritti in ordine all’esistenza (secondo
alcuni: alla necessità) di poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice, e
all’importanza del loro esercizio anche nell’ottica (assai discutibile) di riequilibrio della posizione della parte più debole all’interno del processo;
eppure, chiunque abbia esperienza di processo sa bene che l’esercizio dei
poteri ufficiosi da parte dei giudici è, di fatto, irrilevante: e non per inerzia
dei magistrati, quanto per l’inevitabile conseguenza della natura stessa del
processo civile, il cui tessuto è strutturalmente composto da una materia
che è nella disponibilità delle parti. Anche i discorsi in ordine al diritto alla
prova, che pure hanno avuto molta fortuna nella dottrina europea, rimangono, al più, sullo sfondo dell’istruzione probatoria, non scalfendone invece le concrete modalità di attuazione.
Fornisce conferma di tale constatazione la circostanza che, laddove il
legislatore ha previsto la possibilità per il giudice di ammettere d’ufficio
«tutti i mezzi di prova», come è previsto nel processo del lavoro italiano
(2) Chiovenda, Lo stato attuale del processo civile in Italia e il progetto Orlando di
riforme processuali, in Riv. dir. civ. 1910, 35 e ss., poi anche in Saggi di diritto processuale
civile, I, Roma 1931, 412 (ma si vedano anche dello stesso A. la Relazione sul progetto di
riforma del procedimento elaborato dalla commissione del dopoguerra, Napoli 1921, ora in
Saggi di diritto processuale civile, Roma 1931, vol. II, 12 e ss.; L’oralità e la prova, in questa
Rivista 1924, I, 5 e ss., ripubblicato con il titolo Sul rapporto fra le forme del procedimento e
la funzione della prova (l’oralità e la prova), in Saggi, cit., II, 197 e ss.; il pensiero del Maestro
era stato poi ripreso in particolare da Cappelletti nella sua celebre monografia dal titolo La
testimonianza della parte, Milano 1962, I, 181. Si tratta di una corrente di pensiero che, in
ultimo, si rifà a Bentham, Traité des preuves judiciaires, ouvrage extrait des manuscrits par Et.
Dumont, Paris 1823, 239 e ss.
(3) Cavallone, La crisi delle Maximen e disciplina dell’istruzione probatoria», ora in Il
giudice e la prova nel processo civile, Padova 1991, p. 289.
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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(art. 421 c.p.c.), la giurisprudenza ha assunto atteggiamenti assai prudenti,
e comunque sempre attenti ad escludere l’utilizzo della scienza privata del
giudice e a tenere vincolato il giudice alle allegazioni delle parti. A commento di tale disposizione, il mio indimenticato maestro, Giuseppe Tarzia,
aveva giustamente ritenuto che il giudice potesse esercitare tali poteri
utilizzando l’«intero materiale di causa, anche se nessuna delle parti lo
abbia ‘valorizzato’ come strumento per l’identificazione di queste ulteriori
fonti di prova», con divieto di utilizzazione della sua «c.d. scienza privata,
ossia della conoscenza, che dei fatti della causa abbia acquisito al di fuori
del processo» (4).
La verità è dunque che, volendo prescindere dagli slogan di cui talvolta si innamora la dottrina, la concreta attitudine del processo ad avvicinarsi ad una corretta ricostruzione del thema probandum dipende, in
maniera determinante, proprio dalle modalità di assunzione della prova.
Ed è infatti proprio nel momento dell’assunzione della prova che il
giudice si trova a contatto diretto con le fonti rilevanti per il proprio
convincimento: ed è a quel momento che bisogna riferirsi per valutare
l’ampiezza dei poteri istruttori del giudice e la concreta attitudine del
processo di avvicinarsi alla pur sempre mitica verità processuale.
È dunque in questa prospettiva che proponiamo qui una veloce carrellata delle modalità di assunzione delle principali prove nel processo
civile italiano; un’indagine questa che, nelle intenzioni di chi scrive, servirà
a delineare entro che limiti il giudice italiano sia ammesso a collaborare
con le parti nella verificazione probatoria del thema probandum (5).
Nella trattazione che segue faremo spesso un riferimento alle IBA
Rules on the Taking of Evidence in International Arbitration, approvate
dall’International Bar Association Council il 29 maggio 2010. Si tratta,
come è noto, di una sorta di corpus autonomo di regole in materia di
prova nel processo arbitrale, che nasce dall’iniziativa privata dell’International Bar Association (6) e che è divenuta uno standard nell’ambito del-
a
(4) Tarzia, Dittrich, Manuale del processo del lavoro, 4 ed., Milano 2015, p. 168.
(5) Le trattazioni in materia di prove nella dottrina italiana sono ovviamente numerosissime. Citeremo nel prosieguo i contributi ai quali più puntualmente faremo riferimento;
per una panoramica generale, anche per gli ulteriori
assai ampi riferimenti bibliografici, sia
a
lecito qui il rinvio a Comoglio, Le prove civili, 3 ed., Torino 2010, passim.
(6) Questa è la definizione che si legge dell’IBA nel sito istituzionale: «The International Bar Association (IBA), established in 1947, is the world’s leading organisation of international legal practitioners, bar associations and law societies. The IBA influences the development of international law reform and shapes the future of the legal profession throughout the
world. The Association has a membership of more than 80,000 individual lawyers and more
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l’arbitrato internazionale. È questa una disciplina molto articolata, frutto
della particolare esperienza dell’arbitrato internazionale, che codifica prassi probatorie ritenute efficaci dalla pratica internazionale. Utilizzeremo tali
norme come una sorta di riferimento alle migliori pratiche disponibili, per
misurarne la distanza rispetto alle modalità di assunzione delle prove del
processo civile italiano.
2. – Prima di proseguire è però necessario porre alcuni confini al
nostro discorso.
In primo luogo, non parleremo del principio dell’onere della prova
(art. 2697 c.c.), che attiene o alla introduzione della prova, distribuendo il
relativo carico, o alla successiva fase di decisione, ove si traggono le conseguenze dal mancato assolvimento dell’onere. Si tratta di argomenti che
solo marginalmente riguardano il tema dell’assunzione della prova.
In secondo luogo, non tratteremo delle modalità di assunzione della
prova nei processi sommari, ed in particolare nel processo cautelare. In
quella sede la deformalizzazione dell’istruzione probatoria si compendia
nelle «sommarie informazioni» che il giudice può assumere prima di decidere (art. 669 sexies c.p.c.): una nozione questa troppo vaga per trarne
utili suggestioni sistematiche, e che comunque presuppone la compiuta
definizione degli strumenti probatori ordinari (7).
Non parleremo infine, in questa sede, dell’assunzione delle prove all’estero: si tratta infatti di un argomento che, per la più parte, riposa
sull’applicazione di norme sovranazionali, quali in particolare quelle dettate dalla Convenzione dell’Aja del 18 marzo 1970 sull’assunzione di prove
all’estero in materia civile e commerciale (l. 24 ottobre 1980, n. 745, in
vigore per l’Italia dal 21 agosto 1982) e, in ambito comunitario, dal reg.
CE n. 1206/2001 del 28 maggio 2001. Si tratta non solo di una materia
specialistica, ma anche di un argomento che, in realtà, presuppone la
conoscenza della disciplina interna applicabile in materia di assunzione
di prove, in particolare per quanto attiene l’ambito europeo, ove l’art.
10 del Reg. cit. è molto chiaro nel prevedere che «l’autorità giudiziaria
richiesta dà esecuzione alla richiesta applicando le leggi del proprio Stato
membro».
than 190 bar associations and law societies spanning over 160 countries, and has considerable
experience in providing assistance to the global legal community».
(7) Sull’istruzione in materia cautelare si può rinviare, per una prima panoramica, a
Salvaneschi,
La domanda ed il procedimento, in Il processo cautelare a cura di G. Tarzia e A.
a
Saletti, 4 ed., Padova 2011, p. 389 e ss.
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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3. – Il primo gruppo di norme che vengono alla mente parlando di
modalità di assunzione della prova sono quelle dettate in generale sull’uso
della lingua nazionale e sulle modalità di verbalizzazione (artt. 122 e
ss. c.p.c.).
Si tratta di regole sulle quali ben raramente ci si sofferma, essendo
ritenute di mero ordine processuale: mi riferisco in particolare all’uso della
lingua italiana e alla correlata possibilità di nominare un interprete da
parte del giudice (art. 122 c.p.c.); alla possibilità di nominare un traduttore
quando i documenti prodotti non siano scritti in lingua italiana; alle modalità di redazione del verbale (art. 126 c.p.c. e art. 207 c.p.c.) (8).
Queste norme, pur nella loro apparente modestia, meritano però una
riflessione.
In primo luogo, l’uso della lingua italiana, soprattutto per quanto
riguarda la fase istruttoria, non pare affatto scontato. Sempre più la documentazione contrattuale e i relativi documenti sono redatti in una lingua
diversa dall’italiano, di regola l’inglese; e non è affatto secondario, anche
dal punto di vista costituzionale, che il giudice non sia in grado di comprendere la lingua in cui sono scritti i documenti offerti in prova dalle
parti. Né è sempre possibile, e neanche auspicabile, l’utilizzo del traduttore o dell’interprete: in primo luogo, perché ciò comporta in ogni caso un
allontanamento del giudice dalla fonte di prova, ed in secondo luogo
perché ciò richiede tempi e costi talvolta proibitivi, con lesione del principio costituzionale del giusto processo da rendersi in un tempo ragionevole.
Si tratta ovviamente di un tema che è a cavallo tra l’istruzione probatoria e
l’ordinamento giudiziario, dovendosi richiedere – e forse pretendere – che
i giudici siano a conoscenza almeno della lingua inglese, e che, in ogni
caso, in presenza di una lite che comporti l’esame di documenti o di
testimoni in una lingua diversa dall’italiano, la nomina del giudice tenga
conto della necessità di una sua specifica preparazione.
Ancor più interessanti sono le osservazioni da fare in ordine alla verbalizzazione delle prove. L’art. 126 c.p.c. prevede che «il processo verbale
deve contenere l’indicazione delle persone intervenute delle circostanze di
luogo e di tempo nelle quali gli atti che documenta sono compiuti; deve
(8) Non è un caso che i più autorevoli contributi in tema di traduttore ed interprete e
di verbale di cause sono dovuti proprio alla penna di Bruno Cavallone, strenuo difensore
della natura giuridica dell’istruzione probatoria e cultore delle norme positive che ne regolano il funzionamento: cfr. Cavallone, Discrezionalità del giudice civile nella nomina del
traduttore o dell’interprete, in Il giudice e la prova, cit., p. 263 e ss.; Id., voce Processo verbale
nel diritto processuale civile, in Digesto disc. priv., sez. civ., XV vol., Torino 1997, p. 299.
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inoltre contenere la descrizione delle attività svolte e delle rilevazioni fatte,
nonché le dichiarazioni ricevute. – Il processo verbale è sottoscritto dal
cancelliere. Se vi sono altri intervenuti, il cancelliere, quando la legge non
dispone altrimenti, da loro lettura del processo verbale». Tale disposizione
è poi integrata, per quanto attiene specificamente all’assunzione dei mezzi
di prova, dall’art. 207 c.p.c., secondo il quale «dell’assunzione dei mezzi di
prova si redige processo verbale sotto la direzione del giudice. – Le dichiarazioni delle parti e dei testimoni sono riportate in prima persona sono
lette al dichiarante. – Il giudice, quando lo ritiene opportuno, nel riportare
le dichiarazioni descrive il contegno della parte del testimone».
Si tratta di norme che descrivono una modalità ottocentesca di registrazione degli eventi processuali. Tralasciamo il fatto che il cancelliere,
quale ausiliare del giudice, non interviene più nei processi civili se non in
casi rarissimi, demandandosi cosı̀ il controllo del verbale e la sua stessa
formazione esclusivamente al giudice; ciò che veramente rileva però è che
oggi la disponibilità di tecnologie di video registrazione a costi irrisori e ad
altissima affidabilità fa apparire la redazione del processo verbale come
una procedura di altri tempi.
Si tratta evidentemente della manifestazione normativa di una arretratezza organizzativa e culturale, che non rimane priva di conseguenze sull’efficacia del processo, ed in particolare della sua fase istruttoria. Si pensi
infatti a quanto sia diversa la verbalizzazione effettuata per sunto da parte
del giudice rispetto ad una videoregistrazione integrale, completa delle
domande e delle risposte del teste o della parte; né si deve trascurare
l’impatto che tale modalità di verbalizzazione ha sulle modalità di assunzione delle prove e dunque nella spontaneità dei deponenti: testi, giudice
ed avvocati possono infatti interagire liberamente, senza le pause rese
necessarie dalla redazione del sunto e dalla sua scrittura manuale. Ne
beneficerà ovviamente la spontaneità della deposizione e l’efficacia dell’interrogatorio.
4. – Venendo ai singoli mezzi di prova, l’istituto che per primo viene in
esame è l’«ordine di ispezione di persone e di cose», come prevede l’art.
118 c.p.c., secondo il quale «il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di
consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che
appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa
compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli
a violare uno dei segreti previsti negli artt. 351 e 352 del codice di procedura penale». Il rinvio alle norme del codice penale all’epoca vigente
deve oggi essere inteso agli artt. 200, 201 e 202 c.p.p., che disciplinano
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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rispettivamente il segreto professionale, il segreto d’ufficio e il segreto di
Stato (9).
Gli stessi limiti dettati per l’ispezione sono richiamati dall’art. 210
c.p.c. per l’ammissione dell’esibizione, che consiste nell’istanza al giudice
di «ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento
o altre cose di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo» (art. 210
c.p.c.); il giudice può poi «richiedere d’ufficio alla pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo».
L’ispezione è oggi istituto raro, quantomeno nella sua forma originaria
di sopralluogo del giudice sul luogo: ed invero, la possibilità di ottenere
una efficace rappresentazione dei luoghi tramite l’utilizzo di strumenti
rappresentativi, quali fotografie o registrazioni audiovisuali, ha reso usuale
la delega di tale attività ad un consulente tecnico nominato d’ufficio.
La distinzione tra ispezione ed esibizione risiede fondamentalmente
nella natura dell’oggetto da cui si vuole trarre la prova: sarà soggetto ad
esibizione ciò che può essere agevolmente custodito in cancelleria, mentre
sarà soggetto a ispezione ciò che, per le sue dimensioni e caratteristiche
fisiche, non può essere agevolmente trasportato e custodito.
Proprio tale particolarità rende ragione del fatto che anche in materia
di produzione documentale vi sono fattispecie che possono più agevolmente essere ricondotte all’ispezione, piuttosto che alla esibizione: si faccia
l’esempio della esibizione di copia del documento e dei libri di commercio,
prevista dall’art. 212 c.p.c., ove è previsto che «nell’ordinare l’esibizione di
libri di commercio o di registri al fine di strane determinate partite, il
giudice, su istanza dell’interessato, può disporre che siano prodotti estratti,
per la formazione dei quali nomina un notaio e, quando occorre, un
esperto affinché lo assista». È qui chiaro che ci troviamo di fronte a un
fenomeno quasi indistinguibile rispetto ad una ispezione effettuata da un
consulente tecnico.
Sia l’esibizione sia l’ispezione definiscono in realtà un procedimento di
assunzione della prova precostituita, che si trova prima e fuori del processo: le analogie con i classici mezzi di prova costituendi (prova testimoniale, interrogatorio della parte) sono, da questo punto di vista, evidenti,
poiché in tutti questi casi è necessario un procedimento per acquisire agli
atti del processo una prova che esiste prima e fuori del processo stesso.
(9) Sul tema si può rinviare a Volpino, L’ispezione nel processo civile, Padova 2012;
Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, Milano 2003, oltre alla classica
monografia di La China, L’esibizione delle prove nel processo civile, Milano 1960.
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Tale rilievo diviene particolarmente evidente quando si osserva che
ispezione ed esibizione sono soggetti ambedue al limite dei segreti previsti
dal codice di procedura penale, al pari di quanto avviene per la prova
testimoniale; non è infatti un caso che Carnelutti, nel suo Progetto del
codice di procedura civile (10) con la consueta lucidità, aveva disciplinato
unitariamente i presupposti per l’ammissione e l’assunzione di tutti questi
istituti.
Non è qui il caso di soffermarsi sull’opponibilità dei segreti tutelati in
sede di assunzione della prova: si tratta infatti di istituti che, pur soggetti
ad inevitabili variabili storiche e locali, si rinvengono in tutte le legislazioni
positive.
Merita invece di essere velocemente indagato in tema del «grave danno», la cui potenziale esistenza esclude l’ammissibilità sia dell’ispezione sia
dell’esibizione (11).
Giustamente si è osservato come tale limite si presenti, nella giurisprudenza, come residuale, tanto da apparire sostanzialmente teorico; per contro, è lecito ritenere che non poche siano le situazioni ove dall’esperimento
dell’attività istruttoria possa effettivamente derivare un grave danno alla
parte. Si tratta, in particolare, di quelle situazioni in cui, tramite l’ordine di
esibizione, possano venire divulgate informazioni riservate, la cui pubblicazione possa comportare danni non solo alla persona (ipotesi questa in
realtà residuale) ma soprattutto al patrimonio della parte incisa dal provvedimento. Si pensi per esempio a documenti che riguardano processi
industriali, caratterizzati da un know how riservato, o che abbiano ad
oggetto strategie di marketing o informazioni commerciali, quali, per esempio, elenchi di clienti, e cosı̀ via. Il problema che si pone è che la valutazione in ordine all’esistenza dell’allegato danno può talvolta essere effettuata solo dopo l’acquisizione del documento, in un momento cioè in cui il
danno stesso si è già verificato. Non a caso infatti la prassi arbitrale,
codificata nelle già citate IBA Rules on the Taking of Evidence, ha previsto
per tale ipotesi la possibilità di demandare da parte del collegio arbitrale la
valutazione in ordine all’esistenza o meno di un pregiudizio derivante dalla
produzione del documento ad un esperto, che possa esaminare il documento e fornire una propria valutazione in merito rimanendo soggetto ad
un obbligo di riservatezza.
(10) Carnelutti, Progetto del codice di procedura civile presentato alla Sottocomissione
Reale per la riforma del Codice di Procedura civile, I, Padova 1926, p. 37 e ss.
(11) Si veda una panoramica delle divere opinioni in Volpino, L’ispezione nel processo
civile, cit., p. 93; Graziosi, L’esibizione istruttoria nel processo civile italiano, cit., p. 99 e ss.
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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È questa, se non erro, una situazione nella quale la valutazione in
ordine all’ammissibilità della prova si sovrappone con il procedimento
per la sua assunzione.
Il codice di rito civile non prevede un istituto consimile, ciò che
costituisce certamente un difetto dell’attuale normativa.
Occorre però ricordare che sia l’ordine d’ispezione sia quello di esibizione sono, nell’ordinamento italiano, assistiti da una ben modesta sanzione. Se infatti è la parte che non adempie all’ordine, nei suoi confronti si
formeranno «argomenti di prova», ovvero elementi che il giudice potrà
valutare nell’ambito del suo libero convincimento ai fini della decisione
della causa; se invece la mancata ottemperanza all’ordine è del terzo, nei
suoi confronti potrà essere comminata una pena pecuniaria da euro 250 ad
euro 1500. La giurisprudenza è inoltre salda nel ritenere che non sia
possibile utilizzare, come pure suggerito da parte della dottrina, strumenti
coercitivi nei confronti della parte o del terzo che rifiuti di adempiere
all’ordine, modellati sulla base dell’accompagnamento coattivo del testimone.
Si tratta, come è evidente, di un limite del sistema processuale italiano,
che è manifestazione del principio secondo il quale nemo tenetur edere
contra se. Nel processo civile continentale le parti sono per definizione
libere di trattenere il materiale probatorio che può favorire la controparte:
una differenza questa radicale rispetto ai sistemi anglosassoni, che conoscono invece il ben diverso istituto della disclosure.
Al fondo vi è evidentemente una diversa concezione del processo; ciò
premesso, è anche vero che chiunque abbia avuto modo di verificare il
funzionamento concreto della disclosure ben sa che, probabilmente, i costi
e i tempi di quell’istituto sono tali da scoraggiarne l’adozione.
5. – Quando ci si riferisce alle modalità di assunzione delle prove il
riferimento opera principalmente alle prove orali costituende, ed in particolare alla prova testimoniale.
Ancora recentemente sulle pagine di questa Rivista ho espresso il mio
assai critico punto di vista in ordine alle modalità concrete di assunzione
della prova per testimoni nel nostro ordinamento processuale (12).
(12) Di tali argomenti mi sono già occupato nel contributo La ricerca della verità nel
processo civile: profili evolutivi in tema di prova testimoniale, consulenza tecnica e fatto
notorio, in Riv. dir. proc. 2011, p. 107, al quale mi permetto di rinviare anche per ulteriori
riferimenti.
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rivista di diritto processuale 2016
In particolare, e senza voler qui ripetere quanto già scritto, è difficile
negare che le modalità di assunzione della prova testimoniale nel processo
civile ordinario sono quanto di più lontano possa immaginarsi rispetto
all’esigenza di accertare effettivamente la sincerità e l’accuratezza del testimone. La predisposizione e preventiva ammissione dei capitoli di prova
(cfr. art. 244 c.p.c.,), dai quali il giudice per primo si ritiene vincolato,
elimina sul nascere qualunque possibilità di effettiva indagine sulle risposte
del teste; l’assenza di una cross examination, ed anzi il divieto (!) per gli
avvocati di interrogare il teste escludono di fatto le parti dall’assunzione di
tale mezzo di prova; la verbalizzazione per sunto, in luogo della registrazione audio – video della deposizione non solo appesantisce l’assunzione
della prova, ma «traduce» la deposizione in un riassunto che inevitabilmente costituisce una pallida copia della deposizione resa dal teste.
Nessuna seria valutazione di credibilità è possibile su una prova assunta in tale maniera, che sopravvive solo in virtù della sua apparente
economicità: l’assunzione della testimonianza sui capitoli già ammessi
ben si presta ad essere svolta in modo burocratico e notarile, magari
delegandola ad un giudice onorario di tribunale, o addirittura (come da
uso invalso in alcuni fori) ai difensori stessi in assenza del giudice. La
capitolazione preventiva poi legittima implicitamente avvocati e giudici
ad ignorare i fatti, su cui la deposizione viene resa: la lettura del capitolo
già ammesso è sufficiente per l’assunzione della deposizione, con buona
pace di una effettiva escussione del teste.
Il sistema fondato su «articoli separati» ha condotto ad uno stilus
curiae che articola i singoli facta probanda in domande, alle quali deve
essere di regola possibile rispondere con una semplice affermazione o
negazione. Ovviamente, alla domanda «Vero che il tal fatto è accaduto?»
il teste è indotto a rispondere, laconicamente, con un «è vero», subito
tradotto in un più burocratico «confermo la circostanza di cui al capitolo».
Su tali deposizioni non è possibile effettuare alcun serio vaglio di
credibilità (13).
Desta sorpresa che un sistema siffatto possa ancora sopravvivere in un
periodo storico nel quale sofisticati sistemi di videoregistrazione sono or-
(13) Critiche consimili, per quanto forse meno severe, si possono leggere in Taruffo,
voce Prova testimoniale, in a Enc. del diritto, vol. XXXVII, Milano 1988, 752; secondo
Comoglio (Le prove civili, 3 ed., Torino 2010), invece, «la tecnica della c.d. capitolazione
(od articolazione) … assolve naturalmente anche una funzione garantistica di primaria
importanza, consentendo alla parte, nei cui confronti la prova sia dedotta, di difendersi
con adeguate possibilità di controdeduzione e di controprova» (corsivi dell’A.).
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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mai incorporati anche nei più economici computer; d’altro canto, basta
spostarsi in Spagna per constatare come ivi le udienze sono sempre videoregistrate e che la registrazione cosı̀ effettuata sostituisce integralmente la
verbalizzazione (14).
Merita infine menzione l’art. 257 c.p.c., in forza del quale «se alcuno dei
testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice
istruttore può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre»: è questa
una ulteriore manifestazione di come l’assunzione della prova può condurre
ad un ampliamento delle prove disponibili ad iniziativa d’ufficio. Questa
norma costituisce un ulteriore indice del fatto che i poteri ufficiosi del giudice
in materia di prove trovano modo di esplicarsi non in astratto, ma solo nel
diretto contatto con il materiale probatorio stesso da cui il giudice accorto
può trarre, senza violare il divieto di utilizzo della propria scienza privata,
informazioni utili per ulteriormente indirizzare l’istruttoria. Da questo punto
di vista, si può dire che la Untersuchungsmaxime può esistere solo nell’ambito
dell’assunzione delle prove, e non prima e fuori di essa.
6. – Occorre a questo punto occuparsi anche della testimonianza
scritta.
L’art. 257 bis c.p.c., introdotto sulla base di suggestioni provenienti
dall’esperienza francese in materia di attestations, ha introdotto l’istituto
della testimonianza scritta, in forza del quale il testimone, può «fornire,
per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere
interrogato» (15). La norma prevede dettagliatamente le modalità di assunzione della testimonianza, prevedendo addirittura che esse debbano
(14) È interessante osservare che in Spagna l’assunzione della prova testimoniale fosse
regolata del vecchio testo della Ley de Enjuiciamiento Civil in termini analoghi a quelli
dell’odierno codice di rito italiano. In proposito la dottrina ha rilevato che «En numerosas
ocasiones, se habı́a puesto en evidencia el sistema decimonónico del interrogatorio escrito, ası´
como también se habia denunciado la corruptela a que habı́a dado lugar en el foro, lo que
fomentó el descrédito de este medio de prueba y provocó que, incluso, laa partes llegaran a
prescindir de él por la inutilidad de su práctica»: cosı̀ Rodrı́guez Tirado, El interrogatorio de
testigo en la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, Madrid 2003, 86 e ss. A
questo testo si rinvia anche per gli opportuni riferimenti alla dottrina spagnola.
(15) La testimonianza scritta introdotta all’art. 257 bis c.p.c. e 103 bis disp. att. c.p.c.
dall’art. 46, comma ottavo, della l. 18 giugno 2009, n. 69, pare essere la definitiva consacrazione della burocratica ottusità del sistema di assunzione della prova testimoniale. Ed
infatti, come è noto, «la testimonianza scritta è resa su di un modello conforme al modello
approvato con decreto del Ministro della giustizia, che individua anche le istruzioni per la
sua compilazione» (art. 103 bis disp. att. c.p.c.): modello scritto che è stato infatti approvato
con decreto del Ministro della Giustizia 17 febbraio 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 49 del 1 marzo 2010.
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adeguarsi ad un modello approvato dal Ministro della giustizia, che individua anche le istruzioni per la sua compilazione (cfr. art. 103 bis disp. att.
c.p.c.). È poi previsto che «il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti
a lui o davanti al giudice delegato».
È chiaro che, nella concezione del legislatore italiano, la testimonianza
scritta si ponesse come una alternativa alla prova costituenda, fatta salva la
possibilità per il giudice di ordinare la comparizione personale del testimone; tale obiettivo è però fallito, poiché l’istituto ha conosciuto una
utilizzazione rarissima, determinata dal fatto che esso è ammissibile solo
«su accordo delle parti», e che questo di regola manca. Si tratta dunque di
una norma «nata morta», ed il cui utilizzo residuale contrasta con l’ampia
applicazione che le attestations hanno invece conosciuto in terra francese.
Occorre però dare atto che nella pratica è diffusa l’utilizzazione di
dichiarazioni provenienti da terzi prodotte in causa da una delle parti al
di fuori dallo schema normativo dell’art. 257 bis c.p.c.; esse sono state
ritenute ammissibili dalla corte di cassazione ed ascritte al novero delle c.d.
«prove atipiche», con ciò intendendosi le prove non disciplinate dal codice
civile o di procedura civile (16), la cui efficacia viene di regola riportata a
quella di mero argomento di prova.
Manca però nella dottrina e nella giurisprudenza italiane la percezione
che le dichiarazioni rese per iscritto dal possibile testimone prima e fuori
del processo ben possano integrarsi con la successiva fase giudiziale di
escussione del teste stesso. Anche questa è una prassi ben nota nell’ambito
dei procedimenti arbitrali internazionali, ove la testimonianza avanti al
collegio arbitrale è spesso (se non di regola) preceduta dalla produzione
di un affidavit firmato dal teste stesso e redatto a cura della parte che ne
chiede l’assunzione (si veda, per esempio, l’art. 4 delle IBA Rules). Si tratta
di una prassi condivisibile, ma solo nell’ottica di una successiva fase di
assunzione della prova in contraddittorio e senza limiti all’escussione del
teste, che viene cosı̀ valorizzata grazie alla disponibilità delle dichiarazioni
scritte già in una fase anteriore all’assunzione della prova (17).
(16) Si veda da ultimo, a conferma di un orientamento consolidato, Cass. 1˚ settembre
2015, n. 17392, secondo cui «il giudice può legittimamente porre a base del proprio
convincimento … gli scritti provenienti da terzi, [che] pur non avendo efficacia di prova
testimoniale, non essendo stati raccolti nell’ambito del giudizio in contraddittorio delle parti,
né di prova piena, sono rimessi alla libera valutazione del giudice del merito, e possono, in
concomitanza con altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia, fornire
utili elementi di convincimento, specie ove di essi sia stata provata la veridicità formale».
(17) Tale prospettiva è a tal punto remota nella mentalità degli operatori del diritto in
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7. – Una celebre monografia degli anni ’60 (18) aveva indicato, in una
prospettiva dichiaratamente chiovendiana e con il supporto di un’ampia
comparazione, nella testimonianza della parte il cardine di un sistema
incentrato sull’oralità processuale. In tale prospettiva, l’utilizzazione delle
dichiarazioni delle parti avrebbe dovuto essere valorizzata principalmente
in funzione istruttoria. Non c’è dubbio, d’altro canto, che l’evoluzione dei
sistemi processuali sia nel senso di valorizzare la testimonianza della parte,
parificandola, quantomeno sotto il profilo dell’assunzione, a quella del
teste, e sottoponendola alla libera valutazione del giudice.
Il sistema italiano è invece, da questo punto di vista, saldamente ancorato alla tradizione.
Sono disciplinati tre diversi istituti mediante i quali la parte può rendere dichiarazioni rilevanti ai fini probatori (19).
In primo luogo, il giudice può sempre disporre, anche d’ufficio, l’interrogatorio libero delle parti (o, come è definito dal codice, «non formale»: art. 117 c.p.c.). La somministrazione dell’interrogatorio libero, cosı̀
come la sua ammissione, è integralmente rimesso alla discrezionalità del
giudice; non solo infatti le parti non hanno il diritto di ottenere l’interrogatorio libero proprio o della controparte, ma i loro difensori non possono
neppure porre domande, essendo tale strumento rimesso esclusivamente
alla iniziativa del magistrato.
Quanto all’efficacia, l’art. 116, secondo comma, c.p.c. prevede che «il
giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli
danno» nell’ambito dell’interrogatorio non formale; come abbiamo già
Italia, che la cassazione, in una recente decisione, pur avendo dato atto del fatto che
l’avvocato della parte ben può sentire privatamente il testimone, atteso che «la previa
verifica di rilevanza e conducenza della informazione sui fatti del teste è compito del
difensore anche in sede civile», ha però ritenuto che vengano violate le norme deontologiche
laddove il professionista pretenda di provare la falsità della dichiarazione resa in giudizio
chiedendo l’assunzione dei colleghi e della segretaria di studio che avevano assistito al
colloquio «privato», di diverso tenore. In tale contesto, sarebbe difficile ritenere deontologicamente lecito il comportamento dell’avvocato che richieda al potenziale testimone la
redazione di un affidavit, destinato poi ad essere confermato in sede giudiziale: cfr. Cass.
27 ottobre 2011, n. 22380.
(18) Il riferimento è a Cappelletti, La testimonianza della parte, cit., p. 181. Sia Cappelletti sia Taruffo si rifanno espressamente a quella corrente di pensiero che si rifà a Bentham,
Traité des preuves judiciaires, ouvrage extrait des manuscrits par Et. Dumont, Paris 1823, 239
e ss.
(19) Per un tentativo di ricostruzione di un sistema di gerarchia delle prove orali
rappresentative nel nostro ordinamento si può rinviare, se si vuole, al mio I limiti soggettivi
della prova testimoniale, Milano 2000, p. 209 e ss.
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ricordato, gli argomenti di prova sono elementi che concorrono a formare
il convincimento del giudice, senza poter essere posti ad esclusivo fondamento della decisione. Può dunque dirsi che certamente le risposte date
all’interrogatorio libero hanno una valenza probatoria.
L’interrogatorio libero costituisce un incombente obbligatorio nel processo del lavoro e, in un ancora recente passato, era stato reso obbligatorio
anche nel processo civile ordinario.
Si tratta di un istituto dal carattere ambiguo (autorevolmente si è
ritenuto che si tratti di un mezzo di prova di «incertezza veramente esemplare») (20): da una parte infatti esso svolge la funzione di chiarimento
delle allegazioni, e dunque delle domande e delle eccezioni delle parti;
dall’altro, esso ha anche una funzione probatoria, potendo condurre alla
formazione di argomenti di prova, che possono sia giovare sia nuocere alla
parte che rende la dichiarazione; infine, lo stesso legislatore ne sottolinea la
funzione conciliativa.
Nella prassi, formatasi prevalentemente nel processo del lavoro, ove
l’interrogatorio libero è obbligatoriamente posto come incombente preliminare alla istruzione probatoria e alla trattazione della causa (cfr. art. 420
primo comma c.p.c.) esso è funzionalmente correlato al tentativo di conciliazione che obbligatoriamente il giudice deve porre in essere; in quel
contesto, per vero, la valorizzazione in chiave probatoria dell’istituto è
infrequente: l’ambiguità sulla sua funzione porta infatti gli operatori del
diritto a disconoscerne le potenzialità istruttorie.
8. – A differenza dell’interrogatorio libero, ha invece carattere esclusivamente probatorio l’interrogatorio formale delle parti, disciplinato dall’art. 230 c.p.c.
Anche tale interrogatorio, come quello del teste, deve essere «dedotto
per articoli separati e specifici», che devono essere preventivamente approvati dal giudice; è sempre il giudice che deve «procedere all’assunzione
dell’interrogatorio nei modi e termini stabiliti nell’ordinanza che la mette»;
infine, è previsto che «non possono farsi domande su fatti diversi da quelli
formulati nei capitoli, a eccezione delle domande su cui le parti concordano e che il giudice ritiene utili; ma il giudice può sempre chiedere
chiarimenti opportuni sulle risposte date» (cosı̀ l’art. 230 c.p.c.).
La funzione di tale istituto secondo la giurisprudenza ormai da tempo
consolidata, andrebbe rinvenuta nel vincolo funzionale che lo avvince alla
(20) Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano 1959, vol. I, p. 471.
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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confessione giudiziale che, secondo l’art. 228 c.p.c. è «spontanea o provocata mediante interrogatorio formale».
Se ne deduce, da parte della giurisprudenza (21), nonostante l’assennata opinione contraria di parte rilevante della dottrina (22), che sarebbe
esclusa l’ammissione di tale mezzo di prova nei confronti dei propri litisconsorti e, ovviamente, della parte stessa che chiede la prova, rimanendo
invece ammissibile solo nei confronti della propria controparte. Da questa
ricostruzione sistematica dell’istituto consegue anche che i possibili esiti
dell’interrogatorio formale oscillano tra un massimo di efficacia probatoria, nel raro caso in cui la parte interrogata confessi il fatto a sé sfavorevole
formando cosı̀ una prova legale contra se, e la assoluta irrilevanza probatoria della dichiarazione pro se.
Anche prescindendo da tali limiti, il formalismo di tale mezzo di prova
lo rende uno strumento assai poco utile per un’effettiva ricostruzione dei
fatti di causa: basti pensare che qui, alla pari di quanto abbiamo visto
accadere nell’ambito della prova testimoniale, i difensori delle parti, dopo
l’approvazione dei relativi capitoli, sono esclusi dalla formazione della
prova, che viene assunta dal giudice alla loro silenziosa presenza. Né
può tacersi che la preventiva cristallizzazione dei quesiti, dal cui testo lo
stesso giudice può divagare solo entro ristretti limiti, impedisce la costruzione di un dialogo effettivo con il soggetto escusso, con inevitabile nocumento all’efficacia di tale mezzo di prova.
9. – L’ultimo strumento mediante il quale è possibile sentire una delle
parti nell’ambito del processo civile è il giuramento, nelle sue due forme
del giuramento decisorio o suppletorio (art. 2736 c.c.). L’assunzione di tale
mezzo di prova passa ovviamente attraverso l’ammissione da parte del
giudice della formula del giuramento; successivamente la parte dovrà leggere la formula ammessa, preceduta dalla rituale dichiarazione di assunzione di responsabilità.
Si tratta, come è evidente, di uno strumento arcaico e di rarissima
utilizzazione, finalizzato a fornire una alternativa all’utilizzo meccanico
dell’onere della prova a carico della parte che non sia riuscita ad adempiere al relativo onere.
(21) Cfr. p.es. Cass. 30 gennaio 1995, n. 1088; Cass. 14 dicembre 1988, n. 6816.
(22) Il riferimento opera qui in particolare a Vaccarella, voce Interrogatorio delle parti,
in Enc. del diritto, XXII, Milano 1972 e, prima di lui, anche in un’ottica storica, Castellari,
Seconda appendice alle Pandette di Glük, libro XI, Milano 1903, passim.
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È ovvio che l’assunzione del giuramento vede il giudice in un ruolo
sostanzialmente notarile, essendo egli impossibilitato, dopo l’avvenuta approvazione della formula del giuramento, a qualunque intervento nel corso
dell’espletamento della prova.
10. – Questa panoramica delle modalità di assunzione della prova nel
processo civile italiano non sarebbe completa se non si facesse cenno alla
consulenza tecnica.
Nell’ordinamento processuale italiano la consulenza tecnica d’ufficio
non è valutata alla stregua di un mezzo di prova, pur essendo disciplinata
nella parte del codice di rito dedicata all’istruzione probatoria. Tale collocazione sistematica trova fondamento nell’idea che il consulente non
dovrebbe introdurre nel processo nuovi elementi di prova, attività questa
riservata alle parti o, in caso di poteri ufficiosi, al giudice, ma dovrebbe
limitarsi a fornire al giudicante elementi tecnici di valutazione dei fatti già
aliunde acquisiti in causa.
Nello stesso ordine di idee, non è ammessa nell’ordinamento italiano la
c.d. expert witness, ovvero l’assunzione del consulente della parte nelle
forme della prova testimoniale: un istituto questo nato nella prassi nordamericana, ove tiene luogo alla consulenza tecnica d’ufficio, e che è diffusa
nell’ambito arbitrale (cfr. p. es. l’art. 5 delle già citate IBA Rules on the
Taking of Evidence, ove è espressamente previsto che «una parte può
avvalersi di un consulente tecnico di parte mezzo di prova su questioni
specifiche» e che «entro il termine fissato dal tribunale arbitrale (i) ciascuna parte identificherà il consulente tecnico di parte della cui testimonianza intende avvalersi e l’oggetto di tale testimonianza, e (ii) il consulente
tecnico di parte presenterà una relazione tecnica).
È comunemente accettato che l’idea di un consulente che si limiti ad
offrire le proprie conoscenze specialistiche non descriva compiutamente il
fenomeno, tanto che la dottrina ha da tempo sviluppato la distinzione tra
consulente tecnico «percipiente» e consulente tecnico «deducente», ove il
primo avrebbe un contatto diretto con le fonti di prova, mentre il secondo,
in ipotesi, si limiterebbe a fornire una interpretazione dei dati probatori
già aliunde acquisiti nel processo.
Nella prassi processuale non c’è dubbio che, inevitabilmente e legittimamente, salvi i soli casi, relativamente rari, di consulenza puramente deducente, il consulente introduca nel processo nuove circostanze di fatto. Ciò
può avvenire sia perché il consulente effettua ispezioni o sopralluoghi sulle
cose oggetto della consulenza, «percependo», appunto, nuovi fatti rilevanti
per la causa, sia perché grazie alle sue conoscenze tecniche e/o alla specifica
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attrezzatura nella sua disponibilità, è in grado di percepire fatti non noti alle
parti, sia infine perché – ed è questo il caso più complesso – le parti
producono direttamente al consulente documenti o altre fonti di prova
rilevanti. Il legislatore processuale mostra di aver avuto almeno parziale
contezza di tali problemi, avendo previsto che il consulente tecnico «può
essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e a eseguire piante, calchi e rilievi» (art. 261 c.p.c.).
È dunque chiaro che nella consulenza tecnica l’ordinaria distinzione
tra la fase in cui il giudice dispone la consulenza e la fase di esecuzione è
spesso non descrittiva della realtà, ponendo cosı̀ all’interprete non pochi
problemi di coordinamento con altre regole fondamentali del processo,
quali in particolare il principio del contraddittorio e il rispetto delle scansioni processuali previste a pena di decadenza.
Anche su questi temi ci siamo intrattenuti in tempi non recenti, concludendo che un tale potere del consulente d’ufficio è, per buona parte,
ineliminabile: il consulente di fatto svolge una attività di indagine a diretto
contatto con il materiale di causa, che è anche, per definizione, in virtù
della sua qualificazione tecnica, in grado di meglio percepire e comprendere rispetto alle parti e allo stesso giudice (23).
(23) Si valutino, a titolo d’esempio, le seguenti massime della Cassazione: Cass. 14
febbraio 2006, n. 3191: «È consentito derogare al limite costituito dal divieto di compiere
indagini esplorative quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa avvenire
soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche; in questo caso il C.T.U. può anche
acquisire ogni elemento necessario per rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori rientranti nell’ambito
strettamente tecnico della consulenza e non di fatti che, essendo posti direttamente a
fondamento di domande o eccezioni, debbano essere necessariamente provate dalle parti»;
conf. Cass. 20 giugno 1996, n. 5718; Cass. 15 ottobre 2003, n. 15448; Cass. 6 giugno 2003,
n. 9060; con riferimento ai documenti si è poi statuito che «È poi senz’altro vero che
l’indagine del c.t.u. non può essere finalizzata alla acquisizione di prove che la parte aveva
l’onere di produrre, ma a tali limiti è comunque consentito derogare quando l’accertamento
di determinate situazioni di fatto sia possibile solamente con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, cosı̀ come è consentito al c.t.u. acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, allorché si tratti di
fatti accessori rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza e non di fatti e
situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni
delle parti, debbano necessariamente essere provati da queste»: Cass. 15 aprile 2002, n.
5422. Tale orientamento era ancor più liberale prima dell’introduzione delle preclusioni
istruttorie nel processo civile ad opera della l. n. 353/1990: si veda per esempio la seguente
massima «Il consulente tecnico d’ufficio, quando svolge le indagini da solo, può compiere,
anche senza espressa autorizzazione, tutti gli accertamenti (la cui valutazione è rimessa al
giudice del merito) che siano collegati con l’oggetto della consulenza, assumendo notizie ed
informazioni presso terzi»: Cass. 22 ottobre 1982, n. 5511; conf., tra le altre, Cass. 20
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Non posso che ribadire quanto già a suo tempo affermato, e cioè che
la vera giustificazione dell’esercizio di tali poteri va probabilmente ravvisata nell’esigenza, che spesso i giudici avvertono, di superare i limiti della
struttura dispositiva del processo civile in materia di prove e di allegazione
di fatti. Il consulente tecnico d’ufficio svolge infatti un ruolo, che spesso
richiama alla memoria attività d’indagini proprie della fase delle indagini
preliminari nel processo penale: è insomma lo strumento con il quale il
giudice riesce a superare il diaframma tra gli atti di causa e la realtà
materiale, che di regola egli può conoscere solo in virtù della mediazione
delle parti. Si capisce bene che il mandato al consulente non possa essere
esplorativo, essendo altrimenti a rischio l’imparzialità stessa dalla fase
istruttoria; ma altrettanto bene si comprende l’anelito del giudice di uscire
talvolta dalla torre di cristallo, nel quale l’operare congiunto del principio
dispositivo e delle preclusioni istruttorie lo pongono (24).
11. – Preso atto che nel concreto operare delle operazioni peritali che
hanno luogo fenomeni rilevanti di acquisizione ex officio di fatti (secondari) rilevanti e di mezzi di prova anche non dedotti dalle parti, non è fuor di
luogo studiare le modalità di svolgimento delle operazioni peritali, che
soffrono anch’esse, a mio parere, di una inadeguata regolamentazione,
che si traducono in un problematico controllo dell’operato del consulente.
In primo luogo, proprio l’inevitabile attitudine della consulenza a
trasformarsi in uno strumento d’indagine autonomo, che spesso trascende
le stesse allegazioni delle parti, dovrebbe indurre il giudice ad ammettere
tale strumento con ben maggiore prudenza, di quanto oggi avvenga, mentre dovrebbe essere valorizzata l’utilizzazione di consulenti delle parti prima e fuori della consulenza tecnica d’ufficio.
È ben noto che il sistema processuale nord-americano conosce l’istituto della expert witness, che equipara, quanto alla assunzione della deposizione, il consulente di parte al teste. Tale modalità di assunzione del
consulente di parte è prevista e disciplinata anche dalle IBA Rules in
materia arbitrale, ove di regola la deposizione dell’esperto è preceduta
dicembre 1982, n. 7054; Cass. 28 giugno 1979, n. 3616; Cass. 23 marzo 1988, n. 2543; Cass.
7 novembre 1989, n. 4644; Cass. 7 novembre 1987, n. 8256.
(24) Lo stesso Cavallone (da ultimo in Il divieto di utilizzazione della scienza privata del
giudice, in questa Rivista, p. 861) prende atto della tendenza talvolta ineluttabile del giudice
di «ricercare sua sponte nella realtà extraprocessuale le informazioni rilevanti per la verifica
dei themata probanda», ponendosi il problema, tutt’altro che secondario, delle concrete
modalità d’ingresso di tali informazioni nel processo, nel rispetto del contraddittorio e
dell’imparzialità della funzione giudiziale.
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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dal deposito di una sua relazione, sulla quale si svolge poi il successivo
esame delle parti, ovviamente in cross-examination e con l’attiva partecipazione del giudice.
Questo sistema, se accortamente utilizzato, permetterebbe (come di
fatto permette nei procedimenti arbitrali) di fare spesso a meno della
nomina del consulente d’ufficio, al quale il giudice potrebbe ricorrere solo
laddove l’esame dei consulenti di parte non gli permetta di addivenire ad
una conclusione univoca.
D’altro canto è ben nota, anche nella dottrina italiana, la difficoltà (e,
secondo alcuni, la sostanziale impossibilità) di operare una distinzione
empiricamente fondata tra la deposizione del teste, inteso nel tradizionale
senso di colui che è stato in illo tempore a contatto con il factum probandum, rispetto al consulente, che quel contatto lo perfeziona in seguito a
cagione del suo incarico: e si è cosı̀ autorevolmente sostenuto che l’unica
differenza strutturale ed ineliminabile tra la testimonianza e la consulenza
sia l’utilizzo di un «linguaggio specializzato» da parte del consulente (25).
Il codice prevede che il consulente possa svolgere la propria attività in
udienza o fuori alla presenza del giudice, nel qual caso viene redatto
processo verbale delle relative indagini; alternativamente (ed è questo il
sistema universalmente in uso) è previsto che il consulente rediga una
relazione scritta
Le parti possono ovviamente nominare dei propri consulenti di parte
(art. 201 c.p.c.).
L’art. 195 cp.c. prevede poi che «la relazione deve essere trasmessa dal
consulente alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all’udienza di cui all’art. 193. Con la medesima ordinanza il
giudice fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla
successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle
stesse».
La disciplina si completa con l’art. 197 c.p.c., in forza del quale
«quando lo ritiene opportuno il presidente invita il consulente tecnico
ad assistere alla discussione davanti al collegio e ad esprimere il suo parere
in camera di consiglio in presenza delle parti, le quali possono chiarire e
svolgere le loro ragioni per mezzo dei difensori».
(25) Denti, Testimonianza tecnica, in Riv. dir. proc. 1962, p. 9.
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Questo regime rende di fatto sempre scritto il contraddittorio tra le
parti e il consulente nominato dall’ufficio; inoltre, le osservazioni che le
parti hanno facoltà di fare sulla bozza della relazione ben difficilmente
portano il consulente a modificare l’opinione di fatto già elaborata, ed
hanno anzi il difetto di creare una apparenza di contraddittorio, che in
realtà nei fatti manca.
Una effettiva verifica dell’operato del consulente si potrebbe avere
solo qualora questi potesse essere sottoposto ad una effettiva cross examination ad opera delle parti, e dunque dei loro avvocati. Si tratterebbe di
uno strumento fondamentale ed indispensabile per poter effettivamente
assicurare un vaglio di credibilità alla consulenza d’ufficio, che oggi di
fatto, dopo il suo deposito, viene assunta dal giudice, salvo casi rarissimi,
a fondamento spesso acritico della sua decisione.
12. – La panoramica che abbiamo ritenuto di offrire nelle pagine che
precedono descrive un processo nel quale la fase di assunzione della prova
rimane vincolata a modalità poco funzionali alla effettiva ricerca della
verità dei fatti oggetto di causa.
In particolare, l’assunzione della testimonianza del terzo, cosı̀ come
l’interrogatorio delle parti, appare vincolato a modalità di deduzione ed
assunzione francamente obsolete.
L’assunzione della prova testimoniale tramite l’ammissione preventiva
di capitoli di prova e la relativa assunzione ad opera del giudice, e per di
più senza la possibilità di una cross examination ad opera dei difensori
delle parti, senza una adeguata verbalizzazione, pare essere certamente uno
strumento fortemente inadeguato alle esigenze di una moderna istruttoria
civile.
Gli istituti dedicati a disciplinare le dichiarazioni di parte rendono
chiaro che oggi è impossibile parlare di una vera e propria «testimonianza
della parte». Vi sono, è vero, istituti attraverso i quali la parte può contribuire alla formazione del materiale probatorio; quanto ai possibili esiti,
essi tendono però a porsi agli estremi di un’ipotetica gerarchia delle prove:
mentre l’interrogatorio libero somministra esclusivamente modesti «argomenti di prova», l’interrogatorio formale assume specifica rilevanza solo
allorquando provoca la confessione, ovvero una prova legale; altrettanto
accade con la confessione. Manca invece uno strumento nella disponibilità
delle parti, sufficientemente duttile sia nella sua ammissione sia nella sua
assunzione, che permetta di acquisire le deposizioni delle parti con funzioni di prova liberamente valutabile: una prospettiva questa propria della
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l’assunzione delle prove nel processo civile italiano
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c.d. Parteivernehmung tedesca, e che forse sarebbe ora di introdurre anche
nell’ambito del processo civile italiano.
La consulenza tecnica mostra invece, nella sua pratica applicazione,
margini di elasticità tale da consentire l’acquisizione di elementi probatori
anche al di fuori della specifica allegazione delle parti. L’utilizzo della
consulenza con estensione a elementi di fatto e di prova non acquisiti al
processo per iniziativa delle parti è cosı̀ oggi, nel nostro processo civile,
quanto di più vicino esista all’esercizio di poteri ufficiosi del giudice civile
in materia di prove, con riferimento non solo alla valutazione, ma anche
alla ricerca della prova stessa; in ossequio però alla natura privata di tale
processo, tale potere ispettivo trova un limite nella natura delle prove
ispezionabili.
Anche tale mezzo strumento istruttorio però soffre, nell’ordinamento
italiano, dell’assenza di un efficace strumento di controllo, quale sarebbe
assicurato dalla sottoposizione del consulente ad una effettiva cross examination ad opera delle parti supportate dai loro consulenti di parte; inoltre,
l’introduzione di una forma di expert witness potrebbe probabilmente
giovare all’efficacia dell’istruzione probatoria e rendere talvolta superflua
la nomina di un consulente d’ufficio.
Queste osservazioni mostrano insomma come molto vi sia da fare nel
processo civile italiano per adeguarlo ad adeguati standard probatori;
essendo ormai finita da tempo la stagione delle Maximen, è forse ora di
tornare ad occuparsi della disciplina positiva delle prove, attivamente operando per un adeguamento dei mezzi di prova finalizzato ad una maggiore
efficacia dell’istruttore civile.
LOTARIO DITTRICH
Professore ordinario nell’Università di Trieste
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IL NOTORIO, LA JUDICIAL NOTICE
E I «CONCETTI» DI PROVA
SOMMARIO: 1. Un caso di «notorio giudiziale»? – 2. Il notorium notorietate iuris. – 3. La
moderna «scarnificazione» del notorio. – 4. La judicial notice statunitense e internet. –
5. La gerarchia delle prove nell’epoca di mezzo fra mito e realtà. Le nozioni di «probabilità» – 6. I «concetti» di prova. – 7. Il polimorfismo del notorio.
1. – Alla base della rivisitazione compiuta dalla Cassazione circa il
trattamento del giudicato c.d. esterno vi è l’idea che esso sia da assimilare
– per la natura che esibisce e gli effetti che produce – agli «elementi
normativi» (1). Ne derivano numerose conseguenze, tra le quali spicca
l’affermazione secondo la quale la Suprema Corte, non solo può rilevare
d’ufficio l’esistenza di un precedente giudicato formatosi fra le stesse parti
in un giudizio diverso, ma può farlo anche se la sentenza passata in giudicato (e non invocata dai contendenti) non risulti ex actis. Come per
qualunque regula iuris, anche per quella che sortisce da una sentenza
consimile il giudice disporrebbe del potere di reperirla autonomamente
(iura novit curia) e di trarne tutte le conseguenze, senza bisogno di sollecitare il contraddittorio inter partes sul punto. Per agevolare questa
propensione investigativa, tanto audace quanto solipsistica, la Cassazione
si attribuisce il potere di impiegare strumenti informatici e di “scoprire” il
giudicato esterno (non richiamato dalle parti) in una banca dati.
È stato però acutamente evidenziato che quella equiparazione fra la
norma astratta e la regola concreta del giudicato si espone a obiezioni
insuperabili (2). Si è cosı̀ sostenuto che meglio avrebbe fatto la Cassazione
a fondare la soluzione prospettata sulla categoria – pur ignota al nostro
codice di rito (3) – del notorio c.d. giudiziale, doverosamente filtrato dalla
applicazione della regola del contraddittorio (4).
(1) L’orientamento giurisprudenziale ha precisamente ad oggetto la individuazione
della regula iuris discendente dal giudicato conseguente ad una pronuncia della Suprema
Corte (v., per riferimenti, la nota 2). Ancorché non emergente dagli atti di causa, la Cassazione ritiene di poterlo rintracciare motu proprio (e senza previa interlocuzione con le parti)
in attuazione del dovere istituzionale di conoscere i propri precedenti. Fatalmente, posta la
equiparazione tra giudicato esterno e norma di diritto, la tesi giurisprudenziale ha in sé i
presupposti per ulteriori svolgimenti non confinati al ruolo del giudice di vertice.
(2) Rinviamo all’importante saggio di L. Piccininni, Cassazione, giudicato, notorio giudiziale, in Studi in onore di N. Picardi, Pisa 2016 (in corso di pubblicazione).
(3) Cfr., per tutti, B. Cavallone, Il divieto di utilizzazione della scienza privata del
giudice, in questa Rivista 2009, 866 ss.; R. Vaccarella, Quaedam sunt notoria judici tantum
et non aliis..., nota a Cass., sez. un., 18 luglio 1989, n. 3374, in Giust. civ. 1989, I, 2552 ss.
(4) V. retro nota 2.
Rivista di diritto processuale 3/2016
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
611
In entrambi i casi la pretesa della Suprema Corte di porre a fondamento della decisione il giudicato esterno non invocato senza eccitare il
contraddittorio tra le parti non può essere accettata, vuoi se si ragioni in
chiave di questione di diritto (5), vuoi se si evochi la categoria della
Gerichtskundigkeit.
Come noto, il sintagma «notorio giudiziale» richiama la conoscenza
che il giudice abbia di certi fatti per ragioni del suo ufficio. Non sono
soltanto le codificazioni di area germanica (6) a prevedere tale forma di
notorio. D’altronde la norma tedesca – «Tatsachen, die bei dem Gericht
offenkundig sind, bedürfen keines Beweises» (§ 291 ZPO) (7) – è stata il
modello a partire dal quale il legislatore giapponese ha regolamentato la
materia (8). In Europa, oltre alle codificazioni olandese (9) e danese (10),
si possono richiamare due ordinamenti – in costante collegamento tra
loro (11) – come lo svedese (12) ed il finlandese (13).
L’attuale codice di procedura civile svizzero prevede all’art. 151 che
non devono essere provati, fra l’altro, i fatti di pubblica notorietà «o
comunque noti al giudice». E nell’ampia nozione impiegata dal legislatore
elvetico si fa rientrare il notorio giudiziale (14), del resto già conosciuto nei
(5) Cfr. artt. 384, comma 3˚ e 101, comma 2˚, c.p.c.
(6) L. Dittrich, Appunti per uno studio del fatto notorio giudiziale, in Aa.Vv., Studi di
diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, I, Milano 2005, 825 ss.
(7) Sostanzialmente identico è il § 269 ZPO austriaca: «Tatsachen, welche bei dem
Gerichte offenkundig sind, bedürfen keines Beweises»: acfr. W.H. Rechberger, in Zivilprozeßordnung. Kommentar, a cura di W.H. Rechberger, 2 , Wien a2000, 903-904; W.H. Rechberger-D.A. Simotta, Zivilprozessrechts. Erkenntnisverfahren, 5 , Wien 2000, 359.
(8) Cfr. Das Japanische Zivilprozeßrecht. Zivilprozeßgesetz und Zivilprozeßverordnung
nach der Reform von 1996, a cura di C. Heath e A. Petersen, Tübingen a2001, 79.
(9) Cfr. P.A. Stein-A.S. Rueb, Compendium burgerlijk procesrecht, 16 , Deventer, 2007,
124 (in rapporto
all’art. 149 lid 2 RV); nonché H.J. Snijders, Inleidings Nederlands burgerlijk
a
procesrecht, 4 , Deventer 2007, 50-51.
(10) Cfr. H.V. Munch-Petersen, Der Zivilprozess Dänemarks (1932), rist. Aalen,
1970, 78 (con riguardo al Retsplejelov – Rpl. – del 1916). V. ora E. Werlauff, Civil
procedure in Denmark, 2010, il quale tiene conto della importante riforma del 2006-2008
(ivi, 9-10).
(11) Per note ragioni storiche. Non a caso la loro trattazione spesso è compiuta
congiuntamente: R.A. Wrede, Das Zivilprozessrecht Schwedens und Finnlands (1924),
rist., Aalen 1970, spec. 41, 43 e 208 (con riguardo al notorio nelle sue varie forme),
111 ss.
(12) Cfr. RB (Rättegångsbalken) 35:2 para. 1. La estensione del precetto al notorio c.d.
«giudiziale» si ricava dai lavori preparatori: v. in Nytt Juridiskt Arkiv, II, 1943, 446. V., al
riguardo, il classico lavoro di P.O. Ekelöf-R. Boman, Rättegång IV, 6ª, Stockholm 1992, 40;
B. Lindell, Civil Procedure in Sweden, Uppsala 2004, spec. 175.
(13) Cfr., in generale sul diritto probatorio finlandese, L. Ervo, in AA.VV., Civil Justice
in Finland, Nagoya 2009, 113 ss.
(14) Cfr. F. Hasenböhler, in Aa.Vv., Kommentar zur Schweizerischen Zivilprozessord-
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vari diritti processuali dei singoli cantoni (15), ed in specie nei due più
famosi, quello bernese e quello zurighese: tanto le regole del primo (16)
a
nung (ZPO), 2 , a cura di T. Sutter-Somm, F. Hasenböhler e C. Leuenberger, Zürich 2013,
sub art. 151, 1045 ss.; C. Hurni, in Aa.Vv., BK - Berner Kommentar, a cura di H. Hausheer e
H.P. Walter, Bern 2012, I, sub art. 55, spec. 502; J. Brönnimann, ivi, II, sub art. 151, 1653
ss.; K. Klett e C. Hurni, Beweisrechtliche Besonderheiten des Immaterialgüterrechtsprozesses
aus Sicht des Bundesgerichts, in Sic! - revue du droit de la propriété intellectuelle, de l’information et de la concurrence, 2014, 265 ss., spec. 267; B. Pasquier, Die Schätzung nach
gerichtlichem Ermessen unmittelbare und sinngemässe Anwendung des Art. 42 Abs. 2 OR,
Zürich 2014, 98 ss., spec. 99; D. Tappy, in Aa.Vv., Beweisrecht der neuen ZPO: Chancen und
Risiken, a cura di J. Kren Kostkiewicz, A.R. Markus, R. Rodriguez, Bern 2012, 99 ss. (con
notazioni critiche circa la formulazione in francese dell’art. 151 in rapporto alle edizioni
tedesca e italiana), spec. 100, 103, 107 nt. 67, 108, 109, 112, 113.
Prima del codice unico del 19 dicembre 2008, nei codici di procedura civile dei singoli
cantoni svizzeri esistevano previsioni specifiche. Anche nella legislazione di cantoni di tradizione e lingua francesi, vi era non di rado presente una disciplina del notorio, estesa anche
al notorio giudiziale (cfr. – in relazione al codice del cantone di Neuchâtel, al tempo
adottato in Turchia, nel contesto della politica di europeizzazione portata avanti da Atatürk
– F.F. Bohnet, CPCN, Code de procédure civile neuchâtelois commenté, 2ª, Basilea 2005, 365,
sub art. 219; sul codice friburghese v. la nota s.). In pari tempo, è accaduto anche che
regolamentazioni processuali, che pure si innestavano sulla tradizione germanica, tacessero
sul punto. Il che non ha però impedito alla dottrina di elaborare lo stesso la categoria della
Gerichtskundigkeit.
(15) Istruttiva è la vicenda che ha riguardato il codice friburghese. Cfr. H. DeschenauxJean Castella, La nouvelle procédure civile fribourgeoise, Fribourg 1960, 146, in relazione
all’art. 193 CPC (adottato il 28 aprile 1953). Gli autori scrivono che «la notoriété est
publique ou judiciaire» (c.n.). In verità, il testo originario dell’art. 193 si riferiva esplicitamente al notorio giudiziale (l’art. 193 al. 1 «du projet portait que les faits notoires pour le juge
n’ont pas à être prouvés. Le texte englobait ainsi la notoriété judiciaire»). Ma la previsione fu
poi eliminata dalla «commission du Grand Conseil», per timore che fosse mal interpretata.
Secondo gli autori ciò non ha però comportato la eliminazione del concetto di notorio c.d.
giudiziale: «on a voulu empêcher» – scrivono – «que le juge utilise la connaissance qu’il a d’un
fait en tant que simple particulier (Privatwissen), ce qui est juste, car un bon juge peut être un
mauvais témoin». Ma, a loro dire, «le texte définitif de l’art. 193 al. 1 CPC ne semble pas
interdire au juge de faire état de ce qu’il sait en tant que juge» (c.n.).
(16) A. Heusler, Der Zivilprozess der Schweiz (1923), rist., Aalen 1970, spec. 98, in
ordine al § 281 del codice bernese. La legislazione del cantone ha una rimarchevole storia e
grande prestigio. Si può risalire indietro nel tempo sino al codice del 1821. Cfr., a questo
proposito, il saggio di K.W. Nörr, Das bernische Zivilprozeßgesetzbuch 1821 unter dem
Einfluß des «Entwurfs eines Gesetzbuchs über das gerichtliche Verfahren» von Gönner, ora
in Id., Iudicium est actus trium personarum. Beiträge zur Geschichte des Zivilprozeßrechts in
Europa, Goldbach 1993, 249 ss. Quanto al codice bernese del 1918, esso viene ricollegato al
nome di Alexandre Reichel.
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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quanto i precetti del secondo (17) sono stati tradizionalmente interpretati (18) in maniera assai lata, al modo tedesco (19).
Si dovrà pure tener conto di quelle legislazioni le cui norme, per come
sono disegnate, potrebbero prestarsi ad applicazioni estensive: se ciò non è
sicuro per i fatti notori secondo l’art. 221/4 ZPO croata (notorne činjenice), questo vale indubbiamente per l’art. 61 del codice russo (20), che
reputa non bisognosi di prova «i fatti riconosciuti dal giudice come notori». Una delle formulazioni più chiare di notorio giudiziale, se non la più
chiara, è però senz’altro quella presente nel codice polacco. Nel dire che «i
fatti conosciuti da tutti non devono essere provati» (art. 228 § 1: «Fakty
powszechnie znane nie wymagaja˛ dowodu»), il legislatore estende la stessa
regola ai «fatti conosciuti dal giudice in ragione dell’ufficio», obbligandolo
al contempo a sottoporli al contraddittorio delle parti (21) (art. 228 § 2:
«To samo dotyczy faktów znanych sa˛dowi urze˛dowo, jednakże sa˛d powinien
na rozprawie zwrócić na nie uwage˛ stron»).
Se la norma polacca si segnala per l’esplicita prescrizione circa il
rispetto del contraddittorio, non meno degna di nota è la norma inserita
(17) H.U. Walder-Richli, Zivilprozessrecht nach den Gesetzen des Bundes
und des Kana
tons Zürich unter Berücksichtigung anderer Zivilprozessordnungen, 4 , Zürich 1996, 190
(Einschränkungen der Verhandlungsmaxime), spec. nota 14. L’a. ripercorre anche la storia
della legislazione processuale del cantone (ivi, 37 ss.) cui adde R. Hauser, Die zürcherische
Rechtspflege im Wandel, 1831-1981, in ZR (Blätter für Zürcherische Rechtsprechung), 80/
1981, 257 ss. In rapporto alla legislazione del 1831, viene spesso ricordato il contributo di
Friedrich Ludwig Keller (1799-1860). Il «nuovo» codice di Zurigo influenzò altri codici
entrati in vigore successivamente nei cantoni di Nidwalden, Obwalden e Schwyz.
(18) Cfr., per tutti, R. Bieri, Die Gerichtsnotorietät - ein «unbeschriebenes Blatt im
Blätterwald», in ZZZ (Schweizerische Zeitschrift für Zivilprozess- und Zwangsvollstreckungsrecht) 2006, 193 ss.
(19) Cfr., per limitarsi ai lavori più noti, M. Guldener, Schweizerisches Zivilprozeßrecht,
a
3 , Zürich 1979, 161 e nota 6, nonché 320. Del medesimo autore v. pure – con riguardo al
tema dell’impiego della scienza privata – Beweiswürdigung und Beweislast nach schweizerischem Zivilprozeßrecht,
Zürich 1955, 4 nota 21. Cui adde W.J. Habscheid, Droit judiciaire
a
privé suisse, 10 , Genéve 1981, 420; Id., Schweizerisches
Zivilprozess- und Gerichtsorganisaa
tionsrecht. Ein Lehrbuch seiner Grundlagen, 2 , Basel-Frankfurt am Main 1990, 381.
(20) Codice di procedura civile del 2003 pubblicato per la cura di N. Picardi e R.
Martino, Bari 2007.
(21) La garanzia del contraddittorio è di regola assicurata anche in quegli ordinamenti
nei quali la norma di riferimento nulla dice al riguardo. V., quanto alla Germania, in
rapporto al § 291 ZPO, I. Saenger, in Zivilprozessordnung. Handkommentar, a cura di I.
Saenger, 2ª, Baden-Baden
2007, 659; H. Prütting, in Münchener Kommentar, a cura di G.
a
Lüke e P. Wax, 2 , München 2000, I, 1833;
M. Huber, in Kommentar zur Zivilprozessorda
nung: ZPO mit Gerichtsverfassungsgesetz, 5 , a cura di H-J. Musielak, München
2007, 898;
a
D. Leipold, in Stein/Jonas. Kommentar zur Zivilprozessordnung: ZPO, 21 , Tübingen 1997,
3, 589. Relativamente all’Austria, cfr. W.H. Rechberger-D.A. Simotta, op. cit., 904.
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nell’art. 412 (22) del recente Código de Processo Civil portoghese, vuoi
quanto al cruciale profilo della superfluità della allegazione (23) del fatto
notorio, vuoi in relazione alla documentazione di esso quando si presenti
nella forma c.d. giudiziale (24). In particolare, il comma 2˚ delinea la
nozione del fatto notorio giudiziale e la disciplina applicabile («Também
não carecem de alegação os factos de que o tribunal tem conhecimento por
virtude do exercı´cio das suas funções»), che si innesta sul dovere per il
giudice che intenda avvalersene di procurarne la dimostrazione documentale («quando o tribunal se socorra destes factos, deve fazer juntar ao processo documento que os comprove»).
2. – La tesi della nostra Suprema Corte di prescindere dal deposito
della sentenza dalla quale risulterebbe il giudicato esterno non invocato (e
di fare a meno di stimolare il contraddittorio sul punto) non resiste alla
analisi. Il richiamo alla notorietà «giudiziale» è un tentativo suggestivo di
arginarne gli effetti negativi, che però può funzionare alla condizione che
si tratti di conoscenza acquisita amtswegen del fatto da parte del giudice (25). In caso contrario occorrerebbe rievocare, al posto della Gerichtskundigkeit, l’antica nozione del notorium per sententiam, una delle molte
espressioni storiche della categoria proteiforme del notorio.
Mutuando liberamente una frase di Maitland (26), si può dire che il
notorio, per molti secoli, è stato la «più avida» delle categorie giuridiche.
Fra l’altro, all’interno della nozione del notorio si è fatta rientrare, con la
confessione giudiziale, anche la sentenza passata in giudicato (notorium
notorietate iuris o semplicemente notorium iuris). Ad esempio, il cessato
codice di diritto canonico piobenedettino del 1917, nel menzionare (can.
(22) La norma riprende l’art. 514 del codice di rito previgente del 1961. Anche l’art. 5,
comma 2˚, lett. c) del codice del 2013 si occupa del notorio, stabilendo che il giudice possa
impiegare senza bisogno di allegazione di parte «c) Os factos notórios e aqueles de que o
tribunal tem conhecimento por virtude do exercı´cio das suas funções».
(23) Per prescinderne: v. nota seguente.
(24) Il comma 1˚ dell’art. 412 si occupa della nozione del fatto notorio comune («1. Não
carecem de prova nem de alegação os factos notórios, devendo considerar-se como tais os factos
que são do conhecimento geral»).
(25) Solo cosı̀ si può ritenere che il singolo giudice o (come nel caso della Cassazione) i
membri del collegio abbiano notizia del fatto gerichtskundig.
(26) Riferita al «contratto» da Maitland (citato da R. Pound, Lo spirito della Common
Law – 1921 – trad. it. Milano 1970, a cura di G. Buttà, con presentazione di E. Paresce, 27).
Sulle forme di notorio (che coprono gran parte della esperienza processuale) v., oltre agli
autori citati infra, C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, vol. I, Parte generale, 3ª,
Firenze 1922 (rist. ed. 1914), 297 ss.
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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1747) (27) i fatti per i quali non occorre la prova, indicava i «facta notoria
ad normam can. 2197 (28), nn. 2» (29): «Notorium notorietate iuris, post
sententiam iudicis competentis quae in rem iudicatam transierit aut post
confessionem delinquentis in iudicio factam».
Probabilmente il codice del 1917 è l’ultima manifestazione di un fenomeno imponente la cui genesi risale al tempo del Decreto di Graziano.
Ad iniziare dai canonisti, i giureconsulti medievali (30) hanno dapprima
isolato il concetto di notorietà da figure affini e poi l’hanno suddiviso in tre
generi (notorium facti, notorium iuris e notorium praesumptionis), ciascuno
dei quali conosceva una articolata suddivisione in specie. Nella notorietà di
fatto si isolavano il notorium facti permanentis (31), il notorium facti transeuntis (32) ed il notorium facti interpolati (33). Nella notorietà di diritto
venivano ricondotti, con il notorium confessionis (34), il notorium iuris per
sententiam (la sentenza passata in giudicato) e quello per legitimas probatione (35). Nella categoria del notorium praesumptionis venivano infine
ricondotti casi diversissimi imperniati sul ricorso al ragionamento presuntivo. Ma le distinctiones in tema di notorietà (che i dottori dell’utrumque
ius coltivarono con quello spirito casuistico poi elevato a sistema nelle
opere di Antonio da Budrio e di Benedetto Capra) non finivano qui. A
(27) «Non indigent probatione: (1˚) Facta notoria, ad normam can. 2197, nn. 2, 3; (2˚)
Quae ab ipsa lege praesumuntur; (3˚) Facta ab uno ex contendentibus asserta et ab altero
admissa, nisi a iure vel a iudice probatio nihilominus exigatur». Cfr. R. Bertolino, Il notorio
nell’ordinamento giuridico della Chiesa, Torino 1965.
(28) La norma era inserita nel libro quinto del CIC del 1917 dedicato ai delitti e alle
pene, segnatamente nella parte prima (che si occupa dei delitti) e nel titolo primo (relativo
alla natura e distinzione dei delitti). Il can. 2197 definiva pure gli estremi del delitto
«pubblico» ed «occulto».
(29) Veniva anche richiamato il canone 2197 n. 3: «Notorium notorietate facti, si publice
notum sit et in talibus adiunctis commissum, ut nulla tergiversatione celari nulloque iuris
suffragio excusari possit».
(30) Secondo C. Ghisalberti, La teoria del notorio nel diritto comune, in Annali di storia
del dir., I, 1957, 434, il notorio è «il prodotto di un diritto squisitamente scientifico». V.
anche Id., voce Fatto notorio (storia), in Enc. dir., XVI, Milano 1967, 995 ss.
(31) Un fatto o situazione di fatto che perdura nella attualità, costantemente sotto
l’osservazione di tutti (ad es. – per stare all’esempio di Antonio da Budrio – la collocazione
della torre degli Asinelli a Bologna). Per un uso largo della categoria, in tutt’altro contesto,
v. però L. Dittrich, op. cit., 835.
(32) Un fatto passato che, pur essendosi concluso, ha assunto il carattere della notorietà. Si pensi ai fatti storici più famosi.
(33) Una serie di fenomeni che presentano soluzione di continuità (ad es. l’usura o la
pioggia).
(34) Confessione giudiziale.
(35) Una prova, cioè, valida ai fini della giustizia.
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conferma della «relatività» (36) del concetto emerge in particolare la contrapposizione fra notorium locale e notorium ubique locorum, oltretutto
gravida di implicazioni giacché solo nel primo caso si esigeva la prova
della qualitas notorii allorché esso fosse allegato in un luogo diverso (37).
S’intende allora che, se nel caso del notorium facti la ratio della categoria
si rinviene nel principio della evidenza di fatto e se l’evidenza presunta è alla
base del notorium praesumptionis, nel caso del notorium iuris invece si può
fare appello alla forza probante dell’evidenza (connessa ora alla sentenza
passata in giudicato ora alla confessione giudiziale ora alla prova già accertata, tutte figure apparentate dal fatto di costituire probationes probatae come
tali non meritevoli di essere ulteriormente discusse). Va da sé che nel loro
lavoro i canonisti potevano basarsi sulle fonti romane. Il notorium iuris per
sententiam facilmente si agganciava al principio per cui «res iudicata pro
veritate accipitur», che si scorge in filigrana anche nella elaborazione del
notorium confessionis («quia confessus in iure pro iudicato est»).
Per il resto, la genesi di questa particolare categoria della «notorietà di
diritto» riproduce le modalità di emersione del notorio tout court. Ignota
al diritto romano, la nozione è precisata nell’ambito del diritto canonico (38) ed impiegata inizialmente solo nel campo penale. Allo stesso modo,
il notorium iuris, plasmato dai canonisti, si fonda su testi dai quali si
capisce che «Ceterum aliud est crimen notorium, aliud occultum. Notorium
definitur, de quo presbyter canonice condemnatur» (39).
Dicevamo che la notorietà giudiziale non si lascia confondere con la
nozione di notorium iuris per sententiam. Quest’ultima, infatti, prescinde
del tutto dalla conoscenza ex officio del giudice che decida di impiegarlo.
La notorietà, in altri termini, «non è attinta all’interno di un procedimento
giudiziale, ma è ottenuta in modo autonomo rispetto a questo» (40). Al
contrario, il contrassegno del notorio giudiziale può riservarsi a quei soli fatti
«che sono a conoscenza del giudice in quanto tale, fatti cioè che attengono
allo svolgimento della attività giurisdizionale del giudice medesimo» (41).
(36) Che sempre accompagna la categoria (L. Ferrara, Relatività del notorio, in Foro it.
1940, I, 965 ss.).
(37) C. Ghisalberti, La teoria del notorio, cit., 442.
(38) A. Carboni, La notorietà del delitto nelle riforme ecclesiastiche medioevali, in Studi
sassaresi 1957, 91-92.
(39) Leggiamo il testo della decretale in L. Kéry, Gottesfurcht und irdische Strafe: der
Beitrag des mittelalterlichen Kirchenrechts zur Entstehung des öffentlichen Strafrechts (Konflikt, Verbrechen und Sanktion in der Gesellschaft Alteuropas), Köln 2006, 390.
(40) R. Bertolino, op. cit., 290.
(41) G.A. Micheli, L’onere della prova, rist. Padova 1966, 120.
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3. – La «avidità» della categoria del notorio, la sua «tardiva» (42)
epifania nel diritto canonico (43), l’impiego prima per la repressione dei
crimini e solo poi nel settore civile, le sue molteplici irradiazioni, paiono
altrettanti elementi ragguardevoli, ciascuno dei quali meriterebbe una speciale considerazione. Non si può dispiegare questa indagine – come ovvio
– per tutto il raggio della sua portata. Ci limitiamo ad alcune notazioni.
Sembra anzitutto significativo che il concetto di notorio sia sorto nell’epoca di mezzo dapprima per differenziazione da figure affini (44). Rimarchevole è la distinzione con la nozione di fama (45), cosı̀ come la
opposizione di notorium e manifestum e la delimitazione del notorium
rispetto all’evidens e al publicum. Una volta isolato il concetto, i giuristi
medievali si sono prodigati a scomporlo, tanto che dalla notorietà di fatto
si è passati a quella di diritto e al notorium praesumptionis.
Una scansione simile potrebbe indovinarsi anche nello sviluppo
della riflessione degli ultimi centotrenta anni (46) sulla nozione di «notorietà». Non aveva detto, del resto, Friedrich Stein di voler esporre per
la prima volta una dottrina «pura» del notorio (47)? Sfibrato dalla ple-
(42) Il diritto romano non lo ha conosciuto, in nessuna delle sue forme, compresa
ovviamente la giudiziale: R. Schultz, Die Gerichtskundigkeit von Tatsachen, in Festgabe für
Richard Schmidt zu seinem siebzigsten Geburtstag 19. Januar 1932 überreicht von Verehrern
und Schülern, Leipzig 1932 (rist. Aalen, 1979), vol. I (Straf- und Prozessrecht), 283 ss.,
spec. 286.
(43) V., però, la tesi della origine germanica dell’istituto propugnata da G.W. Wetzell,
System des ordentlichen Zivilprozesses, 3ª ed., Leipzig 1878 (rist. Aalen, 1969), 181-182.
L’errore di Wetzell è denunziato da R. Schultz, op. cit., 289. In Italia fra i primi (se non
il primo) a criticarla si segnala E. Allorio, Osservazioni sul fatto notorio, in Riv. dir. proc. civ.
1934, parte II, 3 ss., 5-6.
(44) V., da ultimo, il profondo contributo di M. Schmoeckel, Excessus notorius examinatione non indiget. Die Entstehung der Lehre der Notorietät, in Panta rei. Studi dedicati a
Manlio Bellomo, a cura di O. Condorelli, Roma 2004, 113 ss., spec. 154 (dal Decreto di
Graziano alla Glossa); C. Ghisalberti, op. cit., 413 ss.
(45) Cui ha dedicato un importante trattato il giurista bolognese Tommaso di Piperata
(ne segnala l’importanza, R. Fraher, Conviction according to conscience, in Law and History
review 1989, 23 ss., spec. 29 ss., 68 ss.). La trattazione congiunta dei due temi (per illustrarne le differenze) è frequente: v., ad es., la impostazione razionale che ne dà ALTHUSIO,
Dicaelogica (1617), III, cap. 37 («De Fama & notorio»), 714-715 (della rist. Aalen 1967,
sulla seconda edizione, Frankfurt 1649).
(46) O poco meno: il libro di Stein apparve nel 1893. Il lavoro di Schmidt sulle
osservazioni fatte dal giudice fuori del processo (sul quale v. infra in nota 103) è del
1892 (e compare nelle prime parole della introduzione del volume di Stein). Da questi
lavori si è dipanata una ricchissima letteratura che ha di volta in volta affrontato gli aspetti
più importanti della tematica sotto esame.
(47) Das private Wissen des Richters. Untersuchungen zum Beweisrecht beider Prozesse,
Leipzig 1893, rist. Aalen 1969, 139: «die folgende Erörterung darf deshalb insofern den
Anspruch erheben einen Fortschritt zu enthalten, als sie zum ersten Male die Lehre von
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toricità delle distinzioni consegnate dalla tradizione dello ius commune,
intessuto da un intrico di principi e di valori sorpassati, confuso con
l’elemento logico delle massime di esperienza (48), davvero il concetto
di «fatto notorio» reclamava una rielaborazione: vi provvide Stein,
«scarnificandolo».
Ma già il riconoscimento – quale sottospecie della Offenkundigkeit
– della Gerichtskundigkeit (49), a fianco della Allgemeinkundigkeit, poneva le premesse perché si decampasse dalla linea metodologica tracciata, tanto più che nella notorietà giudiziale si potevano riconoscere
alcuni caratteri del risalente notorium iuris. Dopo tutto non siamo ancora adesso impegnati ad identificare, nel campo vasto del notorio,
quello tipicamente «arbitrale» (50)? Non siamo soggiogati dalla logica
delle distinctiones quando parliamo di notorietà «relativa», «locale» o
«spaziale» (51)?
Sembra perciò che il pendolo della storia del notorio abbia continuato
ad oscillare: alla fine del XIX sec. si è giunti a ricomporre (in sede scientifica e legislativa) le sparse membra del notorio in un concetto unitario,
che, non appena «purificato», e forse proprio per questo, è stato nuovamente scomposto ed arricchito ad opera degli interpreti.
La categoria del notorio sta tra la Scilla della certezza giuridica e la
Cariddi della formalistica propensione a proporre un concetto «puro». Se
il concetto «puro» di notorio soddisfa quella esigenza (simplex sigillum
veri), questa inclinazione rischia di sacrificare alla purezza la completezza.
den offenkundigen Thatsachen, d. h. von den offenkundigen Einzelgeschehnissen, die im
Prozesse als Untersätze des Syllogismus auftreten, rein darzustellen versucht, wodurch sie
beiläufig sehr an Einfachheit gewinnt» (c.n.).
(48) Elemento che Stein «scoprı̀»: lo rammenta P. Calamandrei, nel necrologio apparso
in Riv. dir. proc. civ. 1924, I, 117 ss., ed ora in Opere giuridiche, vol. X, a cura di M.
Cappelletti, Napoli 1985, 33 ss. Il saggio di J. Kohler, Ueber notorische Thatsachen, in
Gesammelte Beiträge zum Civilprocess, Berlin 1894 (rist. Aalen 1980, Gesammelte Beiträge
zum Zivilprozess), pp. 68-72, è il primo fra quelli nei quali la distinzione tracciata da Stein –
fra fatti notori e massime di esperienza – è criticata.
(49) Non senza resistenze nella letteratura tedesca: basti pensare alle critiche di Richard
Schmidt e di Rudolf Schultz, nel saggio già ricordato di quest’ultimo (op. cit., 294), apparso
non a caso nella Festgabe per Schmidt.
(50) Sui rapporti fra arbitrato e «notorietà», v. G. Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 5ª ed., Torino 2015, 150-152 e, se vuoi, A. Panzarola, Arbitrato e «fatto notorio», in
Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Napoli 2010, 603 ss.
(51) P. Calamandrei, Per la definizione del fatto notorio; in Riv. dir. proc. civ. 1925, I, p.
273 ss., 296; G. De Stefano, voce Fatto notorio (dir. priv.), in Enc. dir., XVI, Milano 1967,
999 ss., spec. 1003 ss.; M. Taruffo, Art. 115, in A. Carratta – M. Taruffo, Poteri del giudice,
in Commentario del Codice di Procedura Civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna 2011, 496 ss.
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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La «scarnificazione» del notorio viene incontro all’aspirazione (vero e
proprio ideale di ogni costruzione teoretica volta ad ordinare fatti disparati) a rinserrare sotto un concetto unico una molteplicità di fenomeni
accomunati da alcuni caratteri costanti. Il che è consentito solo se la
connessione che tra loro intercede è tale che possono additarsi quali
espressioni diverse di un qualcosa di essenzialmente unitario. Sorge però
il dubbio se il concetto di fatto notorio, quale delineato dall’art. 115
comma 2˚, c.p.c., non sia troppo specifico per essere impiegato in questa
funzione unificatrice. Perciò, non tanto la fondamentale unità e coordinazione di svariate manifestazioni apparentemente diverse può suscitare perplessità, ma piuttosto il modo in cui quella unità viene profilata ed il
concetto stesso sotto il quale quelle manifestazioni vengono riportate.
Lascia pure insoddisfatti la circostanza che l’art. 115, comma 2˚ cit.,
mentre pretende di rivelarci l’essenza della nozione (52), nulla dica circa le
modalità di ingresso del notorio nel processo (53) ed in ordine alla tutela
del contraddittorio. Su questi profili invece opportunamente insistono
altre normative, fra le quali spiccano quella polacca e portoghese esaminate retro. Si può pure menzionare al riguardo la disciplina della judicial
notice contenuta nelle Federal Rules of Evidence statunitensi.
Per molti decenni si è discusso degli estremi della nozione (54), con
James B. Thayer teso a slargare scopo e applicazione della dottrina della
judicial notice (55) e Edmund Morgan (56) – scrivendo mezzo secolo dopo
– favorevole invece a restringerne sensibilmente finalità ed operatività.
(52) E cosı̀ consegnarci una ridescrizione del fenomeno della notorietà volta a prendere
il posto di tutte le altre.
(53) Ad esempio in punto di allegazione. V. infra in nota 144. In argomento v., da
ultimo, V. Baroncini, Il regime processuale del fatto notorio, in corso di pubblicazione nel
fasc. n. 2 di questa Rivista 2016.
(54) Per quanto sembri che l’espressione «judicial notice» sia apparsa non prima del
1824 (quando compare nell’opera sulla prova di Starkie: v., per riferimenti, nota s.), già
molti secoli prima, sin dal tempo di Bracton, era ben conosciuta la massima secondo cui
notoria non indigent probatione.
(55) Tanto da estenderla alla «prima facie evidence»: J.B. Thayer, A preliminary treatise
on evidence at the common law (Boston 1898), rist. Elibron Classics, 2005, 235 ss. Il testo
era già apparso otto anni prima col titolo Judicial Notice and The Law of Evidence, in
Harvard L. Rev., (15 febbraio) 1890, 285 ss. consultabile in https://archive.org/stream/
jstor-1322294/1322294#page/n27/mode/2up. Appare curioso che questa ampia concezione
dell’istituto (con il ruolo attivo del giudice che ne discende) sia patrocinata dal giurista al
quale si fa risalire, sul piano della dottrina della Costituzione, il c.d. «constitutional restraint»: J.B. Thayer, The Origin and Scope of the American Doctrine of Constitutional
Law, ivi 1893, 129 ss. V., sul punto, R.A. Posner, The Rise and Fall of Judicial Self-Restraint,
in California Law Review 2012, 519 ss.
(56) E.J. Morgan, Judicial Notice, in Harvard L. Rev. 1944, 269 ss. L’a. riporta l’istituto
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La Rule 201 delle Federal Rules of Evidence, mentre risolve pragmaticamente la disputa inserendo una definizione ampia dei «fatti» oggetto di
judicial notice, al contempo assegna speciale rilievo alla forma iudicii, contemperando le esigenze di speditezza con il rispetto dei diritti delle parti.
Conviene allora allargare il quadro.
4. – La Rule 201, pur presupponendo la distinzione fra «adjudicative
facts» e «legislative facts» (57) profilata da K.C. Davis (58), si limita a
regolare i primi senza considerare i secondi (59). Assumendo poi un concetto ampio dei «fatti» suscettibili di rilievo, la Rule 201 subordina la
judicial notice al contraddittorio tra le parti. Il che accade anche, se non
soprattutto, quando sia il giudice motu proprio ad attivarsi prendendo
judicial notice (60), tanto da sottoporre loro in modo esplicito l’oggetto
della iniziativa assunta (61). Una volta che sia presa notizia di fatti consimili, in materia civile la giuria deve necessariamente tenerne conto. L’interlocuzione è insomma essenziale perché nel processo civile – Rule 201(g)
– «the court shall instruct the jury to accept as conclusive any fact judicially
noticed» (62) e le garanzie comunemente associate all’adversary system non
possono operare una volta che la decisione sia stata presa.
La Corte può attivare (63) il meccanismo della judicial notice relativamente ad un fatto che non è «subject to reasonable dispute», sia perché
generalmente conosciuto all’interno della giurisdizione adita («generally
known within the trial court’s territorial jurisdiction») (64), sia perché
nel campo probatorio (e lo considera alla stregua di eccezione alle comuni regole probatorie
tipiche dell’adversarial system). La dottrina di Morgan fu recepita, alla lettera, nei progetti di
riforma (rimasti sulla carta) ai quali egli contribuı̀ (il Model Code of Evidence del 1942 e le
Uniform Rules of Evidence del 1953): cfr. W.L. Twining, Theories of Evidence: Bentham and
Wigmore, Stanford 1985, 238 nota 86.
(57) Rule 201 (a): «This rule governs judicial notice of an adjudicative fact only, not a
legislative fact».
(58) K.C. Davis, Judicial Notice, in Columbia L. Rev. 1955, 945 ss.
(59) Suggeriamo di consultare le chiarissime «Notes of Advisory Committee on Proposed
Rules» (in https://www.law.cornell.edu/rules/fre/rule_201).
(60) Rule 201 (c) (1): la Corte «may take judicial notice on its own». Secondo la Rule
201 (d) «The court may take judicial notice at any stage of the proceeding».
(61) Quando siano le parti ad assumere l’iniziativa, si richiede loro di fornire alla Corte
le informazioni necessarie allo scopo: Rule 201 (c)(2).
(62) Invece, stando alla seconda parte della Rule 201(g), «in a criminal case, the court
must instruct the jury that it may or may not accept the noticed fact as conclusive».
(63) Niente esclude che la richiesta di parte per attivare il meccanismo della judicial
notice sia diretta ad ottenere (oltre che una pronunzia nel corso del trial, pure) a «pre-trial
ruling on the fact».
(64) Rule 201 (b)(1).
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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determinabile accuratamente e rapidamente impiegando fonti di spiccata
affidabilità (un fatto, cioè, il quale «can be accurately and readily determined from sources whose accuracy cannot reasonably be questioned» (65).
Su quest’ultima regola, laddove allude genericamente a fonti la cui
precisione non può essere ragionevolmente discussa, si innesta il ricorso
a fonti tratte da internet (66). In tal caso i comuni problemi connessi alla
judicial notice, se possibile, si acuiscono, tanto quanto crescono i vantaggi
ricavabili dal ricorrervi.
La fissazione del fatto, imponendosi alla giuria civile, preclude sia la
cross-examination del creatore del sito – dal quale la notizia è attinta (67) –
che l’applicazione del divieto – pur derogabile (68) – di hearsay, e permette
di eludere gli ostacoli connessi alla «authentication» (69) (per stabilire, ad
esempio, l’accuratezza di una mappa ripresa da un certo sito onde chiarire
se rispecchi fedelmente ciò che dovrebbe mostrare). L’eliminazione di
queste garanzie assicura notevoli risparmi di tempo e contenimento dei
costi. Resta perciò essenziale la Rule 201(e), che dà alla parte la possibilità
di essere ascoltata («On timely request, a party is entitled to be heard on the
propriety of taking judicial notice and the nature of the fact to be noticed») (70).
In tal modo, mentre la parte si riserva una carta da spendere nell’eventuale giudizio di appello (71), ottiene ancora prima la possibilità di
porre in dubbio la accuratezza, affidabilità ed imparzialità della fonte
internet. Tanto più che la Rule 201(C)(2), nel prevedere che la richiesta
(65) Rule 201 (b)(2).
(66) L’interesse per il tema è molto grande, il che è ovvio: tanto più che «the internet is
not going away» (R.A. Posner, Reflections on Judging, Cambridge (MA) 2013, spec. 141; v.
anche ivi 134 ss., 270, 272, 309), ed anzi il suo impatto non potrà che crescere nell’avvenire.
V. pure C.M. Barger, Challenging Judicial Notice of Facts on the Internet under Federal Rule
of Evidence 201, in U.S.F. L. Rev. 2013, 43 ss. Anche l’utilizzo di Twitter pone gravi
questioni nel processo con giuria (E. Nicolas, A Practical Framework for Preventing «Mistrial
by Twitter», in Cardozo Arts & Ent L.J. 2010, 385 ss.).
(67) Evitando i possibili ritardi e costi necessari per ottenere un ordine del giudice per
subpoena ad testificandum.
(68) Vi sono ampi spazi – nelle maglie delle Federal Rules of Evidence – per derogare al
divieto, posto dalla Rule 802. Basti qui dire – fra le numerose eccezioni contemplate nella
Rule 803 – della posizione privilegiata accordata a «public records» e «business records».
(69) Probabilmente – di regola – di scarsa, se scarsissima utilità, quando si tratti, ad es.,
di Google Maps o siti simili di larghissima diffusione e alta affidabilità.
(70) La norma prosegue: «If the court takes judicial notice before notifying a party, the
party, on request, is still entitled to be heard».
(71) Il che presuppone, come ovvio, che resti traccia esplicita («a clear record», insomma) di tutto ciò che ha condotto il giudice ad utilizzare nel trial la judicial notice. La Rule
201 lo consente.
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per la judicial notice sia corredata «with the necessary information», consente di sottoporre al giudice i più disparati dati ed elementi, sfuggendo al
contempo alle (altrimenti rigide) rules of evidence.
Il congegno statunitense permette di affrontare un problema inevitabile dei nostri tempi e non confinato (come dimostra la vicenda italiana del
trattamento del giudicato esterno) (72) a quell’ordinamento, pur se negli
USA è reso vieppiù urgente dalla circostanza che i giurati (73) potrebbero
comunque, con i propri mezzi ed in modo incontrollato, condurre da sé
ricerche in internet (74) per delucidare la questione controversa.
Le soluzioni prospettate negli Stati Uniti paiono anche appaganti, non
foss’altro perché, mentre si acconsente a trarre informazioni da siti di
conclamata affidabilità (75) (da Google Maps (76) a Web MD) (77), si
rifiuta normalmente di attingere notizie da Wikipedia (78) o fonti consimili
(ad es. Urban Dictionary) (79), in dipendenza delle modalità «aperte» di
formazione dei dati che vi sono contenuti: modalità tali da escludere che si
tratti di «sources whose accuracy cannot reasonably be questioned».
Il trattamento della judicial notice (80) sembra perciò in condizione di
frenare l’ingresso incontrollato nel processo dei dati forniti da internet. Ciò
(72) Con la Cassazione che si sente libera di fare ricerche nelle banche dati. V. retro § 1.
(73) Ciò non vale ovviamente nei casi in cui la giuria non c’è (bench trial); quanto ai
giudici di appello federali (e al loro rapporto con internet) v. le osservazioni di uno dei più
noti fra essi, R.A. Posner, Divergent Paths. The Academy and the Judiciary, Cambridge (MA),
2016, spec. 130-131; Id., Reflections on Judging, cit., 134 ss. Dove vi è la giuria i problemi
evidenziati nel testo (e legati all’uso di internet e dei social media) si presentano anche nel
momento in cui le parti compiono indagini sui (potenziali) giurati durante il c.d. «voir dire»:
v. T. Hoffmeister, Investigating Jurors in the Digital Age: One Click at a Time, in U. Kan. L.
Rev. 2012, 611.
(74) Cfr. J. St. Eve- M. A. Zuckerman, Ensuring an Impartial Jury in the Age of Social
Media, in Duke L. & Tech. Rev. 2012, 20 ss.
(75) È ipotizzata, in taluni casi, la possibilità di «prendere» judicial notice della stessa
accuratezza (quale fatto «commonly known») della fonte da cui è tratta la informazione.
(76) Si ricorda sovente (nella giurisprudenza pratica e teorica) la frase del giudice della
Corte Suprema (temporaneamente «distaccato», fra il 1945 e 1946, a Norimberga dove
svolse le funzioni di procuratore capo nel celebre processo) Robert H. Jackson in un caso
del 1952: «We may, of course, take judicial notice of geography». Cfr. Boyce Motor Lines v.
United States, 342 U.S. 337, 344 (1952) (Jackson, J., dissenting).
(77) Per non dire, poi, di siti ufficiali di autorità pubbliche.
(78) L.F. Peoples, The Citation of Wikipedia in Judicial Opinions, in Yale J.L. & Tech
2009, 7 ss.
(79) Che pure presenta un inventario (talvolta prezioso) di neologismi impiegati negli Usa.
(80) Non vogliamo certo dire che la disciplina sia perfetta. V., infatti, in rapporto alle
teorie scientifiche, C. Onstott, Judicial Notice and the Law’s «Scientific» Search for Truth, in
Akron L. Rev. 2007, 465 ss.
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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accade grazie soprattutto alla puntuale disciplina procedimentale contenuta nella Rule 201, che invano ricercheremmo nel nostro codice.
L’attenzione statunitense sia per l’efficienza che per i diritti delle parti
si può ancora segnalare – da altro punto di vista – riallacciandoci al tema
iniziale ed osservando che, pur essendo abituale l’impiego dell’istituto per
rinvenire «fatti» registrati nei «judicial records», nondimeno lo si può
utilizzare solo nel rispetto delle regole processuali generali. Sicché, quando
si tratti di reperire un precedente giudicato (81), il ricorso alla judicial
notice è condizionato alla previa osservanza delle norme che sovrintendono
alla sua deduzione in giudizio (82).
Più in generale, sembra che si possa attribuire anche alla spiccata
adattabilità dell’istituto il fatto che nelle Corti di giustizia internazionali
il meccanismo della judicial notice (83), specialmente in materia penale, è
usato assai spesso.
5. – Il notorio, la sua evoluzione nel tempo e sistemazione attuale, non
servono soltanto a ricordarci la relatività di tutti i nostri concetti, pur
quando se ne proclami la purezza. Possono funzionare da cartina di tornasole per saggiare la tenuta di idee generali sul processo.
Il notorio, la sua emersione ed importanza, sono apparsi coerenti con
un modello processuale incardinato, per dirla con Jean-Philippe Lévy,
sulla «hiérarchie des preuves», con al vertice proprio il notorium (84).
Secondo l’opinione dominante in letteratura, nell’epoca di mezzo il giudice
era strettamente vincolato ad un sistema probatorio rigido che ruotava
(81) Il che è stato in passato perfino escluso: cfr. Bienville Water Supply Co. v. City of
Mobile, 186 U.S. 212, 217 (1902) («[W]e take judicial notice of our own records, and, if not
res judicata, we may, on the principle of stare decisis, rightfully examine and consider the
decision in the former case as affecting the consideration of this»).
(82) Planning & Conservation League v. Castaic Lake Water Agency (2009) 180
Cal.App.4th 210, 225 («court may take judicial notice of court records in considering
demurrer based on res judicata»). V. anche Estate of Dito (2011) 198 Cal.App.4th 791,
795 n. 3, consultabile in http://caselaw.findlaw.com/ca-court-of-appeal/
1578387.html#sthash.V5BmYsdl.dpuf. Analoga cautela ricorre anche nel caso di «collateral
estoppel»: cfr. Ponce v. Tractor Supply co., Cal. App. 3d 500, 507.
(83) Cfr., in materia penale, Cfr. V. Tochilovsky, Charges, Evidence, and Legal Assistance in International Jurisdictions, Nijmegen 2005, 143 ss.; W.A. Schabas, The UN International Criminal Tribunals: The Former Yugoslavia, Rwanda and Sierra Leone, Cambridge
2006, 448 ss.; nonché J.C. Stewart, Judicial Notice in International Criminal Law: A Reconciliation of Potential, Precedent and Peril, in ICLR (International Criminal Law Review)
2003, 245 ss.
(84) J.Ph. Lévy, La hiérarchie des preuves danse le droit savant du moyen-age depuis la
Renaissance du Droit Romain jusqu’à la fin du XIV siècle, Paris 1939, spec. 43 ss.
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attorno alla c.d. gerarchia delle prove. Il lavoro del giudice era cosı̀ costretto entro una costellazione di regole relative al valore delle prove che
gli impedivano di esercitare un autentico controllo soggettivo perfino sui
risultati delle deposizioni testimoniali. Contro il concetto di valutazione
della prova si è insomma continuato ad obiettare che, al cospetto di regole
vincolanti, per definizione manca nel giudice quella discrezionalità che è
richiesta perché la funzione di giudizio corrispondente, e l’attività che vi
presiede, possano esplicarsi.
Sennonché già W. Ullmann aveva lasciato intendere che all’epoca dei
postglossatori le cose andavano diversamente (85). Lo hanno confermato
lavori più recenti di studiosi di diversa estrazione, tra i quali spiccano
quelli di Quaglioni (86), di Damaška (87) e di Cavallone (88).
Sono stati però soprattutto i due volumi di Susanne Lepsius (che
trovano larga eco nel recente volume sul processo romano-canonico di
K.W. Nörr) (89) a ridimensionare la veduta tradizionale.
Le conclusioni della Lepsius (90) sono tratte dall’analisi del Tractatus
testimoniorum (91) di Bartolo da Sassoferrato e rafforzate dalla osservazione per la quale il giurista marchigiano si occupava pressoché esclusivamente dei dicta testium (92) e della loro forza di convincimento del giudice (93), filtrata dal ricorso ai concetti di arbitrium iudicis e fides (94)
(come fides del giudice «im Sinne von dessen subjektiver, freier Überzeu-
(85) W. Ullmann, Medieval Principles of Evidence, in Law Quarterly Review 1946, 77
ss., 85. V. anche R. Fraher, op. cit., 52-53.
(86) Cfr., ad es., D. Quaglioni, «Probo a probe». Prova e controversia: dall’ordo iudiciarius al processo, in Aa.Vv., Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica, a
cura di F. Cerrone e G. Repetto, Milano 2012 537 ss.
(87) M.R. Damaška, Evidence Law Adrift, New Haven 1997 (trad. it. Bologna 2003),
19-20.
(88) Cfr., ad es., B. Cavallone, Riflessioni sulla cultura della prova, in Riv. it. dir. proc.
pen. 947 ss., spec. 968-970.
(89) K.W. Nörr, Romanisch-kanonisches Prozessrecht. Erkenntnisverfahren erster Instanz in civilibus, Heidelberg-Dordrecht-London-New York 2012, 130 nt. 159, 148 nt.
289, 150 nt. 310, 151 nt. 316, 163 nt. 407, 164 nt. 411 e 415, 190 nt. 612.
(90) S. Lepsius, Der Richter und die Zeugen. Eine Untersuchung anhand des Tractatus
testimoniorum des Bartolus von Sassoferrato. Mit Edition. Frankfurt am Main 2003; Id., Von
Zweifeln zur Überzeugung. Der Zeugenbeweis im gelehrten Recht ausgehend von der Abhandlung des Bartolus von Sassoferrato. Frankfurt am Main 2003, spec. 32 ss. (sulla posizione
della dottrina tradizionale), 45 ss. (sulla nuova prospettiva).
(91) Di cui Susanne Lepsius ha curato la edizione critica: v. la nota precedente.
(92) Oggetto di discussione in quella fase del processo nella quale i dicta testium
emergevano nel confronto dialettico con le parti del giudizio.
(93) S. Lepsius, Von Zweifeln zur Überzeugung, cit., 72.
(94) In effetti Bartolo discorre di plenam fidem facere e iudicem adducere ad fidem: cfr.
S. Lepsius, Der Richter und die Zeugen, cit., 255 (c. 42), 251 (c. 38).
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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gungsbildung») (95). La discrezionalità vincolata (96) che il giudice poteva
disimpegnare, riconducibile a quella di un bonus vir, poteva cosı̀ manifestarsi in un giudizio espressione dell’intimo convincimento del giudice (97).
Ciò che fa Bartolo con il ricorso alle categorie aristoteliche (98), non è
ignoto neppure al suo allievo, il giurista-filosofo perugino Baldo (99), la cui
opera offre cospicui spunti nella medesima direzione.
Perciò il sudario monocromo che si tende a stendere, nella prospettiva
tramandata, su tutta l’epoca di mezzo, appare inappagante (100). Tanto
più che si può ricondurre (101) alla tematica dell’intimo convincimento del
giudice anche il locus classicus (102) della decisione secundum conscientiam (103). Qui come ovvio non si tratta per definizione di apprezzare il
materiale probatorio in causa, ma di prescinderne programmaticamente
per lasciare spazio soltanto alla percezione (104) extra iudicium del giudice.
(95) S. Lepsius, Von Zweifeln zur Überzeugung, cit., 428.
(96) Si tratta di una «gebundenes Ermessen»: S. Lepsius, op. cit., 165.
(97) Tramite la fides, in specie: il giudice ha la libertà «seine eigene Überzeugung (fides)
zum Maßstab der Beweiswürdigung und zur Grundlage seines Urteils zu nehmen»: ibidem, 197.
(98) Per la ricostruzione di una situazione della vita tramite la testimonianza. Emergono
la sostanza concreta e reale (substantia) delle cose, nonché le qualità corrispondenti (accidentia), vale a dire la quantità (quantitas), la conformazione (qualitas), la relazione (relatio),
l’actio, la passio, il locus, il tempo (tempus), il situs, l’apparenza (habitus).
(99) In questo caso, però, Baldo prescinde dall’inquadramento filosofico del maestro: lo
nota Quaglioni, op. cit., 549.
(100) Molto è dipeso probabilmente dalla autorevolezza di J.Ph. Lévy, L’évolution de la
preuve dès origines à nos jours. Synthèse générale, in La Preuve, II, Moyen Age et Temps
modernes (Recueils de la Société Jean Bodin pour l’histoire comparative des institutions, XVII),
Bruxelles 1965, 9 ss. Si noti, peraltro, che nella opera di ventisei anni prima lo stesso J.Ph.
Lévy (La hiérarchie des preuves, cit., 72), a ben vedere, riconosceva al giudice un potere di
apprezzamento in relazione alla testimonianza (osservando che, in linea di principio, il
testimone depone dinanzi al giudice e alle parti: «son but est de permettre d’apprécier le
degré de véracité du temoin»).
(101) L’accostamento è problematico: v. K.W. Nörr, Zur Stellung des Richters im
gelehrten Prozess der Frühzeit: «Iudex secundum allegata non secundum conscientiam iudicat», München 1967, 62 ss.
(102) Tale rimasto per molti secoli come dimostra il celebre lavoro di R. Schmidt, Die
außergerichtlichen Wahrnehmungen des Prozeßrichters, in Sächsisches Archiv für bürgerliches
Recht und Prozeß, 1892, vol. II, 265 ss. (pure pubblicato in edizione speciale, Leipzig 1892).
(103) Il tema interseca quello del notorio. Alla base vi è la fissazione del principio
«iudex secundum allegata e probata decidere debet, non secundum conscientiam». Il fatto
notorio è allora additato quale oggetto di una attività giudiziale che, nell’atto di assumerlo
nella decisione della causa «senza bisogno di prova», reca eccezione al divieto di utilizzazione della «scienza privata» del giudice. Cfr. la Relazione al c.p.c. del 1940 del Ministro
Guardasigilli Dino Grandi, § 13; nonché, in dottrina, per tutti, B. Cavallone, Il divieto di
utilizzazione della scienza privata del giudice, cit.
(104) Degli elementi di fatto: v., da ultimo, A. Padoa Schioppa, La coscienza del giudice,
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Ma è il tema delle presunzioni che negli ultimi tempi è divenuto il vero
banco di prova per saggiare la plausibilità delle contrapposte prospettive.
È stata in particolare discussa la tesi di Isabella Rosoni (105) secondo la
quale la prova indiziaria avrebbe rappresentato il vero settore della argomentazione razionale, aperto al processo argomentativo e pronto a raccogliere i frutti del ragionamento (106). Al contempo, però, la scrittrice
esibisce la persuasione che anche il campo delle presunzioni sarebbe stato
dominato sin dal XIII sec. dal calcolo esatto e pertanto esonerato dal
convincimento del giudice, evidentemente impedito dal ricorso alla computazione matematica (107).
La tesi è però tutt’altro che pacifica ed anzi, con buoni argomenti, si è
negato in modo risoluto che la c.d. «aritmetica delle prove» – oggetto della
pungente ironia degli humanistes (108) e della critica corrosiva (ma non
sempre disinteressata) dei philosophes des Lumières (109) – abbia posseduto una estensione consimile.
in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna 2003, 251 ss.; cui adde i lavori già
citati di K.W. Nörr e R. Fraher. Ammesso che da un certo momento in avanti la decisione
secondo coscienza sia stata limitata alle questioni di diritto (M. Taruffo, La semplice verità. Il
giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari 2009, 29, che si richiama – ivi, 255 e 256 – a
Nörr, op. cit.), sta di fatto che nel prosieguo riemerge il collegamento primigenio e decisivo
con i fatti: v., per un esempio particolare, A.M. Monti, Iudicare tamquam deus. I modi della
giustizia senatoria nel Ducato di Milano tra Cinque e Settecento, Milano 2003, 112 ss.
(105) I. Rosoni, Quae singula non prosunt collecta iuvant. La teoria della prova indiziaria nell’età medievale e moderna, Milano 1995. La stessa autrice ha sottolineato, peraltro,
che sulla configurazione del processo romano-canonico ha pesato il giudizio dei posteri: si
allude ad «un’invenzione dei riformatori del Settecento, i quali, per criticarlo, lo ingabbiano
in una struttura un po’ artificiale, tutta vera nei dettagli, ma non sempre corrispondente a
quella (meno semplificata) che emerge da una più libera analisi storica». Al contempo, però,
Rosoni evidenzia che vi «si ricercava una certezza di tipo legale, che riguardava l’apparato
dimostrativo della decisione, e non la condizione psicologica di chi la prendesse» (ivi, 40).
(106) I. Rosoni, op. cit., 3.
(107) I. Rosoni, op. cit., 203 ss., 230 ss.
(108) È noto il giudizio di Rabelais (Pantagruel, 2 cap. 5) – in http://coillet.eu/Site/
Documents/Pantagruel.pdf, 29 – sui «ricami» di Accursio ai testi delle Pandette («que ce
n’est que ordure et vilenie»). Cfr., per la traduzione italiana, (http://www.liberliber.it/mediateca/libri/r/rabelais/gargantua_e_pantagruele/pdf/rabelais_gargantua_e_pantagruele.pdf).
(109) Voltaire, nella lettera a M. Damilaville (Étienne Noėl Damilaville) del 23 marzo
1763, scrive: «Ces Visigoths ont pour maxime que quatre quarts de preuve et huit huitièmes
font deux preuves complètes; et ils donnent à des ouď-dire le nom de quarts de preuve et de
huitièmes». E prosegue: «Que dites-vous de cette manière de raisonner et de juger? est-il
possible que la vie des hommes dépende de gens aussi absurdes? Les têtes des Hurons et des
Topinambours sont mieux faites». Il testo della lettera (nella quale V. si compiace della felice
conclusione del caso Calas) si può leggere in http://www.monsieurdevoltaire.com/2014/06/
correspondance-annee-1763-partie-12.html.
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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Si è in particolare obiettato (110) che, anziché di un operazione «quantitativa» di calcolo matematico degli indizi, nel campo delle presunzioni i
giuristi rimanevano legati ad una valutazione «qualitativa» e globale del
materiale probatorio raccolto. Stando a questa ricostruzione il calcolo
sommatorio di tipo algebrico non avrebbe affatto improntato ogni aspetto
del giudizio, né avrebbe condotto a conteggiare gli indizi (onde costruire
prove piene) secondo i dettami di una vera e propria «ars calculatoria».
Più ampiamente, muovendo dall’esame del trattato sul testimonianza
di Bartolo, si è evidenziato che vi si intendono gli indicia in modo diverso
da quanto ritenuto dalla Rosoni (111), non quindi in senso tecnico ed in
connessione con un ragionamento geometrico se non meccanico del giudice: essi non vengono usati come mezzi di prova che sia possibile ordinare
secondo una scala piramidale, giacché Bartolo li impiega «im Sinne einer
erhöhten Begründungsdichte der Aussage» (112).
A ben vedere è insomma l’idea stessa di «probabilità» ad essere cambiata nel tempo, come antivide Alessandro Giuliani (113). Le sue idee
paiono confermate dagli studi in argomento degli ultimi anni, da cui
emerge che «the law of evidence is the central thread in the history of
probability» (114). Per investigare la prova non si può fare a meno di
immergersi nella evoluzione del significato di una nozione che, per appartenere alla vita («probability is the very guide of life», ha scritto Butler) (115), incide sulla prova in modo fatale. Non è un caso che all’origine
delle teorie probabilistiche su base matematica vi siano giuristi (Fermat,
Huygens, de Witt, Leibniz) o figli di giuristi (Cardano e Pascal).
(110) Cfr. C. Cogrossi, Il sincretismo scientifico medievale e la sua influenza sulla giurisprudenza, Milano 2012, spec. 40 ss.; Id., Alle origini del libero convincimento del giudice: la
morale certezza in Tommaso Briganti trattatista del primo Settecento, in Amicitiae pignus,
Studi in ricordo di Adriano Cavanna, I, Milano 2003, 475 ss., spec. 499 ss.
(111) I. Rosoni, op. cit., 88 ss. V. pure J.Ph. Lévy, La hiérarchie des preuves, cit., 108,
127, rispettivamente in tema di presunzioni e indizi.
(112) S. Lepsius, Der Richter, cit., 137 e nota 79; Id., Von Zweifeln zur Überzeugung,
32-36, 69 ss., 188-190.
(113) Per riferimenti all’opera di Alessandro Giuliani v. infra § 6.
(114) J. Franklin, The Science of Conjecture. Evidence and Probability before Pascal,
Baltimore, MD, (2001), rist. 2015, 1. L’a. tiene conto pure dell’opera di Giuliani apparsa
in lingua inglese (ivi, 375). Nella prefazione alla edizione del 2015 l’a. dà conto della
letteratura degli ultimi anni.
(115) Joseph Butler, nella introduzione ad Analogy of religion, natural and revealed del
1736, consultabile in: https://archive.org/stream/analogyreligion00butliala#page/xxvi/mode/
2up. V. anche la raccolta di scritti Probability Is the Very Guide of Life: The Philosophical
Uses of Chance, rist. 2003, a cura di Henry E. Kyburg e Mariam Thalos.
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Ma la riflessione giuridica sulla probabilità è ben più antica. È in
fondo decisivo chiedersi: a chi spetta illustrare la teoria della probabilità (116)? La risposta moderna si indirizza alla matematica. Per lungo tempo
si è però guardato alla retorica, centrale nello sviluppo della scienza dell’ordo iudiciorum. Risuona l’ammonimento aristotelico: «è proprio dell’uomo colto richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza quanta ne
permette la natura dell’argomento» (117). Di qui la associazione nell’epoca
di mezzo della probabilità all’etica ed al ragionamento pratico, anziché alla
matematica o scienza. Prima di Pascal e Fermat (118) e della scoperta della
matematica delle probabilità nel 1654, questo era il concetto di probabilità
dominante (119), sotto il cui dominio venivano elaborati dagli scrittori del
tempo dei veri e propri metodi per confrontarsi con l’incertezza, metodi
razionali che non vanno intesi alla stregua di confuse anticipazioni delle
scoperte matematiche più tarde. Gli studi degli ultimi anni, di J. Franklin
in particolare (120), paiono convalidare l’idea che il consolidarsi in epoca
moderna una certa nozione di probabilità non esaurisce né può esaurire
l’indagine sull’argomento.
Il fatto, in altri termini, che nel XVII sec. si sia affermata una teoria
della probabilità su base numerico-quantitativa non deve farci dimenticare
i metodi persuasivi di tipo diverso, «qualitativo», la cui ombra lunga si
proietta ben al di là di quel pur cruciale snodo cronologico (121). Tutti
sanno per di più che, non solo la stessa considerazione oggettiva della
probabilità non equivale ad un approccio quantitativo (122) al tema, ma
pure che il carattere logico della probabilità non si può quantificare (123).
(116) J. Franklin, op. cit., 102.
(117) Eth. Nic., 1094b, 23-25. Insomma, è altrettanto folle pretendere da un matematico un ragionamento probabile quanto esigere da un retore prove dimostrative.
(118) Sulla impossibilità di retrodatare l’influenza delle tesi di Bernoulli v. C. Cogrossi,
Il sincretismo scientifico, loc. cit.
(119) Nei 300 anni da Baldo a Leibniz non vi è un significativo sviluppo, perché «if the
law is to keep a nonnumerical approach to evidence, there is essentially no development
possible»: J. Franklin, op. cit., 43.
(120) J. Franklin, op. cit., 326 dichiara di non volersi occupare delle opere puramente
retoriche: il tema è ciò che dovrebbe persuadere, non ciò che effettivamente persuade. V.
pure (sugli endoxa), ivi, 113, nonché 123 (sui domini rispettivi di retorica e dialettica).
(121) J. Franklin, op. cit., 362 (circa la persistenza «of the mostly unquantified notions»
di probabilità).
(122) D’altronde si distingue pure un approccio matematico da uno di tipo epistemologico: in tal senso v. S. Haack, Legal Probabilism: An Epistemological Dissent, ora in Id.,
Evidence Matters. Science, Proof, and Truth in the Law, Cambridge University Press 2014, 47
ss., spec. 56 ss., 64 ss. (contro l’approccio «bayesiano»).
(123) J.M. Keynes, Treatise on probability, London 1921, cap. III, 20 ss. (liberamente
consultabile in https://www.gutenberg.org/files/32625/32625-pdf.pdf).
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
629
In ultimo, sul piano della storia delle idee, non pare trascurabile che Ian
Hacking abbia alla fine dato conto di questo peculiare intreccio della
nozione di probabilità con la dimensione giuridico-processuale nella introduzione del 2006 alla seconda edizione del suo noto volume (124) sul tema.
Tutto ciò dimostra che una teoria del probabile eticamente orientata si
è radicata nei secoli influenzando in profondità l’ordo iudiciorum e giustificando la caratteristica concezione della prova come argumentum che vi
ha preso forma concreta e nella quale campeggia vivissimo l’aspetto logico
di argomentazione («argumentum est ratio, quae rei dubiae faciat fidem») (125).
6. – Ciò che fa in tema di «probabilità» (segnalandone la oscillazione
fra il piano statistico-quantitativo delle scienze matematiche e la dimensione etico-qualitativa del ragionamento pratico), Alessandro Giuliani lo
fa (126) anche per altre nozioni generali, veri e propri «transconcetti» che
consentono la confrontabilità tra ordini della esperienza umana diversi e
dal cui mutamento originano i diversi «concetti» di prova emersi nella
storia. La maniera peculiare in cui siffatte nozioni si configurano nel tempo
e nello spazio, i caratteri che assumono, le qualità che presentano dipendono da una molteplicità di fattori che condizionano al contempo la
concezione della prova giudiziaria.
Siamo perciò avvertiti che la «evidenza» non si esplica in una forma
stereotipata e possiede invece una sua caratteristica plasticità (che rinvia ad
un significato della nozione retorico-giudiziale oltre che metafisico-gnoseologico). In intima connessione con il concetto di prova è anche l’idea
polimorfa della «normalità» (agganciata ai sensi non meno che alle relazioni numeriche, talvolta coordinata al carattere dilemmatico della conoscenza probabile, in altri casi risolta in termini oggettivi e meccanici).
Pure il concetto di «errore» (127), inseparabile da quello di giudizio,
emerge secondo questo o quel profilo nella mobile varietà dei contesti.
a
(124) I. Hacking, The Emergence of Probability, Cambridge (1975), 2 , 2006.
(125) Dalla prospettiva qui indicata (riconducibile alle ricerche di Giuliani) si discosta la
recente indagine di G. Tuzet, Filosofia della prova giuridica, Torino 2013, che pure dichiara
di volersi concentrare sulla «prassi giuridica del provare», esaminata in chiave ermeneutica e
pragmatica (ivi, 4).
(126) Cfr., ad es., voce Prova (filosofia del diritto), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988,
518 ss.
(127) Al fondo vi è «l’inseparabilità del giudizio dall’errore»: F. Carnelutti, La prova
civile. Parte generale. Il concetto giuridico della prova (1915), rist. Milano 1992, 9. In questa
prospettiva, il nolite judicare evangelico «perde» – nota Carnelutti – «ogni sapore di paradosso».
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Anch’esso cambia nel tempo giacché è percepito ora come forza distruttiva
ora quale fomite della ricerca, nell’un caso come un pericolo angoscioso
che sovrasta per una perdita di alcunché di essenziale, nell’altro quale
permanente fattore di promozione della indagine, in armonia con il «modello dialettico di accrescimento nel tempo della conoscenza umana attraverso tentativi ed esperimenti» (128).
Il «fatto» ugualmente si presta ad una considerazione che ne isoli gli
estremi e prima ancora ne illustri le variabili relazioni con il diritto quale
riflesso del concetto di «fatto giuridico». Perché accade che «nella formula
del fatto giuridico, fondata sul binomio fatto e diritto, i giuristi s’accontentino di elaborare il secondo termine e non anche il primo» (129). Di qui
l’attenzione che Giuliani riserva al «fatto» (130) in genere e ai fatti relazionali e alle «questioni miste» (131) in particolare. Pure la nozione cangiante del «tempo» fa da cornice alla ricerca dovendo il passato farsi
presente – mentre la memoria si sfarina – attraverso la prova (132).
In definitiva proprio la plasticità ed il polimorfismo di questi «transconcetti» ed altri ancora (133) sono alla base della evoluzione del concetto
di prova, spiegano come mai esso nel tempo abbandoni alcune manifestazioni per altre nuove o perché queste vengano a subordinarsi a istanze
differenti. Certo non sempre risulta possibile stabilire quando il mutamento di quei concetti metagiuridici metta in moto il meccanismo o quando ne
sia condizionato. Si può in ogni caso cogliere il rapporto che intercede fra
riflessione filosofica e escogitazione giuridica e segnalare quando l’evoluzione di quella giunge a preformare la direzione che assumerà quest’altra.
In fondo Giuliani è convinto che le modalità con la quale si organizza e si
manifesta esteriormente la prova giudiziaria e la sua disciplina rispecchiano
quelle stesse fondamentali tendenze che agiscono anche sulla attività del-
(128) A. Giuliani, op. cit., 578.
(129) F. Carnelutti, op. cit., 5.
(130) Cfr. A. Giuliani, Le rôle du «fait» dans la controverse (à propos du binôme
«rhétorique-procédure judiciaire»), in Archives de philosophie du droit 1995, 229 ss.; Id., voce
cit. 525 ss., 551 ss. Il tema ha risonanze generali: v., ad es., G. Zagrebelsky, La legge e la sua
giustizia, Bologna 2008, 183 ss.
(131) Cfr. A. Giuliani, Leibniz e la teoria dei fatti relazionali, in Riv. int. fil. dir. 1992,
253 ss.
(132) Di qui l’attenzione, in relazione alla prova testimoniale, per la dimensione cairotica della temporalità. Sul tema v., da ultimo, D. Grossi, Il giudice regolatore del tempo, in
Studi in onore di N. Picardi, cit. (in corso di pubblicazione).
(133) Si pensi al concetto di «ordine». L’idea dell’ordine che è a fondamento della
teoria dell’argomentazione è in antitesi con quella che è alla base del processo nell’età
moderna (A. Giuliani, voce cit., 578). V. infra (§ 7) su ordine «isonomico» e ordine «asimmetrico».
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
631
l’uomo tout court e sui problemi generali che costantemente, sia pure
mutevolmente, urgono su di lui. In altri termini ciò che dà forma alla
prova giudiziaria insieme o prima è lo stesso che dà tono alla società. Le
stesse tendenze culturali ed i presupposti storici sono al contempo fattori
dell’attività probatoria del giudice e modalità della sua configurazione (134).
Per questo la prospettiva di Giuliani non si lascia completamente
identificare con quelle tesi che denomineremmo «istituzionali» e che tendono a rintracciare la genesi dei vari modelli probatori solo nella più
generale configurazione del processo. La celebre analisi chiovendiana (135)
dei rapporti fra la forma del procedimento (scritta o orale) e la «funzione
della prova» ne è un esempio. Lo sono pure le teorie che riconducono le
peculiarità del modello di evidence anglo-americano ora alla giuria ora
all’adversary system ora al congiunto operare di fattori ulteriori (136).
Parrebbe allora che le riflessioni di Giuliani si riannodino alla «confessione» dell’«ultimo» Carnelutti, quando si avvide della impossibilità di
costruire un concetto di “prova” con la “P” maiuscola. Il non possumus pronunciato da Carnelutti discendeva egualmente dal problema della
determinazione dei «concetti metagiuridici» o «pregiuridici» (137) (termini
generali che presuppongono una sorta di communicatio idiomatum e uno
spazio dialogico senza barriere fra differenti discipline), cosı̀ come dalla
constatazione della complessità del «giudizio», in bilico fra filosofia e
metafisica (138).
(134) Pur quando questi temi cominciano storicamente ad essere investigati more geometrico, in coincidenza con la maturazione di un approccio «scientifico», Giuliani ha cura di
mostrare le conseguenze di un approccio razionalistico o al contrario empiristico. In armonia con questa interpretazione l’uno è riannodato ad una concezione «materiale» della verità
cui l’altro antepone una visione «formale» di essa (voce cit., 526).
(135) G. Chiovenda, Sul rapporto fra le forme del procedimento e la funzione della prova
(L’oralità e la prova), ora in Id., Saggi di diritto processuale civile, Milano 1993, 197 ss. II. Sul
punto v., però, criticamente, B. Cavallone, Riflessioni sulla cultura della prova, cit., 966-967,
ad avviso del quale la correlazione tra forma del procedimento e principi regolatori della
disciplina della prova va ricercata (non sul piano della valutazione delle prove, come riteneva
Chiovenda in quel saggio famoso del 1924, ma) relativamente alla selezione del materiale per
il giudizio di fatto.
(136) Nel primo senso si pone, come noto, Thayer, nel secondo senso si colloca, fra gli
altri, Morgan: v., per riferimenti, Damaška, op. cit., 2. Quest’ultimo addita altre cause alla
base delle peculiarità del modello probatorio statunitense (dal funzionamento del «bifurcated tribunal» alla concentrazione dei giudizi, ecc.).
(137) F. Carnelutti, op. cit., 5.
(138) Lo scrive non solo Carnelutti. Cfr., ad es., S. Hack, op. cit., XV, la quale afferma
di essersi giovata – nella analisi della prova giudiziaria – degli studi condotti in tema di
metafisica.
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Le somiglianze sono però solo parziali e la divergenza fra i due giuristi
si coglie su un profilo fondamentale. Giuliani, lungi dall’essere sedotto da
forme irriflesse o intuizionistiche (139) di giudizio, rinvia a due concezioni
della prova egualmente razionali inveratesi nella storia e da questa convalidate: una concezione di tipo retorico (la prova come argumentum) l’altra
di stampo dimostrativo, le quali, lungi dall’elidersi a vicenda (140), possono
completarsi vicendevolmente. I pericoli nascono quando ciò non accade e
se, al posto della loro reciproca integrazione, retorica e logica si pongano
in antitesi (una novità nella speculazione contemporanea) e la funzione
dimostrativa della prova fagociti quella argomentativa. Quello di Giuliani è
in fondo un invito – che si potrà accettare o meno ma che non sembra sia
possibile ignorare nella misura in cui racconta «come sono effettivamente
andate le cose» (141) – a praticare, anche nel campo della prova, quel
sincretismo metodologico che è l’altra faccia del rifiuto del monismo della
verità (142).
7. – Tuttavia la notissima contrapposizione istituita da Giuliani fra
ordine «isonomico» ed «ordine asimmetrico» (143), cosı̀ illuminante in
generale nel campo della prova, non sembra possedere altrettanta capacità
esplicativa ove riferita al notorio (144). Se è vero infatti che il concetto si
(139) F. Carnelutti, op. cit., 8 discorre di «salto nel buio».
(140) In tal senso v. B. Cavallone, Alessandro Giuliani processualista (ordine isonomico,
ordine asimmetrico, principio dispositivo, principio inquisitorio), in Aa.Vv., Alessandro Giuliani: l’esperienza giuridica fra logica ed etica, cit., 355 ss., spec. 358. Il saggio è pubblicato
anche in questa Rivista 2012, 107 ss.
(141) Il celebre motto storiografico del Ranke è ricordato da G. Calogero, La logica del
giudice e il suo controllo in cassazione (1937), rist. Padova 1964, 129.
(142) Del rifiuto, cioè, della idea che «la verità è come l’acqua: o è pura o non è verità»:
idea, questa, sostenuta dal «primo» Carnelutti, La prova civile, cit., 32. Nel prosieguo, come
noto, lo studioso mutò le tesi generali esposte nel volume del 1915 che gli apparve, a
distanza di trentadue anni, «sotto ogni aspetto superato»: cosı̀ nella Introduzione del
1947 alla ristampa del libro (ivi, 4). Dal concetto di prova C. passò al problema del giudizio.
Per una sintesi della evoluzione del pensiero carneluttiano cfr. V. Denti, Prefazione, ivi,
spec. IX-X.
(143) Perfezionata, come tutti sanno, da Nicola Picardi (spec. nella voce Processo civile,
dir. moderno, in Enc. dir., XXXVI, Milano 1987, 101 ss.). Da ultimo l’influsso di tali idee si
coglie pure in K.W. Nörr, Romanisch-kanonisches Prozessrecht, cit. 221: l’a., nel descrivere la
struttura del giudizio romano-canonico, discorre (non casualmente, verrebbe da dire) di un
processo «isonomico». Lo stesso Nörr aveva peraltro in precedenza espresso delle riserve
(Alcuni momenti della storiografia del diritto processuale, in questa Rivista 2004, 1 ss.).
(144) Va comunque considerato che si tratta di modelli, vale a dire schemi generali per
intendere il fenomeno processuale. Designano cioè una fondamentale unità di struttura,
anche in assenza della riproduzione di tutti gli elementi rilevanti nei loro particolari. Non
a caso la locuzione «ordine isonomico» è stata impiegata con riferimento alla judicial notice
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
633
afferma insieme al sistema della prova legale (145) (quando «l’esprit de
géometrie a tué l’esprit de finesse») (146), sta di fatto che lo si impiega
anche in differenti contesti processuali (147).
Inoltre col tempo nella riflessione dei giuristi (dai decretisti ai decretalisti, dai glossatori ai commentatori e pratici ecc.) si registra una attenzione sempre più marcata (148) per le garanzie delle parti dinanzi all’utilizzo disinvolto del notorio da parte del giudice. Gradatamente si afferma
l’idea – pur in un’epoca di crescente «asimmetria» fra giudice e parti –
secondo la quale, quantunque si tratti di nozioni universalmente note, il
giudice non ne può prendere cognizione di sua iniziativa e deve invece
esservi sollecitato dalla allegazione di una delle parti (149). Ciò che prende
forma nella speculazione dei giuristi dell’età di mezzo (150) trova infine
da B. Cavallone, Alessandro Giuliani processualista, cit., 367. La nostra disciplina del notorio
sembra invece espressione di un ordine «asimmetrico». Alle ragioni già illustrate in precedenza si può aggiungere anche l’aspetto della allegazione del notorio (su cui v., di recente,
V. Baroncini, op. cit.). Ora, il notorio sovente concerne (anziché, come pure possibile, i fatti
«principali», spesso specifici e puntualizzati) i fatti c.d. secondari (per quella essenziale
schematicità del «profilo» del notorio, capace di sollecitare la formazione di una «comune
esperienza»). A coloro i quali ne esigono la affermazione ad opera delle parti, che sarebbero
liberate solo dal relativo onere probatorio, si contrappongono quegli altri scrittori (oggi la
stragrande maggioranza), che le solleverebbero da entrambi gli oneri (cosı̀ della prova come
della allegazione). Quest’ultima soluzione è prospettata in dottrina adesso anche in rapporto
ai fatti (notori) «costitutivi» concorrenti (nei diritti c.d. «autodeterminati»), suscettibili di
rilievo officioso ove emergenti dagli atti di causa.
(145) A. Giuliani, voce cit., 537-538, 552-553.
(146) J. Ph. Lévy, Dignitas, gravitas, auctoritas testium, in Studi in onore di Biondo
Biondi, Milano 1965, II, 29 ss., spec. 93 e nota 564. Il giurista si riferiva alla netta cesura
determinatasi rispetto al modello probatorio romano contrassegnato dalla libera valutazione
delle prove.
(147) Riconducibili al modello «isonomico». Lo aveva del resto notato proprio A.
Giuliani, Il concetto di prova. Contributo alla logica giuridica, Milano 1961, rist. 1971,
152-153 (in rapporto alle positiones e alla concezione della dialettica come logica del probabile); ma vedi anche ivi, XII, 165 e 171.
(148) Lo dimostra, fra gli altri, C. Ghisalberti, op. cit., spec. 449 ss.
(149) V. retro in nota 144.
(150) Si consideri un autore che ha contribuito alla elaborazione della dottrina del
notorio, Joachim Mynsinger von Frundeck. Egli scrive: «facta subiecta notorio non indigent
probatione, si ea in judicio allegantur. Et hoc est quod vulgo dicitur: Notorium ab onere
probandi relevare non autem ab onere proponendi» (Mynsinger, Observationum Imp. Camerae, Cent. VI Sing. Observ. III, Witerbergae 1509). Cfr., sul «cameralista» Mynsinger, i
rilievi di G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, rist., Napoli 1965, 8; N. Picardi,
(voce Processo civile-diritto moderno), ora in La giurisdizione all’alba del terzo millennio,
Milano 2007, 204 e nota 14. Nonché, in ultimo, S. Schumann, Joachim Mynsinger von
Frundeck (1514-1588). Herzoglicher Kanzler in Wolfenbüttel – Rechtsgelehrter – Humanist.
Zur Biographie eines Juristen im 16. Jahrhundert, Wiesbaden 1983. La affermazione del
giurista tedesco è comune: cfr., ad es., nello stesso senso I. Menochius [De praesumptiones,
Lib. I, Quaestio LXVII (5), Coloniae Agrippinae, 1606: «Idem affirmant omnes, qui dicunt
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consacrazione legislativa in quel documento esemplare che è il «Codex
Juris Bavarici Judiciarii de anno 1753» (151).
Si aggiunga che, pur nel settore stricto sensu probatorio, la ratio della
notorietà (nel passaggio dal notorium facti al notorium iuris nelle sue varie
articolazioni) non è stata affatto univoca (una cosa essendo la evidentia
facti, altra cosa la probatio probata, altra ancora la praesumptio). Il che
spiega la difficoltà di rinserrare il notorio (nella sua proteiforme evoluzione), e le modalità stesse della sua introduzione nel giudizio, in quella
antitesi (152) fra modelli «isonomico» e «asimmetrico». La realtà delle
cose invita dunque a una posizione più sfumata.
Probabilmente ciò dipende anche da ragioni ulteriori. Storicamente la
associazione del notorio alla prova nel processo (notoria non egent probatione) (153) è andata di pari passo con la sua marcata destinazione «antiprocessuale». La notorietà è cioè valsa in moltissimi casi ad escludere il
ricorso al giudizio comune: «ordines iudiciarii ad veritatem indagandam
fuerunt inventi, et ideo veritate cognita possunt praetermitti» (154).
Bisogna poi aggiungere che, da un punto di vista generale, è dubbia la
connessione stessa fra prova e notorietà processuale. La seconda nozione
non si esaurisce entro i confini della prova, ma li sopravanza.
quod etsi notorium non indiget probatione, indiget tamen allegatione»], come pure lo Scaccia
(De iudiciis, Lib. I, Cap. 76, Venetiis 1663: «Adverse tamen, quod licet huiusmodi notorium
facti permanentis et continui non sit probandum, erit tamen allegandum ab eo, qui se fundat in
illo, quia licet notorium relevat ad onere probandi, non tamen relevat ab onere allegandi»).
(151) Prendiamo il dodicesimo capitolo del codice bavarese («Zwölftes Capitel») dedicato alle prove («Von dem Beweis durch eigene Geständnuß, Vermuthung, Augenschein,
Calculation, Notorietät, und gemeinen Ruf») diverse da quella documentale (alla quale viene
consacrato il capitolo undicesimo: «Von dem Beweis durch schriftliche Urkunden»). Quando
si occupa della «notorietà» («Von der Notarietät») – ravvisandola in quanto sia legalmente
conosciuto dal Giudice –, il codice ha cura di distinguere le due attività rispettivamente della
prova e della allegazione del fatto: Ǥ. 5. Was bey Gericht vorhin schon legaliter bekannt, und
notorisch ist, darf von denen Partheyen weiter nicht mehr erwiesen, sondern nur allegirt
werden. Falls aber das angebliche Notorium widersprochen, und in Zweifel ist, muß derjenige,
welcher sich darauf besteift, den Beweis machen». Del resto, l’onere della prova, se viene
meno in rapporto ad una parte, non viene eliminato del tutto: colui, che elevi dubbi sul
notorio, dovrà offrire la dimostrazione di quel che sostiene.
(152) Del resto Giuliani e Picardi non hanno inteso quella contrapposizione fra modelli
in modo rigido. È vero anzi il contrario: v. retro in nota 144.
(153) Sugli abusi legati al principio cfr. G. Chiarelli, La definizione giuridica del fatto
notorio, in Arch. giur. 1927, 227 ss. (il quale ricorda le critiche degli scrittori, da Carrara a
Giurati, da Lomonaco a Birkmeyer e Florian, ecc.).
(154) La frase è di Antonio da Budrio. Sul punto cfr. A. Erler, Notorietät, in Handwörterbuch zur deutschen Rechtsgeschichte, a cura di A. Erler e E. Kaufmann, III, Berlin
1984, 1062-1064; M. Schmoeckel, op. cit., 134; C. Ghisalberti, op. cit., 446.
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il notorio, la judicial notice e i «concetti» di prova
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Friedrich Stein suggeriva di consultare la dottrina angloamericana
«mit Maass» deplorandone sprezzantemente lo stato di «miserevole impotenza» (155) in rapporto ai risultati conseguiti dalla scuola tedesca. Sennonché solo tre anni prima James Bradley Thayer aveva pubblicato un suo
lavoro fondamentale (Judicial Notice and The Law of Evidence) (156), nel
quale sottolineava che la judicial notice, cosı̀ come il notorio in senso
stretto, sono parti del ragionamento del giudice anziché tessere del mosaico dell’evidence (157). E se si rammenta che la diffusione della notizia di
un fatto notorio è stata paragonata – proprio da Stein (158) – alla «Scheidemünze» che passa di mano in mano, e se si ricorda che il giudice, come
ogni altro individuo, venendo a conoscenza del fatto per la generale divulgazione di esso, diventa una «fungible Person» (159), non può destare
meraviglia (e sembra anzi il logico corollario di premesse consimili) l’affermazione per cui la judicial notice è, al pari del notorio, «woven into the
very texture of the judicial function» (160).
Appare assai significativo che in questa linea si collochi adesso anche il
diritto canonico, nell’ambito del quale ha avuto inizio (161) la storia del
notorio proprio in connessione con il tema della prova. Oggi il nuovo
codice di diritto canonico del 1983, pur continuando ad impiegare la
categoria della notorietà, ne recide il tradizionale collegamento con la
(155) Cfr. la prefazione (F. Stein, op. cit., IV). La critica riguarda anche la dottrina
francese: «freilich bekenne ich weder aus der weltmännischen Oberflächlichkeit der einen» (e
Stein si riferisce alla letteratura francese) «noch aus der kläglichen Hilflosigkeit der anderen»
(la dottrina angloamericana) «Etwas Wesentliches gelernt zu haben». Secondo Stein, nel
campo del diritto probatorio, tutti debbono andare a scuola dai tedeschi! Lo fecero gli
italiani, ad iniziare dal «primo» Carnelutti, op. cit., 9-10.
(156) Già citato retro in nota 55. Il noto saggio apparve, come detto, nella rivista
giuridica di Harvard, dove Thayer era «Royall Professor of Law» (e poi, dal 1893 sino alla
morte nel 1902, «Weld Professor of Law»): cfr. A.E. Sutherland, The Law at Harvard. A
History of Ideas and Men, 1817-1967, Cambridge (MA), 185. V. pure, sul punto, B. Cavallone, il quale – nell’ambito delle numerose indagini dedicate al fenomeno sotto esame (nei
saggi raccolti in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova 1991, spec. 137 ss., 202 ss.,
244 ss., 297 ss.) – ricorda la lezione di Thayer in rapporto alla «necessaria immanenza»
dell’istituto «in qualunque ordinamento processuale» (ivi, 255, nt. 167). Sul punto v. anche
F. Ferrari, La «prova migliore». Una ricerca di diritto comparato, Milano 2004, 46 ss.
(157) Da lui ristretta alle regole di esclusione, a loro volta riannodate al peculiare
meccanismo della giuria.
(158) F. Stein, op. cit., 148.
(159) Ibidem.
(160) J.B. Thayer, op. cit., 287-288; Id., A preliminary treatise, cit., 237.
(161) Cfr. J. Kohler, Der Prozess als Rechtsverhältnis. Prolegomena zu einen System des
Civilprozesses, Mannheim 1888, 26, secondo il quale lo sviluppo della dottrina del notorio
«gehört zu den Glanzpunkten des kanonischen Prozesses».
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prova (162), quel medesimo collegamento che Thayer aveva a suo tempo
contrastato in consonanza con la sua idea di fondo di una law of evidence
ristretta all’osso.
ANDREA PANZAROLA
Professore ordinario nell’Università LUM di Bari (Casamassima)
(162) Il legislatore del 1983 (diversamente da quello del 1917: v. retro, § 1) non ha
infatti esonerato dalla prova i fatti notori: v. A.P. Arman, Il notorio nel nuovo codice di
diritto canonico, Roma 2002, spec. 6 ss. L’uscita dalla storia del diritto canonico del notorio
come «fatto» che non abbisogna di prova risale alla decisione unanime assunta dalla Commissione pontificia per la revisione del codice il 25 novembre 1978 (ivi, 11).
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RIFLESSIONI IN TEMA DI NE BIS IN IDEM EUROPEO
SOMMARIO: 1 Concezione solidaristica della potestà punitiva, fenomeni di giudicato instabile
e ne bis in idem. – 2. «Identità del fatto» e tipologia dei provvedimenti preclusivi
nell’esperienza giurisprudenziale europea. – 3. «Doppio binario sanzionatorio» e «materia penale»: l’approccio antiformalistico della Corte europea dei diritti dell’uomo.
1. – Parlare di spazio giudiziario europeo significa anche ripensare
l’idea di potestà punitiva in una dimensione tendenzialmente «solidaristica»: nessuno Stato si può considerare impermeabile alle istanze repressive
provenienti dall’esterno, ma è invece chiamato a cooperare attivamente al
fine di salvaguardarle. La tradizionale concezione autoreferenziale della
repressione penale - efficacemente riassunta nell’espressione «sovranità
punitiva» - cede cosı̀ il passo ad una idea di giurisdizione che attinge
direttamente al principio del mutuo riconoscimento. Autentica pietra angolare della cooperazione giudiziaria (1), quel principio sottende, come è
noto, l’idea che nel contesto giudiziario europeo le decisioni dei giudici
penali (e di altre autorità assimilate) di uno Stato membro debbano essere
riconosciute da tutti gli altri Stati membri. In particolare, il mutuo riconoscimento tende ad assumere nei fatti una duplice valenza: passiva ed attiva;
sotto il primo profilo, esso implica che alla decisione di un giudice penale
di uno Stato membro vadano riconosciuti da un altro Stato membro gli
stessi effetti giuridici che sarebbero attribuiti all’analoga decisione presa da
un giudice interno; sotto il profilo attivo, il principio del mutuo ricono-
(1) V. J. R. Spencer, La cooperazione giudiziaria tra mutuo riconoscimento, armonizzazione e tradizionali modelli
intergovernativi, in Aa. Vv., Manuale di Procedura penale europea,
a
a cura di Kostoris, 2 ed., Milano 2015, 277. In argomento, ancora, J. R. Spencer, EU fair
trial rights-progress at last, in New Journal of European Criminal Law 2010, I, 445; nonché I.
Bantekas, The Principle of Mutual Recognition in EU Criminal Law, in European Law
Review 2007, p. 365; M. De Hoyos Sancho, El principio de reconocimiento mutuo de
resoluciones penales en la Uniòn Europea: Assimilaciòn automatica o corresponsabilidad? in
Revista de Derecho Comunitario Europeo 22 2005, 807; R.E. Kostoris, Processo penale,
diritto europeo e nuovi paradigmi, in Aa.Vv., I nuovi orizzonti della giustizia europea, Atti
del Convegno dell’Associazione tra gli Studiosi del processo penale, Milano 2015, 61 s.; N.
Galantini, Una nuova dimensione per il ne bis in idem internazionale, in Cass pen. 2004,
3477; O. Mazza, Il principio del mutuo riconoscimento nella giustizia penale. La mancata
armonizzazione e il mito taumaturgico della giurisprudenza europea, in Riv dir. proc. 2009,
393. S. Allegrezza, Cooperazione giudiziaria, mutuo riconoscimento e circolazione della prova
penale nello Spazio giudiziario europeo, in Aa. Vv., L’area di libertà sicurezza e giustizia : alla
ricerca di un equilibrio tra priorità repressive ed esigenze di garanzia, a cura di Rafaraci,
Milano 2007, 691. Per una ampia ricostruzione in chiave storica v. A. Weyembergh, Storia
della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, in Manuale di Procedura penale
europea, cit., 173 s.
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scimento sottende l’idea che ogni Stato prenda provvedimenti positivi per
assicurare l’esecuzione delle decisioni adottate altrove (2). E oggi, come è
noto, di mutuo riconoscimento si parla espressamente nell’art. 82 par.1 del
TFUE, secondo cui «la cooperazione giudiziaria in materia penale nell’Unione è fondata sul principio del riconoscimento reciproco delle sentenze e
delle decisioni giudiziarie».
In questo scenario assume un ruolo di prima grandezza il profilo della
salvaguardia dell’individuo dal rischio della duplicazione dell’esercizio della potestà punitiva per il medesimo fatto in Stati diversi. Di qui la necessità
di agire contemporaneamente su due livelli: individuando soluzioni volte a
risolvere eventuali conflitti di giurisdizione, con l’ausilio di criteri oggettivi
e vincolanti per gli Stati coinvolti (divieto di azioni penali concorrenti per
il medesimo fatto) (3); attribuendo, all’interno di ogni Stato membro,
effetti preclusivi al pregresso giudicato straniero (ne bis in idem) (4).
Focalizzando l’attenzione sul ne bis in idem, sembra corretto collocarlo
nella specifica dimensione del mutuo riconoscimento: tale divieto implica,
infatti, l’adesione e l’adeguamento ad un giudicato straniero, e in definitiva, l’accettazione di un prodotto, la sentenza definitiva, che si è formato
«altrove», spesso con metodologie probatorie differenti (5). È inoltre
(2) Cfr., ancora, J. R. Spencer, La cooperazione giudiziaria, cit. 278.
(3) In argomento, nell’ambito di una letteratura assai vasta, C. Amalfitano, Conflitti di
giurisdizione e riconoscimento delle decisioni penali nell’Unione europea, Milano 2006; G.
De Amicis, La prevenzione dei conflitti tra giurisdizioni e il trasferimento del processo, in Aa.
Vv., Spazio europeo di giustizia e procedimento penale italiano, a cura di Kalb, Torino 2012,
277; L. Luparia, La litispendenza internazionale tra ne bis in idem europeo e processo penale
italiano, Milano 2012, passim; J.P. Pierini, Territorialità europea, conflitti di giurisdizione e ne
bis in idem, in Aa. Vv. L’area di libertà, sicurezza e giustizia: alla ricerca di un equilibrio fra
priorità repressive ed esigenze di garanzia, a cura di Rafaraci, Milano 2007, 13; nonché, J. L.
De La Cuesta, Concurrent national and international criminal jurisdiction and the principle
“ne bis in idem”. General Report, in Rev. int. droit pénal 2002, 725; P. Panayides, Conflicts of
jurisdiction in criminal proceedings: analysis and possible improvements to the EU legal
framework, in Rev. int. de droit penal 2006, 113; W. Schomburg, Criminal matters: transnational ne bis in idem in Europe – conflicts of jurisdiction – transfer of proceedings, ERA
Forum 13 2012, n. 3, 331;
(4) Per un quadro di sintesi v. di recente, N. Galantini, Il ne bis in idem europeo: verso
il superamento della res iudicata? in Aa. Vv. I nuovi orizzonti della giustizia penale europea,
cit. 241 s. J. A. E. Vervaele, Ne bis in idem: verso un principio costituzionale transnazionale
in UE?, in Riv. it. dir. proc. pen. 2014, p. 42.
(5) Per alcuni interessanti rilievi sul punto v. J. Lelieur, “Transnationalising” ne bis in
idem: how the rule of ne bis in idem reveals the principle of personal legal certaint, in
www.utrechtlawreview.org., n. 9 2013, 204, la quale rileva come « it is common to read that
the transnationalisation of the rule of ne bis in idem is a consequence of the development of
the principle of mutual recognition. Recognising a foreign judgement is still a difficult process.
It will remain so as long as national criminal law and criminal procedures largely differ from
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riflessioni in tema di ne bis in idem europeo
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plausibile ritenere che il ne bis in idem attinga direttamente ai valori del
«giusto processo» (6), cui è sottesa anche l’esigenza di conferire forza e
stabilità alle decisioni definitive. Sollevando l’individuo dal rischio di una
duplicazione del processo sul medesimo fatto, il ne bis in idem costituisce,
peraltro, anche un autentico corollario del principio della libera circolazione delle persone nello spazio europeo (7).
Delineato il contesto di tutela nel quale il ne bis in idem europeo si
inscrive, occorre spingere l’analisi più a fondo e soffermarsi su due aspetti,
logicamente interrelati, suscettibili di incidere sensibilmente sulla concreta
operatività della garanzia in discorso: l’obbligatorietà /discrezionalità dell’azione penale e il livello di stabilità dei giudicati «interni».
Risulta evidente come il rischio di un doppio giudizio sul medesimo
fatto possa emergere sia nell’ambito degli ordinamenti - come quello italiano - dove l’azione penale è obbligatoria, sia in contesti dove l’azione
penale è discrezionale. Nel primo caso, la duplicazione della potestà punitiva potrebbe essere il riflesso di una concezione troppo rigida della
«legalità nel procedere», che vincola il pubblico ministero e lo spinge ad
agire sempre. Nella seconda ipotesi, invece, sarebbe la discrezionalità di cui
gode il rappresentante dell’accusa circa l’avvio dell’azione penale a costituire terreno fertile per la reiterazione di iniziative penali ingiustificatamente persecutorie (8). Che sottenda una malintesa concezione di un
each other and as long as criminal justice remains a matter of national authorities focussing on
national legal consistency».
(6) Sul collegamento tra ne bis in idem e «giusto processo» v., in particolare, J. A.E.
Vervaele, The transnational ne bis in idem principle in the EU. Mutual recognition and
equivalent protection of human rights., in www.utrechtlawreview, I, Issue 2, December
2005, 100; Id, I diritti fondamentali nello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia: il
principio pretorio del ne bis in idem secondo la Corte di Giustizia., consultabile in www.lex.unict.it/didattica/materiale 13/monnet/penale 2009, 3; S. Gless, J. A.E. Vervaele, Law
Should Govern: Aspiring General Principles for Transnational Criminal Justice’, Utrecht
Law Review 9, no. 4, 2013, 10;
(7) V. già la Risoluzione del Parlamento europeo del 16 marzo 1984.
(8) Può essere interessante sottolineare come nei sistemi di Common law sia diffusa
l’idea secondo cui l’avvio di una nuova azione penale in presenza di un pregresso giudicato
integrerebbe una situazione riconducibile all’area del c.d. abuse of process (un termine con il
quale si è soliti stigmatizzare le prassi distorsive dell’accusa). Nel sistema statunitense, in
particolare, il divieto del Double Jeopardy, espressamente previsto dal V˚ Emendamento
della Costituzione, risulta operativo sin dal momento della formazione della giuria, e, nei
procedimenti dove quest’ultima non è prevista, sin dall’inizio della istruzione dibattimentale.
Come si vede, in questa prospettiva il divieto in discorso tende ad assumere una valenza
assai ampia: non solo costituisce un ostacolo alla reiterazione del giudizio sul medesimo
fatto, ma impedisce anche che l’imputato venga distolto dalla giuria precostituita, considerata alla stregua di un vero e proprio «giudice naturale». In argomento v. G. C. Thomas,
Double Jeopardy, New York- London 1998, passim.
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«dovere» oppure l’idea di una incondizionata libertà di agire, l’esercizio
dell’azione penale in presenza di un pregresso giudicato in idem denota, in
ogni caso, un atteggiamento di sfiducia nei confronti di quest’ultimo.
Proiettata sul piano transnazionale, quella diffidenza parrebbe logicamente
incompatibile con il valore del mutuo riconoscimento, il quale implica, per
l’appunto, come si diceva, il reciproco affidamento tra gli Stati coinvolti:
quello in cui si è formato il giudicato e quello che potrebbe attivarsi in
idem. In ogni caso, sembra plausibile ritenere che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non potrebbe, di per sé, rappresentare un alibi
per circoscrivere gli effetti ostativi di un giudicato straniero, al fine di
sterilizzare la garanzia del ne bis in idem. Per un motivo molto semplice.
Rivendicare la legittimità dell’avvio di una nuova azione penale in idem sul
rilievo che il pubblico ministero dovrebbe agire sempre – per cui il dovere
«interno» di attivare la pretesa punitiva statuale prevarrebbe in ogni caso
sui «vincoli interdittivi esterni» – significherebbe infatti dimenticare che
un’azione penale è obbligatoria in quanto legittima, non legittima solo
perché obbligatoria. E la presenza di un giudicato straniero dovrebbe sortire, nello spazio giudiziario europeo, e proprio in forza del principio del
mutuo riconoscimento, un effetto ampiamente condiviso: la consunzione
della potestà punitiva interna e la conseguente illegittimità di una eventuale nuova azione in idem (9).
La questione diventa più complessa quando si sposta il focus sul profilo della stabilità del giudicato interno e dei suoi rapporti con il ne bis in
idem europeo. Si tratta di un problema di grande attualità che coinvolge
proprio la forza del «titolo preclusivo», cioè il presupposto logico-cronologico della garanzia ostativa in discorso. Al momento, il trend appare cosi
decifrabile. La Corte europea dei diritti dell’uomo sembra orientata ad
individuare nella riapertura del processo un privilegiato meccanismo di
ristoro per la violazione delle garanzie di equità processuale. Di qui «l’esigenza di superare un giudicato penale nazionale, che si è formato proprio
a seguito del previo esaurimento delle vie di ricorso interno» (10). Le
legittime tensioni garantiste che si manifestano a livello europeo si «scari-
(9) È forse utile ricordare, a titolo meramente esemplificativo, che l’art. 68 del codice
penale olandese contiene una disposizione generale in materia di ne bis in idem anche con
riferimento a giudicati stranieri. Dal canto suo, l’art. 10 co. 3 del codice penale danese
riconosce una limitata efficacia preclusiva al giudicato straniero, inibendo l’esercizio dell’azione penale in caso di proscioglimento dell’imputato da parte dello Stato del locus commissi
delicti.
(10) Cosı̀ R.E. Kostoris, Diritto europeo e giustizia penale, in Aa. Vv., Manuale di
procedura penale europea, cit., 57.
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riflessioni in tema di ne bis in idem europeo
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cano», quindi, anche sul giudicato, il quale, ed è questa la vera novità, non
rappresenta più il prodotto finale, il suggello, il momento di chiusura
dell’esperienza processuale, ma apre (e si apre a) nuovi orizzonti di tutela.
Orizzonti che possono risultare in verità assai ampi, per via dell’interpretazione pragmatica ed elastica del parametro dell’equo processo sinora
offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, come è stato
opportunamente rilevato, privilegia l’approccio casistico e fonda il suo
ragionamento non già su fattispecie normative, ma su violazioni di diritti,
valorizzando il principio di proporzionalità e guardando al complesso della
vicenda giudiziaria (11). Donde l’esigenza di forgiare nei vari ordinamenti
strumenti di riapertura del processo assai duttili (12), perché suscettibili di
adattarsi alle soluzioni di volta in volta prescelte dai giudici di Strasburgo.
Tanto premesso, può essere interessante focalizzare l’attenzione sul
sistema italiano, che sembra fornire utili spunti per alcune riflessioni in
materia di rapporti tra giudicato e ne bis in idem europeo.
Da noi pare delinearsi e consolidarsi, in maniera sempre più marcata,
l’idea di un giudicato flessibile. Le esigenze di stabilità delle decisioni
giudiziarie sembrano cedere il passo alla necessità di assicurare una pluralità di controlli straordinari preordinati a «forzare» il giudicato, a salvaguardia delle garanzie individuali. Ci si riferisce, sul piano giurisprudenziale, ai noti casi Dorigo, Drassich, Scoppola, e, in ambito normativo, alla
revisione «europea» per violazione delle regole dell’equo processo a seguito
di una condanna dello Stato italiano da parte dei giudici di Strasburgo (13)
e alla rescissione del giudicato a tutela dell’imputato assente senza colpa
dal processo (art. 625 ter c.p.p.): strumenti eccezionali che mirano a soddisfare istanze ritenute «convenzionalmente» prioritarie. La rescissione del
giudicato, ad esempio, mira ad allineare il nostro sistema ai desiderata della
(11) In tal senso, R.E. Kostoris, La revisione del giudicato iniquo e i rapporti tra violazioni convenzionali e regole interne, in Legisl. pen. 2011, 324; Id., Processo penale, diritto
europeo e nuovi paradigmi, cit. 57.
(12) Lo sottolinea, ancora, R.E. Kostoris, La revisione del giudicato iniquo, cit. 324. Sul
principio di proporzionalità in ambito europeo v. M. Caianiello, Il principio di proporzionalità nel procedimento penale, in Diritto penale contemporaneo 2014, 8, il quale sottolinea
come «la crescente europeizzazione della intera area penale rappresenta un potente motore
di espansione del principio di proporzionalità, che costituisce una colonna portante di tutto
l’edificio europeo, e in particolare di quello UE: tutto il diritto UE pone al centro del
rapporto autorità-individuo (ma anche di quello tra potere centrale e potere degli Stati
membri) il canone di proporzione». Il principio di proporzionalità risulta peraltro da tempo
recepito nel sistema della CEDU, grazie alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo, e rappresenta ormai un criterio base per verificare il livello di tutela effettiva dei
diritti fondamentali previsti dalla CEDU.
(13) V. la sentenza additiva della Corte cost. n. 113 del 2011.
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Corte europea dei diritti dell’uomo circa l’effettiva partecipazione dell’accusato al processo, attraverso un meccanismo che assicuri una completa
restitutio in integrum all’imputato la cui assenza fosse stata erroneamente
dichiarata (14): una scelta apprezzabile, posto che l’incremento dei poteri
di accertamento in sede di impugnazione non potrebbe mai assicurare
all’imputato il ripristino dei diritti violati.
Nel sistema italiano, quindi, la flessibilità del giudicato sembra assurgere al rango di nuovo e moderno valore, perché ritenuto idoneo ad offrire
la maggior tutela possibile alla persona condannata in un processo penale,
in sintonia con i parametri europei. Non conta più tanto mettere la parola
«fine» ad un determinato processo, quanto, piuttosto, assicurarsi che tutte le vie di tutela siano sempre percorribili, senza rigidi e predeterminati
confini temporali: il giudicato non è più il punto di arrivo del processo
penale, ma la tappa di un percorso articolato e complesso che ha come
obiettivo prioritario la massima tutela dell’individuo.
Qui però sembra emergere un problema sul piano transnazionale. Che
cosa accade se ogni ordinamento sceglie di dotarsi di rimedi eccezionali
per scardinare il giudicato penale «interno»? Che cosa succede se l’idea
del giudicato flessibile come massimo strumento di garanzia individuale
diventa un valore diffuso? È evidente che il livello di accettazione, da parte
di ciascuno Stato, degli effetti di un giudicato straniero, risulta direttamente proporzionale al grado di stabilità di quel giudicato. Più precisamente.
La fiducia di uno Stato in un giudicato straniero presuppone che quest’ultimo non possa essere messo (troppo facilmente) in discussione là
dove si è formato: difficile ipotizzare che un ordinamento possa abdicare
alla propria sovranità punitiva, riconoscendo ed accettando gli effetti preclusivi in idem di una sentenza straniera, se quest’ultima risulta «aggredibile» da diverse angolazioni, sul piano interno, con strumenti di controllo
eccezionali. Può un giudicato instabile sul piano interno (perché esposto
ad una pluralità di controlli «straordinari») pretendere di acquisire, a
livello europeo, una forza preclusiva tale da impedire una nuova azione
in idem da parte di una autorità straniera? Un giudicato rivedibile e
perfettibile sarebbe probabilmente ritenuto inaffidabile dal punto di vista
degli interessi repressivi dell’ordinamento chiamato a recepirne l’efficacia
ostativa: il ne bis in idem europeo non avrebbe più un terreno sicuro su cui
operare. Insomma, ciascuno Stato potrebbe disconoscere l’efficacia osta-
(14) In tal senso, H. Belluta, Le impugnazioni come rimedi ripristinatori: verso il giusto
processo in assenza dell’imputato, in Aa. Vv., Strategie di deflazione penale e rimodulazioni del
giudizio in absentia, a cura di M. Daniele e P.P. Paulesu, Torino 2015, 249.
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riflessioni in tema di ne bis in idem europeo
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tiva in idem di una sentenza straniera lamentandone proprio l’imperfezione e l’inadeguatezza rispetto agli standards di garanzia europei. Un comodo alibi a difesa della autarchia punitiva statuale e una palese sconfitta per
il ne bis in idem transnazionale. Forse bisognerebbe accettare l’idea che,
probabilmente, in futuro, nello spazio giudiziario europeo, la reale forza
del ne bis in idem si misurerà non solo e non tanto sul piano della stabilità
del giudicato, quanto, piuttosto, sul piano della sua unicità e omogeneità.
Donde la necessità di insistere, in questa delicata materia, sul versante
cruciale dell’armonizzazione: e l’ideale punto d’approdo di un simile percorso dovrebbe essere rappresentato da una sorta di statuto europeo delle
persone condannate o assolte in via definitiva, dove il concetto di sentenza
irrevocabile, gli effetti ostativi che ne conseguono, i criteri per individuare
il medesimo fatto, e persino gli strumenti revocatori del giudicato (ecco il
punto) risultassero chiaramente predeterminati e, soprattutto, pienamente
condivisi.
2. – Che il ne bis in idem europeo possa essere davvero valorizzato solo
predeterminando la nozione di «medesimo fatto» e la tipologia dei provvedimenti ostativi è noto. Un percorso tutt’altro che agevole in un sistema
integrato di fonti che disorienta: art. 50 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (15); art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (16); artt. 54 s.
della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (17).
A questo proposito, ci si domanda se sia possibile attribuire all’art. 50
CDFUE il medesimo contenuto dell’art. 4 Prot. n. 7 CEDU (nell’interpretazione fornita dai giudici di Strasburgo) in ordine alla nozione di
«reato» inteso come «fatto storico» e alla definizione di «materia penale».
L’argomento testuale, ancorché non risolutivo, sospinge verso la soluzione
positiva (18): l’art. 52 par. 3 CDFUE stabilisce, infatti, che «laddove la
(15) «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato
assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente
alla legge».
(16) L’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU stabilisce che nessuno possa essere perseguito o
condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per una infrazione per cui è già
stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed
alla procedura penale di tale Stato.
(17) L’art. 54 CAAS prevede che «una persona che sia stata giudicata con sentenza
definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per
i medesimi fatti a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia
effettivamente in corso di esecuzione attualmente o non possa più essere eseguita secondo
la legge della parte contraente».
(18) Su questa linea, F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una
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presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli
conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». Significative risultano, al riguardo, anche le Spiegazioni a corredo della CDFUE:
a) all’art. 50 CDFUE, dove è stabilito che «Per quanto riguarda le situazioni contemplate dall’articolo 4 del protocollo 7, vale a dire l’applicazione
del principio all’interno di uno Stato membro, il diritto garantito ha lo
stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla
CEDU»; b) all’art. 52 par. 3 CDFUE, appena citato, ove si prevede che «Il
riferimento alla CEDU riguarda sia la convenzione che i relativi protocolli.
Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal
testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.
L’ultima frase del paragrafo è intesa a consentire all’Unione di garantire
una protezione più ampia. La protezione accordata dalla Carta non può
comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito
dalla CEDU».
Al di là del complesso problema dei rapporti tra le fonti, che non può
essere ovviamente trattato in questa sede (19), sono apprezzabili gli sforzi
profusi sinora dalla giurisprudenza europea in tema di confini oggettivi del
ne bis in idem.
Con riferimento all’espressione «medesimi fatti» contenuta nell’art. 54
CAAS, ci si è posto il problema se tale disposizione alluda al «fatto» inteso
in senso materiale o naturalistico,cioè considerato come puro accadimento
storico, se si riferisca, invece, al «reato», cioè alla sola dimensione giuridica
(la fattispecie incriminatrice, il nomen iuris), o, ancora, se indichi il bene
giuridico leso dal reato (20).
Procedendo per esclusione, risulta evidente che la scelta di privilegiare
il criterio della qualificazione giuridica potrebbe risultare congruo solo in
un contesto di «armonizzazione» tra i sistemi penali, dove l’espressione
diretta applicazione dell’art. 50 della Carta? (a margine della sentenza Grande Stevens della
Corte Edu), in Diritto penale contemporaneo, n. 3/4 2014, 219.
(19) In argomento, di recente, R E. Kostoris, Diritto europeo e giustizia penale, in Aa.
Vv. Manuale di procedura penale europea, cit., 5 s..
(20) Per una panoramica giurisprudenziale, v. G. De Amicis, Il principio del ne bis in
idem nell’interpretazione della Corte di giustizia, in Cass. pen. 2009, 3162; T. Rafaraci, Ne bis
in idem e conflitti di giurisdizione in materia penale nello spazio di libertà sicurezza e giustizia
dell’Unione europea, in Riv. dir. proc. 2007, 621.
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riflessioni in tema di ne bis in idem europeo
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«stesso reato» rivestisse un significato definito e condiviso. Se cosı̀ non
fosse, una persona, condannata per il fatto x in un dato ordinamento,
risulterebbe sempre fatalmente esposta ad un nuovo procedimento in un
altro Stato per il medesimo fatto x, ma classificato sotto un diverso nomen
iuris. Ne risulterebbe inficiato lo stesso principio della libera circolazione
delle persone tra gli Stati membri, che, come si diceva, rappresenta uno
dei valori su cui si regge il ne bis idem comunitario.
Poco affidabile risulta, però, anche il criterio del bene giuridico tutelato, essendo quest’ultimo legato alla specificità culturale di ogni singolo
ordinamento, che, inevitabilmente, orienta le scelte di politica legislativa.
Ad esempio, potrebbe accadere che un reato come l’estorsione, che in
Italia è inquadrato tra i reati contro il patrimonio, venga considerato in
un altro ordinamento alla stregua di un reato contro la persona. Consentire un doppio giudizio sullo stesso fatto storico, solo perché diversamente
qualificato sotto il profilo dell’interesse giuridico protetto significherebbe,
insomma, produrre una sostanziale ingiustizia. Senza dimenticare che il
concetto di bene giuridico tende a mutare nel tempo all’interno dello
stesso sistema (si pensi, ad esempio, all’evoluzione del concetto di «osceno» nell’ordinamento italiano). Di qui la difficoltà di impiegarlo come
affidabile criterio di riferimento per tracciare i confini operativi del ne
bis in idem nei rapporti tra Stati diversi.
Su queste basi, va senz’altro condivisa la soluzione prescelta dalla
Corte di giustizia e orientata a privilegiare una concezione «sostanziale»
o «materiale» del reato, colto nella sua dimensione storica, fattuale. Alcune
pronunce sono piuttosto note ma vale qui la pena ricordarle. A proposito
di una condanna in uno Stato per importazione illegale di sostanze stupefacenti e di una successiva condanna in un altro Stato per esportazione
delle stesse sostanze da parte dello stesso soggetto, la Corte ha considerato
i fatti consistenti nell’esportazione e nell’importazione delle stesse sostanze
come «medesimi fatti» ai sensi dell’art. 54 CAAS (21). È stato inoltre
(21) C. giust. UE 9 marzo 2006, C-436/04, Van Esbroeck. Analogamente, su fattispecie
simile, C. giust. UE 28 settembre 2006, C-150/05, Van Straaten). Problemi interpretativi
legati al parametro del «medesimo fatto» emergono anche con riferimento al profilo dell’identità del disegno criminoso sotteso ad una pluralità di reati. Non è chiaro se la presenza
di tale requisito possa avere un qualche rilievo in questa materia. La Corte di giustizia, in
rapporto a un caso di condanna nel proprio Paese per ricettazione di denaro proveniente da
traffico di sostanze stupefacenti e di condanna in altro Paese per riciclaggio di denaro
derivante da traffico di stupefacenti ha precisato come l’unicità del medesimo disegno
criminoso risulti di per sé ininfluente ai fini del ne bis in idem, mentre graverebbe sul
giudice nazionale il dovere di valutare se, in concreto, l’attività di riciclaggio venga realizzata
con mezzi (somme di denaro) «inscindibilmente connessi» con quelli oggetto della prece-
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sottolineato che per «fatti» ai sensi dell’art. 54 CAAS deve intendersi
«l’insieme degli accadimenti indissolubilmente legati tra loro, essendo
del tutto irrilevante in proposito che colui che invoca la garanzia del ne
bis in idem risulti indagato insieme a soggetti di volta in volta diversi nei
vari procedimenti che lo vedono coinvolto» (come era avvenuto nel caso di
specie).
Sul concetto di medesimo fatto si registra, peraltro, oggi, nel panorama
giurisprudenziale europeo, una rassicurante convergenza interpretativa tra
le Corti. Dopo alcune oscillazioni (22), anche i giudici di Strasburgo sembrano ormai orientati verso la tesi «sostanziale»: basti qui citare una notissima pronuncia, divenuta ormai una sorta di leading case, la quale,
richiamando apertamente proprio l’impostazione della Corte di giustizia,
puntualizza come l’espressione «reato» presente nell’art. 4 del Protocollo
n. 7 CEDU alluda inequivocabilmente al fatto storico (23), da individuare
dente ricettazione: solo in questo caso si potrebbe individuare un «nesso materiale» tra le
diverse operazioni, suscettibile di far scattare il divieto di cui all’art. 54 CAAS (C. giust. UE
18 luglio 2007, C-367/05, Kraijenbrink).
(22) Per una esplicita adozione del criterio della qualificazione giuridica del fatto, v. C.
dir. uomo 30 luglio 1998, n. 25711/94, Oliveira c. Svizzera, che ha escluso la violazione
dell’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU in un caso in cui un soggetto, già sottoposto ad una
sanzione per violazione del codice della strada, era stato in seguito sottoposto ad un procedimento penale per il medesimo fatto). Si è peraltro affermato come il divieto di cui all’art.
4 del Protocollo n. 7 CEDU opererebbe nel caso in cui una persona sia sottoposta due volte
a giudizio per il medesimo fatto, ancorché diversamente qualificato sotto il profilo normativo, purché tra le diverse fattispecie incriminatrici sia rinvenibile un «rapporto di continenza» determinato dalla presenza di dati strutturali comuni, in modo che l’una contenga
tutti gli elementi costitutivi dell’altra, con uno o più elementi aggiuntivi: v. C. dir. uomo 29
maggio 2001, n. 37950/97, Fischer c. Austria; sulla stessa linea v. successivamente, C. dir.
uomo 30 maggio 2002, n. 8275, W.F. c. Austria; C. dir. uomo 6 giugno 2002 n. 3823/97,
Sailer c. Austria.
(23) Corte dir. uomo 10 febbraio 2009, n. 8163, Zolotukhin c. Russia. La Corte ammette che «la giurisprudenza che si è sviluppata in seguito all’applicazione dell’articolo 4 del
Protocollo n. 7 da parte della Corte dimostra l’esistenza di numerosi approcci alla questione
se i reati per i quali il ricorrente è stato perseguito sono gli stessi». Si sottolinea inoltre la
necessità di adottare una interpretazione omogenea della locuzione idem, inserita nel principio del ne bis in idem, al fine di garantire certezza giuridica, prevedibilità ed uguaglianza.
Di fronte alla varietà di approcci sul tema la Corte, da ultimo, propende per quello fondato
sulla nozione di stesso fatto (idem factum): «L’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere
inteso nel senso che è proibito il procedimento o il giudizio per un secondo reato nella
misura in cui esso emerge da fatti identici o da fatti che sono sostanzialmente gli stessi (...).
L’indagine della Corte, quindi, si dovrebbe focalizzare su quei fatti che costituiscono una
serie di concrete circostanze fattuali che coinvolgono lo stesso imputato e sono tra loro
inscindibilmente connesse nel tempo e nello spazio, l’esistenza delle quali deve essere dimostrata al fine di assicurare una condanna o iniziare un procedimento penale».Il concetto
armonizzato di idem recepito dalla Corte è senza dubbio in linea con quello della Corte di
Giustizia, come elaborato nell’area di libertà, sicurezza e giustizia nell’UE. (v. 6.2). Sulla
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attraverso il requisito dell’identità della condotta, alla luce di una puntuale
analisi di tutti i fatti materiali che vengono in rilievo nel caso di specie (24).
Più complesso risulta il profilo relativo all’individuazione della tipologia di provvedimenti suscettibili d’interdire un nuovo processo in idem.
Anche qui segnalato l’impegno della Corte di giustizia nel tentare di definire il concetto di «sentenza definitiva» presente nell’art. 54 CAAS.
Anzitutto, si può senz’altro ritenere ormai consolidata, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, la tendenza a negare effetto preclusivo a
decisioni fondate su ragioni squisitamente procedurali. Si ritiene che il
divieto di un secondo giudizio possa trovare spazio solo in presenza di
epiloghi procedimentali suscettibili di provocare la definitiva estinzione
dell’azione penale (25). Cosı̀ anche la decisione del pubblico ministero
di interrompere l’esercizio dell’azione penale a causa della contestuale
pendenza di un procedimento straniero per il medesimo fatto, prescindendo da qualsiasi valutazione sul merito dell’imputazione, risulterebbe irrilevante ai fini dell’art. 54 CAAS (26).
Delicato è anche il profilo della «giustizia negoziata», anche per via
della sua ampia diffusione nei vari ordinamenti. Anzitutto, non è chiaro se
gli epiloghi transattivi stragiudiziali (out of court settlement), fondati sull’accordo delle parti, cadano nel cono d’ombra dell’art. 54 CAAS e possano quindi rivestire una qualche valenza preclusiva in idem. Finora i
giudici europei hanno sempre rifiutato una simile prospettiva. Una soluzione prudenziale condivisibile, ove si consideri che, di regola, le forme di
giustizia transattiva sottendono una rinuncia all’accertamento del fatto
storico a tutto vantaggio della premialità o dell’efficienza. È anche vero,
però, che la Corte non si è mai spinta fino al punto di negare a priori che
alcune forme di «giustizia negoziata» possano sortire effetti ostativi, a
condizione, però, che la posizione dell’imputato risulti efficacemente salvaguardata (ad esempio fornendo a quest’ultimo informazioni circa la
possibilità di procedere con le forme ordinarie cosı̀ da porre chi subisce
il processo nelle condizioni di effettuare scelte ponderate), onde evitare
stessa linea, di recente, Corte dir. uomo 4 marzo 2014, n. 18640/10, Grande Stevens e altri c.
Italia; Corte dir. uomo 20 maggio 2014, n. 11828/11, Nykanen c. Finlandia.
(24) Corte dir. uomo 10 febbraio 2009, n. 8163, Zolotukhin c. Russia. In argomento v.
le riflessioni di J.A.E. Vervaele Multilevel and multiple punishment in Europe. The ne bis in
idem principle and the protection of human rights in Europe’s area of freedom, security and
justice, in A. Van Hoek, e.a. (eds.) Multilevel Governance in Enforcement and Adjudiciation,
Intersentia Antwerpen 2006, pp. 1-24.
(25) C. giust. UE 11 febbraio 2003, C-187/01 e C-385/01, Gozutok e Brugge.
(26) C. giust. UE 10 marzo 2005, C-469/03, Miraglia.
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atteggiamenti prevaricatori da parte dell’accusa: una prospettiva che appare del resto in linea con l’art. 58 CAAS, che riconosce agli Stati la facoltà
di attribuire alle «decisioni giudiziarie» un effetto interdittivo più ampio di
quello previsto dalla stessa Convenzione. In ogni caso, occorre sottolineare
come la Corte di giustizia sia orientata ad escludere dalla dimensione
operativa dell’art. 54 CAAS tutte le decisioni che non precludano l’avvio
di un nuovo giudizio sul medesimo fatto all’interno dei singoli Stati che le
hanno adottate (27).
Resta peraltro da chiedersi se l’effetto preclusivo del ne bis in idem
possa realizzarsi anche in presenza di una sentenza di assoluzione. La
soluzione positiva si fonda sulla necessità di salvaguardare la certezza del
diritto, l’equità, ma anche la stessa sicurezza dei cittadini (28). Che l’effetto
ostativo del ne bis in idem vada esteso anche alle sentenze di assoluzione è
conclusione del resto ricavabile dal dato testuale: nel sottolineare che, in
caso di condanna la preclusione al nuovo giudizio risulta condizionata
all’esecuzione (o all’impossibilità di esecuzione) della pena, l’art. 54 CAAS
si spinge a fare una precisazione che risulterebbe superflua se la garanzia
del ne bis in idem fosse circoscritta alle sentenze di condanna (né va
sottaciuto come un esplicito riferimento alle sentenze di assoluzione sia
presente nell’art. 50 della Carta di Nizza, nell’art. 14.7 Patto internazionale
sui diritti civili e politici e nell’art. 4.1 Protocollo n. 7 CEDU).
Non meno complessa è la questione relativa all’estensione del divieto
del ne bis in idem alle decisioni che dichiarano la prescrizione del reato, e,
più in generale, alle sentenze di rito che non coinvolgono il profilo della
colpevolezza/non colpevolezza dell’imputato. Due le soluzioni astrattamente prospettabili: a) privilegiare il criterio formale costituito dall’esistenza di una «sentenza», ancorché «di rito», e ritenere conseguentemente
integrato il presupposto per l’applicazione dell’art. 54 CAAS; b) valorizzare un parametro di tipo sostanziale, facendo leva sulla mancanza di una
valutazione sul «merito» della colpevolezza dell’imputato e negando quindi ogni effetto preclusivo in capo alla decisione che dichiari estinto il reato
per intervenuta prescrizione. A sostegno di questa seconda impostazione si
potrebbe addurre l’opportunità di separare il profilo della prescrizione dei
reati da quello del ne bis in idem: il primo si regge sul peso assegnato al
fattore tempo ai fini dell’esercizio della potestà punitiva statuale, che ha
portato a soluzioni legislative divergenti da Stato a Stato in ragione di
(27) C. giust UE. 22 settembre 2008, C-491/07, Turansky.
(28) In tal senso, ancorché incidentalmente, C. giust. UE 28 settembre 2006, C-150/05,
Van Straaten, cit.
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mutevoli scelte di politica criminale; il secondo serve a tutelare un individuo dagli abusi legati alla reiterazione di un giudizio penale per il medesimo fatto, presupponendo quindi un pregresso accertamento nel merito
inerente all’effettivo esercizio di quella stessa potestà punitiva. Un discorso
di questo tipo sembra peraltro assumere rilievo proprio sul piano sovranazionale. Infatti, mentre in ambito interno le ricadute di una decisione
che dichiari estinto il reato sulla sfera applicativa del ne bis in idem sono
minime, posto che in ogni caso l’avvio di un nuovo processo risulterebbe
interdetto proprio a causa dell’intervenuta prescrizione, la scelta di negare
rilievo preclusivo sul piano sovranazionale alla sentenza che dichiari prescritto il reato può servire a contrastare fenomeni di forum shopping.
Considerato che i tempi di prescrizione variano da Stato a Stato, non è
infatti difficile ipotizzare spostamenti di imputati verso lo Stato che adotti
in questa materia le soluzioni legislative a loro più favorevoli: una sorta di
meccanismo di «autotutela» dell’imputato volto a precostituire la condizione per invocare il divieto del ne bis in idem nei confronti di altre nazioni
che intendessero successivamente perseguirlo per i medesimi fatti.
Al momento la Corte di giustizia non sembra però orientata a percorrere questa via, ma preferisce attribuire effetti preclusivi alla decisione che
dichiari prescritto il reato (29). Infatti, pur essendo consapevole che in
materia di prescrizione non si è finora realizzata alcuna forma di armonizzazione legislativa tra gli Stati membri, per la Corte le differenze riscontrabili tra i sistemi processuali circa i tempi di prescrizione non impedirebbero di estendere l’art. 54 CAAS anche a questa delicata materia,
tenuto conto della finalità sottesa a tale disposizione, che resta quella di
assicurare la libera circolazione delle persone in uno spazio di libertà,
sicurezza e giustizia. In definitiva, si ritiene che in tema di prescrizione
dei reati debba senz’altro prevalere il principio della reciproca fiducia tra
gli Stati. Una sorta di fiducia senza armonizzazione, è proprio il caso di
aggiungere.
Come espressamente previsto dall’art. 54 CAAS, una sentenza di condanna è idonea a precludere l’avvio di un nuovo processo per il medesimo
fatto a condizione che, secondo la legge dello Stato che ha pronunciato la
sentenza, la pena sia stata eseguita, sia effettivamente in corso di esecuzione, o non possa più essere eseguita. Un primo aspetto problematico
riguarda il profilo relativo alla sospensione condizionale della pena. A
questo proposito, la Corte di giustizia ritiene che la pena cosı̀ «sospesa»
(29) C. giust. UE 28 settembre 2006, C-467/04, Gasparini e altri cit.
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vada senz’altro intesa come «eseguita» o «effettivamente in corso di esecuzione» ai sensi dell’art. 54 CAAS (30). In particolare, si sottolinea come
la pena sospesa possieda una reale valenza sanzionatoria, essendo comunque idonea a limitare la libertà della persona, ancorché, ovviamente, in una
forma più lieve rispetto alla pena immediatamente applicabile. Anche la
pena sottoposta a sospensione condizionata andrebbe quindi considerata
«effettivamente in corso di esecuzione», e, alla scadenza del periodo di
sospensione, «effettivamente eseguita». Naturalmente, se durante il periodo di sospensione venissero meno i requisiti che la giustificano, la pena
dovrebbe essere scontata per intero, mentre si sottrarrebbero all’ambito
applicativo dell’art. 54 CAAS le ipotesi di limitazione della libertà personale dovute all’arresto da parte della polizia o ad un provvedimento di
custodia cautelare, ogni volta in cui si debba tener conto di tale restrizione
nella successiva esecuzione della pena detentiva secondo la legge dello
Stato che ha emesso la condanna. Ai fini dell’individuazione del requisito
dell’esecuzione della pena sarebbe peraltro irrilevante la circostanza che lo
Stato dove è stata pronunciata la condanna definitiva sia legittimato ad
emettere un mandato d’arresto europeo per dare esecuzione alla medesima, ove si consideri che si ricorre a tale strumento proprio perché la pena
detentiva non è stata eseguita e non è in corso di esecuzione. Di qui
l’impossibilità di applicare in tal caso la garanzia del ne bis in idem.
Sotto un diverso profilo, ci si può domandare se il ne bis in idem possa
trovare applicazione anche quando all’interno dello Stato dove è stata
pronunciata la prima condanna quest’ultima non sia stata eseguita a causa
di un provvedimento di amnistia. Emblematico, in proposito, il caso (piuttosto noto) di un cittadino tedesco, il quale, dopo aver subito una condanna a morte in contumacia da parte del tribunale militare francese per
omicidio volontario e diserzione, si era rifugiato in Germania ed era stato
sottoposto ad un procedimento penale per i medesimi fatti. In quel caso
l’imputato aveva invocato la garanzia del ne bis in idem ai sensi dell’art. 54
CAAS, sottolineando come la sentenza di condanna francese, ancorché
divenuta definitiva, non potesse essere eseguita in Francia a causa dell’amnistia concessa per i crimini commessi dai militari durante la guerra d’Algeria e per la sopravvenuta abolizione della pena di morte. Investita della
questione, la Corte di giustizia ha precisato come l’art. 54 CAAS trovi
applicazione anche nel caso in cui la sentenza di condanna non sia stata
eseguita per «peculiarità procedurali», frutto di scelte legislative operate
(30) C. giust. UE 18 luglio 2007, C-288/5, Kretzinger).
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dallo stesso Stato che ha adottato tale provvedimento (31). È evidente
come in quel caso la Corte abbia privilegiato le esigenze di giustizia sostanziale, tenuto conto della singolarità della vicenda. A tacer d’altro, si
pensi al significativo divario cronologico tra la prima condanna e l’avvio
del nuovo procedimento per i medesimi fatti. Per capire quale sia l’effettivo orientamento dei giudici europei in materia di rapporti tra ne bis in
idem e amnistia occorrerà quindi probabilmente attendere ulteriori sviluppi giurisprudenziali.
3. – Nel panorama giurisprudenziale europeo ha assunto negli ultimi
tempi un ruolo centrale il tema dei rapporti tra il ne bis in idem e le
decisioni che applicano sanzioni di natura amministrativa. Ci si riferisce
al fenomeno della sovrapposizione (cumulo) di sanzioni diverse per il
medesimo fatto nei confronti della stessa persona. Basti pensare al frequente ricorso alla duplicazione di sanzioni (amministrative e penali) in
materia societaria (32) e fiscale (ancorché talvolta bilanciate da criteri volti
ad evitare effetti punitivi eccessivi), nel settore urbanistico o in quello della
circolazione stradale. È peraltro noto che a sanzioni di diversa natura
corrispondono, spesso, modalità di accertamento differenti in termini di
garanzie e di regole probatorie.
Sul terreno dei rapporti tra «doppio binario sanzionatorio» e ne bis in
idem si rinvengono, attualmente, due impostazioni differenti. All’approccio
prudenziale e conservativo della Corte di giustizia, infatti, fa da contrappunto
(31) C. giust. UE 11 dicembre 2008, C-297/07, Bourquain.
(32) In materia di market abuse, occorre sottolineare che la recente Direttiva 2014/57
UE (e il Regolamento UE n. 596/2014) sembra focalizzata soprattutto sul versante della
repressione penale, prevedendo l’obbligo per gli Stati di adottare sanzioni penali e la mera
facoltà di prescrivere anche sanzioni amministrative. Se ne potrebbe ricavare una implicita
presa di posizione volta ad evitare, se possibile, il doppio binario sanzionatorio per il
medesimo fatto, valorizzando esplicitamente lo strumento penale in virtù della sua conclamata efficacia deterrente e punitiva. V. però, in precedenza, con riferimento all’art. 14, n. 1
della precedente Direttiva 2003/6 CE (poi abrogata e sostituita proprio dalla Direttiva 2014/
57 UE) - secondo cui le misure o le sanzioni amministrative applicate dagli Stati membri alle
persone responsabili di un abuso di mercato devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive, ferma restando la possibilità di adottare anche sanzioni penali, l’opinione della C. giust.
UE 23 dicembre 2009, C-45/08, Spector Photo Group là dove si sottolinea che la valutazione
in concreto del carattere efficace, proporzionato e dissuasivo di una sanzione amministrativa
non può dipendere dalla possibilità d’infliggere una sanzione penale ulteriore. Per approfondimenti sul punto v. G.M. Flick, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio
binario o “binario morto? Materia penale giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della
Corte edu 4 marzo 2014 sul market abuse, in Riv. soc. 2014, 953 s; F. Viganò,Doppio binario
sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta? (a
margine della sentenza Grande Stevens della Corte Edu), cit., 250.
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la prospettiva progressista e antiformalistica coltivata dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo. L’oggetto del contendere, come è noto, sta nel significato
da attribuire a concetti come «materia penale» e «sanzione penale»: concetti
sicuri e affidabili se inquadrati all’interno di sistemi ispirati al valore della
legalità formale (la Costituzione italiana, ad esempio, delinea nitidamente i
confini della «materia penale»: artt. 25, 27, 111, 112 Cost., in contrapposizione con gli artt. 24 c.1 e 113 Cost. che parlano espressamente di diritti e
interessi legittimi), ma fluidi e incerti se proiettati nel contesto transazionale,
culturalmente sensibile al pragmatismo giudiziario di matrice anglosassone.
Per quanto riguarda la Corte di giustizia, è interessante soffermarsi
brevemente su una decisione in tema di frode fiscale piuttosto nota. Con
il rinvio pregiudiziale sollevato ex art. 267 TFUE, il tribunale di primo grado
di Haparanda (Svezia) chiedeva se l’azione penale avviata nei confronti di un
suo cittadino per l’imputazione di frode fiscale aggravata per gli esercizi
fiscali 2004 e 2005 a fronte delle false indicazioni prodotte dallo stesso,
doveva essere considerata inammissibile per il fatto che il soggetto era già
stato sanzionato, per i medesimi fatti, con una sovrattassa applicata dall’amministrazione tributaria la quale, nelle more, era divenuta definitiva (33).
Ebbene, fermo restando il carattere autonomo della disciplina del ne bis
in idem comunitario (come sottolineato espressamente dai giudici europei, i
quali focalizzano l’attenzione solo sull’art. 50 della Carta di Nizza, senza
prendere posizione circa la necessità o meno di interpretare tale disposizione
alla luce dell’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU e della relativa giurisprudenza), si ritiene che gli Stati membri siano legittimati ad individuare
contestualmente sanzioni amministrative e sanzioni penali, purché, ed è
questo il punto nodale, una scelta di questo tipo non determini l’applicazione di una doppia sanzione per il medesimo fatto nei confronti della stessa
persona. I principi evidenziati dalla pronuncia in discorso possono essere
cosi sintetizzati: l’art. 50 CDFUE non vieta ad uno Stato membro di applicare, per le stesse violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una
combinazione di sovrattasse e sanzioni penali, al fine di assicurare la riscossione delle entrate e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione
europea; nondimeno, «qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi
dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a
che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una
stessa persona»; per quanto concerne, infine, la verifica circa la valutazione
della natura penale delle sanzioni tributarie, occorre adottare tre criteri: la
(33) C. giust. UE 26 febbraio 2013, C-617/10, Fransson.
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qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura dell’illecito, la natura e il grado di severità della sanzione.
Ma vi è di più. La sentenza in esame assume rilievo anche sotto un
altro, delicato, profilo: il ruolo degli organi giurisdizionali «interni». In
questa prospettiva, i giudici eurounitari assegnano al giudice nazionale,
in via prioritaria, il compito di verificare la compatibilità del concorso di
sanzioni (fiscale e penale) sul medesimo fatto con la garanzia del ne bis in
idem, soggiungendo come un vaglio di questo tipo possa senz’altro attingere a criteri di salvaguardia interni a ciascun ordinamento, a patto che
non ne risulti compromesso il «primato, l’unità e l’effettività del diritto
dell’Unione» (34). Secondo la Corte, quindi, il potere dei giudici nazionali
di rilevare e censurare il doppio regime sanzionatorio sottende un limite
ben preciso: la sanzione residua deve in ogni caso rispettare i criteri di
effettività, proporzionalità e deterrenza imposti a livello comunitario e
preordinati per l’appunto ad assicurare la piena operatività della sanzione
medesima sul piano interno. Resta da chiedersi, tuttavia, quali siano tali
criteri, posto che non è agevole individuarli. Responsabilizzare i giudici
interni senza offrire loro punti di riferimento chiari sul piano del diritto Ue
significa tollerare livelli di discrezionalità e di arbitrio difficilmente compatibili con l’elevato spessore garantista che in ambito europeo viene
ormai unanimemente riconosciuto al ne bis in idem.
Volgendo lo sguardo al sistema CEDU, non sfugge come il problema
del doppio binario sanzionatorio risulti «convenzionalmente» complesso,
perché l’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU parrebbe testualmente circoscrivere la garanzia del ne bis in idem al solo settore dei rapporti tra procedimenti penali. Non sembrerebbe perciò possibile estendere il ne bis in
idem a settori extrapenali. È del resto diffusa l’idea che alcuni Sati non
abbiano recepito il Protocollo in questione proprio al fine di cautelarsi
contro eventuali derive giurisprudenziali estensive (35).
Premesso che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre rivendicato il suo specifico ruolo di living instrument della CEDU, che in questa
prospettiva andrebbe sempre interpretata dinamicamente alla luce dell’evoluzione sociale e rifuggendo da schemi troppo rigidi (36), l’idea che si sta
(34) Per analoghe riflessioni v. anche C. giust. UE 26 febbraio 2013, C 399/11, Melloni.
(35) Vi sono peraltro alcuni sistemi, come quello olandese, che, pur non avendo
ratificato l’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, adottano valide soluzioni interne tese ad evitare
il doppio binario procedimentale e sanzionatorio in ordine al medesimo fatto.
(36) Cfr. Corte dir. uomo, Grande Camera, 12 luglio 2001, Ferrazini v. Italia, in
particolare il par. 26: «The Convention, is however, a living instrument to be interpreted
in the light of present-day conditions and it is incumbent on the Court to review whether, in
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facendo strada tra i giudici di Strasburgo è la seguente: l’attrazione delle
sanzioni (comunque denominate) fornite di una reale valenza punitiva
all’interno del cono d’ombra penalistico, con l’applicazione delle relative
garanzie procedimentali, segnatamente quelle dell’«equo processo». Sembra cosi delinearsi un concetto inedito ed elastico di potestà punitiva che
rifugge dalle etichette e guarda invece alla concreta dimensione afflittiva
della sanzione di volta in volta irrogata. Conta il peso della sanzione, la
gravità di quest’ultima, non la sua classificazione formale (amministrativa o
penale).
Sulla recente giurisprudenza dei giudici di Strasburgo in tema di doppio binario sanzionatorio vi sono ampi ed autorevoli contributi (37). In
linea con il taglio del presente lavoro, che si prefigge l’obiettivo di stilare
un bilancio della situazione attuale, preme qui sinteticamente soffermarsi
solo su alcuni punti essenziali.
La Corte europea precisa che, per definire i confini operativi del ne
bis in idem, e quindi per individuare la «materia penale», occorre tenere
conto dei seguenti criteri: la «classificazione legale» dell’illecito (penale o
non penale) operata da ogni singolo ordinamento statuale; la «natura»
della sanzione; il «grado di severità della sanzione» (38). I criteri in
discorso sono alternativi e non cumulativi, anche se nulla impedisce di
the light of changed attitudes in society as to the legal protection that falls to be accorded to
individual in their relations with the State, the scope of Article 6 § 1, should not be extended
to cover disputes between citizens and public authorities as to the lawfulness under domestic
law of the tax authorities decisions».
(37) Cfr. in particolare, G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio:
prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, in
Diritto penale contemporaneo n. 3/4 2014, 201; G. M. Flick, Cumulo tra sanzioni penali e
amministrative: doppio binario o binario morto? Materia penale giusto processo e ne bis in
idem nella sentenza della Corte edu 4 marzo 2014 sul market abuse, cit., 953 s.; I. Caraccioli,
La progressiva assimilazione tra sanzioni penale e amministrative e l’inevitabile approdo al
principio ne bis in idem, in Fisco 2014, 2374; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne
bis in idem: verso una diretta applicazione dell’art. 50 della Carta? (a margine della sentenza
Grande Stevens della Corte Edu), cit., 219, V. Zagrebelsky, Le sanzioni Consob, l’equo
processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. it. 2014, 1196 s.
(38) Cfr. C. dir. uomo 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, cit. in tema di rapporti
tra procedimento amministrativo per abuso di informazioni privilegiate (sanzione amministrativa pecuniaria comminata dalla Consob ex art. 187 ter d.lgs. n. 58 del 1998) e procedimento penale per i medesimi fatti (sentenza di condanna della Corte d’appello di Torino
ex art. 185 c. 1 d.lgs. n. 58 del 1998). Si tratta peraltro degli stessi criteri a suo tempo
indicati nel noto leading case C. dir. uomo 8 giugno 1976 n. 5100, Engel c. Paesi Bassi (in
materia di sanzioni disciplinari militari). Per questo motivo, si è precisato come la sentenza
Grande Stevens, «al di là dell’oggetto, non ha nulla, o ha ben poco di realmente innovativo:
i principi in essa affermati rappresentano altrettanti refrain della giurisprudenza europea»:
cosi G. M. Flick, op. ult. cit., 958.
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riflessioni in tema di ne bis in idem europeo
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applicarli congiuntamente ogni volta in cui l’analisi separata di ciascun
parametro non permetta di giungere ad una conclusione circa la sussistenza di una «accusa in materia penale». La Corte ritiene che l’effetto
preclusivo della garanzia del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Protocollo
n. 7 CEDU si possa realizzare anche sul terreno dei rapporti tra procedimenti differenti dal punto di vista della «qualificazione legale» (amministrativo e penale), purché, ovviamente, gli stessi procedimenti vertano
sui medesimi fatti, da individuare alla luce del criterio della condotta. In
tal caso, l’applicazione di una sanzione amministrativa può legittimamente precludere l’avvio di un procedimento penale nei confronti della stessa
persona e in relazione ai medesimi fatti contestati, laddove la sanzione
medesima risulti cosi grave da svolgere, nella sostanza, una palese funzione repressivo-punitiva, indipendentemente dalla sua qualificazione
formale (39). Come si vede, secondo i giudici di Strasburgo, il criterio
sostanziale della gravità della sanzione attrae quest’ultima nell’orbita della «materia penale» e, conseguentemente, nella dimensione operativa del
ne bis in idem CEDU.
Sulla stessa linea interpretativa si colloca un’altra (altrettanto nota)
pronuncia, che ha condannato lo Stato finlandese per aver violato il ne
bis in idem applicando il doppio binario sanzionatorio: sanzione amministrativa pecuniaria e successiva condanna in sede penale per frode fiscale
in ordine al medesimo fatto. Secondo i giudici di Strasburgo, anche i
procedimenti che comportano l’imposizione di una «sovrattassa» devono
essere considerati «penali» ai fini dell’applicazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU; si precisa, inoltre, che la celebrazione di due procedimenti
paralleli risulta compatibile con la Convenzione, a condizione che il secondo venga interrotto nel momento in cui il primo sia divenuto definitivo (40). Sempre in materia fiscale, la stessa Corte ha precisato, in altre
occasioni, che l’applicazione di una sanzione tributaria lieve non costituisce di per sé un fattore decisivo per escludere la natura penale dell’illecito (41) e che laddove il procedimento per l’illecito fiscale e il procedimento
penale contro il medesimo ricorrente siano «legati tra di loro, in maniera
(39) Cfr. ancora, C. dir. uomo 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, cit.
(40) Corte dir. uomo 20 maggio 2014, Nykanen c. Finlandia cit.; per un caso analogo v.
Corte dir. uomo 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia; nonché, sempre in rapporti tra
sanzioni tributarie e sanzioni penali Corte dir. uomo 27 novembre 2014, Lucky Dev. c.
Svezia; precedentemente, con varie accentuazioni, Corte dir. uomo 16 giugno 2009, n.
13079/03, Ruotsalainen c. Finlandia; Corte dir. uomo 10 febbraio 2009, n. 8163, Zolotukhin
c. Russia, cit.
(41) Corte dir. uomo 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia.
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tale da non essere sufficientemente distinti», le garanzie dell’art. 6 CEDU
andrebbero estese anche al procedimento tributario (42).
Anche in materia urbanistica la Corte di Strasburgo non ha esitato a
qualificare come «penale» una sanzione pecuniaria irrogata per attività
edilizie realizzate in violazione della disciplina a tutela del paesaggio (43).
Una «gravità di stampo penalistico» è stata individuata con riferimento alle
sanzioni ripristinatore dell’ordine urbanistico violato (44).
In tema di circolazione stradale, infine, una decisione non ha esitato ad
(42) Corte dir. uomo 5 aprile 2012, n.11663/04, Chambaz c. Svizzera, in tema di accesso
agli atti dell’amministrazione fiscale e diritto al silenzio. Come è noto, il sistema italiano
prevede, in ordine al medesimo fatto storico, un doppio binario procedimentale, amministrativo e penale. E questa reciproca autonomia è fissata dall’art. 20 d.lgs. n. 74/2000, il
quale espressamente esclude la sospensione del processo amministrativo di accertamento e
del processo tributario a causa della pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto
i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.
L’autonomia in questione risulta peraltro bilanciata da meccanismi volti ad evitare il cumulo
sanzionatorio in sede applicativa. Ci si riferisce naturalmente all’art. 21 del d.lgs. n. 74/2000,
che, con riferimento alle sanzioni amministrative previste per le violazioni di rilievo penale,
esclude la possibilità di eseguire le prime, salvo che nel procedimento penale si siano
verificati i seguenti epiloghi: archiviazione, sentenza di assoluzione passata in giudicato,
proscioglimento con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In materia di sanzioni
amministrative e penali per omesso versamento di ritenute (art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo
2000, n. 74 e art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471), i giudici di legittimità escludono
recisamente la natura penale della sanzione tributaria, precisando che, sotto il profilo degli
elementi costitutivi, tra la due fattispecie di omesso versamento (illecito amministrativo e
illecito penale) non sussisterebbe un rapporto di specialità, bensı̀ un mero rapporto di
«progressione illecita»: di qui la piena legittimità del cumulo sanzionatorio: v. Cass 15
maggio 2014, Zanchi, n. 20266, C.e.d, 255995; v. in precedenza sulla stessa linea, Cass.,
Sez. un., 28 marzo 2013, Favellato n. 37425, in C.e.d 255759).
(43) Corte dir. uomo 21 marzo 2006, Valico c. Italia. In argomento v. le osservazioni di
F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino 2014, 6 s. Resta peraltro da chiedersi se una pluralità di sanzioni
amministrative pecuniarie, applicate alla stessa persona e riconducibili ad una medesima
tipologia di condotta, lievi se considerate isolatamente, ma gravi se valutate nel loro insieme,
possano attivare la garanzia del ne bis in idem. Il problema sorge perché nel settore del
diritto amministrativo non sussiste una figura analoga a quella della continuazione in ambito
penale, capace di raggruppare una pluralità di condotte sotto il cono d’ombra del medesimo
disegno criminoso.
(44) Corte dir. uomo 27 novembre 2007, Hamer c. Belgio, secondo cui l‘ordine di
demolizione di un immobile abusivo costituisce una sanzione sostanzialmente penale, in
forza della sua oggettiva gravità. Secondo Corte dir. uomo 9 febbraio 1995, Welch c. Regno
Unito, «gli scopi di prevenzione e ripristino sono compatibili con uno scopo punitivo e
possono essere visti come elementi costitutivi della nozione stessa di pena». In materia v. le
interessanti riflessioni di F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, cit. 16 s.
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riflessioni in tema di ne bis in idem europeo
657
attribuire natura penale ad una sanzione pecuniaria italiana per eccesso di
velocità (45).
Dal quadro giurisprudenziale fin qui delineato emergono alcune linee
di fondo. Sotto un profilo generale, la Corte europea censura apertamente
le scelte «interne» volte a elevare la sanzione amministrativa al rango di
«strumento di compensazione» della sanzione penale. Celerità e semplicità
in sede di accertamento, adozione di meccanismi presuntivi, assenza di
limitazioni alla libertà personale, sono fattori che giustificano l’adozione di
uno standard minimo di garanzie procedimentali, tale da rendere subito
facilmente percorribile la «via amministrativa», in attesa della «risposta
penale». Quando però una «logica compensativa» di questo tipo si traduce
nell’applicazione di sanzioni amministrative cosi gravi da comprimere sensibilmente alcuni diritti fondamentali della persona, sebbene diversi dalla
libertà personale, diventa necessario attivare la protezione offerta dal ne
bis in idem convenzionale. Inoltre, i giudici di Strasburgo non riconoscono
al giudice nazionale il potere di valutare la natura penale della prima
sanzione inflitta (che dovrebbe fungere da «precedente preclusivo»), poiché la qualificazione di un illecito come «penale» resta compito esclusivo
della Corte, ancorché sulla base dei criteri precedentemente indicati (46).
(45) Corte dir. uomo 9 novembre 1999, Varuzza c Italia: «the offence at issue is a
‘criminal’ one within the meaning of Article 6 § 1 of the Convention».
(46) Sotto quest’ultimo profilo, risulta evidente la diversa impostazione esegetica dei
giudici di Strasburgo rispetto alle soluzioni prescelte dalla Corte di giustizia e volte a
«delegare» i giudici interni. Come puntualmente evidenziato dalla dottrina, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di doppio binario sanzionatorio
dell’uomo può dischiudere nel nostro sistema i seguenti scenari: a) interpretazione convenzionalmente conforme dell’art. 649 c.p.p. fondata sul ne bis in idem inteso come principio
generale, suscettibile, come tale, di legittimare il ricorso all’analogia per risolvere casi simili a
quelli finora sottoposti all’attenzione dei giudici di Strasburgo; b) declaratoria di incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p., per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost., individuando quale
norma interposta l’art. 4 del Prot. 7 CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo (v. in proposito l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale: Cass., Sez. V, 10 novembre 2014, Chiaron, n. 3333/14). Più precisamente: l’art. 649
c.p.p. sarebbe costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice
debba pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere anche nell’ipotesi in cui l’imputato sia già stato giudicato per il medesimo fatto, con un provvedimento
divenuto ormai irrevocabile, nell’ambito di un procedimento che – sebbene qualificato come
amministrativo dal legislatore italiano – debba essere considerato di natura penale ai sensi
della CEDU e relativi protocolli; c) diretta applicazione dell’art. 50 della Carta dei Diritti
fondamentali dell’Unione europea da parte del giudice interno; in questa prospettiva, l’epilogo processuale sarebbe costituito da una sentenza di proscioglimento o di non luogo a
procedere analoga a quella imposta dall’art. 649 c.p.p. (e dall’art. 54 della Convenzione di
Applicazione dell’ Accordo di Schengen). V. sul punto, soprattutto, G. M. Flick, Cumulo tra
sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? Materia penale giusto
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Coltivare prospettive antiformalistiche per ampliare il raggio d’azione
del ne bis in idem è operazione culturalmente progressista, perché orientata ad assicurare la più efficace forma di tutela all’individuo prosciolto o
condannato. Il fenomeno della sovrapposizione di giudizi e sanzioni per il
medesimo fatto va ragionevolmente considerato alla stregua di un vero e
proprio errore giudiziario, riconducibile al paradigma dell’abuso del processo. E il ne bis in idem ne costituisce il più efficace antidoto. L’idea di
impiegare il criterio della concreta valenza punitiva di una sanzione, per
conferire a quest’ultima una rilevanza penale (e per esigere, come già
sottolineato, il rispetto di garanzie procedimentali adeguate, in primis
quelle del «giusto processo»), può costituire un interessante tassello nella
costruzione di una figura di sanzione europea che rifletta una idea di
legalità empiricamente orientata. Al momento, però, in attesa di riferimenti normativi chiari, di orientamenti giurisprudenziali stabili (47), e, soprattutto, di punti fermi circa il carattere vincolante degli stessi, secondo la
logica del precedente (48), l’equazione concreta gravità della sanzione-materia penale andrebbe applicata con estrema cautela, e, soprattutto, come è
stato efficacemente sottolineato, solo nell’ipotesi in cui realmente «the
disciplinary label is designed to mask a criminal sanction» (49).
PIER PAOLO PAULESU
Professore ordinario nell’Università di Padova, sede di Treviso
processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte edu 4 marzo 2014 sul market abuse, cit.
958; F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione
dell’art. 50 della Carta? (a margine della sentenza Grande Stevens della Corte Edu), cit. 219, i
quali si soffermano anche sul delicato profilo dei limiti alla penetrazione in ambito nazionale
del diritto dell’Unione europea (c.d. «teoria dei controlimiti»).
(47) Esigenza invocata dalla stessa Corte europea: v. ad es. Corte dir. uomo 25 giugno
2009, Liivik c. Estonia.
(48) Su questo profilo v. in particolare R.E. Kostoris, Processo penale, diritto europeo e
nuovi paradigmi, cit., 60.
(49) Cfr. S. Trechsel, Human Rights in Criminal Proceedings, Oxford 2005, p. 30. Sulla
stessa linea «prudenziale», v. N. Mazzacuva, La materia penale e il “doppio binario” della
corte europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen. 2013, 1905.
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TRASFERIMENTO DEL PROCESSO IN SEDE ARBITRALE E
RUOLO DELLA VOLONTÀ NELL’ATTO PROCESSUALE
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il trasferimento in sede arbitrale del processo
civile pendente: il peculiare ruolo della volontà delle parti. – 3. Il dibattito sul ruolo
della volontà nell’atto processuale: (a) dal negozio processuale all’atto processuale a
rilevanza sostanziale. – 3.1 Segue: (b) la convenzione di arbitrato e l’istanza di trasferimento in sede arbitrale del processo civile pendente. – 4. Considerazioni conclusive.
1. – Alcuni recenti provvedimenti normativi in tema di giustizia civile
e, segnatamente, di «riduzione dell’arretrato» hanno rivelato una certa
disattenzione da parte del legislatore verso le implicazioni dogmatiche e
la reale efficacia applicativa delle nuove disposizioni introdotte, con conseguenti critiche da parte della dottrina (1).
Ora, non è questa la sede per esaminare tematiche di cosı̀ ampio
respiro, che un ben maggiore approfondimento richiederebbero; nondimeno, è opportuno – o quanto meno curioso – sottolineare come il modesto impatto applicativo di una norma non impedisca, talvolta, di valorizzarne un qualche rilievo dogmatico o il rapporto con il sistema processuale civile nel suo complesso. In qualche occasione, infatti, il riflesso
teorico di una novità legislativa sembra coinvolgere, quasi per caso, categorie e problematiche tradizionali del diritto processuale civile, le quali,
malgrado una certa inconsapevolezza da parte del legislatore, acquistano
cosı̀ un rinnovato interesse per l’interprete. Ed anzi, talvolta, una tale
casualità – per cui certi problemi ermeneutici si rendono attuali in rapporto a novità legislative – consegue addirittura ad una prassi legislativa
(rectius: di normazione) superficiale e tecnicamente debole.
Per quanto possa risultare (ed effettivamente sia) piuttosto sorprendente che, in una materia contraddistinta di per sé da un elevato grado di
tecnicismo e formalismo, una riflessione dogmatica possa trarre origine
dall’imprecisione del dato normativo, è innegabile – io credo – che proprio
(1) Si vedano il d.l. 12 settembre 2014, n. 132 in punto di trasferimento del processo
civile in sede arbitrale (art. 1) e di negoziazione assistita da uno o più avvocati (artt. 2 ss.) e il
d.l. 21 luglio 2013, n. 69 nella parte in cui ha modificato la disciplina della mediazione (in
specie: quella obbligatoria) finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (art. 84), a seguito del noto intervento di Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272, in Giust.
civ. 2013, I, 10 ss. Pressoché unanimi sono le perplessità sollevate dalle nuove disposizioni,
di talché mi limito, per brevità, a richiamare S. Chiarloni, Minime riflessioni critiche su
trasferimento in arbitrato e negoziazione assistita, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2015, 221 ss.,
in part. 222 s. e C. Consolo, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della
“degiurisdizionalizzazione”, in Corriere giur. 2014, 1173 ss.
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l’elevato grado di tecnicismo della disciplina condizioni sempre il dato
normativo, anche quando esso non sia stato elaborato con la piena considerazione del sistema nel quale tale dato è destinato ad inserirsi o delle
implicazioni applicative che da esso possono scaturire (2).
D’altra parte, è innegabile che una risposta coerente con il resto del
sistema (e con le questioni dibattute che lo contraddistinguono) sia ineludibile ogni qualvolta un tale interrogativo effettivamente si ponga. Ed è
questo ciò che accade, se non erro, anche nel caso della normativa applicabile alla richiesta congiunta delle parti di «promuovere un procedimento
arbitrale», allorché quest’ultimo abbia ad oggetto il thema decidendum
dedotto in un processo pendente «dinanzi all’autorità giudiziaria», di cui
all’art. 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132 (3). Giova, anzitutto, rilevare come
la possibilità di trasferire in sede arbitrale il processo civile pendente sia
stata concessa alle parti per assecondare una finalità – sottesa, in maniera
più o meno coerente, a tutti i recenti interventi novellatori in ambito
processuale – di deflazione ed efficientamento della giurisdizione ordinaria. Più precisamente, l’istituto in parola – e, con esso, varie altre disposizioni introdotte con il d.l. n. 132/2014 (4) – nasce come strumento di
«degiurisdizionalizzazione»; è, quest’ultimo, un obiettivo più specifico e
definito rispetto a quello della generica deflazione del processo, poiché
indica una peculiare modalità di perseguimento dello scopo deflattivo:
quella, per l’appunto, di trasferire il contenzioso civile in una sede diversa
rispetto a quella giurisdizionale. A ben vedere, però, tale «degiurisdizionalizzazione» del processo civile appare nulla più che una versione rinnovata (e assai più disarmonica sul piano della scelta lessicale) del tradizionale concetto di «fuga dalla giustizia» (5); un concetto che non viene più
attuato per il tramite di una scelta di parte diretta a preferire un’alternativa
– preprocessuale o, addirittura, agiuridica – al processo ordinario, ma
istituzionalizzato mediante una previsione legislativa che, in funzione di
un ritenuto beneficio per l’amministrazione della giustizia, consenta alle
parti, che si siano rivolte alla giurisdizione ordinaria, di (ri)assegnare direttamente all’organo arbitrale la potestas iudicandi. Vero è, tuttavia, che la
a
(2) Cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, 7 ed., Torino 2010, 89,
che discorre di «virtualità insita, se non sempre nella volontà dell’organo legislativo, nel
sistema di enunciati che esso ha posto» (il corsivo è nostro).
(3) Convertito, con modificazioni, nella l. 10 novembre 2014, n. 162.
(4) Il richiamo è alle previsioni in tema di negoziazione assistita da uno o più avvocati,
ai sensi degli artt. 2 ss. del medesimo decreto.
a
(5) Cfr. L.P. Comoglio, C. Ferri, M. Taruffo, Lezioni sul processo civile, 2 ed., Bologna
1998, 12 ss.
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trasferimento del processo in sede arbitrale
661
translatio iudicii in sede arbitrale trova già una possibile attuazione in parte
qua per effetto del provvedimento declinatorio della competenza da parte
del giudice ordinario (6); i profili realmente innovativi del trasferimento de
quo – profili, questi, potenzialmente idonei a persuadere le parti circa la
convenienza di una prosecuzione del processo in sede arbitrale – sembrano piuttosto collegati alla previsione, da un lato, della conservazione automatica degli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale (che
non abbisogna, quindi, di un’attività riassuntiva di parte) e, dall’altro, della
continuazione della trattazione della causa in sede arbitrale, con la possibilità di impiego, da parte dell’arbitro, del materiale istruttorio già acquisito dall’autorità giudiziaria (7).
Orbene: che la possibilità di sottrarre il potere decisorio all’autorità
giudiziaria ordinaria (per attribuirlo, appunto, all’arbitro) sia, di per sé, lo
strumento migliore per contenere il numero delle cause pendenti e incrementare l’efficienza della tutela giurisdizionale civile è un’affermazione che
suscita, invero, non poche perplessità. Da un lato, infatti, vanno riconosciuti i limiti entro cui l’arbitrato può fungere da reale alternativa (id est:
alternativa praticabile e preferibile) alla giurisdizione ordinaria; limiti, questi ultimi, che conseguono sia agli elevati costi della procedura arbitrale sia
alle minori possibilità di modulazione dell’attività istruttoria da parte del
collegio arbitrale (8). Dall’altro lato, non può essere trascurato il rischio di
una contaminazione tra i due giudizi e di un conseguente aggravamento
del procedimento nel suo complesso; se è vero, infatti, che la translatio
iudicii è stata pensata in parte qua per consentire – previa soltanto una
delibazione di legittimità dell’istanza autorizzatoria delle parti – uno spo-
(6) Alla luce di Corte cost. 19 luglio 2013, n. 223, in Corriere giur. 2013, 1110 ss., si è
estesa l’applicazione del meccanismo di cui all’art. 50 c.p.c. ai casi di riassunzione della
causa dinanzi agli arbitri per effetto, appunto, della declaratoria di incompetenza in ragione
di una convenzione di arbitrato (cfr. C. Consolo, Il rapporto arbitri-giudici ricondotto, e
giustamente, a questione di competenza con piena translatio fra giurisdizione pubblica e privata
e viceversa, ibid.).
(7) Sulla scorta del rinvio alle norme codicistiche contenuto nell’art. 1, comma 1˚, d.l.
n. 132/2014, sembra prevalere, in parte qua, l’esigenza di rispettare comunque le prescrizioni dell’art. 816 ter c.p.c. che pongono rigorosi limiti alla valorizzazione in sede arbitrale
dei mezzi istruttori acquisiti nel processo giurisdizionale, senza dover però necessariamente
contenere la rilevanza di tali mezzi al valore del mero argomento di prova ex art. 116,
comma 2˚, c.p.c. sol perché raccolti aliunde, e cioè al di fuori della sede propria in cui sono
destinati ad operare (in particolare, per l’acquisizione del verbale di una testimonianza
giudiziale come deposizione scritta ex art. 816 ter, comma 2˚, c.p.c., v. E. Zucconi Galli
Fonseca, L’arbitrato lite pendente, in Riv. trim. dir. proc. civ.a 2015, 250-251).
(8) Cfr. C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, 2 ed., Padova 2012, 234 ss. e, in
particolare, C. Cavallini, La non contestazione nell’arbitrato, in Riv. arb. 2009, 55 ss.
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rivista di diritto processuale 2016
stamento dell’oggetto del giudizio alla sede arbitrale, non è meno vero che
il trasferimento del processo potrebbe giustificare anche un potenziale
ampliamento del thema decidendum definito in sede giurisdizionale, ancorché entro i limiti della connessione con l’azione promossa nel giudizio
pendente (9). Di qui, il rischio – poc’anzi accennato – di un accumulo
dell’attività istruttoria svolta in sede giudiziaria con quella da svolgere, nel
corso del procedimento arbitrale, sul rapporto processuale connesso e con
quella che potrebbe rendersi ulteriormente necessaria per completare,
sempre in sede arbitrale, la trattazione dell’originario thema decidendum
eseguita dinanzi all’autorità giudiziaria.
2. – Ma i dubbi si fanno ancora più stringenti ove si considerino le
implicazioni che derivano dalla disciplina processuale di tale strumento in
rapporto ai principi generali in punto di volontà dell’atto processuale;
implicazioni che contribuiscono a incrementare le ragioni di conflitto inter
partes, frustrando ogni possibilità di soddisfare l’obiettivo di deflazione a
cui l’introduzione dello strumento voleva contribuire – seppure timidamente – a dare realizzazione.
Ciò che reclama maggiore attenzione, a mio sommesso avviso, è il
profilo della rilevanza che si possa continuare ad attribuire alla volontà
compromissoria quando questa sia stata espressa in un’istanza congiunta
ritenuta inammissibile dall’organo giudiziario. Il profilo, completamente
trascurato dalla disciplina positiva, offre invero l’occasione per comprendere quale sia il valore assunto dalla volontà di devolvere la lite in arbitrato
allorché la stessa trovi espressione – come meglio si dirà nelle prossime
pagine – attraverso il compimento di un atto processuale. Vi è però da
osservare, anzitutto, che la translatio iudicii trova qui piena realizzazione
soltanto al culmine di un procedimento che impone la delibazione dell’istanza e la verifica delle condizioni prescritte dall’art. 1, comma 1˚, d.l. n.
132/2014. Di talché, una corretta valutazione del ruolo della volontà nell’istanza di trasferimento del processo non può prescindere in parte qua
dall’esame di tale procedimento e delle condizioni che legittimano l’attribuzione agli arbitri della potestas iudicandi. Tali condizioni attengono, in
particolare, al profilo formale della arbitrabilità in concreto della lite pendente; un profilo, quest’ultimo, che è destinato ad emergere alla stregua di
(9) Cosı̀ A. Briguglio, L’ottimistico Decreto-legge sulla “degiurisdizionalizzazione” ed il
trasferimento in arbitrato delle cause civili, in Riv. arb. 2014, 635.
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trasferimento del processo in sede arbitrale
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taluni indici sintomatici attinenti alla pendenza della lite e alla consistenza
del thema decidendum.
Il primo indice concerne, a sua volta, due aspetti peculiari dell’istituto
in parola, in quanto la pendenza della lite va misurata, per cosı̀ dire, con
riguardo sia al momento temporale sia al momento soggettivo e strutturale
della controversia. Ed infatti, l’accertamento della pendenza della lite esige, anzitutto, un raffronto tra il momento della proposizione della domanda giudiziale e la data di entrata in vigore del provvedimento riformatore
(id est: 13 settembre 2014: arg. ex art. 23, d.l. n. 132/2014); d’altra parte,
però, la pendenza della lite va considerata anche sul piano dell’organo
giudiziario investito originariamente del potere di decidere la controversia,
atteso che solo le controversie pendenti «dinanzi al tribunale o in grado
d’appello» (e, quindi, in questa seconda ipotesi, dinanzi sia alla corte di
appello sia al medesimo tribunale) che non siano state già rimesse in
decisione, sono devolvibili in arbitrato. Il secondo indice rivelatore dell’arbitrabilità della lite e, quindi, dell’ammissibilità dell’istanza congiunta
attiene, invece, al thema decidendum della controversia e si caratterizza
anch’esso per una duplice rilevanza; l’accento è posto, infatti, dal legislatore non solo sulla natura disponibile del diritto dedotto in giudizio, ma
anche sull’oggetto della domanda che non deve riguardare situazioni soggettive in materia di previdenza, assistenza sociale o lavoro (salvo che –
come precisato in sede di conversione al decreto – la lite laburistica abbia
ad oggetto diritti che rinvengono nel contratto collettivo di lavoro la
propria fonte e tale contratto abbia previsto la risoluzione arbitrale della
lite) (10).
Sembra lecito chiedersi, allora, se l’autorità giudiziaria, in sede di
delibazione dell’istanza congiunta, possa svolgere, accanto all’accertamento dei requisiti imposti dalla normativa speciale e afferenti – come detto –
alla arbitrabilità in concreto della lite, un controllo officioso circa la sussistenza dei requisiti di validità della convenzione arbitrale e, specialmente,
per quanto qui rileva, l’esistenza e l’efficacia del consenso. A quel che pare,
non dovrebbe esservi dubbio sulla risposta negativa al quesito (11), solo
che si consideri, da un lato, il carattere disponibile della materia compromissoria emergente dalla disposizione dell’art. 817, comma 2˚, c.p.c. e,
dall’altro lato, il rigore con cui l’art. 1, comma 2˚, d.l. n. 132/2014 circo-
(10) Cfr. A. Ronco, in Trasformazioni e riforme del processo civile. Dalla l. 69/2009 al
d.d.l. 10 febbraio 2015, a cura di C. Besso, G. Frus, G. Rampazzi, A. Ronco, Bologna 2015,
48 ss.
(11) Contra, però, E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato lite pendente, cit., 242 s.
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rivista di diritto processuale 2016
scrive l’ambito cognitorio del giudice alla «sussistenza delle condizioni di
cui al comma 1». Non sembra esservi spazio, dunque, per un esame
officioso della validità dell’accordo arbitrale e, men che meno, della sussistenza di un valido consenso dei compromittenti; ciò che, del resto, non
deve stupire, io credo, se si tiene conto non solo della competenza del
collegio arbitrale ad esaminare tali profili ai sensi dell’art. 817 c.p.c., ma
altresı̀ della valenza sanante che può dirsi sottesa – in base sempre a
quest’ultima disposizione – alla mancata eccezione di invalidità della convenzione in sede arbitrale (12).
In tale contesto, viene allora a porsi l’interrogativo circa la sorte dell’accordo compromissorio espresso attraverso l’istanza congiunta nel caso
in cui quest’ultima sia reputata inammissibile in ragione dei profili poc’anzi ricordati. Orbene: ritenuto che la validità della formazione della volontà
compromissoria resti estranea all’ambito cognitorio del giudice, a me pare
che il vaglio di legittimità (rectius: di ammissibilità) dell’istanza, se può
precludere il trasferimento del processo in sede arbitrale ogni qualvolta sia
assente uno dei requisiti di legge, non può ostacolare, per ciò solo, la
permanenza e, dunque, la vincolatività della convenzione arbitrale espressa
mediante l’atto processuale inammissibile. Ben inteso: la volontà espressa
dalle parti del giudizio pendente resterà predeterminata nel suo oggetto al
contenuto delle domande ed eccezioni proposte (ed eventualmente precisate o – legittimamente – modificate) nel processo, ma la pronuncia negativa del giudice sull’istanza de qua non sembra poter comunque precludere alla parte interessata la proposizione di una domanda di arbitrato
previa pronuncia sulla competenza ex art. 819 ter c.p.c. o cancellazione
della causa dal ruolo (13) e tempestiva riassunzione dinanzi agli arbitri (14).
Ecco, dunque, che l’inammissibilità dell’istanza congiunta non attinge la
(12) L. Salvaneschi, Commento all’art. 817, in Commentario del codice di procedura
civile, a cura di S. Chiarloni, Bologna 2014, 563 s.
(13) Per la preferibilità di tale soluzione, in forza di un’applicazione analogica in parte
qua dell’art. 38, comma 2˚, c.p.c. nei casi in cui vi sia adesione ex adverso all’eccezione di
compromesso (preferibilità, ben s’intende, rispetto alla pronuncia di una sentenza sulla
competenza alla stregua del dato letterale dell’art. 819 ter c.p.c.), v. le considerazioni svolte
infra nel testo e nella nota 42.
(14) Si impone, pertanto, la necessità di un superamento del vincolo costituito dalla
preclusione ex art. 819 ter c.p.c. dell’eccezione di compromesso entro la comparsa di
risposta; un superamento che può ottenersi – come puntualmente segnalato – attraverso
il richiamo al principio di uguaglianza e alla configurazione di «una eccezione di parte da
compiersi nella prima difesa utile (post-compromesso, appunto)», cosı̀ da colmare il difettoso dato normativo e arginare le conseguenze più gravi della regola codicistica in favore di
un trattamento dell’istanza congiunta alla stessa stregua del rilievo ex parte della convenzione arbitrale (cosı̀ E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato lite pendente, cit., 241).
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volontà compromissoria che resta pienamente efficace e idonea ad assicurare la prosecuzione del giudizio in sede arbitrale, analogamente a quanto
accade nel caso della conclusione di un autonomo patto arbitrale a lite
pendente. Nondimeno, è doveroso porsi un ulteriore e conseguente interrogativo – avente forse più una rilevanza teorica che pratica – in ordine
all’eventualità che, malgrado la pronuncia di inammissibilità dell’istanza, le
parti intendano far valere concordemente la convenzione arbitrale conclusa
per il tramite, appunto, dell’istanza inammissibile. Come detto, il giudizio
di non ammissibilità concerne soltanto quei profili formali dell’istanza che
sono esplicitati dalla legge speciale, ma lascia sopravvivere la volontà delle
parti di devolvere la lite in arbitrato, di talché vien fatto di chiedersi se tale
volontà possa nuovamente farsi valere attraverso la proposizione di un’istanza congiunta che non sarebbe però la reiterazione di quella precedente, ma avrebbe soltanto una valenza ricognitiva di un accordo compromissorio autonomo che si è sostanziato nella precedente istanza. A me pare
che questa eventualità, per quanto forse singolare, possa effettivamente
configurarsi e dare luogo ad una richiesta congiunta delle parti di spostamento della lite in arbitrato; una richiesta, quest’ultima, a cui il giudice
potrebbe rispondere, in caso di accoglimento, disponendo il trasferimento
diretto della causa in arbitrato ovvero statuendo la cancellazione della
causa dal ruolo e la conseguente tempestiva riassunzione del processo.
Delle due alternative, la prima pare quella preferibile, posto che l’istituto
in parola sembra destinato a trovare applicazione anche nel caso in cui
l’istanza congiunta abbia una valenza puramente ricognitiva di un’autonoma convenzione arbitrale.
Queste prime osservazioni sono in grado di palesare – io credo – la
peculiarità che il ruolo della volontà delle parti è chiamato a svolgere con
riferimento all’istanza di trasferimento della lite pendente in arbitrato. Una
peculiarità, quest’ultima, che si inserisce in una più ampia tematica: quella
della (ir)rilevanza processuale della volontà degli effetti; una tematica che è
tipicamente connessa alla natura negoziale dell’atto e che, nondimeno,
finisce per suscitare numerosi interrogativi in punto di efficacia dell’atto
processuale e, in particolare, di validità dell’effetto dispositivo sostanziale
che sia stato prodotto attraverso l’atto processuale.
3. – Secondo la legge processuale, il ruolo che la volontà del soggetto
potrebbe svolgere in rapporto al compimento e all’efficacia dell’atto processuale resta totalmente assorbito dal regime della forma dell’atto; ed
infatti, la sostanziale irrilevanza, sul piano giuridico-processuale, delle modalità di formazione e di manifestazione della volontà nell’atto processuale
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(e, cosı̀, dell’eventuale vizio genetico di tale volontà) (15) rappresenta
null’altro che una conseguenza della natura procedimentale (16) che è
propria del processo civile. Più precisamente, una tale irrilevanza si atteggia come una conseguenza del rapporto di stretta dipendenza che viene a
instaurarsi tra gli atti del processo civile in ragione di quella che potrebbe
qualificarsi come la naturale duplicità di valore dell’atto giuridico processuale. Se è vero, infatti, che ciascun atto processuale rappresenta il risultato (rectius: l’effetto) dell’esercizio di una situazione giuridica soggettiva
processuale avente, per lo più, la veste di un potere o di un onere processuale, non è men vero che il conseguimento di un tale risultato – vale a
dire: il compimento di un atto processuale valido ed efficace nell’ambito
del procedimento – rappresenta, di regola, il presupposto dell’atto processuale susseguente (rectius: il presupposto per l’esercizio del susseguente
potere o onere processuale) secondo la «serie effettuale» del procedimento
e, al tempo stesso, la conseguenza dell’atto processuale precedente (rectius:
la conseguenza dell’esercizio di un precedente potere o onere processuale)
secondo la medesima «serie effettuale» (17). Una simile correlazione tra gli
atti processuali, nel momento in cui li rende l’uno dipendente dall’altro,
dando cosı̀ forma a quell’idea del procedere che è propria dell’attività
giurisdizionale, risponde anche ad un’esigenza di certezza delle situazioni
soggettive processuali e favorisce il rapido e sicuro susseguirsi degli atti
processuali fino alla pronuncia di un provvedimento decisorio definitivo, a
cui ciascun atto del processo può dirsi essenzialmente preordinato; la
strutturale dipendenza dell’atto processuale dall’esercizio di un altro (e
presupposto) potere processuale – tanto più ove proveniente dall’altra
parte (18) – esige, infatti, la stabilità degli effetti di tale esercizio. Una
(15) Nondimeno, va riconosciuto che l’atteggiamento psicologico con cui viene posto in
essere un atto processuale deve rispondere naturalmente ai canoni minimi della capacità
legale e, dunque, ai sensi dell’art. 75 c.p.c., ai requisiti per la valida ed efficace disposizione
a
dei diritti soggettivi (cfr. C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, I, 24 ed.,
Torino 2015, 371 ss.); con ciò, si manifesta la necessità imprescindibile che l’atto processuale, in quanto atto giuridico, non possa che essere un atto cosciente e, in questo senso,
seppur genericamente,a anche volontario (cfr., per tutti, E.T. Liebman, Manuale di diritto
processuale civile, I, 7 ed., Milano 2007, 210).
(16) G. Conso, I fatti giuridici processuali penali, Milano 1955, 55 ss.
(17) C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, I, cit., 499.
(18) Ovvero dall’organo giudiziale: in tal caso non può parlarsi di atto processuale
come espressione di un potere o onere processuale di parte, bensı̀ come manifestazione
della potestas iudicandi di un organo pubblico, ma l’efficacia (per lo meno) pregiudicante nei
confronti di taluni successivi atti processuali di parte, come ad esempio il potere di impugnare la sentenza, è la medesima [cfr. E. Redenti, Atti processuali (diritto processuale civile), in Enc. dir., IV, Milano 1959, 130 ss.].
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stabilità, quest’ultima, che è garantita, per l’appunto, dalla preclusione
d’ogni controllo in merito al profilo soggettivo dell’atto; e ciò, a sua volta,
per il tramite di una oggettivizzazione di tale profilo operata mediante una
presunzione iuris et de iure della corretta formazione (e, dunque, della
validità ed efficacia) della volontà soggettiva in virtù della mera presenza
nell’atto di un valido requisito di forma; un requisito, quest’ultimo, che è
predeterminato – talvolta minuziosamente (19) – dalla legge e mediante il
quale l’atto si esteriorizza e si manifesta nel processo, creando in capo alle
altre parti del giudizio una situazione di legittimo affidamento nella validità
ed efficacia dell’atto stesso.
La conclusione circa l’assenza di un’efficacia autonoma dell’atto sembra essere confermata, d’altro canto, dall’insostenibilità della teoria del
negozio processuale (20). Costituisce, infatti, una ferma convinzione della
dottrina quella secondo cui si debba superare una lettura processuale di
quelle vicende negoziali che assumono rilevanza per il processo in quanto
siano compiute nel corso del procedimento (o, comunque, in occasione di
esso) ovvero in quanto, pur essendo compiute fuori del processo, siano
destinate a riversare nel procedimento taluni dei loro effetti.
Quella del negozio processuale è una teoria che si è sviluppata sotto
l’influenza della pandettistica tedesca, nel tentativo di attrarre al processo
categorie dogmatiche elaborate nell’ambito del diritto sostanziale, a cominciare dal ruolo assunto dalla volontà e dalla causa nella produzione
degli effetti giuridici dell’atto (21). Sebbene non sia questa la sede per
esaminare una teoria cosı̀ complessa, giova qui ricordare come l’estensione
al processo di tali categorie dogmatiche si sia resa possibile mediante
l’applicazione della disciplina degli atti processuali a talune vicende dispositive di diritto sostanziale idonee ad incidere, seppure solo indirettamente,
(19) La disciplina processuale della forma è, infatti, cosı̀ dettagliata da penetrare nel
contenuto stesso dell’atto processuale: si parla, infatti, solitamente di «forma-contenuto»
dell’atto [v., per tutti, R. Oriani, Atti processuali (diritto processuale
civile), in Enc. giur., IV,
a
Roma 1988, 4]. E. Allorio, Diritto processuale tributario, 4 ed., Torino 1962, 491 s. parla,
preferibilmente, di forma «intrinseca» e forma «estrinseca» dell’atto a seconda che, rispettivamente, il regolamento formale dell’atto disciplini «il risultato di fatto, che l’atto debba
produrre» ovvero il «modo, con cui il risultato di fatto debba essere raggiunto» (il corsivo è
dell’Autore).
(20) Sulla teoria del negozio processuale v. A. Costa, Contributo alla teoria dei negozi
giuridici processuali, Bologna 1921, passim. V. anche A. Segni, S. Costa, Procedimento civile,
in Noviss. Dig. it., Torino 1966, 1026 ss., in part. 1046 ss.
(21) Cfr., in questo senso, soprattutto il pensiero di V. Denti, Note sui vizi della volontà
negli atti processuali, Pavia 1959, passim; Id., Negozio processuale, in Enc. dir., XXVIII,
Milano 1978, 138 ss.; Id., Procedimento civile (atti del), in Dig. disc. priv., Sez. civ., XIV,
Torino 1996, 553 ss.
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sullo svolgimento del processo (22). Rispetto a questi atti è parsa quindi
giustificata una valorizzazione dell’attività giuridica in termini prettamente
processuali, cosı̀ da porre in secondo piano la determinazione sostanziale
che in essi fosse stata espressa. Ma in questa valorizzazione – ben presto
criticata nella successiva dottrina (23) – si è riflessa un’impostazione erronea dell’atto processuale, in quanto orientata a individuarne il tratto costitutivo nella mera collocazione all’interno della sequenza procedimentale,
e non invece nel profilo funzionale dell’atto. Una visione dell’atto confinata entro le vicende del rapporto processuale ha finito, infatti, per trascurare ogni considerazione in merito alla idoneità o meno dell’atto (rectius: della statuizione in esso contenuta) a condizionare immediatamente lo
svolgimento e, quindi, l’esito del processo. Di talché, se è vero che un atto
dispositivo di diritto sostanziale come, ad esempio, il compromesso o
l’accordo modificativo della competenza non può essere irrilevante per il
processo pendente, è però innegabile che tale atto non sia suscettibile di
produrre ex se alcun effetto propriamente e direttamente processuale
come, ad esempio, la negazione della giurisdizione o della competenza,
determinando piuttosto quella che la più attenta dottrina in materia ha
qualificato talvolta come «una mera rilevanza processuale» (24). Un concetto, quest’ultimo, che ha contribuito a dare ordine alla materia, separando nettamente – come meglio si dirà nel prossimo paragrafo – il piano
dell’efficacia (e della validità) sostanziale del negozio da quello dell’efficacia
(e della validità) processuale del distinto atto (25) con cui il negozio (rectius:
l’effetto dispositivo promanante dalla dichiarazione di volontà negoziale)
viene fatto valere nel processo.
Di qui, se si riconosce l’elemento qualificante di tali atti nel loro
contenuto sostanziale e li si espunge dal novero degli atti processuali
attenuandone le ripercussioni sul processo alla stregua di effetti secondari
(22) Le ipotesi sono naturalmente molto numerose e ampiamente analizzate dalla
dottrina (v. E. Redenti, Atti processuali, cit., 121 s.), ma l’attenzione si è concentrata, da
tempo, su alcune tipologie di atti che hanno un contenuto o una rilevanza processuale: (i) in
quanto occasionati dal processo come, ad esempio, la conciliazione giudiziale, la rinuncia
alla pretesa e l’offerta di riduzione ad equità ex art. 1467 c.c. ovvero (ii) in quanto aventi una
mera rilevanza processuale come, ad esempio, il compromesso, l’accordo modificativo della
competenza, l’accordo sulle prove, l’acquiescenza. Cfr., recentemente, Cass., Sez. un., 9
dicembre 2015, n. 24822 in tema di interruzione della prescrizione mediante atto processuale.
(23) F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, II, Padova 1938, 77 ss.
(24) Cosı̀ V. Denti, Negozio processuale, cit., 140 s.
(25) Avente, per lo più, la forma processuale dell’eccezione (cfr. V. Denti, Negozio
processuale, cit., 141).
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o indiretti, non può non ammettersi che l’atto processuale, ove sia individuato correttamente mediante il suo «valere per il processo» (26), sia
inidoneo a statuire autonomamente i propri effetti sul procedimento, essendo questi predeterminati dalla legge e orientati allo svolgimento della
sequenza procedimentale. Vien da sé, allora, chiedersi se possano enuclearsi atti propriamente (id est: funzionalmente) processuali che siano
altresı̀ idonei a produrre effetti giuridici autonomi extraprocessuali, e quindi sostanziali, nei quali scorgere il presupposto logico-giuridico in forza del
quale dare rilevanza a quel profilo della volontà che, di per sé, resterebbe
invece avulso dal regime processuale di tali atti.
Nondimeno, anche rispetto a questa categoria di atti – speculare, per
cosı̀ dire, rispetto a quella precedente – le conclusioni a cui si può pervenire, in ordine all’incidenza della volontà sull’efficacia processuale dell’atto, non paiono discostarsi da quelle formulate nelle pagine precedenti,
allorché si è esclusa la configurabilità di un’efficacia processuale autonoma
degli atti dispositivi di diritto sostanziale. Ed infatti, è vero che in questi
ultimi casi l’irrilevanza della volontà ha costituito il corollario della stessa
natura extraprocessuale dell’atto, nel senso che la volontà dell’agente, pur
statuendo gli effetti sostanziali del negozio, non incide sull’efficacia processuale del distinto atto con cui tali effetti siano poi fatti valere all’interno
del processo; tuttavia, non è men vero che nei casi in cui, per contro, l’atto
processuale consente l’esercizio di un potere sostanziale, la volontà dell’autore dell’atto non rilevi parimenti sul piano processuale, atteso che tale
volontà, se concorre a determinare l’efficacia dell’atto sostanziale (id est: la
disposizione di una situazione sostanziale), non influisce sull’efficacia processuale – più esattamente: endoprocedimentale – dell’ulteriore atto con
cui la disposizione sostanziale sia fatta valere nel processo al fine di ottenere una pronuncia giurisdizionale che investa la situazione giuridica già
incisa dall’atto sostanziale (27). Il discorso si fa più concreto ove si osservi
che il tema dell’efficacia sostanziale di un atto processuale ha assunto – e
a
(26) F. Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, I, 3 ed., Roma 1942, 265.
(27) Cosı̀ V. Denti, Note sui vizi della volontà negli atti processuali, cit., 13 s.; R. Oriani,
Atti processuali, cit., 2 s. Cfr. anche I. Andolina, Per un profilo degli atti processuali con effetti
di diritto sostanziale, in Jus 1959, 103 ss., secondo cui l’atto processuale, in quanto tale,
diverrebbe fonte dell’effetto sostanziale prodotto dall’esercizio del diritto soggettivo per il
tramite, appunto, dell’atto del processo. Vero è che una tale lettura del fenomeno – forse più
piana e lineare di quella prospettata nel testo – sembra scontare tuttavia la mancata considerazione della natura endoprocedimentale dell’atto; una natura che priva, come detto,
l’attività giuridica svolta nel processo di ogni idoneità a svolgere effetti autonomi, ancorché
aventi natura diversa rispetto a quella processuale.
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continua ad assumere – una significativa importanza soprattutto in rapporto all’esercizio di quei poteri modificativi di una situazione sostanziale
ai quali corrisponde una mera soggezione in capo al soggetto destinatario
degli effetti costitutivi (28). Ed invero, l’esercizio in sede processuale di tali
poteri non comporta che l’atto processuale produca direttamente (anche)
l’effetto costitutivo, posto che – come puntualmente segnalato – esso
scaturisce invece dall’esercizio del potere sostanziale seppur veicolato dal
mezzo processuale (id est: dal processo e, specialmente, dalla sentenza
favorevole), mentre in conseguenza dell’atto processuale – sub specie di
azione o eccezione – si determina soltanto un effetto processuale che
culmina nell’obbligo del giudice di pronunciarsi sulla situazione incisa
dall’esercizio del potere costitutivo (29). L’atto processuale non perde,
dunque, la sua efficacia meramente endoprocedimentale, mentre assume
soltanto una rilevanza indiretta sul piano sostanziale; e ciò per la ragione
che l’effetto costitutivo, se necessita del provvedimento giudiziale per
perfezionarsi pienamente, viene già a determinarsi con l’esercizio del diritto sostanziale, il quale è soltanto mediato dall’attività processuale (azione
o eccezione) posta in essere dal soggetto titolare di tale potere sostanziale.
3.1. – Ad un tale ordine di riflessioni sembra possibile ricondurre la
figura dell’istanza congiunta di trasferimento del processo pendente in
sede arbitrale, atteso che, nonostante il silenzio della legge sul punto,
paiono venire qui a delinearsi, nell’ambito di un atto processuale, i contorni
di un accordo volto alla devoluzione della lite in arbitrato. Conviene quindi
soffermarsi sul piano ricostruttivo della fattispecie, allo scopo di verificare
se vi si possano rintracciare gli elementi che consentono di attribuire
rilevanza al profilo della volontà e di individuare cosı̀ il corretto regime
di efficacia e validità dell’atto.
Ebbene, sulla natura processuale dell’istanza de qua non pare davvero
sussistere alcun dubbio (30); tale atto scaturisce, infatti, dall’esercizio congiunto di uno specifico potere processuale che spetta a ciascuna delle parti
del giudizio e che è inteso, per l’appunto, a devolvere la definizione della
(28) C. Ferri, Profili dell’accertamento costitutivo, Padova 1970, 33 ss. e, più recentemente, A. Proto Pisani, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva (e sulle tecniche di produzione
degli effetti sostanziali), in questa Rivista 1991, 60 ss. (ora anche in Le tutele giurisdizionali
dei diritti, Napoli 2003, 195 ss., in part. 217 ss.).
(29) V. Denti, Note sui vizi della volontà negli atti processuali, cit., 12 ss.; Id., Negozio
processuale, cit., 141 s.; R. Oriani, Atti processuali, cit., 3.
(30) Recentemente v. G. Navarrini, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato
deflattivo” (art. 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132), www.judicium.it, 5, nota 14.
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controversia pendente al potere decisorio dell’arbitro. Ciò che solitamente
viene pattuito dalle parti mediante un’attività negoziale anteriore all’avvio
del processo (e, per il caso del compromesso, anteriore finanche all’insorgenza della lite), viene qui a confluire in una comune attività processuale
che le parti pongono in essere congiuntamente dinanzi al giudice nel corso
del procedimento (31). Tuttavia, non è il solo atto delle parti ad assumere
rilevanza, bensı̀ un più ampio procedimento autorizzativo che, attraverso
l’intervento del giudice, perfeziona l’effetto del trasferimento del processo
pendente alla sede arbitrale (32); un procedimento, quest’ultimo, che viene, pertanto, a culminare nell’accertamento dei requisiti formali imposti
dalle nuove disposizioni, al fine di assicurare una devoluzione diretta e
immediata della lite alla potestas iudicandi dell’organo privato. L’accertamento dei requisiti per l’arbitrabilità della lite (alla stregua dell’art. 1,
comma 1˚, d.l. n. 132/2014) consente, infatti, di realizzare il trasferimento
del processo agli arbitri per il tramite della mera trasmissione del fascicolo
al presidente del consiglio dell’ordine competente (33), senza necessità di
(31) L’art. 1, comma 1˚, d.l. n. 132/2014 individua il termine preclusivo per l’esercizio
del potere processuale in parola nel momento in cui la causa sia stata rimessa (o, come recita
insolitamente la disposizione, «assunta») in decisione. Pare, dunque, ragionevole concludere
che l’istanza congiunta possa essere sottoposta alla delibazione del giudice ordinario nel
corso dell’intera fase di trattazione della causa «dinanzi al tribunale o in grado di appello». Il
che naturalmente consente di evitare il problema connesso al sistema preclusivo che governa
l’allegazione (e la prova) di fatti nuovi nel corso sia del giudizio di primo grado che di quello
d’appello; problema, questo, che invece continua a porsi – tanto più dopo l’introduzione
dell’art. 819 ter c.p.c. e l’assoggettamento dell’exceptio compromissi al termine decadenziale
delle eccezioni in senso stretto – per il patto compromissorio concluso nella pendenza della
lite ma senza avvalersi del procedimento di translatio iudicii (e, soprattutto, di conservazione
degli effetti sostanziali e processuali della domanda) previsto dal menzionato art. 1 (cfr., in
particolare, E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato pendente lite, cit., 240 s., ove anche il
riferimento alla possibilità di interpretare estensivamente la lettera dell’art. 819 ter, nel senso
di posticipare il momento preclusivo dal deposito della comparsa di risposta alla svolgimento della «prima difesa utile», cosı̀ da evitare l’«irragionevolezza di una disparità di trattamento» tra l’ipotesi de qua e quella di cui al menzionato art. 1).
(32) Cosı̀ A. Briguglio, L’ottimistico Decreto-legge sulla “degiurisdizionalizzazione” ed il
trasferimento in arbitrato della cause civili, cit., 635.
(33) La trasmissione del fascicolo della causa al «presidente del consiglio dell’ordine»
(degli avvocati) nel cui circondario ha sede il giudice investito della controversia sembra
costituire, del resto, un passaggio necessario nell’iter che conduce alla prosecuzione del
processo dinanzi agli arbitri, posto che la legge, destinando l’intervento del presidente del
consiglio dell’ordine alla nomina del collegio arbitrale (o dell’arbitro) in ossequio, se non
erro, ad un principio di competenza o di capacità ratione materiae, non sembra lasciare
spazio alla possibilità di una trasmissione diretta del fascicolo al collegio arbitrale o all’arbitro quando questo sia stato nominato direttamente dalle parti (contra A. Briguglio, L’ottimistico Decreto-legge sulla “degiurisdizionalizzazione” ed il trasferimento in arbitrato delle
cause civili, cit., 636 che, tuttavia, stigmatizza la deminutio della posizione del presidente).
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alcun intervento di riassunzione del processo ad opera delle parti al fine di
assicurare la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale.
Orbene, se è vero che l’istanza congiunta rappresenta un elemento
necessario ma non sufficiente della translatio iudicii in sede arbitrale,
non è però men vero che l’istanza si palesa pur sempre come il fulcro di
tale procedimento, in quanto con essa trova espressione la volontà della
parte (rectius: di ciascuna delle parti) di perseguire una modalità alternativa di tutela giurisdizionale della situazione soggettiva dedotta. Si tratta,
dunque, di un atto del procedimento che consegue all’esercizio di un
potere processuale e mira all’emanazione di un provvedimento giurisdizionale, di talché soddisfa pienamente i requisiti per l’appartenenza alla
serie procedimentale. Nondimeno, tale atto può esprimere direttamente
un’attività dispositiva del diritto sostanziale nella misura in cui non si limiti
a dare rilevanza nel processo ad un atto negoziale extraprocessuale (id est:
il patto compromissorio concluso tra le parti prima o, comunque, indipendentemente dall’avvio del processo dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria) (34), ma costituisca esso stesso lo strumento con cui sia disposta la
devoluzione agli arbitri della lite pendente.
Entro questa alternativa si viene, dunque, a porre la tematica della
natura mutevole dell’istanza de qua; ed infatti, ai fini di quanto qui interessa, sembra lecito notare che, a mio avviso, riesce alquanto difficile
sfuggire ad un’alternativa di tal sorta: – o l’istanza si limita ad avviare il
procedimento di autorizzazione della translatio iudicii sulla scorta di una
convenzione arbitrale che sia stata pattuita inter partes prima dell’avvio del
processo o, comunque, prima della presentazione dell’istanza al giudice (35); – o l’istanza recepisce la volontà compromissoria delle parti con
È lecito, allora, chiedersi, nel silenzio della legge, se una qualche funzione possa davvero
assolvere, in questi casi, l’intervento del presidente del consiglio dell’ordine, considerato che
la mancanza di qualsiasi potere di controllo sulla translatio iudicii lo rende estraneo sia alle
attività proprie dell’autorità giudiziaria sia a quelle dell’organo arbitrale (per il riconoscimento, non senza incertezze, della competenza all’estrazione di copie del fascicolo da parte
dei contendenti, v., da ultimo, E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato pendente lite, cit., 246,
testo e nota 35).
(34) Sull’eventualità che il patto compromissorio sia concluso (e, finanche, la domanda
di arbitrato sia proposta) nella pendenza della lite giudiziale, v., oltre alle osservazioni svolte
infra nel testo, E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato pendente lite, cit., 239 s.
(35) Il giudice competente a pronunciarsi sull’istanza de qua è individuato, mediante la
formula ellittica dell’art. 1, comma 1˚, d.l. n. 132/2014, nel «tribunale» (sia per le cause che
questi decide in primo grado sia per quelle che risolve «in appello») e nella corte di appello
(escluse le controversie che la corte è chiamata a decidere in unico grado: cfr. A. Ronco, in
Trasformazioni e riforme del processo civile, cit., 45). Per il giudizio di opposizione a decreto
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cui non solo si investe il giudice dell’accertamento dei presupposti di
legge, ma si dispone altresı̀, e prim’ancora, l’effetto devolutivo della lite (36)
alla decisione degli arbitri. In tal modo, non si vuole porre una distinzione
tra le modalità di presentazione dell’istanza (37), bensı̀, se mai, una distinzione tra gli effetti dell’atto e i regimi di validità applicabili in ognuna delle
due situazioni sopra considerate. Ed infatti, posto che il dato normativo
non sembra affatto precludere la possibilità di una manifestazione della
volontà compromissoria (38) nel testo dell’istanza, si può avere quella duplicità di situazioni in cui l’atto processuale: o viene ad assumere rilevanza
nel processo alla stregua di un momento della serie procedimentale volto ad
assicurare il dovere del giudice di pronunciarsi sull’ammissibilità dell’istanza
e sulla conseguente apertura della procedura di trasmissione della causa
dinanzi agli arbitri, o si sostanzia senz’altro nell’indispensabile strumento
di esercizio del potere sostanziale di devoluzione della lite alla pronuncia
da parte degli arbitri che siano stati investiti del potere decisorio. In un caso,
insomma, l’istanza de qua sembra operare alla stessa stregua dell’eccezione
di compromesso che sia sollevata dinanzi al giudice per far valere il patto
compromissorio concluso tra le parti e ignorato dall’attore; nell’altro caso,
invece, l’istanza congiunta non opera soltanto come momento della serie
procedimentale (e, dunque, come presupposto, ad un tempo logico e giu-
ingiuntivo, con esclusione però dei provvedimenti ex artt. 648-649 c.p.c., v. D. Borghesi, La
delocalizzazione del contenzioso civile: sulla giustizia sventola bandiera bianca?, in www.judicium.it, 5.
(36) Individuata anche per relationem alla stregua delle domande svolte nel giudizio
pendente: cosı̀, espressamente, C. Punzi, La c.d. “degiurisdizionalizzazione” della giustizia
civile, in Id., Il processo civile. Sistema e problematiche – Le riforme del quinquennio 20102014, Torino 2015, 3; E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato lite pendente, cit., 239.
(37) Come sottolineato, se è vero che la previa conclusione di un accordo compromissorio consentirebbe alle parti di esplicitare quelle pattuizioni che la lex generalis rimette alla
volontà delle parti, non è meno vero che tali pattuizioni – o almeno quelle che risultino
ammissibili alla stregua dei limiti posti dalle disposizioni dell’art. 1, d.l. n. 132/2014 –
possono trovare diretta espressione nell’istanza congiunta: cosı̀, ad esempio, vi si potrà
esprimere la scelta della sede o della lingua dell’arbitrato ovvero le regole procedurali per
lo svolgimento del giudizio e per l’assunzione della decisione, nonché per l’impugnazione
del lodo e per la celebrazione dell’eventuale fase rescissoria del giudizio impugnatorio [cfr.,
in particolare, A.A. Romano, Il trasferimento dinanzi ad arbitri delle cause civili pendenti ex
art. 1 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, in questa Rivista 2015, 479, 486 ss., testo e note 47, 48 e
59; G. Navarrini, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo”, cit., 6 (ove anche
il richiamo al vantaggio della maggiore facilità ad «ottenere (…) il decreto di esecutività ex
art. 825 c.p.c.», insito nella stipulazione di un previo patto compromissorio].
(38) E, con essa, la conseguente determinazione delle condizioni di operatività della
devoluzione in arbitri, nonché – compatibilmente con le prescrizioni dettate nell’art. 1, d.l.
n. 132/2014 – delle modalità di svolgimento del giudizio arbitrale (v. anche supra la nota 37).
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ridico, della pronuncia di autorizzazione del giudice ordinario), ma anche –
e anzitutto – come causa efficiente dell’effetto sostanziale consistente nella
devoluzione della lite alla decisione arbitrale.
Allorquando il patto compromissorio sia stato concluso prima dell’instaurazione del giudizio ordinario o, comunque, in un atto negoziale autonomo e separato rispetto al processo pendente, l’istanza congiunta finisce,
quindi, per esprimere soltanto l’esercizio di un potere processuale riconducibile al novero delle domande; un potere, questo, che è idoneo ad
attribuire rilevanza nel processo all’effetto sostanziale che sia stato disposto
dalla convenzione di arbitrato, senza che tuttavia tale effetto possa ricollegarsi eziologicamente all’atto processuale – e cioè all’istanza congiunta –
che determina soltanto l’effetto endoprocedimentale che conduce alla
pronuncia del giudice ordinario. In questa prospettiva, dunque, il regime
di efficacia e di validità dell’istanza è strettamente processuale e certamente
non vi è possibilità per assegnare rilevanza alla volontarietà dell’atto, i cui
effetti sul procedimento sono, dunque, predeterminati dalla legge (39).
Qualora, invece, alla proposizione dell’istanza congiunta consegua, accanto all’effetto processuale, la produzione dell’effetto sostanziale (per il tramite dell’esercizio del potere di compromettere la lite pendente in arbitrato), pare lecito chiedersi quale regime di validità dell’atto possa trovare
applicazione, atteso che, nell’eventualità sopra descritta, l’istanza congiunta, da un lato, si atteggia come uno strumento di integrazione (rectius:
formazione) della volontà sostanziale delle parti di ottenere una pronuncia
in merito alla posizione soggettiva dedotta avvalendosi del procedimento
arbitrale e, dall’altro, viene a porsi come una condizione processuale necessaria per la manifestazione della volontà compromissoria e, cosı̀, per l’accoglimento della domanda di devoluzione della lite in arbitrato.
Orbene: ogni qualvolta la volontà compromissoria si venga a formare
mediante l’istanza congiunta di trasferimento del processo, il patto arbitrale opera ben diversamente dall’eventualità in cui sia stato concluso
(39) Ed infatti, il caso qui menzionato ben si presta ad essere considerato paradigmatico e, per cosı̀ dire, rivelatore di quella categoria di atti processuali rispetto ai quali l’esercizio del potere sostanziale non solo si realizza per il tramite di un atto avente natura
extraprocessuale (id est: la conclusione del patto arbitrale), ma è di per sé inidoneo a
produrre effetti (se non indiretti) sul processo; l’operatività dell’effetto sostanziale sul processo esige un diverso atto, che abbia carattere pienamente processuale (come, appunto,
l’istanza congiunta), con cui far valere nel procedimento tale effetto. Qui non c’è, dunque,
una relazione tra il compimento dell’atto processuale e la produzione dell’effetto sostanziale,
poiché l’atto processuale non serve – necessariamente o meno – a produrre l’effetto sostanziale (v. supra nel testo), ma solo a determinare un effetto endoprocedimentale a cui
l’atto sostanziale è orientato, ancorché non sia in grado di produrlo direttamente.
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prima del (o, comunque, fuori dal) processo. Ed infatti, allorché il patto
compromissorio rappresenti un antecedente rispetto all’esercizio dell’azione, va osservato che l’effetto devolutivo della lite si perfeziona con la
conclusione dell’atto negoziale, mentre l’atto processuale, con cui tale
effetto sia fatto valere nel procedimento, finisce soltanto per dare rilevanza
all’esistenza del potere decisorio degli arbitri al fine di veder rigettata in
rito la domanda avversaria (40). In questo senso, dunque, l’eccezione di
compromesso – come osservato nel paragrafo precedente – opera alla
stregua di un atto del procedimento che non incide sulla produzione
dell’effetto sostanziale, bensı̀ soltanto sul piano della progressione della
serie procedimentale. A risultati analoghi si perviene, a mio avviso, anche
quando la conclusione del patto arbitrale, pur essendosi perfezionata successivamente all’avvio del processo dinanzi al giudice ordinario, sia fatta
valere mediante un’istanza congiunta delle parti (41); un’istanza, ben inteso, assai diversa rispetto a quella dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, essendo
diretta, pur sempre, a chiedere (e ottenere) la pronuncia di una absolutio
ab instantia, la quale, tuttavia, a differenza dell’ipotesi precedente, si caratterizza per il fatto di essere determinata non già dall’esercizio di un
potere unilaterale (id est: un’eccezione), ma da un atto congiunto delle
parti a cui si ricollega la convergente volontà di devolvere la lite pendente
in arbitrato. Qualora, invece, la volontà arbitrale si formi attraverso il
compimento dell’istanza congiunta, l’atto processuale non è funzionale
soltanto alla produzione dell’effetto endoprocedimentale che conduce alla
cancellazione della causa dal ruolo (42) e, contestualmente, alla trasmissio-
(40) Da ultimo, Cass., Sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24153, in Corriere giur. 2014, 84 ss.,
con nota di G. Verde, Arbitrato e giurisdizione: le Sezioni Unite tornano all’antico.
(41) Può ipotizzarsi anche l’evenienza che, a fronte di un patto compromissorio concluso nella pendenza della lite, solo una delle parti faccia valere nel processo l’effetto
devolutivo della lite in arbitrato, mentre la controparte ne contesti la validità o l’efficacia:
in tal caso, l’atto processuale con cui dare rilevanza nel procedimento all’effetto sostanziale
resta quello dell’eccezione ad opera della parte che confida nella validità e nell’efficacia del
patto arbitrale (cfr. V. Denti, Note sui vizi della volontà negli atti processuali, cit., 10 s.).
D’altra parte, quand’anche uno dei paciscenti abbia scelto di restare contumace, la richiesta
di absolutio ab instantia potrà provenire unilateralmente dalla sola parte costituita, senza che
la mancata costituzione dell’altra possa dare luogo ad un impedimento che ostacoli il
perfezionamento della fattispecie e, quindi, la pronuncia del giudice; il che si giustifica
agevolmente per la ragione, dinanzi enunciata, che l’atto processuale si limita, per un verso,
a dare rilevanza nel processo (pur senza costituirlo) all’effetto sostanziale consistente nella
devoluzione della lite in arbitri e, per altro verso, a dare impulso alla progressione procedimentale che è predeterminata per legge e culmina, in caso di accoglimento dell’istanza,
nella declinatoria del potere decisorio (cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato pendente
lite, cit., 239, 241 ss.).
(42) Cosı̀ A. Briguglio, L’ottimistico Decreto-legge sulla “degiurisdizionalizzazione” ed il
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ne del fascicolo d’ufficio al presidente del consiglio dell’ordine, ma costituisce altresı̀ lo strumento (processuale, appunto) per l’esercizio del potere
(sostanziale) di devolvere la lite pendente in arbitrato.
Ecco dunque che, con riferimento alle ipotesi ora considerate, viene ad
emergere un punto che merita la più attenta considerazione nella prospettiva che si è inteso qui privilegiare: ed infatti, se non erro, i rilievi svolti
traggono con sé questa conseguenza notevole, che la convenzione arbitrale, quando si venga a formare per il tramite dell’istanza congiunta, finisce
per essere assoggettata ad un regime di invalidità assai meno esteso di
quello a cui la convenzione soggiace quando è destinata ad assumere
soltanto una rilevanza nel processo per il tramite di un’eccezione di compromesso ovvero di un’istanza congiunta a contenuto puramente processuale. E una tale minore rilevanza del regime di invalidità dell’atto consegue alla diversa conformazione del ruolo assunto in parte qua dall’elemento volontaristico, in quanto, se la volontà di compromettere la lite – insorta
e pendente dinanzi all’autorità giudiziaria – viene ad integrarsi mediante il
compimento dell’istanza congiunta, nessuna rilevanza possono assumere
eventuali vizi della volontà dei compromittenti al fine di decidere sulla
validità ed efficacia dell’istanza congiunta e, pertanto, della trasmissione
del fascicolo d’ufficio alla sede arbitrale. L’effetto sostanziale resta confinato entro l’esercizio del potere di compromettere la lite e potrà riflettersi
soltanto sul regime di impugnabilità del lodo, di talché quegli stessi vizi
della volontà negoziale che comportano l’annullabilità del patto arbitrale,
trasferimento in arbitrato della cause civili, cit., 637 sulla scorta di un’applicazione analogica
dell’art. 38, comma 2˚, c.p.c., a cui consegue la non impugnabilità dell’ordinanza con cui sia
disposta la cancellazione della causa dal ruolo (v. anche G. Navarrini, Riflessioni a prima
lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo”, cit., 9). Vi è da aggiungere, a me pare, che il termine
trimestrale per l’adozione del provvedimento ordinatorio decorra, in questo caso, dal momento stesso in cui sia disposta la trasmissione del fascicolo al presidente del consiglio
dell’ordine, di talché, in assenza di qualsiasi onere riassuntivo di parte, la cancellazione della
causa dal ruolo potrebbe essere assunta dal giudice anche contestualmente all’adozione del
provvedimento traslativo. In questo senso sembra deporre, se non erro, non solo l’impraticabilità, ex art. 819 ter c.p.c., di una sospensione necessaria del giudizio arbitrale in attesa
del provvedimento di cancellazione della causa, ma anche (e soprattutto) la natura «automatica» della translatio iudicii; una situazione, quest’ultima, che pare presidiabile non tanto
mediante la possibilità di una ripresa del processo in caso di declinatoria della competenza
da parte degli arbitri (che presuppone, tuttavia, la sopravvivenza di un processo quiescente
pur dopo la trasmissione del fascicolo d’ufficio: v. M. Bove, Una vera rivoluzione dell’intero
sistema si attua solo attraverso strutture efficienti, in Guida dir. 2014, 69), quanto invece
mediante la «nullità del processo», allorché si pervenga ad una pronuncia sulla domanda
giudiziale nonostante la pendenza di una legittima istanza (cfr., sul punto, E. Zucconi Galli
Fonseca, L’arbitrato pendente lite, cit., 243 s., da cui sono tratte anche le parole tra virgolette).
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trasferimento del processo in sede arbitrale
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alla stregua di un accordo consensuale, potranno farsi valere come altrettanti motivi di contestazione della validità della decisione arbitrale (art.
829, n. 1, c.p.c.) (43), ma non si comunicheranno all’istanza congiunta
nonostante che essa – come detto – costituisca la condizione processuale
necessaria per la manifestazione della volontà compromissoria. La natura
sostanziale del potere esercitato attraverso l’istanza congiunta non contamina, per cosı̀ dire, l’atto processuale, il quale assume pertanto una mera
rilevanza sul piano del diritto sostanziale, nel senso che l’istanza congiunta
viene a costituire un elemento integrativo (44) della più complessa fattispecie che conduce alla produzione dell’effetto sostanziale consistente
nella devoluzione della tutela alla potestas iudicandi degli arbitri.
D’altra parte, va considerato che, in questi casi, il regime di validità
dell’istanza congiunta, pur rispondendo a una logica esclusivamente processuale, non è insuscettibile di riflettersi sul piano sostanziale dell’accordo
compromissorio, in quanto, se è vero (come è vero) che l’atto processuale
costituisce un elemento essenziale della fattispecie produttiva dell’effetto
sostanziale, ne consegue allora che l’invalidità dell’istanza – ad esempio,
per carenza di uno dei suoi presupposti costitutivi – impedisce all’accordo
compromissorio di pervenire al perfezionamento dell’effetto devolutivo
della lite pendente. Un impedimento, quest’ultimo, che non viene a dipendere da una carenza nella struttura dell’atto negoziale, bensı̀ in una
carenza nella struttura dell’atto processuale, cioè in un atto che non contribuisce – se non indirettamente – alla formazione della volontà compromissoria, ma assume rilevanza per la sua valida manifestazione all’esterno,
di talché una difettosa manifestazione di volontà – ancorché operata attraverso un atto processuale invalido (ed, anzi, proprio perché operata
attraverso un tale tipo di atto) – è incapace di conseguire l’effetto a cui
la volontà si ricollega. Pare allora possibile concludere – in sintonia con le
considerazioni svolte nel precedente paragrafo – che la volontà dell’effetto
assume rilevanza in parte qua soltanto sul piano dell’atto negoziale e,
(43) In questo senso v. già C. Vocino, Annullabilità del compromesso e sentenza arbitrale, in Scritti giuridici in onore di A. Scialoja, IV, Bologna 1953, 415 ss., in part. 431 ss.
Naturalmente, a fronte della disposizione di cui all’art. 817, comma 2˚, c.p.c., l’impugnazione del lodo esige che l’invalidità della convenzione arbitrale sia stata eccepita dalla parte
«nella prima difesa successiva all’accettazione degli arbitri» (cfr., sul punto, L. Salvaneschi,
Commento all’art. 817, cit., 562 ss.).
(44) Ben inteso: a condizione che l’istanza congiunta venga redatta in forma scritta o
risulti, tutt’al più, dal verbale dell’udienza in cui sia stata oralmente formulata, al fine di
rispettare la forma scritta ad substantiam della convenzione arbitrale ex artt. 807-808 bis
c.p.c. (v., sul punto, per tutti, A.A. Romano, Il trasferimento dinanzi ad arbitri delle cause
civili pendenti, cit., 479).
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dunque, alla stregua di un motivo d’impugnazione del lodo, senza influire,
invece, sull’efficacia processuale dell’istanza di trasmissione del fascicolo
d’ufficio al presidente del consiglio dell’ordine competente. Vero è però
che l’effetto sostanziale della devoluzione della lite viene precluso, pur
quando la volontà delle parti si sia formata correttamente, se l’elemento
processuale della fattispecie produttiva dell’effetto sostanziale si rivela
incapace di inserirsi efficacemente all’interno della serie procedimentale.
Si viene a creare, in sostanza, una relazione speculare, o a proporzionalità
inversa, tra i due fattori fin qui richiamati, di talché: – l’effetto sostanziale è
determinato dalla volontà soggettiva ma non incide direttamente sul piano
del processo; – mentre l’effetto processuale non è determinato dalla volontà soggettiva ma può incidere indirettamente sul piano del negozio e
della sua efficacia.
Ci si è fin qui riferiti all’effetto sostanziale della convenzione arbitrale
come alla disposizione dell’effetto devolutivo della lite pendente in arbitrato; corre, dunque, l’obbligo di precisare in qual senso si sia inteso
attribuire una simile portata agli effetti del patto arbitrale. Il problema
si rivela subito di non poco conto, solo che si consideri come l’effetto
precipuo della convenzione arbitrale abbia natura (non già sostanziale,
ma) processuale e venga a sostanziarsi, per l’appunto, nella preclusione
di ogni potere del giudice ordinario in ordine alla lite dedotta nell’accordo
compromissorio (45). Sebbene non sia questa la sede per trattare esaustivamente un tale problema, va tuttavia rilevato che la convenzione arbitrale
non esaurisce la propria efficacia sul terreno dell’attribuzione del potere
decisorio, ma assume rilevanza anche per il perseguimento di un modo
alternativo di tutela della situazione sostanziale a cui la volontà compromissoria si ricollega. La convenzione arbitrale pare, dunque, incidere, sia
pure in via strumentale e indiretta, sul piano sostanziale, se si considera
che la costituzione pattizia di un regime arbitrale della controversia (rectius:
della sua proposizione, trattazione e decisione, nonché dell’impugnazione
(45) Che la devoluzione della lite in arbitrato, nella misura in cui sottrae la cognizione
della lite al giudice ordinario, configuri «una questione generica e astratta di competenza
senza la contemporanea deduzione di una controversia di diritto sostanziale» è un dato
ricostruttivo ormai pienamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità (cosı̀ già Cass.
27 luglio 1957, n. 3167, in questa Rivista 1958, 265 ss., con nota critica di V. Colesanti,
Cognizione sulla validità del compromesso in arbitri), che ne trae la conseguenza della non
deducibilità in un autonomo giudizio dell’accertamento sulla validità ed efficacia della
convenzione arbitrale (v. Cass. 28 marzo 1991, n. 3361, in Giur. it. 1992, I, 562 ss., da
cui sono tratte le parole tra virgolette; Cass. 4 agosto 2011, n. 17019, in Foro it. 2012, I,
1143 ss.).
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trasferimento del processo in sede arbitrale
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avverso quest’ultima) viene a realizzare «un autonomo bene della vita,
seppure di consistenza strumentale» rispetto alla soddisfazione di una
situazione sostanziale (46), che viene a identificarsi nella possibilità di
ricorrere a una peculiare modalità di tutela dell’interesse sostanziale.
Non si determina, pertanto, un effetto propriamente dispositivo del diritto
sostanziale dedotto, ma si produce piuttosto una modificazione in quel
profilo del rapporto sostanziale che concerne lato sensu la sua azionabilità
o, più precisamente, la possibilità che il rapporto sostanziale sia fatto
valere per accertarne l’esistenza, la validità e/o l’efficacia ogni qualvolta
tali aspetti siano contestati o messi in discussione ex adverso. La scelta
delle parti di devolvere una lite in arbitrato non assume una rilevanza
soltanto processuale, ma trova una necessaria rispondenza anche sul piano
sostanziale, in quanto finisce per assoggettare il rapporto dedotto ad una
peculiare condizione giuridica in forza della quale si viene ad imporre una
specifica modalità di tutela del rapporto stesso – estranea, in particolare,
alla logica della giurisdizione ordinaria – e, conseguentemente, la titolarità
di situazioni soggettive strumentali che sono funzionali al conseguimento
della tutela per il tramite della decisione arbitrale.
4. – La considerazione dell’effetto sostanziale della convenzione arbitrale contribuisce, del resto, a valorizzare proprio l’elemento volontaristico
che svolge un ruolo cosı̀ significativo – come si è visto – nella determinazione dell’ambito di efficacia della convenzione. Anche quando l’istanza
congiunta integra (e, ad un tempo, esprime) la volontà compromissoria, il
profilo soggettivo della dichiarazione resa dai compromittenti trova, infatti, il modo d’esprimersi attraverso la censura del lodo arbitrale, assegnando
cosı̀ una precipua rilevanza alla valida formazione della volontà degli effetti
e, per tale via, alle sue eventuali carenze; carenze, queste ultime, che vanno
lette, se non erro, alla stregua di vizi che incidono sulla corretta formazione
e manifestazione della volontà e, dunque, sulla legittima determinazione
degli effetti negoziali.
Non pare, infatti, possibile dubitare della applicabilità alla convenzione arbitrale del regime dei vizi della volontà dettato dalla disciplina generale per l’annullamento del contratto (artt. 1427 ss. c.p.c.); se non è certo
(46) In questo senso v., soprattutto, C. Consolo, Litispendenza e connessione fra arbitrato e giudizio ordinario (evoluzioni e problemi irrisolti), in Riv. arb. 1998, 659 ss., in part.
671 s., da cui sono tratte anche le parole tra virgolette nel testo (il corsivo è dell’Autore). Più
recentemente, v. anche S. Izzo, La convenzione arbitrale nel processo, Torino 2013, 101 ss.,
ove ulteriori riferimenti bibliografici.
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questa la sede per esaminare la complessa questione della natura contrattuale o meno del patto arbitrale (47), va tuttavia osservato che, quand’anche si dubiti – come autorevolmente rilevato – della effettiva riconducibilità della convenzione arbitrale allo statuto generale del contratto e se ne
affermi, dunque, la natura di «accordo non contrattuale» sorto dalla convergenza di distinti e autonomi atti unilaterali di volontà (48), la clausola
generale dell’art. 1324 c.c. ammette una tutela reale, per il caso di vizio
della volontà, alla stessa stregua della disciplina contrattuale, anche nei
confronti dell’atto negoziale unilaterale, a cui ricollegare – secondo questa
peculiare (ma, invero, convincente) prospettiva – anche la figura dell’accordo compromissorio (49). D’altra parte, l’evenienza che la volontà compromissoria si venga ad integrare nell’istanza congiunta offre, a ben vedere, un ulteriore elemento a suffragio (se non proprio di una esclusione tout
court della natura contrattuale della convenzione arbitrale (50), per lo
(47) È nota l’impostazione prevalente della dottrina secondo cui la convenzione arbitrale va ricondotta, ad ogni effetto, alla disciplina contrattuale, sul presupposto di una
sostanziale riconducibilità della vicenda compromissoria alla formazione e manifestazione
della volontà stricto sensu contrattuale: l’opinione, come detto, è consolidata e, sulla scorta
soprattutto della elaborazione di E. Redenti, Compromesso, in Noviss. Dig. it., III, Torino
1959, 789 ss., affiora, sia pure con sfumature diverse, nelle principali impostazioni dottrinali,
per l’indicazione delle quali v. C. Punzi, Disegno sistematico dell’arbitrato, I, cit., 319 ss. e,
più recentemente, S. Izzo, La convenzione arbitrale nel processo, cit., 89 ss. In giurisprudenza, v., ex multis, Cass. 14 aprile 2000, n. 4842, in Giust. civ., Mass. 2000, 807 ove la
qualificazione del compromesso alla stregua di «contratto ad effetti processuali».
(48) L’impostazione – più suadente forse sul piano dogmatico – è risalente a F. Carnelutti, Arbitri e arbitratori, in Riv. dir. proc. civ. 1924, 121 ss., in part. 128 s., ed è stata
ripresa, in tempi più recenti, da P. Rescigno, Arbitrato e autonomia contrattuale, in Riv. arb.
1991, 13 ss., in part. 27 e, in ultimo, espressamente, da C. Cavallini, L’arbitrato rituale.
Clausola compromissoria e processo arbitrale, Milano 2009, 17 ss. Benché i risultati di una
simile impostazione sul piano della validità ed efficacia della convenzione arbitrale non si
distanzino molto – come si dirà tra breve nel testo – rispetto a quelli imposti da una letturaa
contrattuale della convenzione de qua (cfr. G. Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, 2
ed., Torino 2013, 51), essa ha il pregio di valorizzare il quid proprium del patto di arbitrato,
che è dato, non tanto dall’assenza della patrimonialità delle prestazioni (indirettamente
recuperabile mediante l’incidenza su situazioni – estranee al patto – aventi natura patrimoniale: v. E. Zucconi Galli Fonseca, La convenzione arbitrale rispetto ai terzi, Milano 2004, 48
ss.), quanto dalla «confluenza nel fine», e cioè «nella tutela di interessi non confliggenti»
(cosı̀ C. Cavallini, op. loc. cit., 20; il corsivo è dell’Autore).
(49) Nel senso della rilevanza dei vizi della volontà in rapporto all’atto negoziale
unilaterale v., ex multis, Cass. 23 gennaio 2012, n. 874, in Giust. civ., Mass. 2012, 6.
(50) In questo senso cfr. G. Navarrini, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato
deflattivo”, cit., 7 s. Invero, la formazione della volontà compromissoria per il tramite
dell’istanza congiunta, se dimostra come la devoluzione della lite in arbitrato possa conseguire all’incontro di volontà distinte (espresse finanche in atti separati), non porta di per sé
ad escludere la natura contrattuale della convenzione arbitrale, poiché, se non erro, la stessa
formazione della volontà contrattuale può scaturire da procedimenti in cui l’incontro delle
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meno) di una lettura più attenta delle modalità di formazione della volontà
compromissoria, atteso che la presentazione dell’istanza congiunta non
sembra essere stata strutturata dal legislatore alla stregua di un atto necessariamente comune ad entrambe le parti, rivelandosi anzi più probabile
che la stessa si determini attraverso due atti processuali (distinti ma) convergenti verso la proposizione della domanda di trasmissione del fascicolo
d’ufficio.
Tale osservazione pare allora rafforzare l’idea che l’istanza congiunta,
quando integri una volontà compromissoria delle parti, debba provenire
dalla parte personalmente e possa essere presentata dal difensore, con cui
la parte sta in giudizio, solo se munito di procura ad hoc (51). Ad una tale
conclusione si perviene, infatti, considerando che la volontà compromissoria genera pur sempre un effetto idoneo ad incidere sul piano sostanziale. È questo anzi, a ben vedere, un effetto che non viene a consistere –
come detto – in una vera e propria disposizione del diritto controverso,
bensı̀ in una conseguenza minore e, per cosı̀ dire, attenuata; una conseguenza che rimanda, comunque, all’idea dell’assoggettamento del rapporto
sostanziale dedotto ad uno status giuridico specifico, che non solo determina plurime situazioni soggettive per le parti, ma incide direttamente sul
rapporto sostanziale vincolandone la tutela – e, quindi, la piena realizzazione – alle forme del giudizio arbitrale rituale (52).
La partecipazione personale delle parti (o per il tramite di procuratore
speciale) alla formazione dell’istanza congiunta – e, quindi, con sottoscrizione personale del verbale in caso di proposizione dell’istanza verbalmen-
volontà dei contraenti si determina – come accade, ad esempio, nel caso del contratto con
obbligazioni a carico del solo proponente ovvero nel caso dei contratti per adesione – alla
stregua della coesistenza di due volontà distinte ma convergenti. Come accennato nel testo e
nella precedente nota 48, ciò che, invece, contraddistingue il carattere non contrattuale della
convenzione di arbitrato è la mancanza di contrapposizione degli interessi di cui sono
portatori i compromittenti, i quali, pur manifestando le rispettive (distinte) volontà in un
medesimo atto contestuale, non compongono un contrasto tra i rispettivi interessi, ma
regolano il procedimento volto a soddisfare i medesimi interessi o, per meglio dire, l’interesse comune (v. ancora C. Cavallini, L’arbitrato rituale, cit., 18 s.).
(51) In questo senso cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato lite pendente, cit., 239;
A.A. Romano, Il trasferimento dinanzi ad arbitri delle cause civili pendenti, cit., 479. Contra
G. Navarrini, Riflessioni a prima lettura sul nuovo “arbitrato deflattivo”, cit., 6 s.
(52) In favore della ritualità del procedimento arbitrale promosso con l’istanza congiunta depone il richiamo alle «disposizioni contenute nel titolo VIII del libro IV del codice
di procedura civile» ad opera dell’art. 1, comma 1˚, d.l. n. 132/2014 [cfr. C. Consolo, È
legge (con poche modifiche) il d.l. sulla “degiurisdizionalizzazione” arbitral-conciliativa, sulle
passerelle processuali, sulla grinta esecutiva, in Studi in onore di Giorgio De Nova, I, Milano
2015, 764, ove anche il richiamo alla reiterazione in parte qua dell’equipollenza di effetti tra
lodo e sentenza sancita dall’art. 824 bis c.p.c.].
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te all’udienza – non tollera, a mio sommesso parere, che il contumace
possa manifestare la volontà di devolvere la lite in arbitrato mediante
l’istanza congiunta ex art. 1, d.l. n. 132/2014 (53). Ed invero, se l’istanza
integra la convenzione arbitrale, non perde però la sua natura di atto
processuale (a rilevanza sostanziale), di talché presuppone un comportamento della parte (intesa, qui, in senso processuale) che sia diretto ad
avvalersi dei poteri concessi dalla legge a chi, per l’appunto, sia parte
del processo; in breve: presuppone la costituzione in giudizio della parte.
Se è vero, infatti, che il legislatore si riferisce sic et simpliciter alle «parti»,
non pare davvero che il dato letterale costituisca un ostacolo insormontabile al riconoscimento che la disposizione minus dixit quam voluit, dovendosi intendere il richiamo alle «parti» come relativo, più precisamente, alle
parti costituite. Né pare davvero convincente l’affermazione di chi sostiene
– sulla scorta di un’applicazione analogica dell’art. 306, comma 1˚, c.p.c. –
che sia finanche superflua la dichiarazione di volontà del contumace (54);
un conto, infatti, è la volontà di rinunciare agli atti del processo, che è
ricostruita dal legislatore in funzione di un atto processuale idoneo a
produrre i propri effetti anche solo unilateralmente (essendo richiesta l’accettazione solo quando la controparte abbia scelto di costituirsi) (55), un
altro conto è invece la volontà di devolvere la lite pendente in arbitrato,
atteso che, in questo caso, il trasferimento della causa viene a determinarsi
per effetto della convergenza delle due (distinte) volontà nell’istanza congiunta.
MARCELLO GABOARDI
Ricercatore nell’Università Commerciale Luigi Bocconi
(53) Cosı̀ E. Zucconi Galli Fonseca, L’arbitrato lite pendente, cit., 239. Contra A.A.
Romano, Il trasferimento dinanzi ad arbitri delle cause civili pendenti, cit., 479.
(54) Cosı̀, se pur dubitativamente, A. Ronco, in Trasformazioni e riforme del processo
civile, cit., 47, testo e nota 118.
(55) Nel senso che la rinuncia agli atti del processo non debba nemmeno essere
notificata alla parte che non si è costituita, v., ex multis, Cass. 10 dicembre 1996, n.
10978, in Giust. civ., Mass. 1996, 1705; Cass. 3 aprile 1995, n. 3905, ivi, 1995, 761.
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IL PROCESSO DI ACCERTAMENTO DEL GENERE
DEL MINORE INTERSESSUALE
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Critica alla tesi dell’applicabilità alla fattispecie in esame della l.
164/1982 e dell’art. 31 d.lgs. 150/2011. – 3. Segue: L’azione esperibile è quella di
rettificazione degli atti di stato civile ex art. 95 D.P.R. 396/2000. – 4. Profili comparatistici: il sistema giuridico francese tra jugement de rectification e jugement de changement d’état. – 5. Il procedimento di rettificazione degli atti di stato civile per la
persona intersessuale: profili dinamici. In particolare: la natura del procedimento. –
6. Segue: La legittimazione attiva. – 7. Segue: La fase istruttoria. – 8. Il contenuto, la
natura e l’efficacia del decreto di rettificazione. – 9. Il procedimento di correzione degli
atti di stato civile ex art. 98 D.P.R. 396/2000. – 10. Conclusioni.
1. – Il sesso è uno degli elementi essenziali che definiscono l’identità di
una persona e, come tale, deve necessariamente essere indicato nell’atto di
nascita di ogni individuo, come prescritto dell’art. 30 D.P.R. 396/2000. Se,
tuttavia, nella gran parte dei casi, la diagnosi clinica di tale attributo non si
rivela in alcun modo problematica, cosı̀ che anche la sua menzione nel
registro di stato civile risulta del tutto agevole, in un numero non irrilevante di ipotesi si possono manifestare significative incertezze dovute alla
presenza, nel medesimo soggetto, di caratteri sessuali – cromosomico-genetici, gonadici o fenotipici – sia maschili, sia femminili: si tratta del
fenomeno dell’«intersessualismo», altrimenti conosciuto, in ambito medico, come «variazione della differenziazione sessuale» (1); esso raggruppa
una costellazione di condizioni tra loro eterogenee, accomunate dal dato
indefettibile dell’ambiguità, più o meno marcata, degli organi sessuali, tale
da rendere impossibile una sicura ascrizione dell’individuo all’uno o all’altro sesso (2).
(1) Al fenomeno in base al quale un individuo possiede caratteri sessuali misti, sia
maschili che femminili, sono state attribuite diverse denominazioni, spesso correlate all’ambito scientifico attraverso il quale il tema è stato approcciato: in ambito medico e psicologico, tali soggetti sono stati definiti come persone aventi un «DSD», ossia un «disordine» o
«disturbo dello sviluppo sessuale», o una «VSD», una «variazione dello sviluppo sessuale»;
secondo il più accreditato studio statistico in materia (v. Blackness, Charuvastra, Derryk,
Fauso-Sterling, Lauzanne, Lee, How sexually dymorphic are we? Review and Synthesis, in
American Journal of Human Biology 2000, 151), il fenomeno colpisce, in media, complessivamente, un individuo su 100; secondo Haas, Who will make Room for the Intersexed?, in
American Journal of Law and Medicine, vol. 30, N. 1, 41-68, 2004, la percentuale varia tra
l’1,7 e il 4 per cento; la più comune di queste condizioni è l’iperplasia congenita dei surreni,
ma tra le altre si annoverano l’insensibilità totale o parziale agli androgeni, c.d. Sindrome di
Morris, la Sindrome di Swyers, la Sindrome di Klinefelter, la sindrome di Turner, lo
pseudoermafroditismo o l’ermafroditismo vero maschile o femminile, etc.
(2) Tra i molti studi comparsi nella letteratura giuridica straniera in materia di inter-
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A differenza di quanto previsto in alcuni sistemi giuridici stranieri, tra
cui, in Europa, come si vedrà nel proseguo, quello francese, la normativa
italiana in materia di stato civile non consente di apporre nell’atto di
nascita un’indicazione del sesso neutra o, quantomeno, provvisoria: nei
casi di incertezza è infatti obbligatorio optare per il sesso ritenuto «prevalente» tra quello maschile e quello femminile, all’esito di un accertamento talvolta inevitabilmente sommario e, di conseguenza, potenzialmente
erroneo (3); spesso, infatti, la persona intersessuale, durante i primi anni
sessualismo – relativi sia al crescente riconoscimento da parte degli ordinamento giuridici
della possibilità di indicare un «terzo sesso» o un «sesso indeterminato» nel Registro di stato
civile o nel registro equivalente, sia al dibattito sulla legittimità degli interventi chirurgici
cosmetici praticati su minori intersessuali per ricondurne il sesso anatomico a quello maschile o femminile pur in assenza di necessità terapeutica, sia, più in generale, alle svariate
pronunce su tali questioni di alcune Corti supreme straniere, tra cui quella di Messico,
Colombia, Australia, India, Nepal, Germania, si segnalano, tra i più recenti: Vanderhorst,
Whither Lies the Self: Intersex and Transgender Individuals and A Proposal for Brain-Based
legal sex, in Harvard Law & Policy Review, vol. 9, 1, 2015, 241 ss.: Antonopoulos, The
Uncostitionality of the Current Housing Arrangements for Intersex Prisoners, in Hasting
Constitutional Law Quaterly, vol. 42, 2, 415; White, Preferred private parts: importing intersex autonomy for M.c. V. Aaronson, in Fordham International Law Journal, vol. 37, 3,
2014, 777; Scherpe, Changing One’s Legal Gender in Europe: the «W» Case in Comparative
Perspective, in Hong Kong Law Journal, vol. 41, 1, 2011, 109; Bochenek Knight, Establishing
a third gender category in Nepal: process and prognosis, in Emory Interntional Law Review,
vol. 13, 2, 2012, 890; Moscati Phuyal, The «third gender case» decision of the Supreme Court
of Nepal on the rights of lesbian, gay, bisexual and transsexual and intersex people, in The
journal of comparative Law, vol. 4, 2, 2009; Kloppel, «Who has the right to Canghe Gender
Status? Drawing Boundaries between inter- and Transsexuality». Critical Intersex. London:
Morgan Holmes, 2009, 171; per ulteriori richiami alla letteratura e giurisprudenza straniere,
si rinvia a: Greenberg, Intersexuality and the law, New York: New York University Press,
2012; il tema è stato affrontato, seppur con enfasi minore, anche nella dottrina italiana:
Lorenzetti, Frontiere del corpo, frontiere del diritto: intersessualità e tutela della persona, in
Riv. biodiritto 2015, 2, 109;CERRINA FERONI, Intersessualismo: nuove frontiere, in Dir. pubbl.
comp. ed europ. 2015, 2, 303; Schillaci, Dignità umana, comparazione e transizioni di genere.
La lezione della Corte suprema dell’India, in Genius 2014, 2, 175;GIACOMELLI, Quando la vita
infrange il mito della «normalità»: il caso dei minori intersessuali, in Riv. crit. dir. priv. 2012,
4, 597;CECCHI MARROCCO, Stati intersessuali e questioni medico legali, in Riv. it. med. leg.
2009, 101.
(3) E d’altra parte, questa soluzione ha radici lontane nei secoli: si veda, ad esempio,
Ulpiano, D. 1, 5, 10: «Quaeritur hermaphroditum cui comparamus; et magis puto, eius
sexus aestimandum qui in eo prevalet»; la questione si è posta da lungo corso anche nel
diritto musulmano, ove viene attribuita all’uomo una parte di successione doppia rispetto a
quella che compete alla donna (allorché l’individuo chiamato a succedere sia intersessuale,
viene trattato alla stregua del sesso dominante, sebbene alcuni autori abbiano proposto, per
sopprimere le difficoltà, di escluderlo dalla successione): cfr. Millot, Blanc, Introduction à
l’étude du droit musulman, Ed. Sirey 1987, 513, n˚ 699; per un’analisi della condizione
giuridica del soggetto ermafrodita nel diritto islamico, v. anche, più in generale: Sanders,
Paula, Gendering the Ungendered body: Hermaphrodites in Medieval Islamic Law, in Keddie,
Baron, Women in Middle Eastern History, New Haven: Yale University Press, 1991.
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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di vita o finanche durante l’età puberale, manifesta un’identità di genere
opposta rispetto a quella «legale», assegnata al momento della nascita, cosı̀
che diviene necessario «sincronizzare» il sesso registrato allo stato civile
con quello psichico e sociale (4).
A tale riguardo, sorge quindi la necessità di individuare quale sia
l’azione da esperire al fine di ottenere un simile risultato: e ciò tanto più
in quanto la giurisprudenza in materia si mostra ondivaga, cosı̀ che, in sede
applicativa, si assiste all’alternanza di tre differenti orientamenti: da una
parte, come si vedrà, viene ritenuto applicabile, anche ai soggetti intersessuali, il procedimento speciale disciplinato dalla l. 164/1982 e dall’art. 31
d.lgs. 150/2011, rubricati, rispettivamente, «norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso» e «delle controversie in materia di rettificazione di attribuzione di sesso»; dall’altra, si riscontrano pronunce di
segno diverso, in cui questa fattispecie viene fatta convogliare nel procedimento generale di rettificazione degli atti di stato civile, disciplinato
dall’art. 95 D.P.R. 396/2000, il quale a sua volta rinvia agli artt. 737 ss.
del codice di rito; dall’altra ancora, si riscontrano pronunce che ritengono
necessario esperire un’azione di status, nelle forme e secondo i crismi del
rito ordinario di cognizione, ex art. 163 ss. La distinzione tra ciascuna di
queste opzioni non è di poco conto, poiché involge non solo la natura
dell’atto introduttivo del giudizio e del rito, ma ulteriori e delicati profili,
quali la competenza territoriale, l’efficacia e la stabilità della pronuncia, i
poteri officiosi del giudice, l’oggetto e i limiti dell’istruzione probatoria.
Nel presente saggio si tenterà dunque di individuare quale, tra le
soluzioni invalse nella prassi, risulti più corretta su un piano dogmatico,
e, una volta che sia stata data soluzione a questo quesito, si cercherà di
sviscerare i profili più critici e problematici che possono profilarsi nel
corso di tale giudizio.
(4) E ciò alla luce del fatto che il sesso indicato nell’atto di nascita, a seguito dell’introduzione della l. 164/1982, va riferito «non più esclusivamente agli organi genitali esterni,
quali accertati al momento della nascita ovvero ‘normalmente’ evolutisi, sia pure con l’ausilio
di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e
sociale. Presupposto della normativa» è «dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato
o ricercato l’equilibrio, privilegiando – poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa,
ma quantitativa – i fattori dominanti» (cosı̀ Corte cost. 6 maggio 1985, n. 161, in Riv. it.
med. leg. 1985, 1289, con nota di Martini, Diritto alla sessualità come diritto alla salute e in
Nuova giur. civ. comm. 1986, 349, con commento di Patti).
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2. – Secondo una prima corrente interpretativa, la persona intersessuale che intenda rettificare l’indicazione del sesso e del prenome dichiarati alla nascita all’ufficio di stato civile sarebbe tenuta a esperire l’azione
speciale disciplinata dalla l. 164/1982 e dall’art. 31 d.lgs. 150/2011 (5): in
tal senso militerebbe la rubrica legis di entrambi, che il legislatore avrebbe
lasciato intenzionalmente generici, a differenza, verrebbe da soggiungere,
di quanto accaduto in altri ordinamenti giuridici europei, come quello
tedesco, in cui si fa espresso riferimento al fenomeno del transessualismo (6); in altri termini, si potrebbe prima facie asserire che, in assenza
una circoscrizione netta ed esplicita del novero dei destinatari della legge
in parola, essa dovrebbe trovare la più ampia applicazione possibile, ovverosia in tutti i casi in cui un soggetto intenda ottenere una «sentenza che
accolga la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso», a prescindere dai motivi, di natura metagiuridica, per i quali tale rettificazione viene
domandata, e quindi, indiscriminatamente, sia nei casi di transessualismo,
sia nei casi di intersessualità, sia, a fortiori, nei casi di errore materiale di
scrittura (7).
Una simile ricostruzione, fondata su un’interpretazione letterale del
dettato normativo di cui all’art. 12 c.c., tuttavia, non pare del tutto accettabile, per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, va infatti detto che
(5) Per un’analisi della legge citata, in una prospettiva processuale, anche comparata,
sia consentito il rinvio a Cardaci, Per un «giusto processo» di mutamento di sesso, in Dir. fam.
2015, 4, 1459; Id., Access to justice for trans-genders: towards a quick, accesible, and unified
procedure of gender reassignment in Europe?, in Aa. Vv., LGBTI persons and access to justice,
a cura di Lorenzetti e Moscati, Londra 2015, 50 ss.
(6) La legge tedesca, infatti, è rubricata «transsexuellengesetz-TSG».
(7) Ritengono che l’ambito di applicazione della l. 164/1982 si estenda anche ai soggetti
intersessuali, in dottrina: Cerino Canova, Degli atti dello stato civile, in Commentario al
diritto italiano della famiglia, vol. IV, Padova 1992, 758; Dogliotti, voce Transessualismo
(profili giuridici), in Noviss. dig. it., Appendice, vol. VII, Torino 1987, 789; Id., Il mutamento di sesso: problemi vecchi e nuovi. Un primo esame della nuova normativa, in Giust. civ.
1982, II, 469; Farina, Alcune osservazioni riguardo alla legge sul mutamento di sesso, in Riv.
it. med. leg. 1983, 341; in giurisprudenza: Cass. 20 giugno 1983, n. 515, in Giust. civ. 1983,
3242, con nota di Finocchiaro, I transessuali di nuovo innanzi alla Corte costituzionale; Trib.
Pisa 20 gennaio 1984, in Foro it. 1984, II, 1982 e in Giust. civ. 1985, I, 2066, secondo cui
l’interessato può optare alternativamente sia per il procedimento di rettificazione di cui
all’art. 454 c.c. (oggi 95 D.P.R. 396/2000) sia per quello di cui alla l. 164/1982, per cui
«spetterà all’interessato valutare, in relazione alla particolarità della fattispecie concreta, la
convenienza ad intraprendere l’uno o l’altro tipo di azione»; cfr., al riguardo, anche: Trib.
Bari 25 giugno 2012, n. 2295, in materia di risarcimento del danno cagionato da alcuni
medici per aver erroneamente diagnosticato un’ipospadia scrotale, in luogo di una sindrome
androgenitale, ed aver altrettanto erroneamente attribuito al neonato il sesso maschile: il
tribunale ha riconosciuto, tra gli altri, il danno patrimoniale sopportato dai genitori del
neonato per aver dovuto avviare il «giudizio ex l. 164/1982».
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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l’intera struttura della legge sembra essere stata architettata in funzione di
persone che intendono mutare il proprio sesso, a seguito, peraltro, di
intervenute modificazioni chirurgiche dei loro caratteri sessuali secondari,
autorizzate attraverso sentenza giudiziale, ex art. 31, comma 4˚, d. lg. 150/
2011, al fine di ottenere quindi una sentenza di natura costitutiva che
incida, modificandola, su una situazione che al momento della nascita
risultava chiara ed inequivocabile (8).
In secondo luogo, va detto che la legge di cui si tratta venne promulgata – come emerge chiaramente dagli atti parlamentari in cui sono trascritte le discussioni che ne precedettero l’approvazione (9) –, per porre
una pietra tombale sui disorientamenti che agitavano la giurisprudenza di
merito dell’epoca, chiamata a pronunciarsi rispetto alle domande di rettificazione dell’atto di nascita delle persone transessuali sottopostesi a intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali all’estero (essendo
tale ritenuto illegittimo e penalmente rilevante in Italia, in quanto contrario all’art. 5 c.c.) (10): l’atteggiamento di netta chiusura da parte della corte
di legittimità rispetto alle domande di mutamento anagrafico del sesso
poste dalle persone transessuali, in netto contrasto con alcune pronunce
(8) Sulla natura costitutiva del giudizio in esame, in giurisprudenza, ex multis: Trib.
Pisa 20 gennaio 1984, cit., 2071; in dottrina: Pezzini, Transessualismo, salute e identità
sessuale, in Rass. dir. civ. 1984, 463.
(9) Nei lavori parlamentari, infatti, si fa espresso riferimento esclusivamente alla condizione delle persone transessuali (peraltro, soltanto a coloro che da maschi intendono
diventare femmine, e mai viceversa); cfr., ex multis: Camera dei deputati, Proposta di legge.
Modifica dell’articolo 454 del codice civile, n. 1442, VIII legislatura, 27 febbraio 1980;
Camera dei deputati, Commissione IV Giustizia, Resoconto stenografico. Seguito della discussione della proposta di legge De Cataldo ed altri: Modifica dell’articolo 454 del codice civile
(1442). VIII legislatura, 2 ottobre 1981, 788 ss., ove si legge che «qui non si parla dell’ermafroditismo vero e proprio, ma si intende affrontare il problema del cambiamento di
sesso»; è stata infatti abbandonata una proposta di legge (Senato della Repubblica, Proposta
di legge. Norme in materia di riconoscimento di mutamento di sesso, n. 1621, VIII legislatura,
5 novembre 1981), che prevedeva sia, al primo comma, la rettificazione per «modificazioni
dei caratteri sessuali della persona intervenute in riferimento a situazioni di sesso non
definito nell’atto di nascita, ovvero relative ad evoluzione naturale», sia, al secondo comma,
la rettificazione «nel caso di transessualismo irreversibile».
(10) Cfr. Trib. Milano 2 ottobre 1969, in Nuovo dir. 1970, 272, con nota di Aricò, Se sia
lecito il volontario cambiamento di sesso a mezzo intervento chirurgico, in cui si legge che «il
riconoscimento del cambiamento di sesso dovuto al volontario intervento chirurgico cui il
soggetto si è sottoposto, condurrebbe all’assurdo di dover riconoscere efficacia ad un fatto
chiaramente conseguente ad illecito, posto che secondo l’art. 5 c.c. gli atti di disposizione del
proprio corpo sono vietati quando cagionano una diminuzione permanente della integrità
fisica, e quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume»;
non a caso, l’art. 7 della l. 164/1982 prevede una scriminante del reato (di lesioni personali
gravissime, ex art. 585 c.p.), sancendo che l’accoglimento della domanda di rettificazione
«estingue i reati cui abbia eventualmente dato luogo il trattamento medico-chirurgico».
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di merito maggiormente permissive, rese necessario e inevitabile un intervento ad hoc del legislatore, invitato a colmare il vuoto normativo, peraltro,
da una pronuncia del giudice delle leggi che aveva ad oggetto, per l’appunto, esclusivamente la condizione della persona transessuale (11); ben
diversa era, già all’epoca, la condizione giuridica delle persone intersessuali: la giurisprudenza infatti riteneva pacificamente accoglibili, in questo
caso, le istanze di rettificazione dell’atto di nascita da loro promosse, in
considerazione della loro condizione di «naturalità», da contrapporsi a
quella, ritenuta del tutto «artificiosa» (non ope naturae sed artis) (12), delle
persone transessuali, cosicché il problema che più di tutti si poneva in sede
applicativa era quello relativo al rito processuale da esperire per ottenere
tale rettificazione, e non già, in linea astratta, all’ammissibilità nel merito
della domanda. In altri termini, risulta evidente come la mens legis – quale
ulteriore parametro interpretativo che guida l’interprete nell’individuazione della legge applicabile, ex art. 12 c.c. – fosse tutta rivolta al caso dei
soggetti transessuali, e non già a quello dei soggetti intersessuali, che
trovavano unanime accoglimento delle loro pretese già in un’epoca di gran
lunga precedente alla promulgazione della l. 164/1982.
De jure condito, poi, allo stato odierno, nemmeno il criterio residuale
dell’interpretazione per analogia, fornito anch’esso dall’art. 12 c.c., può
essere invocato per allargare in via interpretativa l’orizzonte applicativo
della legge in parola alle persone intersessuali: risulta oltremodo evidente,
infatti, come la condizione della persona intersessuale sia del tutto differente da quella della persona transessuale, essendo la prima connotata
dalla presenza, sin già da un momento che precede la nascita, di connotati
cromosomico-genetici, gonadici o fenotipici riconducibili sia al sesso maschile che a quello femminile, ed essendo invece la seconda connotata da
un disallineamento tra «soma» e identità di genere avente natura eminentemente psichica: cosı̀ che qualsiasi equiparazione tra le due situazioni
(11) Corte cost. 1 agosto 1979, n. 98, in Rass. dir. civ. 1980, 507, con nota di D’Addino
Serravalle, Le trasformazioni chirurgiche del sesso nella sentenza n. 98 della Corte Costituzionale, la quale ha statuito che nel contenuto precettivo degli artt. 165 e 167 r.d.l. n. 1238 del
1939, sulla rettificazione degli atti di stato civile, possono essere fatte rientrare «l’ipotesi in
cui intervengano modificazioni dei caratteri sessuali a seguito di evoluzione naturale, che
rivelino una realtà sessuale diversa da quella accertata al momento del generico esame fatto
alla nascita», mentre il problema del transessualismo «può suscitare in Italia, come in altri
paesi, l’attenzione del legislatore sulle sue possibilità di soluzione e i relativi limiti in ordine
al matrimonio».
(12) Cosı̀ si esprime Cass. 20 giugno 1983, n. 515, cit., 3245.
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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risulterebbe scorretta sia su un piano clinico che, di converso, su un piano
giuridico (13).
3. – Una volta esclusa l’applicabilità alla fattispecie in esame del procedimento speciale disciplinato dalla l. 164/1982 e dall’art. 31 del d.lgs.
150/2011, sorge dunque la necessità di individuare quale sia l’azione che la
persona intersessuale deve instaurare al fine di ottenere la modifica dell’indicazione del sesso e del prenome fissati nell’atto di nascita, quale
«specchio giuridico» di ogni persona fisica e, di conseguenza, quale fonte
primaria a cui è necessario attingere per la susseguente compilazione di
(13) Va aggiunto peraltro che dall’applicabilità della l. 164/1982 conseguirebbe a
fortiori l’obbligo di ottenere un’autorizzazione giudiziale a sottoporsi ad ogni intervento
chirurgico di «adeguamento dei caratteri sessuali» del soggetto intersessuale ritenuto necessario (ex art. 31, comma 4˚, d. lg. 150/2011): sı̀ che tutti gli interventi – talvolta, nella prassi,
piuttosto numerosi e spesso dilazionati nel tempo – dovrebbero essere preceduti da più
procedimenti autorizzativi, oggi disciplinati dal rito ordinario di cognizione ex art. 163 ss.
c.p.c., o in alternativa da un’unica sentenza autorizzativa ad nutum; tale soluzione pare del
tutto abnorme e ingiustificata, atteso che in questo caso non può in alcun modo dirsi violato
l’art. 5 c.c. sul divieto di atti che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica,
sı̀ che non verrebbe in alcun modo consumato, da parte del medico, il reato di cui all’art.
585 c.p.c, nei confronti del soggetto intersessuale; secondo la giurisprudenza costante della
Corte costituzionale e della Corte di legittimità, infatti, «gli atti dispositivi del proprio corpo,
quando rivolti alla tutela della salute, anche psichica, devono ritenersi leciti» e protetti
dall’art. 32 Cost. (cfr., ex multis: Corte cost. 6 maggio 1985, n. 161, cit., 1299); sul tema,
ex pluribus: D’Addino Serravalle, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana,
Camerino 1983, spec. 83 e 168 ss.; più in generale, sulla liceità degli atti dispositivi del
proprio corpo a scopo terapeutico, previo consenso necessario e informato dell’avente
diritto: Ansaldo, sub. art. 5, Atti dispositivi del proprio corpo, in Il codice civile, Commentario, a cura di Schlesinger, Milano 2013, 372; d’altra parte, prima della promulgazione della l.
164/1982 si riteneva che qualsiasi intervento sulla persona intersessuale potesse essere
effettuato pur in assenza di una specifica autorizzazione giudiziale (cfr. Trib. Taranto 28
gennaio 1974, in Dir. fam. 1974, 465; per una soluzione analoga nel vigore della l. 164/1982:
Trib. Macerata 12 novembre 1984, in Giur. it. 1985, I, 2, 195, il quale, adito ai sensi della l.
164/1982, ha precisato di dover disporre la rettificazione del neonato intersessuale esclusivamente sulla scorta dell’art. 454 c.c., oggi art. 95 D.P.R. 396/2000, ritenendo peraltro che
eventuali interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali non vadano autorizzati
giudizialmente, trattandosi si soggetto intersessuale e non transessuale e che, di conseguenza, essi, eventualmente, «potranno essere eseguiti secondo la volontà dei ricorrenti e l’interesse della minore»); sulla scorta di considerazioni analoghe, la dottrina ha aspramente
criticato altresı̀ la scelta del legislatore di prevedere un’autorizzazione giudiziale, quale
«scriminante» dal reato di lesioni personali gravissime, per il mutamento chirurgico del
sesso della persona transessuale, atteso che in questo caso il trattamento sanitario trova
«il suo fondamento nel diritto alla salute», intesa come benessere anche psichico, «e nella
disponibilità di esso da parte del suo titolare quando incida nella sua sfera esclusivamente
soggettiva», sı̀ che «la prospettiva legislativa» di cui alla l. 164/1982 «appare inaccettabile,
perché prevede un’autorizzazione per l’esercizio di un diritto che è invece nella piena
disponibilità del soggetto» ed è tutelato dall’art. 32 Cost. (cosı̀ Pezzini, op. cit., 471).
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tutti i relativi atti e documenti anagrafici (14): come anticipato supra, il
dubbio che si pone è allora quello tra la possibilità di esperire un’azione di
stato innominata, volta a mutare lo status di maschio o di femmina del
soggetto intersessuale, e un’azione di rettificazione ai sensi dell’art. 95
D.P.R. 396/2000, volta ad una mera correzione di quanto scritto nel suo
atto di nascita.
Appare del tutto evidente che l’incertezza tra l’una e l’altra azione –
con tutte le conseguenze di capitale importanza che una simile scelta
comporta – possa sussistere soltanto laddove si tenga saldo un primo
postulato: e cioè, il dato, di matrice sostanziale, in forza del quale il sesso
costituirebbe uno status personae assimilabile a quello di coniuge, di figlio
nato nel o fuori dal matrimonio, o di cittadino, e non già una qualità della
persona che, come tale, connota l’individuo al pari di altre caratteristiche
individuali, e va pertanto indicata nei registri di stato civile (15); se si
accede infatti alla tesi in base alla quale il sesso non è uno status – una
nozione, questa, peraltro, già di per sé stessa da lungo corso posta in crisi
dall’analisi della migliore dottrina sia civilista che processualcivilista (16) –
ma una mera qualità della persona, non c’è dubbio che si dovrà procedere
(14) Cfr. H., L. et J. Mazeaud, Leçons de droit civil, t. I, vol. 2, Les personnes, par F.
Laroche-Gisserot, Montchrestien, 8 éd, 1996, n.˚ 461, il quale definisce lo stato civile come
«l’image juridique de la personne».
(15) Come hanno ritenuto: App. Bari 22 marzo 1962, in Foro it. 1962, I, 1033 e Riv.
dir. proc. 1962, 492, con nota critica di Carnelutti, Rettificazione del sesso; Trib. Roma 13
febbraio 1975, in Dir. fam. 1975, 188; Trib. Taranto 28 gennaio 1974, in Dir. fam. 1974,
459; Trib. Foggia 25 maggio 1965, in Daunia giudiz. 1965, 149.
(16) Cfr. Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, Padova 1990, 33, il quale, nella
sua critica alla teoria degli stati (definiti «figure puramente dottrinarie» e categorie «che i
giuristi, dimentichi dell’ufficio pratico e mnemonico svolto dal linguaggio legislativo, s’illudono di studiare come individua e specifica realtà»), ricorda le parole di Redenti, Il giudizio
civile con pluralità di parti, Milano 1960, 78, secondo cui «la sintesi ideale che si ricava dalla
considerazione di tutti questi effetti giuridici e soprattutto dei rapporti sociali a cui si
connettono, è quella di una particolare condizione sociale e giuridica creata dal soggetto
(condizione di figlio o di cittadino), condizione cui si suole poi riportare immaginariamente
a lui stesso la fonte e la causa, giungendo cosı̀ per un fenomeno mentale assai frequente, a
pensarla come una posizione od atteggiamento (qualità) particolare proprio del soggetto
stesso e conservato da lui costantemente in tutte quelle intere categorie di rapporti sociali e
giuridici, per es. (nell’esempio ora citato) qualità di figlio di una certa persona»; Ferrara,
Trattato di diritto civile italiano, vol. I, Il diritto, i soggetti, le cose, Napoli 1985, 337, spec.
nota 3, secondo cui «stato e qualità sono concetti identici»; Allorio, L’ordinamento giuridico
nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri studi, vol. I, Milano 1957, 116, spec. nota 185;
Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ. 1973, 215, secondo
cui nel diritto vigente nome e concetto di stato si convengono solo alla condizione di
coniuge e figlio.
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tout court con il rito della rettificazione (17): quest’ultima è, infatti, la
soluzione invalsa in quella parte della giurisprudenza espressasi sulle istanze di rettificazione delle persone intersessuali che ha ritenuto, in molteplici
occasioni, risalenti già, per il vero, a un passato piuttosto remoto, che
«nessuna vera questione di stato è necessario preliminarmente risolvere
per ordinare la chiesta rettificazione, inquantoché l’essere maschio o femmina è cosa di puro fatto che, una volta verificata, nessuno può contraddire, mentre la questione di stato presuppone sempre la possibilità di una
contraddizione, sia da parte della persona di cui vuolsi immutare lo stato
medesimo, sia da parte di altri interessati» (18).
(17) Per una critica alla qualificazione del sesso come status, si rimanda, se si vuole, a
Cardaci, Per un «giusto processo», cit., 1463, spec. nota 7.
(18) Con queste parole: App. Milano 15 giugno 1891, in Giur. it. 1891, vol. XLIII, II,
la quale ha quindi ritenuto corretto doversi procedere con il rito della volontaria giurisdizione, ex art. 845 ss. del c.p.c. vigente, e ha ordinato di sostituire «alle parole di sesso
mascolino le altre di sesso femminino, ed al nome di Giuseppe quello di Giuseppa», escludendo tuttavia che si potesse, in quella sede, aggiungersi all’infante il nome di Maria, poiché
l’aggiunta di un nome è ottenibile solo con procedimento amministrativo (oggi disciplinato
dall’art. 89 ss. D.P.R. 396/2000); dello stesso avviso: Trib. Firenze 10 giugno 1936, in Riv.
dir. proc. 1937, II, 101, con nota di De Santis, Legittimazione ad agire del P.M. e controversie
di stato e postilla di Calamandrei; App. Lecce 13 febbraio 1941, in Foro it. Rep. 1942, voce
Stato civile, n. 2; successivamente, nel vigore del codice di rito del 1940, si sono espresse a
favore del rito della rettificazione degli atti di stato civile, in caso di soggetti intersessuali,
specificando che non si tratta di azione di stato: Trib. Palmi 7 novembre 1957, in Foro it.
Rep. 1958, voce Stato civile, n. 17; App. Catanzaro 24 marzo 1958, in Foro it. Rep. 1958,
voce Stato civile, n. 16; Trib. Pisa 9 marzo 1970, in Giur. it. 1971, I, 2, 61; Cass. 3 dicembre
1974, n. 3948, in Giust. civ. 1975, I, 638, in motivazione; Trib. Napoli 9 novembre 1977, in
Dir. fam. 1978, 540 e Dir. e giur. 1978, 337, secondo cui «è ammissibile il procedimento
camerale di correzione degli atti di stato civile, in luogo di quello contenzioso ordinario, nel
caso in cui la precisazione dell’identità sessuale si sia palesata compiutamente attraverso la
crescita del soggetto», atteso che «la rettifica degli atti dello stato civile deve disporsi non
soltanto nei casi di errore nella compilazione dell’atto ma altresı̀ quando l’atto non sia più
conforme allo stato di fatto come, appunto, nel caso in cui taluno, per errore determinato
dall’anomala configurazione dell’apparato genitale esterno ed in mancanza di più approfonditi esami, che al tempo della formazione dell’atto di nascita non poterono essere compiuti,
sia stato ritenuto di sesso maschile anziché femminile»; Trib. Bari 29 gennaio 1962, in Foro
it. 1962, 1036; Trib. Genova 16 luglio 1968, in Giur. merito 1969, I, 17, in motivazione;
Trib. Milano 2 ottobre 1969, in Nuovo dir. 1970, 272, in motivazione; Trib. Palermo 17
marzo 1972, in Dir. fam. 1972, 509 e in Temi 1974, 178, in motivazione; Cass. 13 giugno
1972, n. 1847, in Giust. civ. 1972, I, 1978 e in Dir. fam. 1973, 452 e in Foro it. 1972, I, 1,
2399, in motivazione; Cass. 7 aprile 1975, n. 1236, in Foro it. 1975, I, 1688, in motivazione;
nel vigore della l. 164/1982: App. Bologna 14 dicembre 1982, in Giur. it. 1984, I, 2, 114,
con nota di Patti, I destinatari della l. 14 aprile 1982, n. 164 ed il mutamento del nome; Trib.
Macerata 12 novembre 1984, cit., 195; Trib. Bologna 25 novembre 2009, in Fam. pers. succ.
2011, 11, 796, con nota di Costanzo, L’erronea attribuzione di sesso al neonato giustifica la
rettificazione dell’atto di nascita; in dottrina, ritengono esperibile il procedimento di rettificazione: Ferri, Degli atti dello stato civile, sub art. 454, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja
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Se invece, come si diceva, si accede alla diversa tesi che qualifica il
sesso come uno status, le difficoltà rispetto all’individuazione dell’azione
esperibile si fanno più marcate, dacché si ripropone, anche per questa
fattispecie, la vexata quaestio, che ormai da diversi decenni torna ad assillare, ciclicamente, la dottrina processualcivilista, relativa alla definizione
dei confini, da sempre rimasti piuttosto opachi, tra azione di rettificazione
degli atti di stato civile ed azione di stato (19).
Al riguardo, dunque, il problema può essere districato soltanto sulla
scorta dell’elaborazione teorica e pratica che, in passato, ha avuto ad
oggetto i limiti di queste due azioni, le cui tendenze evolutive è quindi
necessario ripercorrere, sia pur sinteticamente: l’interesse ultimo perseguito dalla dottrina e dalla giurisprudenza espressesi in materia, infatti, è
sempre stato quello di impedire che il procedimento camerale di rettificazione degli atti di stato civile venisse strumentalizzato per modificare, in
maniera del tutto surrettizia, lo status di un individuo (si pensi all’esempio
scolastico di chi intenda, mediante un domanda di rettificazione, spostare
la propria data di nascita o modificare il proprio cognome, al fine di
risultare figlio di un determinato soggetto).
Proprio per scongiurare l’avverarsi di simili abusi, è stato ritenuto da
parte di una dottrina che si possa promuovere l’azione di rettificazione
ex art. 95 D.P.R. 396/2000, come suggerisce la parola stessa, soltanto
Branca, Milano 1973, 130; Perlingeri, Note introduttive ai problemi giuridici del mutamento
di sesso, in Dir. e giur. 1970, 842; Antignani, Sulla natura della diagnosi di sesso, in Dir. e
giur. 1970, 213.
(19) In questo senso si mostrano ancora attuali e profetiche le parole dell’Andrioli,
Intorno al processo di rettificazione degli atti dello stato civile, in Riv. dir. proc. 1950, II, 54,
secondo cui la scarsa chiarezza della normativa era la causa dei «dubbi sulla discriminazione
tra rettificazione degli atti dello stato civile e controversie di stato, per vero mal perspicuamente risolti, dei quali era ed è eco nella giurisprudenza»; considerazioni analoghe vengono
svolte da Cerino Canova, Degli atti dello stato civile, cit., 739, che definisce «nebulosa»
l’essenza del giudizio di rettificazione, avendo esso «natura composita, insuscettibile di
rispecchiarsi in un’assiomatica definizione» e impermeabile a qualsiasi etichettatura; sul
tema e sulle soluzioni variamente prospettate in dottrina e giurisprudenza, per ragioni di
spazio soltanto sintetizzate nel testo, si vedano: Azzariti, Sulla rettificazione degli atti di stato
civile, in Giust. civ. 1969, IV, 85 ss.; ID., voce Stato civile, in Noviss. dig. it., vol. XVIII,
Torino 1971, 300; Salvo, voce Stato civile, in Noviss. dig. it., Appendice, VII, Torino 1987,
543; Marziale, voce Stato civile, in Enc. giur., XXXIV, Roma 1993, 7; Santoro Passarelli, in
Santoro Passarelli, Status familiae, in Saggi di diritto civile, I, Napoli 1961, 425; Iannelli,
Stato della persona e atti dello stato civile, Camerino – Napoli 1984, 353; Riccio, Delle
procedure giudiziali di rettificazione relative agli atti dello stato civile e delle correzioni (artt.
95 – 101), in Il nuovo ordinamento dello stato civile, a cura di Stanzione, Milano 2001, 386;
Buono, Brevi appunti in tema di rettificazione degli atti di stato civile, in Stato civ. 2002,
XI, 811.
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
693
allorché si intenda correggere un atto di stato civile a causa di un vizio nel
procedimento di formazione del medesimo, dovuto a un errore in cui sia
incorso l’ufficiale di stato civile o il denunciante (20): il caso del soggetto
intersessuale interessato a modificare il «sesso» e «nome» legali risulterebbe, in questo senso, analogo, atteso che indubbiamente vi è stato, al
momento della dichiarazione di nascita, un errore non riconoscibile dovuto ad un’incertezza ab initio sul sesso del neonato.
Tale assunto trova conferma altresı̀ nell’analisi di quanto sostenuto
dalla migliore dottrina processualcivilistica, che ha ritenuto, da una prospettiva parzialmente diversa, che lo scopo ultimo dell’azione di rettificazione sia quello di accertare che un fatto documentato negli atti di stato
civile non corrisponde alla realtà materiale, e quindi di dichiarare che l’atto
di stato civile contiene, a tutti gli effetti, un’informazione falsa (l’accertamento su tale fatto costituirà, poi, un dato fissato una tantum, utile alla
risoluzione di tutte le eventuali controversie nelle quali esso risulti rilevante) (21): nondimeno, anche applicando anche questa interpretazione al
caso che ci riguarda, si può affermare che l’azione di rettificazione mirerebbe ad accertare una mera situazione di fatto – l’essere maschio o
femmina – e, conseguentemente, a correggere l’eventuale discrasia tra
quanto attestato nel registro di stato civile e la realtà materiale.
Visto in questa chiave, viene a noi allora da soggiungere, il giudizio di
rettificazione degli atti di stato civile costituirebbe quindi una delle ipotesi
di deroga espressamente prevista dalla legge al principio in base al quale
l’accertamento giudiziale può avere ad oggetto esclusivamente i diritti
(20) Cfr. Cicu, Azione di rettificazione di atti di stato civile e azioni di stato, in Riv. trim.
dir. proc. civ. 1949, 765 ss., il quale, partendo dalla tesi in base alla quale l’atto di stato civile
costituirebbe «titolo di stato», «il giudizio di rettificazione non tende a modificare e non
modifica lo stato della persona: ma soltanto l’atto di stato civile»: l’autore ammette che «non
v’è correzione che, in tesi astratta, non possa modificare il titolo dello stato», e che proprio
per questo, al fine di evitare espedienti surrettizi ed elusivi da parte dei ricorrenti, dovrebbe
essere il giudice ad ordinare la comparizione delle parti per essere illuminato sulle finalità ed
effetti della chiesta rettificazione; Id., La filiazione, in Trattato di diritto civile, diretto da
Vassalli, Torino 1969, 151 ss.; in giurisprudenza, tra le altre, si veda: Trib. Firenze 10 giugno
1936, cit., 101, secondo la quale oggetto della procedura di rettificazione è la «riparazione di
irregolarità occorse nella redazione degli atti di stato civile», tra cui la «erronea indicazione
del sesso».
(21) Cosı̀ Attardi, voce Atti dello stato civile, in Enc. dir., IV, Milano 1959, 95 ss.; Id.,
Efficacia giuridica degli atti di stato civile, Città di Castello 1949, 36 ss.; Carnelutti, Rettificazione del sesso, in Riv. dir. proc. 1962, 494, secondo cui la rettificazione va disposta in caso
di errori di fatto, o errori storici, in base ai quali sul registro dello stato civile figura «una
storia diversa dalla storia vera», sı̀ che non si tratta di una «controversia intorno al sesso
della persona ma intorno alla veridicità dell’atto di nascita».
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soggettivi (o gli interessi legittimi, ex art. 24 Cost.): e d’altra parte, non si
può non riconoscere una certa analogia tra il procedimento in parola e
quello di querela di falso ex art. 221 c.p.c., assunto notoriamente a
paradigma di azione mirante all’accertamento di un mero fatto giuridicamente rilevante; entrambi i giudizi mirano, infatti, a sondare la veridicità di un documento (e in entrambe le ipotesi si tratta, peraltro, di un
atto pubblico); le differenze consistono tuttavia nell’oggetto dei due
giudizi (in quello di rettificazione si accerta la veridicità di un dato
«intrinseco», in quello di falso, invece, di un dato «estrinseco»), oltre
che nei risultati ultimi cui essi pervengono (nel provvedimento che dispone la rettificazione vi è un quid pluris, atteso che attraverso esso non
ci si limita all’eliminazione dell’efficacia di un documento falso, ma si
ordina all’ufficiale di stato civile di sostituire il dato accertato come falso
con un dato veritiero, ricostruito nel corso del processo; non vi è, in altri
termini, soltanto una pars destruens, ma anche una pars construens, assente nel processo di querela di falso (22)).
Passando ora ad analizzare la giurisprudenza in materia, vale la pena di
innanzitutto ricordare come la Suprema Corte, superata una volta per
tutte la tesi restrittiva in base alla quale il giudizio di rettificazione sarebbe
esperibile soltanto nei limitati casi di lapsus calami in cui sia incorso l’ufficiale di stato civile nella redazione dell’atto (e quindi, di fatto, per la
correzione di un mero errore ortografico) (23), affermi ormai da circa
(22) Cfr., rispetto al principio in base al quale l’accertamento giudiziale non può avere
ad oggetto semplici fatti, anche se giuridicamente rilevanti (salva una specifica previsione
derogatoria): Chiovenda, voce Azione di mero accertamento, in Nuovo dig. it., vol. II, Torino
1937, 126, ripubblicata in Saggi di diritto processuale civile, III, Milano 1993, 51, secondo
cui «oggetto della sentenza d’accertamento non può essere un semplice fatto, quantunque
giuridicamente rilevante», ma «a questa regola può fare eccezione per ragioni di opportunità
una norma espressa di legge: tali sono le norme della legge italiana (art. 282, 296), francese
(art. 193, 214) e tedesca (§ 256), che ammettono l’azione per l’accertamento di un mero
fatto, quale la verità o falsità di una scrittura»; Ricci, voce Accertamento giudiziale, in Dig. it.,
disc. priv., sez. civ., I, Torino 1987, 20; Liebman, Manuale di diritto processuale civile,
Principi, 8ª ed., a cura di Colesanti e Merlin, Milano 2012, 171; Redenti, Il giudicato sul
punto di diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1949, 257; Pavanini, voce Accertamento giudiziale,
in Noviss. dig. it., I, Torino 1957, p. 125; Micheli, Corso di diritto processuale civile, I, Parte
generale, Milano 1959, 44 ss.; Attardi, L’interesse ad agire, Padova 1959, 59; Zanzucchi,
Diritto processuale civile, I, Milano 1964, 139; Carpi, L’efficacia «ultra partes» della sentenza
civile, Milano 1974, 46 ss.; Costa, Manuale di diritto processuale civile, Torino 1980, 38;
Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Commentario del codice di
procedura civile, diretto da Allorio, vol. II, 1, Torino 1980, 221 ss.; Tommaseo, Appunti
di diritto processuale civile, Nozioni introduttive, 4ª ed., Torino 2000, 170; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, 23ª ed., I, Torino 2014, 15, spec. nota 34.
(23) Cfr. ex multis: Cass. 5 maggio 1967, n. 861, in Giust. civ. 1967, I; oggi, peraltro, la
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tre decenni che il procedimento di rettificazione possa «essere promosso
per la eliminazione di ogni ipotesi di difformità fra la realtà effettiva, alla
stregua della normativa vigente, e quella riprodotta negli atti stessi, indipendentemente dalla ragione di tale difformità e dal soggetto che l’abbia
causato» (24) (25).
Anche alla luce di questi orientamenti dottrinali e giurisprudenziali,
non ci pare dubbio che sia proprio il procedimento di rettificazione degli
atti di stato civile quello che il soggetto intersessuale deve esperire per la
rettificazione dell’indicazione del prenome e del sesso nel proprio atto di
nascita, proprio perché, come confermato da una parte della giurisprudenza espressasi su questa specifica fattispecie, giurisprudenza che quindi non può che essere avvallata, esso tende «alla riparazione di irregolarità occorse nella redazione degli atti di stato civile», tra le quali deve
essere ricompresa l’«erronea indicazione del sesso» di un soggetto intersessuale, atteso che, da ultimo, «la rettificazione non tocca l’essenza
correzione dell’errore materiale di scrittura è possibile ex art. 98 del D.P.R. 396/2000, ed è
effettuata direttamente dall’ufficiale di stato civile.
(24) In questi termini: Cass. 16 dicembre 1986, n. 7530 in Foro it. 1987, I, 1097 e in
Dir. fam. 1987, 576; Cass. 28 ottobre 1978, n. 4922, in Giust. civ. 1979, I, 663, con nota di
Finocchiaro, Disaccordo tra genitori, imposizione del nome al neonato e rettificazione degli
atti dello stato civile, secondo cui l’azione di rettificazione investe la «corrispondenza fra la
realtà del fatto e la riproduzione di esso nell’atto suddetto, cioè tra il fatto, qual è nella realtà
(o quale dovrebbe essere nell’esatta applicazione della legge) e quale risulta dall’atto dello
stato civile. Il non verificarsi di tale corrispondenza può dipendere da un errore materiale o
da qualsiasi vizio che alteri il procedimento di formazione dell’atto dello stato civile, sia esso
dovuto al dolo dell’ufficiale che lo redige o ad un suo errore, anche se scusabile in quanto
imputabile ad uno dei soggetti chiamati dalla legge a fornire gli elementi per la compilazione
dell’atto»; App. Roma 11 ottobre 1979, in Giur. merito 1981, III, 654; Cass. 20 febbraio
1984, n. 1204, in Giust. civ. 1985, I, 472; Cass. 30 ottobre 1990, n. 10519, in Nuova giur. civ.
comm. 1991, I, 509, con nota di Di Nardo, Status del figlio concepito da donna separata;
Trib. Ancona 7 giugno 1994, in Giur. mer. 1995, III, 597; Cass. 27 marzo 1996, n. 2776.
(25) Il caso qui in esame ben può essere fatto rientrare, dunque, anche in quest’ultima
soluzione interpretativa: d’altra parte, lo stesso Carnelutti, dissentendo da una sentenza che
riteneva doveroso esperire in caso di intersessualismo un procedimento ordinario di cognizione, perveniva al medesimo risultato, dubitando che il sesso fosse uno status e ritenendo
peraltro, atteso che «il processo contenzioso suppone non soltanto una pretesa, ma anche la
sua contestazione», sı̀ che priva di logica sarebbe la preferenza verso il rito ordinario, a pena
di dover «fabbricare un contendente fittizio» (cfr. Carnelutti, Rettificazione del sesso, cit.,
492); dello stesso avviso: Ferri, op. cit., 131; dopo la promulgazione della l. 164/1982,
ritengono in ogni caso applicabile il rito della rettificazione: Patti Will, La «rettificazione
di attribuzione di sesso»: prime considerazioni, in Riv. dir. civ. 1982, II, 739 ss.; Id., Legge 14
aprile 1982, n. 164, norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, in Nuove leggi
civ. comm. 1983, 739; Patti, voce Transessualismo, in Dig. it. disc. priv., sez. civ., vol. XIX,
Torino 1999, 425; Vecchi, voce Transessualismo, in Enc. giur., XIX, Roma 1990, 4.
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dell’atto e invariato, quindi, resta, lo stato della persona alla quale si
riferisce» (26).
4. – Non sembra del tutto inutile, sulla scia dei risultati cui si è
pervenuti, procedere ora a un confronto con l’elaborazione teorica e pratica del sistema giuridico francese, ove la questione in esame è stata sondata con maggiore frequenza e approfondimento dogmatico: pur nella
consapevolezza, tuttavia, che si tratta di ordinamenti, quello italiano e
quello francese, che pur affini non sono del tutto sovrapponibili, in particolare in materia di stato civile e, naturalmente, di diritto processuale
civile.
E infatti, un primo significativo elemento di differenziazione appare
manifesto già laddove si consideri che nell’ordinamento francese è consentito, in forza di una circolare del Ministère de la justice et des libertés,
per i genitori del neonato intersessuale, chiedere all’ufficiale di stato civile
che nell’atto di nascita venga menzionato un «sesso indeterminato» o,
finanche, in casi eccezionali, previo accordo con il Procuratore della Repubblica, chiedere che venga omessa completamente l’indicazione del
sesso: in quest’ultimo caso, tuttavia, secondo la circolare, siffatta omissione
è destinata a durare per un periodo massimo di due anni, superati i quali è
indispensabile, all’esito di una procedura giudiziaria – esperibile, in caso di
inerzia dei genitori, da parte dello stesso Procuratore della Repubblica –
optare per il sesso maschile o per quello femminile; proprio per queste
ragioni, dunque, la normativa in esame prescrive all’ufficiale di stato civile
di suggerire ai genitori del neonato intersessuale l’imposizione di un prenome neutro, idoneo «par un fille et par un garēon» (27), laddove invece
(26) Cosı̀ Trib. Firenze 10 giugno 1936, cit., 101; per gli ulteriori rimandi alla giurisprudenza conforme, v. nota 18.
(27) Cosı̀ infatti prescrive la Circulaire du 28 octobre 2011 relative aux règles particulières à divers actes de l’état civil relatifs à la naissance et à la filiation, in BOMJL, 2011, 11,
30 novembre 2011, spec. § 55, p. 27; la circolare, che peraltro in questo passaggio sostituisce
il punto n. 288 della previgente Instruction générale relative à l’état civil du 11 mai 1999
(Annexe), si contrappone ad un orientamento giurisprudenziale precedente, in base al quale
«tout individu, même s’il présente des anomalies organiques, doit être obligatoirement ratta
ché à l’un des deux sexes masculin ou féminin, lequel doit être mentionné dans l’acte de
naissance» (cosı̀ CA Paris, 18 janv. 1974: D. 1974, p. 196, concl. Granjon; conforme: TGI
Dijon, 2 mai 1977, Gaz. Pal. 1977-2-577); nella dottrina italiana, è rimasta isolata l’opinione
di Ferri, Degli atti dello stato civile, cit., 129, secondo cui «se l’ufficiale di stato civile, cui il
neonato sia stato presentato, o gli stessi medici che hanno assistito al parto riconoscano di
non essere in grado di stabilire il sesso, senza procedere ad accertamenti più delicati ed
approfonditi, resterà sospesa la formazione dell’atto di nascita, che non potrebbe essere
retto incompiutamente, cioè senza l’enunciazione del sesso. Penso che in questo caso, a
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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nel sistema italiano, «il nome imposto al bambino deve corrispondere al
sesso» (sesso che, come si è visto, può essere o maschile o femminile,
ex art. 35 D.P.R. 396/2000).
Nonostante, quindi, la circolare ministeriale «addolcisca» il dimorfismo sessuale che connota l’ordinamento giuridico francese (28), anche in
Francia si è posto il quesito se, in caso di divergenza tra il sesso di elezione
e il sesso legale della persona intersessuale, l’armonizzazione tra i due
debba avvenire mediante un jugement de rectification o mediante un jugement de changement d’état (non essendo in questo Paese stata introdotta
alcuna legge specifica in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, al
pari della l. 164/1982).
Al riguardo, la giurisprudenza e la dottrina convergono, con un orientamento che ormai si può definire granitico, anche se non unanime, verso
la prima opzione: già dalla prima metà del ‘900 svariate pronunce di
merito avevano ritenuto che nel caso in cui un soggetto presenti un’ambiguità congenita degli organi sessuali, si possa procedere de plano con
l’azione di rettificazione disciplinata dall’art. 99 del codice civile francese (29), e tale orientamento si è mantenuto costante e in assoluto maggio-
decidere del sesso del neonato, non possa essere che il Tribunale il quale vi procederà
valendosi, naturalmente, dell’assistenza di un consulente tecnico (…). Il rito sarà quello
della rettificazione, perché si tratta di formare un atto di stato civile omesso, sia pure per
difficoltà obiettive».
(28) Cfr. l’affermazione di Nerson, Rubellin-Devichi, Rev. trim. dr. civ. 1982, 841,
secondo cui: «En droit, l’ermaphrodite n’existe pas»; va osservato tuttavia come la giurisprudenza abbia, in un caso recente, ordinato all’ufficiale di stato civile di modificare l’atto
di nascita di un soggetto intersessuale maggiorenne: cosı̀ TGI Tours, 20 Août 2015, in D.
2015, 2295, note de Vialla, Substitution à l’état civil de la mention «sexe neutre» à celle «de
sexe masculin» e in D. 2016, 20, note de Libchaber, Les incertitudes du sexe, da cui si evince
che la persona ricorrente, «dont les organes génitaux ne correspondent pas à la norme
habituelle de l’anatomie masculine ou féminine», non si riconosceva né nel sesso maschile,
né in quello femminile, e chiedeva quindi la rettificazione dell’atto di nascita nella parte
relativa al sesso, domandando la sostituzione da «sexe masculin» a «sexe neutre» o, in
subordine, «intersexe»; il Tribunale ha statuito come l’art. 55 della Circulaire du 28 octobre
2011 relative aux règles particulières à divers actes de l’état civil relatifs à la naissance et à la
filiation debba essere interpretato nel senso in cui la determinazione, entro i due anni dalla
nascita, tra sesso maschile o femminile, non debba necessariamente essere effettuata nei casi
in cui «le sexe de l’intéressé ne pourrait jamais être déterminé»; tale soluzione, secondo la il
Tribunale, è conforme al diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato dall’art. 8
CEDU, e non è contraria all’ordine pubblico.
(29) Cfr. T. Corbeil, 15 juillet 1914, RTD civ., 1915, 493, obs. Wahl; T. ChateauThierry, 26 janvier 1940, DH, 1940, II, 123; T. Soissons, 25 jullet 1945, GP, 1945, II, 141, e
i precedenti ivi citati in nota (non vidi: T. Quimper, 20 juillet 1931, Gaz. Pal. T. Q., 19301935, Actes de l’état civil, n. 47; T. Nı̂mes, 18 juin 1928, Gaz. Pal. T.Q., 1925-1930, Actes de
l’état civil, n. 29 e La loi, 23 mai 1929; T. Ambert, 15 avril 1925, Gaz. Pal. T.Q., 1920-1925,
Actes de l’état civil, n. 8 e in La loi, 12 novembre 1924; T. Angers, 27 fevrier 1846,
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ritario grazie altresı̀ ad una sua recente «consacrazione», avutasi con una
importante pronuncia della Corte di appello di Versailles (30). L’adozione
di tale rito infatti si fonda sul principio in base al quale, anche secondo la
giurisprudenza francese, si procede con l’action en rectification qualora vi
sia stata erronea formazione ab initio dell’atto di nascita, mentre è necessario esperire una action d’état nel caso in cui l’atto di nascita sia stato
compilato correttamente, e si intenda ottenere una sentenza costitutiva di
mutamento del sesso (come avviene nel caso, appunto, di soggetto transessuale: tanto è vero che, in Francia, in questo caso si procede con un
jugement d’état innomée, che la dottrina ha peraltro battezzato come una
«action en réclamation de sexe») (31). Argomentazioni del tutto analoghe
vengono spese in dottrina, ove è stato affermato che in caso di soggetto
intersessuale, «il ne s’agit pas à proprement parler de changement de sexe
DP, 46.2.85); CA Paris, 18 janvier 1974, RTD civ., 1974, 801, obs. Nerson, in cui si pone la
distinzione, invalsa all’epoca anche nella giurisprudenza italiana, tra intersessualismo e transessualismo, ammettendosi la rettificazione soltanto nel primo caso e negandola in vece nel
secondo, non potendo trovare tutela la condizione di chi abbia modificato artificialmente la
morfologia del proprio corpo per l’ingestione di farmaci ormonali o per un intervento
chirurgico; al riguardo, si veda anche CA Paris, 8 décembre 1967: JCP G 1968, II,
15518 bis e RTD civ., 1968, 536, obs. Nerson, in cui la domanda di rettificazione è stata
accolta, previo esperimento di una expertise attraverso cui sono state accertate le anomalie
congenite dell’istante e di converso l’errore nella compilazione dell’atto di nascita; contra:
CA Paris, 31 mai 1966, JCP G, 1966, II, 14723, ove è stato statuito che il procedimento di
rettificazione è esperibile solo in caso di errore materiale di scrittura.
(30) CA Versailles, 22 juin 2000, JCP G 2001, II, 10595, note de P. Guez, Le changement de sexe d’un enfent hermaphrodite e RTD civ. 2001, 849, obs. J. Hauser; in questo caso
il sesso meramente cromosomico maschile dell’interessato era coerente con quello dichiarato
alla nascita, ma il soggetto presentava organi sessuali «particulièrement insuffisants» e un’identità di genere femminile, motivo per cui era stato sottoposto, su consiglio medico, ad
un’operazione chirurgica di castrazione e femminilizzazione, a seguito della quale veniva
proposta, dai genitori, in qualità di rappresentanti legali, domanda nel corso del giudizio
qualificata come rettificazione degli atti di stato civile, che veniva tuttavia rigettata in primo
grado dal Tribunale di Nanterre, secondo cui «l’operation castrarice à lequelleil a été
recourue… ne peut permettre à l’enfant de devenir une femme à part entiére, que rien
ne permet d’affirmer que l’enfant devenu majeur et libre de ses choix, présentera une
apparence physique et un comportement social à dominante féminine»; in secondo grado
la domanda veniva invece accolta e la rettificazione del sesso e del nome disposta (da
maschile a femminile, e da Enzo, Fernand, Egidio a Victoria, Anne, Maryse), avendo la
Corte d’appello ritenuto che il sesso legale di cui ai registri di stato civile dovesse corrispondere al sesso anatomico raggiunto chirurgicamente e a quello sociale e psichico ad esso
conforme (il soggetto infatti si comportava e si rapportava agli altri come una femmina),
essendo irrilevante il sesso cromosomico.
(31) Si parla, a tale riguardo, anche di «action en réassignation» o «action en concordance de sexe»: cfr., per l’analisi della giurisprudenza in materia: J.-P. Branlard, Le sexe et
l’état des personnes, Aspects historique, sociologique et juridique, LGDJ, 1993, préf. F. Terré,
n˚ 1826 ss.
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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mais bien de la détermination du sexe depuis la naissance» (32), cosı̀ che «il
s’agit de mettre l’état civil en accord avec la réalité par une simple rectification» (33).
5. – Una volta appurato che il procedimento da adottare è quello di
rettificazione degli atti di stato civile di cui agli artt. 95 ss. D.P.R. 395/
2000, il quali, salvo alcune deroghe espressamente sancite – tra le quali
quella relativa alla competenza territoriale, dovendo essere proposto il
ricorso ex art. 125 c.p.c. presso il tribunale nel cui circondario si trova
l’ufficio di stato civile presso il quale è registrato l’atto di nascita –, rinviano tout court alla disciplina del rito camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. (34),
restano da considerare alcuni profili rilevanti: la natura del giudizio; la
legittimazione attiva; la fase istruttoria; la natura della decisione; il momento a partire dal quale decorrono i suoi effetti.
(32) G. Goubeaux, Traité de droit civil, Les persone, LGDJ, 1990, n˚ 260, secondo cui
«la rectification administrative ou judiciaire des actes de l’état civil préuve par l’article 99 du
Code civil suppose qu’une erreur ait été commise lors de la rédaction de l’acte (…). C’est
encore le cas si le sex edu nouveau né n’était pas clairement déterminé au moment de la
déclaration de naissance (…); si une analyse plus précise établit que le ‘sexe probable’ n’était
pas le vrai, qu’un traitement médical ou chirurgical peut aider à révéler, il y aura lieu à
rectification de l’acte de l’état civil qui énconēait une information fausse»; conformi: P.
Guez, Le changement de sexe d’un enfant hermaphrodite, JCP G 2001, 1781, secondo cui
«une ligne de partage intangible semble ainsi se dessiner entre les transsexuels et les pseudohermaphrodites. Pour les premiers – don’t le sexe est physiquement bien identifié mais qui
ont la conviction d’appartenir au sexe oppose – le changement de sexe ne peut resulter que
d’une action d’état. Pour les seconds, en revanche, il ne serait que la consequence d’une
action en rectification dès lors que le sexe morphologique est à l’origine attaint de malformation»; J. Hauser, Incertitude ab initio sur le sexe: rectification d’état civil, RDD Civ. 2001,
849, second cui «le critère du changement volontaire, impuissant à discriminer les changements de sexe autorisés de ceux qui ne le seraient pas, garde un intérêt pour distinguer les
actions d’état consecutives à un changement et les actions en simple rectification d’état
civil».
(33) J.-P. Branlard, op. cit., n˚ 1787 ss. (spec. n˚ 1816, ove è citata anche, in nota 85 e
86, la dottrina minoritaria, secondo cui è necessario esperire un’azione di stato); C. Saint
Alary-Houin, La sexualité dans le droit civil contemporain, Annales de l’Université des
sciences sociales de Toulose, tome 33, 1985, 15, n˚ 19.
(34) Sul procedimento camerale, in generale: Redenti, Diritto processuale civile, vol. III,
Milano 1954, 347; Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli 1964, 425;
Carratta, voce Processo camerale (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Annali, III, Milano 2010, 928;
Arieta, voce Procedimenti in camera di consiglio, in Dig. it., disc. priv., sez. civ., XIV, Torino
1996, 435; Fazzalari, voce Giurisdizione volontaria (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XIX, Milano
1970, 330; Micheli, voce Camera di consiglio (dir. proc. civ.), in Enc. dir., V, Milano 1959,
981; Montesano, voce Giurisdizione volontaria, in Enc. giur., XV, Roma 1989, 9; Laudisa,
voce Camera di consiglio I) Procedimenti in camera di consiglio (dir. proc. civ.), in Enc. giur.,
V, Roma 2002; sul procedimento di rettificazione degli atti di stato civile, ex plurimis: Cerino
Canova, Degli atti dello stato civile, cit., 667.
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rivista di diritto processuale 2016
Sulla natura del giudizio di rettificazione non vi è stata, in linea generale, soprattutto nel vigore della precedente disciplina, concordia di vedute
tra gli studiosi, essendosi ritenuto da alcune Voci che si trattasse di un
procedimento in ogni caso strutturalmente contenzioso, e da altre di un
giudizio di volontaria giurisdizione in cui «il giudice fa quanto avrebbe
dovuto fare o, di regola, fa, un’autorità appartenente all’ordine amministrativo» (35): al riguardo, alla luce della normativa odierna, cosı̀ come
riformulata dal D.P.R. 396/2000, non si può negare che in alcuni casi –
come in quello in cui l’ufficiale di stato civile rigetti la domanda di trascrizione nei registri di un atto amministrativo o giurisdizionale straniero
perché ritenuto contrario all’ordine pubblico, ex art. 18 – il giudizio veda
contrapposti i diritti o gli interessi di più parti, acquisendo quindi natura
contenziosa; tale assunto, tuttavia, non è sempre valido, e non lo è mai nel
caso in esame: allorquando il procedimento in parola sia volto all’accertamento della veridicità di un fatto materiale cosı̀ come indicato nell’atto di
nascita – in questo caso: il sesso «prevalente» di un individuo avente
organi genitali ambigui (36) –, non vi può essere quel contrasto tra litigatores tipico del giudizio avversariale della giurisdizione civile, scaturente
dalla lesione attuale, potenziale o perpetrata di una situazione sostanziale (37) e dalla conseguente contrapposizione dell’interesse dello Stato e
(35) Queste le parole di Cerino Canova, Degli atti dello stato civile, cit., 764, secondo
cui il processo di rettificazione va annoverato tra i giudizi «a contenuto oggettivo»; prima
della riforma avutasi con il D.P.R. 396/2000 parte della dottrina riteneva che la domanda di
rettificazione degli atti dello stato civile non avesse natura contenziosa: Azzariti, voce Stato
civile, in Noviss. dig. it, XVIII, Torino 1971, 292 ss.; Fazzalari, voce Giurisdizione volontaria,
cit., 377, spec. nota 255; in giurisprudenza: Cass. 26 luglio 1952, n. 2365, in Giur. compl.
cass. civ. 1953, III, 128; di opinione contraria: Allorio, Saggio polemico sulla giurisdizione
volontaria, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1948, 513; Chiovenda, Principii di diritto processuale
civile, III, Napoli 1965, 1299; Montesano, op. ult. cit., 9; in giurisprudenza: Cass. 28 gennaio
1961, n. 157, in Foro it. 1961, I, 202; Cass. 6 ottobre 1977, n. 4252, in Foro it. 1978, I, 1508;
secondo Micheli, Processo per la rettifica degli atti dello stato civile e cosa giudicata, in Giur.
compl. cass. civ. 1949, II, 301 ss., si davano due diverse ipotesi di rettificazione (una regolata
dall’art. 451 c.c., e un’altra dall’ordinamento di stato civile), e soltanto la prima avrebbe
avuto natura contenziosa.
(36) Si pensi al caso in cui l’Ufficiale di Stato civile rigetti l’istanza di trascrizione di un
atto straniero in quanto ritenuto contrario all’ordine pubblico ex art. 18 D.P.R. 396/2000
(tra i molti esempi possibili, un atto di nascita derivante dalla c.d. pratica di «gestazione per
altri», o un atto di matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso); si pensi anche al
caso in cui venga negata in egual modo la trascrizione di una decisione di separazione,
divorzio o annullamento del matrimonio ex art. 21 Reg. 2201/03/CE o di una sentenza
avente il medesimo oggetto ex art. 64 l. 218/95 (caso in cui, secondo una parte della
dottrina, si dovrebbe applicare il procedimento ex art. 95 D.P.R. 396/2000: Cafari Panico,
Divorzi stranieri tra riconoscimento e trascrizione, in Riv. dir. int. proc. 2002, 5).
(37) Cfr. Fazzalari, Giurisdizione volontaria, cit., 354, secondo cui, a differenza della
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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quello del privato cittadino, ma semmai un unico interesse, comune e
convergente, di natura, come si vedrà meglio nel prosieguo, sia pubblica
che privata, alla corrispondenza tra quanto attestato nello stato civile e la
realtà dei fatti. Il giudizio camerale cui l’art. 95 D.P.R. 396/2000 rinvia, in
altri termini, ha natura polimorfa e variabile, ma, in questo caso, sempre di
volontaria giurisdizione «pura»: cosı̀ che ad esso saranno applicabili tutti i
principi invalsi su di essa (38).
6. – Per quel che concerne la legittimazione attiva, questa competerà al
soggetto intersessuale, eventualmente rappresentato, se minore di età, dai
suoi genitori, in qualità di rappresentanti legali ex art. 70 c.p.c.: si tratta di
un’ipotesi, quest’ultima, piuttosto frequente nella prassi, atteso che, come
è dato riscontrare nelle pronunce edite in materia, la maggior parte dei
procedimenti vengono instaurati nel corso della prima infanzia o, al più
tardi, dell’età puberale del soggetto intersessuale, ovverosia non appena si
è definita con nitidezza e certezza la sua identità di genere (39).
Qualora, tuttavia, vi sia un conflitto di interessi tra il minore intersessuale ed i suoi genitori – ad esempio, nel caso di inerzia o di renitenza di
questi ultimi ad avviare il procedimento di rettificazione –, potrà essere
proposta istanza per la nomina di un curatore speciale, ex art. 78 c.p.c.,
affinché anche in questa fattispecie, attraverso un soggetto terzo, trovi
giurisdizione volontaria, in quella civile l’attività giurisdizionale (sia di condanna, che di
accertamento, che costitutiva: v. nota 116, seppur con sfumature diverse) «ha per presupposto l’illecito, più precisamente la violazione (perpetrata o attualmente minacciata) di un
dovere sostanziale (cioè già imposto dalla legge sostanziale)»; v. anche Micheli, Significato e
limiti della giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc. 1957, 551, secondo cui la giurisdizione
volontaria si applica ad ipotesi di tutela «che prescindono dall’esistenza di parti contrapposte»; in senso critico: Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Studi in onore di Enrico
Allorio, I, Milano 1989, 190.
(38) Il giudizio ex art. 95 D.P.R. 396/2000 avrà natura di volontaria giurisdizione anche
allorquando un soggetto interessato intenda promuovere la «ricostruzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso»: come osservato da Fazzalari, op. ult.
cit., 377, in questi casi vi è il difetto di tutti i presupposti «in qualche modo ragguagliabili a
quelli giurisdizionali», non sussistendo, «prima della sentenza di rettificazione, l’obbligo di
ricevere l’atto omesso o rinnovare l’atto distrutto o correggere l’errore, giacché tale obbligo
nasce appunto dalla sentenza di rettificazione».
(39) È questo il caso, ad esempio, di: Trib. Bologna 25 novembre 2009, in Fam. pers.
succ. 2011, 11, 796, con nota di Costanzo, L’erronea attribuzione di sesso al neonato giustifica
la rettificazione dell’atto di nascita; meno recentemente: Trib. Bari 29 gennaio 1962, in Foro
it. 1962, 1036; App. Bari 22 marzo 1962, in Foro it. 1962, I, 1033 e Riv. dir. proc. 1962, 492;
Trib. Foggia, 25 maggio 1965, in Daunia giudiz. 1965, 149; Trib. Roma 13 febbraio 1975, in
Dir. fam. 1975, 188; Trib. Taranto 28 gennaio 1974, in Dir. fam. 1974, 459; Trib. Macerata
12 novembre 1984, cit., 196.
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piena realizzazione il best interest of the child, quale obiettivo ultimo in
tutti i procedimenti che riguardano il soggetto minorenne (40). E d’altra
parte, specularmente, sul versante sostanziale, già in passato si è assistito
alla nomina, da parte del giudice minorile, di un curatore speciale, ex art.
333 c.c., in un caso in cui i genitori di uno pseudoermafrodita femminile
erano rimasti renitenti a porre in atto gli «interventi necessari al benessere
psicofisico del figlio» (41).
Del pari, in casi simili, potrà essere fatta istanza, anche informale, al
pubblico ministero, affinché agisca per la promozione del procedimento di
rettificazione: l’art. 95, comma 2˚, D.P.R. 396/2000, infatti, lo legittima a
instaurare detto giudizio (e anche in questo caso, la prassi ha dimostrato
un uso piuttosto frequente di questa facoltà) (42); la ratio della norma
(40) Cfr.: Ruo, Il curatore del minore, compiti – procedure – responsabilità, Santarcangelo di Romagna 2014, 25, la quale, sulla scorta del principio del best interest of the child
quale criterio preminente e determinante di giudizio ai sensi dell’art. 3 della Convenzione di
New York e dell’art. 24 della CEDU e della giurisprudenza della Corte costituzionale (che
ha definito l’interesse generale del minore come clausola generale dell’ordinamento: cfr.
Corte cost. 23 gennaio 2013, n. 7), osserva come «si è assistito solo negli ultimi anni a
un’espansione dell’istituto del curatore speciale del minorenne anche in fattispecie diverse
da quelle previste espressamente dalla normativa e da quelle patrimoniali»; lo stesso problema si è posto in passato per quel che concerne soggetti minori con disforia di genere
(cfr., al riguardo: Trib. Roma 11 marzo 2011, in Fam. min. 2011, 499, con nota di Ruo,
Persone minori di età e cambiamento di identità sessuale).
(41) Con la conseguenza per cui i genitori venivano altresı̀ sospesi dalla responsabilità
genitoriale: cosı̀ Trib. Potenza 29 luglio 1993, in Dir. fam. 1993, 1199, ove la richiesta di
nomina del curatore era stata effettuata, anche in questo caso, dal Pubblico ministero del
tribunale per i Minorenni; il Tribunale ha disposto la nomina del curatore ex art. 333 c.c.
(non già ex art. 321 c.c., non essendo tutti gli atti richiesti dal P.m. configurabili come «atti
giuridici»: richiesta di pareri specialistici, sottoposizione del minore a visite ed analisi…).
(42) In giurisprudenza, è stato promosso il giudizio dal Pubblico Ministero per la
rettificazione dell’atto di nascita del soggetto intersessuale nei seguenti casi: Trib. Bologna
25 novembre 2009, cit., 796; App. Lecce 13 febbraio 1941, in Foro it. Rep. 1942, voce Stato
civile, n. 2, secondo cui «il tribunale può procedere, su richiesta della regia procura, alla
rettifica dell’atto di nascita, per erronea indicazione del sesso, quando l’errore risulti dalle
indagini d’ufficio»; nella giurisprudenza francese, ex multis: T. Château-Thierry, 26 janvier
1940, D.H. 1940-J-123; T. Angers, 27 février 1846, D.P. 1848-2-85, da cui si evince che la
giovane Serpin, domestica cui vennero negate le pubblicazioni di matrimonio in forza
dell’atto di nascita che le attribuiva il sesso maschile e il prenome di Louis Francois, avendo
necessità di fare rettificare questo errore e non avendo la possibilità di ricorrere ad un
avvocato (anche il padre giornalista e la madre erano egualmente indigenti), fece istanza
al Pubblico ministero, affinché agisse motu proprio. Anche in Italia, d’altra parte, il Pubblico
ministero in passato promuoveva l’azione di rettificazione anche «nell’interesse delle persone
povere che gliene fanno richiesta direttamente» (cosı̀ disponeva l’art. 167 r.d. 1238/1938,
oggi abrogato e sostituito dalla l. 134/2001 in materia di gratuito patrocinio a spese dello
Stato per i non abbienti); il Pubblico ministero può agire per rettificazione o la correzione
dell’indicazione del sesso e del prenome nell’atto di nascita anche per motivi di ordine
pubblico (cfr., per un esempio al riguardo, nota 66).
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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giace nel principio secondo cui vi è un interesse dello Stato alla chiara e
corretta enunciazione dei registri dello Stato civile, di cui il Pubblico
ministero si pone, quindi, come «guardiano». Proprio per queste ragioni,
il Pubblico Ministero dovrebbe avviare il procedimento in piena autonomia tutte le volte in cui abbia avuto, anche attraverso la segnalazione di
terzi – si pensi ai medici pediatri, agli insegnanti, o ai parenti –, notizia del
manifesto disallineamento tra identità di genere e sesso legale di un soggetto minorenne intersessuale, attesa la necessità di tutelare il suo interesse
preminente ad essere identificato nella società con un prenome armonizzato con la sua identità, interesse tutelato dall’art. 2 della Costituzione (43).
Si può affermare, quindi, che gli interessi salvaguardati dal Pubblico
Ministero nella procedura sono molteplici e di diversa natura, ma che
senza dubbio, su di essi, debba prevalere quello del soggetto intersessuale,
in particolare laddove minorenne: è questa d’altra parte la ragione per cui,
più in generale, anche nei casi in cui non abbia azionato il giudizio in
qualità di ricorrente, il Pubblico ministero deve comunque, in ogni caso,
essere sentito dal Tribunale, ai sensi dell’art. 96 D.P.R. 396/2000, cosı̀ che
il mancato deposito delle sue conclusioni motivate sarà motivo di nullità
del decreto (44).
7. – I profili più delicati del procedimento in esame, invero, sono
quelli che attengono alla fase istruttoria: al riguardo, va innanzitutto precisato che l’art. 451 c.c., rubricato «forza probatoria degli atti», precisa
come «gli atti dello stato civile fanno prova, fino a querela di falso, di ciò
che l’ufficiale pubblico attesta essere avvenuto alla sua presenza o da lui
compiuto» e che, tuttavia, «le dichiarazioni dei comparenti fanno prova
fino a prova contraria»: atteso che l’ordinamento di stato civile, ex art. 30
D.P.R. 396/2000, dispone che la dichiarazione di nascita debba necessariamente essere «resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale,
ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che hanno assistito
al parto», ne consegue che l’identità di genere dell’interessato potrà essere
accertata non necessariamente mediante querela di falso, ma con ogni
(43) Circa il diritto all’identità sessuale, il quale si estrinseca anche attraverso la corretta
enunciazione degli atti di stato civile per la persona transessuale (e, a fortiori, intersessuale),
cfr., ex pluribus: Corte cost. 6 maggio 1985, n. 161, cit., 1294; in dottrina: Pezzini, op.
cit., 468.
(44) È questo un caso in cui il Pubblico ministero fornisce un «parere» sul thema
decidendum, non vincolante per il giudice ma comunque necessario; si tratta della c.d.
«audizione» del Pubblico ministero, che ne sostituisce l’intervento nei processi ordinari
ex art. 71 c.p.c. (cfr. Micheli, op. cit., 987).
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rivista di diritto processuale 2016
mezzo istruttorio, sia pur nei limiti – come noto piuttosto elastici, oltre che
privi di barriere preclusive – di cui all’art. 738, comma 3˚, c.p.c. (45).
L’onere della prova ricadrà, cosı̀ come avviene in forza del principio
generale di cui all’art. 2697 c.c., applicabile anche ai procedimenti camerali (46), sulla parte ricorrente, che sarà tenuta a dimostrare innanzitutto la
propria condizione di persona intersessuale, anche attraverso la produzione in giudizio di prove atipiche, come ad esempio le perizie stragiudiziali o
le c.d. «prove scientifiche» (47); va detto infatti che se lo stato intersessuale
non costituisse oggetto di prova, sarebbe del tutto agevole per qualsiasi
individuo – e in particolare per colui che abbia la disforia di genere –,
eludere la più rigida procedura di cui alla l. 164/1982 e all’art. 31 del d.lgs.
150/2011.
In secondo luogo, sarà necessario dimostrare l’erroneità di quanto
dichiarato nell’atto di nascita conservato nel registro di stato civile: sarà
onere della parte ricorrente, in altri termini, dimostrare che il «sesso prevalente», inteso non già come sesso cromosomico-genetico, gonadico, fenotipico (attesa la loro insopprimibile ambiguità), ma come sesso psicosociale (melius: identità di genere), è diverso da quello legale, enunciato
nell’atto di nascita.
Sia lo stato intersessuale che il sesso d’elezione potranno essere agevolmente provati, come si è visto, mediante una perizia di parte, ma il
(45) Sull’istruttoria nel procedimento camerale: Capponi, Le «informazioni» del giudice
civile (appunti per una ricerca), in Riv. trim. dir. proc. civ. 1990, 911; Tiscini, L’accertamento
del fatto nei procedimenti con struttura sommaria, in iudicium.it 2010, 12, la quale ricorda
come in un contesto sommario l’istruttoria può essere elevata al massimo livello di semplificazione, con sacrificio delle forme solenni, a favore del raggiungimento celere del risultato
di giustizia, sicché anche le prove tipiche possono essere svincolate dal modello formale di
assunzione previsto dalla legge, salvo in ogni caso il rispetto dei principi di azione e difesa.
(46) Sulla speciale declinazione che il principio dell’onere della prova assume in seno al
procedimento di volontaria giurisdizione, cfr., funditus: Comoglio, Difesa e contraddittorio
nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. dir. proc. 1997, 739, secondo cui la ricerca
«ufficiale» della verità preclude un’applicazione meccanicistica della norma sull’onere della
prova; cosı̀ anche: Redenti, op. cit., III, 350; Micheli, voce Camera di consiglio (Diritto
processuale civile), in Enc. dir., Milano 1959, vol. V, 985; contra: Ricci, Atipicità della prova,
processo ordinario e rito camerale, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2002, 434.
(47) Si pensi, tra i molti esempi possibili, nei casi di intersessualismo di natura cromosomica, al referto ospedaliero con i risultati degli esami ematochimici; più in generale,
ritengono ammissibili le prove atipiche nel procedimento camerale, laddove utilizzato per
la volontaria giurisdizione: Ricci, op. ult. cit., 431; Comoglio, Garanzie costituzionali e prove
atipiche nel procedimento camerale, in Riv. trim dir. proc. civ. 1976, 1150; Taruffo, Prove
atipiche e convincimento del giudice, in Riv. dir. proc. 1973, 389; in senso critico: Cavallone,
Critica alla teoria delle prove atipiche, in Riv. dir. proc. 1978, 679; Graziosi, Usi e abusi di
prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2011, 693.
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
705
tribunale potrà, se ritenuto necessario ai sensi dell’art. 61 c.p.c., disporre
una consulenza tecnica d’ufficio (48): ciò potrà apparire opportuno soprattutto laddove il beneficiario del decreto di rettificazione sia un soggetto minorenne, a maggior ragione se infradodicenne (49). In quest’ultimo caso, peraltro, la prova dell’identità di genere del destinatario degli
effetti del provvedimento richiesto potrà essere desunta altresı̀ da alcune
produzioni documentali: si pensi agli scritti o ai disegni del bambino, o alle
registrazioni audiovisive che lo ritraggono, nelle quali emerga la sua persistente e chiara identificazione con il genere opposto a quello assegnato alla
nascita e registrato allo stato civile; si potrà altresı̀ fare ricorso, naturalmente, anche alla testimonianza di terzi, come quella resa dagli insegnanti
o dai parenti, che possono offrire una chiara descrizione sull’identificazione del sé del bambino, testimonianza che peraltro potrà essere assunta
anche senza previa formulazione di specifici capitoli (e senza, in generale,
la pedissequa osservanza dei canoni di cui agli artt. 244 ss. c.p.c.), attesa la
semplificazione delle forme istruttorie da cui è caratterizzato il procedimento camerale (50).
Naturalmente, trattandosi di un soggetto minorenne, dovrà essere data
piena attuazione all’art. 315 bis, ribadito poi dall’art. 336 bis c.c., in base al
quale «il minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore, ove capace di discernimento, è ascoltato dal Presidente del tribunale
(48) Cfr. App. Firenze 3 marzo 1995, in Foro it. 1995, I, 1323, secondo cui nel
procedimento camerale è possibile «deferire al consulente tecnico d’ufficio indagini vaste
e informali, intese alla ricerca di tutti i possibili elementi di giudizio; pertanto, lo stesso può
acquisire in piena libertà fatti e notizie».
(49) Ai fini dell’accoglimento della domanda di rettificazione, non sarà quindi necessario oggi quanto richiesto dal Procuratore generale della Repubblica francese nelle conclusioni precisate, cosı̀ come emerge da Cass. civ. 6 avril 1903, in D.P. 1904. 1. 395,
ovverosia che una lavandaia faccia uno sforzo violento per infrangere una barriera, sı̀ che
soltanto in tal modo può essere rivelato il suo sesso maschile e possa quindi essere soddisfatta la sua aspirazione a diventare un maniscalco.
(50) Cfr., in questo senso: Cass. 9 giugno 2005, n. 12173, in Dir. e giust. 2005, 34, 47,
secondo cui nel procedimento camerale, nel quale è rimessa alla discrezionalità del giudice
l’assunzione di sommarie informazioni, è esclusa l’applicabilità delle norme processuali sulla
prova testimoniale dettate per il giudizio ordinario di cognizione, sı̀ che è inammissibile «la
censura genericamente accampata dal ricorrente con riferimento alla presunta violazione
delle norme sul modo di deduzione della prova testimoniale (art. 244 c.p.c.), sulla prestazione del giuramento (art. 251 c.p.c.) e sulle modalità di interrogazione del testimone (art.
253 e 231 c.p.c.)»; in dottrina, di eguale avviso: Redenti, op. cit., 356; Tiscini, L’accertamento
del fatto, cit., 15, la quale ritiene altresı̀ possibile una consulenza tecnica d’ufficio senza la
formulazione solenne prevista nel codice; il carattere semplificato dell’istruttoria è confermato anche dal dettato dell’art. 95, comma 1˚, D.P.R. 396/2000, secondo cui «il tribunale
può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre
l’audizione dell’ufficiale di stato civile».
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o dal giudice delegato nell’ambito dei procedimenti nei quali devono
essere adottati provvedimenti che lo riguardano» (51): proprio tale ascolto,
disposto anche d’ufficio dal giudice, potrà, infatti, offrire elementi utili ai
fini della delicata individuazione del nuovo prenome, con cui dovrà essere
sostituito quello dell’interessato, sempre in forza di un ordine del tribunale
diretto all’ufficiale di stato civile del comune ove è conservato l’atto di
nascita (prenome che non necessariamente, come giustamente si evince
dalla giurisprudenza in materia, dovrà corrispondere grammaticalmente
con quello originario, ovverosia meramente convertito dal maschile al
femminile o viceversa) (52). In ogni caso, la formulazione delle richieste
istruttorie non sarà soggetta a rigide barriere preclusive, e vi potrà essere
una deroga al principio dispositivo della prova, ammesso in generale nei
procedimenti di volontaria giurisdizione, e qui più che mai indispensabile,
essendo in gioco l’interesse al benessere psicofisico di un soggetto minore,
sı̀ che il giudice potrà disporre di maggiori facoltà di iniziativa officiosa
rispetto alle regole invalse nel giudizio ordinario ex art. 115 c.p.c. (53).
8. – Conviene ora interrogarsi sul contenuto del decreto di rettificazione (54): al riguardo, va preliminarmente rilevato che in esso vi è, in-
(51) Sul tema dell’ascolto del minore, si segnala, funditus: Danovi, Il processo di separazione e divorzio, Milano 2015, 482 ss., il quale ricorda il consolidato orientamento di
legittimità secondo cui l’omessa audizione del minore è causa di nullità processuale deducibile ex art. 161 c.p.c. (cfr., tra le altre: Cass. 27 gennaio 2012, n. 1251).
(52) Si deve ritenere che la domanda di attribuzione di un nuovo prenome possa essere
formulata in ogni momento del processo, attesa l’assenza di barriere preclusive nel procedimento camerale: cfr. Carratta, Processo camerale, cit., 938, che esclude l’immodificabilità
della domanda proposta ex art. 183 c.p.c.; in giurisprudenza, si veda: Cass. 24 aprile 2008,
n. 10650, in Fam. e dir. 2008, 772, con nota di Tommaseo, Appello in cause di divorzio, rito
camerale e deduzioni probatorie; Cass. 25 ottobre 2000, n. 14022, in Fam. e dir. 2001, 393,
con nota di Carratta, Modifica delle condizioni del divorzio e interpretazione «costituzionalmente plausibile» dell’art. 9 legge divorzio.
(53) In questo senso, in generale: cfr. Cass. 8 marzo 1999, n. 1947, in Giust. civ. Mass.,
1999, 518; Cass. 25 maggio 1982, n. 3180, in Giust. civ. 1982, I, 2663; cfr. anche: Cass. 16
giugno 2000, n. 8227, in Fam. e dir. 2001, 414, con nota di Falciano, Reclamo di stato di
figlio naturale e poteri ufficiosi nel giudizio di inammissibilità; in dottrina: Comoglio, Difesa e
contraddittorio, cit., 738; Cipriani, Procedimento camerale e diritto alla difesa, in Riv. dir.
proc. 1974, 197, che parla di «istruttoria largamente inquisitoria»; Redenti, op. cit., 350;
Arieta, Procedimenti, cit., 457; Micheli, Camera di consiglio, cit., 984, secondo cui non trova
applicazione il principio del giudicare justa alligata et probata; Ricci, Atipicità della prova,
cit., 433.
(54) Secondo Montesano, Giurisdizione volontaria, cit., 9, in questo procedimento «si
accerta costitutivamente» o «si nega (…) il potere – del pubblico ministero o del privato
interessato – di obbligare l’’ufficiale di stato civile’ a ‘rettificare un atto esistente nei registri’».
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
707
nanzitutto, l’accertamento di un fatto materiale (il sesso «prevalente» del
ricorrente), «riflesso» per ciò che esso è ed è sempre stato; in secondo
luogo, e consequenzialmente, il provvedimento contiene l’ordine all’ufficiale di stato civile di modificare l’atto di nascita erroneo, conservato
presso il registro di stato civile (55). Alcuni autori francesi, al riguardo,
hanno ascritto tale provvedimento alla categoria delle decisioni di «mero
accertamento» (56): va soggiunto tuttavia che, seppur si tratti di un inquadramento suggestivo e forse ad una prima impressione utile a scopo descrittivo, in quanto idoneo ad evidenziare le differenze tra la rettificazione
dell’atto di nascita della persona transessuale (la quale «muta» il proprio
sesso con sentenza costitutiva) e la rettificazione di quello della persona
intersessuale (la quale invece richiede un accertamento del proprio sesso),
esso, in un’ottica di rigore, non risulta condivisibile, e non può in ogni caso
essere riprodotto de plano in Italia; e infatti, alla luce della eterogeneità di
effetti che i provvedimenti di volontaria giurisdizione sono idonei a produrre (l’Andrioli in proposito parlava di «lussureggiante varietà»), non
pare possibile applicare ad essi, in generale, la tripartizione dogmatica
invalsa per i provvedimenti resi all’esito dei procedimenti di cognizione
(di accertamento, di condanna, costitutivi) (57); essi possono essere semmai classificati in «classi» di provvedimenti che producono effetti similari,
e si può quindi affermare che il decreto di rettificazione degli atti di stato
civile è tra quelli che attengono alle c.d. «registrazioni», effettuate da un
organo amministrativo, sotto la supervisione di un organo giudiziario (58).
(55) Cfr. Branlard, op. cit., 570, secondo cui «une fracutre s’opère dans l’état; c’est la
conséquence de la reconnaissance en deux temps des deux sexes au transsexuel. La rectification qui vaut pour l’avenir, ne rétroagit pas à la naissance»; la spiegazione di questa
disciplina giace nel fatto che, in assenza di spiegazioni scientifiche certe, la legge italiana e la
giurisprudenza francesi presuppongono ancor oggi che la disforia di genere sia una condizione personale che insorge nel tempo e che non sia, invece, innata nell’individuo (cosı̀ che
questa opinione dovrà essere riconsiderata in caso venga provata l’origine prenatale della
disforia di genere).
(56) Ex plurimis: Hauser, État civil et transsexualisme: nature juridique de la décision de
changement, RTD civ. 2008, 78.
(57) Cfr. Andrioli, Commento, cit., 463, secondo cui «non sarebbe teoricamente valido
e praticamente opportuno prendere a muto la classificazione delle sentenze, normalmente
corrente (costitutive; dichiarative; condanna)» attesa la «varietà, davvero lussureggiante, di
effetti, che le disposizioni speciali ricollegano ai provvedimenti camerali»; v. però Micheli,
op. cit., 991, secondo cui rispetto ai provvedimenti di volontaria giurisdizione «generalmente
costituiscono un effetto giuridico nuovo, creando, modificando od estinguendo una situazione giuridica»; Redenti, op. cit., 350, secondo cui gli effetti del decreto di v.g. hanno
direttamente o indirettamente carattere costitutivo.
(58) Per questa categorizzazione e per gli ulteriori esempi, si rinvia: Fazzalari, Giurisdizione volontaria, cit., 375.
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Il decreto camerale pronunciato all’esito del procedimento di rettificazione è inidoneo al giudicato sostanziale, e inizia a produrre i suoi effetti,
secondo la disciplina comune, dal momento in cui non è più impugnabile,
salvo che il giudice ne disponga l’immediata efficacia, «se vi sono ragioni
di urgenza», ex art. 741 c.p.c. (59): esso dovrebbe avere – sempre secondo
la dottrina francese ora citata e anche secondo la maggior parte della
giurisprudenza italiana – efficacia retroattiva, decorrente dal momento
della nascita del soggetto intersessuale (60). Tale soluzione, tuttavia, oltre
che fondata su una premessa teorica che come si è visto risulta piuttosto
discutibile (quello in base al quale la natura del decreto di rettificazione
sarebbe di mero accertamento), non ci pare condivisibile per due ulteriori
ragioni: innanzitutto, perché, anche laddove si sostenesse che il decreto ha
natura di accertamento, ciò non porterebbe ad una meccanica retrodatazione dei suoi effetti, come la dottrina processualistica ha messo in luce,
scardinando l’assioma «accertamento-retroattività degli effetti» e «costituzione-non retroattività» (61). In secondo luogo, perché, da un punto di
vista squisitamente pratico, se gli effetti retroagissero ad un momento cosı̀
(59) Sull’inidoneità al giudicato sostanziale della decisione di rettificazione degli atti di
stato civile: Menchini, Il giudicato civile, Torino 2002, 18; pur tuttavia, va ricordato che nel
vigore dell’art. 455 c.c., il giudizio di rettificazione si faceva «con sentenza del tribunale
passata in giudicato», proprio al fine di «conseguire un provvedimento irretrattabile»,
impugnabile, una volta divenuto definitivo, soltanto con opposizione di terzo (cosı̀ Cerino
Canova, Degli atti dello stato civile, cit., 766); al riguardo, sul punto, v. Finocchiaro, Rettificazione. Dubbi sulla conclusione per decreto, in Guida dir. 2001, 5, 116.
(60) Ritengono che il provvedimento di rettificazione del sesso e del prenome delle
persone intersessuali abbia efficacia retroattiva dal momento della nascita: Patti, voce Transessualismo, cit., 423; Patti Will, op. cit., 36; Stanzione, op. cit., 885; Vecchi, op. cit., 4; in
giurisprudenza, tra le altre: Trib. Pisa 20 gennaio 1984, in Foro it. 1984, II, 1982 e in Giust.
civ. 1985, I, 2066; la regola è invalsa anche nel diritto mussulmano, ove, come si è visto (cfr.
nota 3) uomini e donne ereditano in quantità differenti: ad esempio, si ritiene che se il sesso
dell’ermafrodita si «precisi» successivamente ad un momento in cui è già stato fatto il
riparto di un’eredità, tale riparto dovrà essere annullato e si dovrà ripetere dall’inizio in
maniera conforme al «nuovo» sesso prevalente (cfr. Millot et Blanc, Introduction, cit., 513,
n˚ 699).
(61) Una critica alla tesi tradizionale è già stata esposta da Ferri, Profili dell’accertamento costitutivo, Padova 1970, 171 e voce Costitutiva (azione), in Enc. giur., X, Roma 1988,
5, che ha messo in luce come le norme del codice di rito «non enunciano alcun principio
generale di anticipazione degli effetti della sentenza di mero accertamento ad un momento
anteriore al suo passaggio in giudicato, né stabiliscono una regola diversa per le sentenze
costitutive», sicché sia l’effetto dichiarativo che quello costitutivo «non operano, in via di
principio, prima e indipendentemente dal passaggio in giudicato formale della sentenza e
manca ogni fondamento normativo per riportare l’effetto sostanziale, oggetto della pronuncia, ad un momento anteriore, mentre un effetto di questo tipo può scaturire unicamente
dalla disciplina sostanziale della fattispecie accertata», ex art. 324 c.p.c.; del medesimo
avviso: Ricci, op. cit., 22; Pavanini, op. cit., 123.
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il processo di accertamento del genere del minore intersessuale
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lontano nel tempo come quello della nascita dell’individuo, la certezza dei
rapporti giuridici da esso instaurati con i terzi potrebbe esserne pregiudicata: il suo matrimonio sarebbe, se contratto, nullo in radice; il legato,
eventualmente ricevuto per testamento in quanto figlio maschio o figlio
femmina, andrebbe restituito ai fratelli o sorelle, se esistenti; il premio
ricevuto in una competizione sportiva in quanto maschio, andrebbe restituito (62); proprio per evitare questi potenziali cortocircuiti, numerose
leggi di ordinamenti giuridici stranieri in materia di rettificazione del sesso
prevedono, in linea generale, una decorrenza degli effetti a partire dalla
trascrizione del provvedimento nello stato civile (63): e questa sembra
dover essere la strada da seguire anche nel nostro caso, in presenza di
soggetto intersessuale. Di conseguenza, si deve far decorrere l’efficacia del
decreto dal momento dell’annotazione del dispositivo nell’atto di nascita,
potendosi applicare, in via analogica, il regime di pubblicità delle sentenze
invalso nei casi separazione e cessazione degli effetti civili del matrimonio,
i cui effetti decorrono, nei confronti della collettività, dal momento dell’annotazione (rectius: trascrizione) della sentenza a margine dell’atto di
matrimonio e, per quel che riguarda il divorzio, di quello di nascita (64).
9. – È forse ora possibile circoscrivere altresı̀ il campo d’applicazione
del procedimento, avente natura amministrativa, di cui all’art. 98 D.P.R.
396/2000, rubricato «correzioni», in base al quale «l’ufficiale dello stato
civile, d’ufficio o su istanza di chiunque ne abbia interesse, corregge gli
errori materiali di scrittura in cui egli sia incorso nella redazione degli
atti» (65): tale procedura sarà possibile, come risulta chiaramente in base
(62) Proprio per questo è stato espressamente previsto che la sentenza di rettificazione
del sesso della persona transessuale non abbia effetto retroattivo, ex art. 4 art. l. 164/1982, e
lo stesso peraltro è prescritto dalla legge spagnola (art. 5 LEY 3/2007), a norma della quale
gli effetti si producono dall’iscrizione della sentenza nel registro di stato civile.
(63) Si vedano, tra le tante, la legge irlandese (Gender recognition bill, 2014, art. 17.1),
quella argentina (Ley n. 26.743 de identidad de geı̀nero, Mayo 9 de 2012, art. 7), quella
belga (art. 62 bis code civil, § 4), quella maltese (Gender Expression and Sex Characteristics
Act, 2015, art. 6), quella spagnola (LEY 3/2007, de 15 de marzo, reguladora de la rectificacioı̀n registral de la mencioı̀n relativa al sexo de las personas, art. 5).
(64) Cosı̀ come disposto dagli artt. 69 lett. d), D.P.R. 396/2000 e gli artt. 5, comma 1˚, e
10, comma 1˚, l. div.; al riguardo, sul tema, si rinvia a Danovi, Il processo di separazione e
divorzio, cit., 556 ss.
(65) Su cui si veda, tra gli altri: Mariconda, Differenza tra la «correzione» per errore
materiale di scrittura e la «rettificazione» secondo il nuovo Ordinamento dello stato civile, in
Stato civ. 2001, 505; Vercelli, «Correzione» degli atti di stato civile ex artt. 98 e seg. del
D.P.R. 396/2000: aspetti procedurali e rilievi critici, in Stato civ. 2002, 646; Id., La procedura
di correzione degli atti di stato civile: le norme del d.p.r. 396/2000 e dell’art. 737 e ss. del
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al tenore letterale della norma, soltanto laddove si versi in ipotesi del tutto
estranee rispetto a quelle di cui si è trattato sinora (transessualismo ed
intersessualismo), ovverosia laddove vi sia stata una «svista» palese da
parte di chi ha redatto o trascritto l’atto di nascita, in presenza di un sesso
certo e determinato; si pensi al caso, emblematico, in cui sia stato trascritto
un atto di nascita formato all’estero, in cui fosse indicato un prenome
ambiguo, erroneamente tradotto o interpretato dall’ufficiale di stato civile;
si pensi poi all’errore materiale potenzialmente cagionato dalla dichiarazione del denunciante di un nome neutro, come Celeste, Andrea, Elia, o di
un nome straniero. Si tratta di fattispecie che, per quanto rare, possono
verificarsi, come testimonia la casistica edita nella letteratura francese, e
per le quali sarà quindi possibile ricorrere al più agevole strumento della
correzione, senza un inutile aggravio per la giurisdizione ordinaria (66).
10. – Nel presente saggio abbiamo tentato di dimostrare come, su un
piano teorico, si debba ritenere applicabile il procedimento disciplinato
dall’art. 95 D.P.R. 396/2000 alla domanda giudiziale della persona intersessuale volta ad ottenere una modificazione del prenome e del sesso
indicati nel suo atto di nascita.
Pur tuttavia, non ci sembra inutile, in questa sede, auspicare un intervento del legislatore italiano volto a regolamentare l’intera congerie di
interrogativi, per il vero piuttosto spinosi, che, ad oggi, la condizione
intersessuale solleva in ambito giuridico: si pensi alla possibilità – già
prevista, sia pur con sfumature piuttosto diverse, in alcuni ordinamenti
codice di procedura civile a confronto. Osservazioni., in Stato civ. 2005, 727; Arena, Osservazioni riguardanti la «correzione» degli atti dello stato civile anche alla luce di un notevole
apporto chiarificatore da parte della giurisprudenza, in Stato civ. 2004, 485; Id., Qualche
chiarimento in materia di rettificazioni e di correzioni degli atti di stato civile, in Stato
civ. 2003, 5; Id., Correzione da parte dell’ufficiale dello stato civile e rettificazione giudiziale:
quando l’una e quando l’altra, in Stato civ. 2007, 405; Coscia, Le problematiche degli artt. 95 e
98 del D.P.R. 396/2000 oscillanti tra rettificazioni e correzioni degli atti di stato civile, in Stato
civ. 2006, 899.
(66) Queste ipotesi di errore «grossolano, evidente, manifesto», in cui vi è assenza di
stato transessuale o intersessuale, sono ben enucleate, anche con riferimento a diversi casi
giurisprudenziali, da J.-P. Branlard, op. cit., n˚ 1793, 555, il quale peraltro ricorda anche il
caso di «errore volontario», ai limiti della frode, come quello verificatosi tra il 1806 e il 1816
nel comune di Fontaine, dove era stato dichiarato il sesso di ventuno individui (femminile
anziché maschile) con l’intenzione di sottrarre questi soggetti alla legge di reclutamento, sı̀
che in questi casi fu il Procuratore della Repubblica a promuovere il giudizio di rettificazione (in Francia infatti non vi era né tutt’oggi vi è un procedimento amministrativo equiparabile al nostro art. 98 D.P.R. 396/2000), per motivi di ordine pubblico (cfr. non vidi: T.
Poitiers, 9 mai 1843, S. 1846-2-462 e, per un altro esempio simile, Cass. 6 avril 1903, D.
1904.I-396).
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giuridici stranieri (67) – di indicare, in via provvisoria o finanche permanente, nell’atto di nascita, un «terzo sesso» o un sesso «indeterminato», in
armonia con il sesso biologico del neonato intersessuale e, in alcuni casi,
con l’identità di genere che esso svilupperà, talvolta non riconducibile –
cosı̀ come peraltro non lo è il «soma» – né a quella maschile né a quella
femminile; si pensi poi agli interrogativi che una scelta legislativa simile
solleva in ordinamenti giuridici, come quello italiano, caratterizzati da un
evidente e ineludibile binarismo sessuale (che emerge in molti ambiti del
diritto: tra i tanti, si pensi a quello previdenziale, a quello sportivo, a quello
penitenziario). Vi è poi, tra gli altri, il delicatissimo problema della liceità –
e delle conseguenze in ambito civile e penale – degli interventi chirurgici
cosmetici eseguiti sui neonati intersessuali, volti a ricondurne, sin dai primi
mesi di vita, l’aspetto anatomico al sesso maschile o a quello femminile,
interventi le cui conseguenze irreparabili – si pensi ad una riconduzione
chirurgica verso un sesso «sbagliato», poiché disallineato con l’identità di
genere che il neonato svilupperà in età puberale – e il cui abuso ingiustificato, spesso dovuto al mero timore di una stigmatizzazione sociale, sono
stati di recente duramente censurati dall’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (68). Vi è poi l’interrogativo relativo alla validità del matrimonio contratto da un soggetto intersessuale, già da molto tempo, per il
vero, oggetto di vivace disputa tra i giuristi del diritto canonico (69). Si
tratta di profili problematici che qui, naturalmente, possono essere soltanto menzionati, e che pur tuttavia sono sempre più oggetto di attenzione,
come si è visto, delle Corti, dei Parlamenti e della dottrina giuridica
straniera (70).
(67) Tra cui quello tedesco, a seguito dell’approvazione, in data 7 maggio 2013, da
parte del parlamento federale, della legge rubricata «Gesetz zur Änderung personenstandsrechtlicher Vorschriften (Personenstandsrechts-Änderungsgesetz – PStRĨndG)»; quello
francese, come si è visto al § 4, spec. nota 28, anche seguito della sentenza TGI Tours,
20 Août 2015, cit., 2295; quello australiano, a seguito della sentenza della High Court of
Australia NSW Registrar of Births, Deaths and Marriages v Norrie [2014] HCA 11 (2 April
2014); per tutti i rimandi alla dottrina comparatista, cfr. nota 2.
(68) Cfr.: Resolution 1952 (2013), ove si legge che l’Assemblea Parlamentare «is particularly worried about a category of violation of the physical integrity of children, which
supporters of the procedures tend to present as beneficial to the children themselves despite
clear evidence to the contrary. This includes, among others… early childhood medical
interventions in the case of intersex children»; v. anche, del pari: Recommendation 2023
(2013); entrambi gli atti sono pubblicati in Fam. e dir. 2014, 2, 171, con commento di
Falletti, Diritto dei bambini all’integrità fisica.
(69) Si veda, per tutti: Di Tullio, voce Ermafroditismo, in Noviss. dig. it., vol. VI, Torino
1960, 659.
(70) Cfr. nota 2.
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Per quel che qui più rileva, in ogni caso, è doveroso auspicare, de jure
condendo, una riforma in senso acceleratorio del procedimento di modifica
dell’atto di nascita per la persona intersessuale, in particolare nel caso in
cui l’interessato sia un soggetto maggiore di età. In questi casi la competenza a correggere l’atto potrebbe essere attribuita, noi riteniamo, direttamente all’Ufficiale di stato civile, al pari di quanto avviene oggi, come si è
visto, nelle ipotesi di errore materiale dell’atto ex art. 98 D.P.R. 396/2000
(ove viene sempre fatto salvo il controllo ex post da parte del Pubblico
ministero), o, su altro versante, nelle ipotesi di separazione e cessazione
degli effetti civili del matrimonio, ex art. 12, l. 162/2014, con il quale il
ruolo del Sindaco ha assunto importanza crescente al punto tale da scardinare il «dogma» del monopolio giurisdizionale rispetto alle sentenze
costitutive sugli status giuridici (71); ciò potrebbe avvenire, dunque, anche
in questo caso, mediante la presentazione di un’istanza ad hoc, necessariamente corredata dalla produzione di un’idonea e completa documentazione clinica, in modo tale che i costi, e i tempi, dell’attuale procedimento
giurisdizionale vengano del tutto eliminati.
GIACOMO CARDACI
Dottorando di ricerca nell’Università di Milano-Bicocca
(71) E infatti, gli effetti della separazione e del divorzio sono oggi ottenibili anche in
assenza di sentenza costitutiva, previo accordo tra i coniugi presentato direttamente all’Ufficiale di Stato civile, il quale è peraltro tenuto ad assolvere alcuni controlli di rilievo, non
solo formali (al riguardo, si v. Danovi, op. cit., 897).
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STORIA E CULTURA DEL PROCESSO
VITTORIO GREVI VERSO IL DIRITTO DELL’ESECUZIONE
PENALE (1)
1. – Non so davvero se ho fatto bene ad accettare il cortese invito a
prendere la parola nell’incontro di oggi. Ma ho ritenuto di dover compiere
un gesto, diciamo, di generosità – perché mi è costato e mi costa non poco
sul piano emotivo – per corrispondere, spero in modo non del tutto
inadeguato, al gesto di cortesia dell’invito.
Devo anzi ringraziare la nostra presidente di sessione, che di sua
iniziativa mi ha offerto una tutto sommato gradita possibilità: quella di
una sorta di rientro nell’Università di Pavia: la mia Università, nella quale
sono entrato, da matricola, nel lontano 5 novembre 1952, e dalla quale
sono uscito, da professore ordinario, con l’ultima lezione svolta nel maggio
dell’anno di grazia 1985, prima di passare a Milano.
Sono dunque trascorsi trent’anni: e parlo di rientro perché sono stati,
ex parte Universitatis, trent’anni di silenzio, nonostante non fossero mancate, nel corso del tempo, le occasioni e le possibilità di farmi interloquire,
e nonostante il persistere, da allora, della mia residenza a Pavia.
Ma tant’è. Del resto il non lontano Ticino ci ricorda, con qualche
pacatezza, il tema dell’oblio, dell’acqua passata. E il tema, dunque, dell’acqua che passa, inesorabilmente.
2. – Devo però anche dire, o confessare, che mi sono talvolta trovato a
chiedermi quali mai potessero essere le ragioni di questo continuato e
protratto silenzio, e, in definitiva, quali fossero i demeriti nei quali, fino
all’ultima lezione da professore ordinario, e magari anche dopo, fossi
(involontariamente) incorso.
Ad ogni modo, e trascurando tutto il resto, non penso proprio che si
possa ascrivermi a titolo di demerito il fatto d’aver accompagnato sei
laureati di questa gloriosa Università: dapprima, quando c’era, alla libera
docenza, e successivamente alla docenza, si fa per dire, non più libera ma
(1) Relazione svolta nell’aula Foscolo dell’Università di Pavia, in data 3 dicembre 2015,
nel corso del convegno intitolato: «1975-2015: 40 anni di Ordinamento Penitenziario dalla
cattedra di Vittorio Grevi» (a cura di L. Cesaris). Sono state ora aggiunte alcune note
esplicative.
Rivista di diritto processuale 3/2016
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rivista di diritto processuale 2016
vincolata e per davvero effettiva, che oggi s’usa chiamare di «prima fascia».
E se devo fare i nomi – ma io lo faccio ben volentieri – di questi allievi,
eccoli qui, nell’ordine: tre ghisleriani (ed era un pretender molto da un
borromaico come chi vi parla), e cioè Vittorio Grevi, Angelo Giarda,
Piermaria Corso, e poi tre, per cosı̀ dire, senza stemmi. E cioè Francesco
Peroni, che sarà poi Rettore a Trieste (il più giovane Rettore del tempo);
Giuseppe Bellantoni, nella lontana-vicina Calabria, e, da ultimo – anche
nel rispetto del criterio delle «quote rosa» – Daniela Vigoni, in procinto di
assestarsi, dopo avervi insegnato per diversi anni, su una cattedra milanese.
3. – Ma è ora tempo di fare punto e a capo, perché oggi il nostro
pensiero e, per cominciare, il mio, deve concentrarsi sul primo di questi
allievi; e primo – è appena il caso di accennarlo – non solo per ragioni
d’ordine accademico.
Più in particolare mi sembra di poter dire che il ripercorrere il curriculum di Grevi mi consente di affrontare in modo semplice il tema che mi
è stato affidato. In modo semplice quel curriculum, nelle sue diverse
articolazioni, nei suoi successivi passaggi, sembra infatti riflettere, in maniera emblematica, il non facile ma importante e suggestivo cammino
attraverso il quale lo stesso diritto dell’esecuzione penale si è venuto costituendo e faticosamente affermando come diritto. Un diritto, ben lontano dai remoti e mediocri livelli di rango regolamentare, e piuttosto fornito
e provveduto, e per cosı̀ dire corazzato, da una sua reale autonomia, da
una sua forza costitutiva di carattere ordinamentale.
4. – Ma veniamo a Vittorio Grevi.
Nato nel 1942, si laurea a Pavia, nel 1965, con il prof. Franco Bricola,
presentando una tesi importante, tanto più perché di non grande respiro
tematico: «La condanna del querelante alle spese e ai danni».
Una domanda dà l’avvio all’apertura di una parentesi: come mai il
sostanzialista Bricola fa da relatore di una tesi di procedura penale? La
risposta alla domanda ci sospinge a fare un passo indietro.
Per diversi anni, anche dopo il 1938 – che notoriamente vide l’affermazione dell’autonomia didattica della nostra materia rispetto al diritto
penale – nelle Facoltà di Giurisprudenza la procedura veniva insegnata dal
titolare di Diritto Penale. Cosı̀ fu, per diverso tempo, anche per il mio
maestro, il prof. Pietro Nuvolone (anch’egli, come Grevi, mancato ai vivi
all’età di 68 anni, nel 1985).
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vittorio grevi verso il diritto dell’esecuzione penale
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Ma, tornando a noi, era avvenuto che per il libero docente Bricola (che
sarà poi il fondatore della scuola penalistica bolognese) non si riusciva a
trovare un posto di incaricato. Fu allora che il comune maestro gli cedette,
con un gesto di generosità, il suo incarico. Avvenne cosı̀ che Bricola per
qualche tempo ebbe ad insegnare la Procedura penale, e in tal modo si
trovò a seguire e, quindi, a fare da relatore alla tesi di Grevi.
Ma quel relatore (sembra qui appropriato l’uso del presente storico)
finalmente ottiene poi l’incarico di Diritto penale a Sassari, e mi lascia
pressoché solo – pur mentre facevo l’incaricato di Procedura penale ad
Urbino – ad occuparmi del patrimonio bibliografico attinente al comparto
penalistico dell’Istituto Giuridico di Pavia, a quel tempo ancora «sine
nomine». Nel frattempo il maestro Nuvolone viene chiamato all’Università
degli Studi di Milano, ed a sostituirlo arriva da Trieste Cesare Pedrazzi. A
lui, anche avvocato di professione, ma non specificamente versato in studi
processualistici, secondo tradizione ritorna l’insegnamento anche della
Procedura Penale, ed in tale veste gli si presenta Grevi – già segnalatosi
per alcuni contributi apparsi su «Giustizia costituzionale» – che verrà
presto nominato assistente volontario.
È Pedrazzi che consiglia Grevi di utilizzare la borsa di studio, conferitagli dal Collegio Ghislieri, in quel di Torino, e cosı̀ – sotto la guida di
Conso – presso quella sede il giovane studioso compie un anno di noviziato (2).
Nel frattempo il sottoscritto, lasciando la cattedra di Trieste rientra a
Pavia, dove, a sua volta rientrato da Torino, l’assistente volontario Grevi
non può trovare un posto di ruolo, mancandone la disponibilità nell’organico. È allora che, per il generoso tramite del romanista di Facoltà, il prof.
Gabrio Lombardi, si riesce ad ottenere dal Ministero un posto di assistente
di ruolo alla Facoltà pavese di Scienze Politiche, dove era stato attivato il
corso di Istituzioni di Diritto e Procedura penale. Nel luglio 1969 Grevi
vince il relativo concorso, e diventa cosı̀ assistente di ruolo a Scienze
Politiche.
Ma il suo impegno di ricerca è ovviamente incentrato, sotto la guida di
chi vi parla (3), nell’Istituto della Facoltà di Giurisprudenza.
(2) Nel Ricordo di Vittorio Grevi, ghisleriano, scritto dal presidente del Collegio Ghislieri Bernasconi come introduzione al vol. I, t. I, dei suoi Scritti sul processo penale e
sull’ordinamento penitenziario, 2011, p. XIX, per Grevi «l’anno trascorso alla scuola torinese
è stato molto importante per la sua formazione».
(3) In un lungo, ed infelice, necrologio – Conso, Addio a Vittorio Grevi: cronaca [?] di
un evento struggente, in Riv. ital. dir. e proc. pen. 2011, pp. 381 ss. – l’estensore di queste
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rivista di diritto processuale 2016
Ancor prima, però, del rientro pavese del sottoscritto, Grevi mi aveva
raggiunto nello studio professionale di Via Belli, dove ero affiancato a
Virginio Rognoni – che qui vedo presente, e lo ringrazio – e mi aveva
chiesto che io leggessi, ed esaminassi, il dattiloscritto del suo primo lavoro
monografico, dedicato all’impugnazione da parte del genitore dell’imputato.
5. – Poco dopo Grevi presenta domanda per l’abilitazione alla libera
docenza in Procedura penale nella sessione dell’anno 1969. Va precisato
che presidente della Commissione di concorso sarà Giovanni Leone, e che
gli altri commissari erano Sabatini, Pisani e Molari, oltre a Fulci in rappresentanza dei liberi docenti (4).
Alle pp. 7-8 del verbale della Commissione si riportava il «medaglione» del candidato Grevi. Ne riferisco la parte principale: «La produzione
del candidato ed in particolare la citata monografia («Imputato minorenne
e impugnazione del genitore») rivelano particolarissima vocazione alla
ricerca, vivacità d’ingegno, rigore di metodo, chiarezza ed incisività di
espressione, felice sintesi tra l’indagine storico-comparativa e l’impostazione sistematica degli istituti, capacità di diffondere l’indagine ad altri settori
della scienza giuridica» (5).
Passa poco tempo, e Grevi presenta domanda per il concorso a cattedra in Procedura penale bandito dall’Università di Urbino. Si tratta dell’ultimo concorso nel quale – come per gli altri, coevi – i componenti delle
Commissioni vengono votati dai colleghi (alle votazioni partecipano tutti i
colleghi di tutte le Facoltà di Giurisprudenza), e si segue il tradizionale
criterio, limitativo e strettamente concorsuale, della terna.
pagine è stato presentato come (semplice) «predecessore» del defunto sulla cattedra pavese
di Procedura penale (cfr. anche infra, nel testo).
(4) In data 8 aprile 1971, quest’ultimo scriverà, da Messina, all’autore di queste pagine:
«(…) Sono davvero lieto dell’occasione che mi è stata data di conoscerti meglio, anche come
persona». E – ciò che più conta – lo scrivente cosı̀ concludeva: «… non può sorprendere
che dalla tua scuola escano giovani tanto seri e bravi come i tuoi allievi» (si riferiva ai
candidati Giarda e Grevi).
(5) Oltre che a Grevi, una posizione di particolare risalto ai fini del concorso viene del
pari riconosciuta ai candidati Dominioni, Giarda e Guariniello. Il secondo di essi cosı̀
scriveva, l’8 aprile 1971, all’autore di queste pagine: «(…) in questi giorni Lei ci ha più
volte invitati a scrivere ai Professori che ci hanno esaminato, ma sento personalmente il
bisogno di ringraziare di vero cuore soprattutto Lei per il prezioso aiuto morale e materiale
che in questi ultimi anni Lei mi ha dato con tanta generosità. Sono molto contento che i
Commissari siano stati soddisfatti di Grevi e di me, perché in tal modo si è potuto constatare
con quanta valentia e scrupolosità Lei ci segue.
Con un vivo rinnovato ringraziamento, Le porgo ecc.».
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vittorio grevi verso il diritto dell’esecuzione penale
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Alla presidenza della Commissione gli eletti – Sabatini, Marcello Gallo, Pisapia e Pisani, segretario – nomineranno, com’era ovvio, Giacomo
Delitala. Questi saranno, alla data del 18 dicembre 1971, i risultati finali
dei lavori della Commissione: 5 voti, per il 1˚ posto, ad Amodio; 4 voti, per
il 2˚ posto, a Barosio, con 1 voto per Grevi; 3 voti, per il 3˚ posto, a De
Lalla, con altri 2 voti per Grevi. Il quale ultimo, di anni 29, non vince il
concorso, ma riporta una valutazione di vivo apprezzamento.
6. – A parte ciò, come anticipazione di quel risultato lusinghiero, la
Facoltà di Giurisprudenza di Pavia conferisce a Grevi l’incarico di Criminologia, in precedenza offerto, a tutti gli studenti interessati, presso la
Facoltà di Medicina, col nome e gli inveterati contesti della Antropologia
criminale. In capo a questa nuova fase – e non certo su proposta degli
economisti o degli storici – la Facoltà colloca Grevi: il quale dunque – e
per questo si parlava di successivi passaggi di formazione e di esperienza,
anche di insegnamento – si porta, dopo i campi del processo e del diritto
penale, sul comparto, per cosı̀ dire antropocentrico, se non proprio valoriale, della criminologia. (Una materia della quale il nostro resterà docente
incaricato fino al 1975, cioè fino alla chiamata pavese come straordinario
di Diritto dell’esecuzione penale).
Dopo la Criminologia, più tardi si aprirà, per lo studioso che qui
onoriamo, un incarico più gratificante ed appropriato: l’incarico di Procedura penale alla Facoltà di Scienze politiche di Macerata, dove Grevi si
fermerà, facendo il pendolare da Pavia, per qualche tempo (6).
7. – Nella primavera del 1974 cominciava a dispiegarsi l’ancor debole
forza del destino che alla fine doveva – in verità, assai più tardi – sfociare
in un nuovo Codice di Procedura penale.
Adolfo Beria, capo di Gabinetto del ministro della giustizia, mi chiede
«qualche nome» per comporre la Segreteria Scientifica, che poco dopo si
(6) Al riguardo mi sia consentito di ricordare una lettera (del 17 gennaio 1972),
dell’amico, e oggi giudice della Corte costituzionale, Paolo Grossi: «… Vengo al contenuto
del tuo espresso. Anche se non ho più molti amici a Macerata (che è tanto diversa da quella
che io conobbi) sono a tua completa disposizione per aiutare il tuo allievo prof. Grevi; sappi
che puoi contare su tutte le mie forze, ohimé povere e poche. Ho già parlato della cosa al
prof. Santarelli, straordinario di storia di diritto italiano a Macerata e unico «fiorentino»
della Facoltà. Dopo la presentazione che mi sono permesso di fare della tua eccellenza di
scienziato e di maestro, Egli si è dichiarato lieto di mettersi a tua disposizione. Non sarebbe
male che il prof. Grevi mi telefonasse in modo da concordare tutto il processo d’azione e
magari una sua visita a Firenze al Collega Santarelli. Con altri membri della Facoltà maceratese ecc.».
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rivista di diritto processuale 2016
fonderà con la Commissione redigente del Codice. Di nomi ne faccio uno
solo; ed è ora inutile dire quale nome io abbia fatto.
8. – Nel 1975 si apre una nuova possibilità di concorso a cattedra. Nel
«Boll. ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione – suppl. n. 1 del
1976, p. 5 ss.», leggiamo la «Relazione della Commissione giudicatrice del
concorso n. 12 a posti di professore universitario - 1ª disciplina indicata
nel gruppo: Procedura penale» (7).
Riportiamo le valutazioni espresse nei confronti del candidato Grevi:
«La Commissione è unanime nel sottolineare la particolare alacrità scientifica, la varietà degli interessi culturali e le eccellenti attitudini sistematiche del candidato, che si rivelano in tutti gli scritti, compresi quelli dedicati al Diritto penitenziario e al Diritto dell’Esecuzione penale (8). Ritiene
pertanto unanimamente il candidato meritevole di considerazione ai fini
del presente concorso».
Pure all’unanimità verranno approvati altri quattro candidati (non ci
sono più le «terne»), in ordine alfabetico: Dominioni; Galati; Grevi, per
l’appunto; e poi Nobili e Scaparone (9).
9. – Ma intanto, la materia dell’Esecuzione penale si era fatta strada
nella Facoltà di Giurisprudenza di Pavia.
Dai relativi verbali risulta, con riferimento alla seduta del 19 dicembre
1973: «(…) Viene richiesta l’assegnazione di sette posti di professore di
ruolo per l’a.a. 1973/74 da assegnarsi senza ordine di graduatoria ai seguenti insegnamenti indicati in ordine alfabetico: Diritto civile dei Paesi
socialisti – Diritto Commerciale – Diritto dell’esecuzione penale – Diritto
penale commerciale, ecc.».
Perché «Diritto dell’esecuzione penale»? Perché si riteneva (si era
ritenuto) che quella di «Diritto penitenziario» fosse, al di là di un’antica
e rispettabile tradizione, indicazione programmatica antiquata, e designazione a portata circoscritta, come di una parte (sia pure assai considerevole) rispetto al tutto. Antiquata perché nascondeva, per logica di simmetria rispetto alla nozione di «penitenza», la remotissima ed inveterata
nozione del «peccato» – basterà leggere il De ira di Seneca, e le evocazioni,
(7) Nella prima riunione del 19 maggio 1975, la Commissione risulterà cosı̀ composta:
De Luca, presidente; componenti: M. Massa, Somma, Amodio, Gianniti segretario.
(8) La Commissione sembrava cosı̀ voler trattare i due come settori distinti.
(9) Gli atti del concorso verranno approvati con d.m. 1˚ agosto 1975 (Grevi ha 33
anni).
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vittorio grevi verso il diritto dell’esecuzione penale
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in tema di giustificazione della pena detentiva, tratte da Platone: quia
peccatum est; ne peccetur – quando invece tutta l’impostazione classica
del pensiero penalistico, da Beccaria in poi, porta a tenere ben distinti il
peccato dal delitto.
(Non si vuole qui, ora, ingrandire la questione, anche perché la designazione penitenziaria può pure essere accettata, non foss’altro a guisa di
metafora. Quello riferito poco sopra era però il pensiero, avant-lettre, dei
proponenti).
Ma andiamo oltre, per dar conto che, nella seduta del 2 aprile 1974 si
dava la bella notizia che tutti i sette posti di ruolo richiesti erano stati
assegnati, cosicché la Facoltà era chiamata «ad adottare i provvedimenti
necessari per la loro destinazione e copertura». Veniva quindi varata anche
la destinazione di una cattedra per il Diritto dell’esecuzione penale, e
decisa la copertura per concorso.
Nella successiva seduta dell’11 luglio 1975, a proposito dei provvedimenti relativi alle cattedre messe a concorso, si fa risultare che Grevi,
vincitore del concorso n. 12 (prima disciplina del gruppo: Procedura
penale), aveva inoltrato domanda per la chiamata. Il verbale cosı̀ continua:
«Su proposta del prof. M. (…) P. (…), il quale richiama all’attenzione del
consiglio le doti di studioso e di docente di Vittorio Grevi, autore di
pregevoli scritti e già da vari anni incaricato nella Facoltà, il Consiglio, a
voti palesi e all’unanimità, delibera di chiamare il prof. V.G. a coprire la
cattedra» (10).
10. – Ma il mio tema era – ed è – «Vittorio Grevi verso il Diritto
dell’esecuzione penale». E appunto qui, all’incirca, deve dunque finire il
mio excursus, per lasciare la parola a Laura Cesaris, cioè al suo Ricordo di
Vittorio Grevi, quale «penitenziarista», pubblicato sulla Rassegna penitenziaria e criminologica n. 3 del 2010 (p. 5 ss.).
Sembra appena il caso di dire «verbo non ci appulcro», e se mai, posto
che si tratta di uno scritto del 2010, di aggiungere soltanto qualche brevissimo ragguaglio di aggiornamento bibliografico.
Il primo: per menzionare la 4ª edizione del poderoso volume in due
tomi, Ordinamento penitenziario commentato, del 2011, a cura di Franco
della Casa; anche perché nella premessa si ricorda che, di quell’opera, il
(10) Per ragioni di carattere formale (l’ottima predisposizione per l’iniziativa deve aver
portato a far dimenticare che la copertura della cattedra in questione era stata in precedenza
decisa a titolo di concorso, e non di chiamata diretta) la precedente delibera verrà «reiterata» – nella seduta del 10 ottobre 1975 – con l’identica e succinta motivazione.
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rivista di diritto processuale 2016
nostro era stato, oltre che l’ideatore, anche lo scrupoloso e competente
supervisore.
Un secondo ragguaglio: nel vol. III della raccolta degli Scritti di Grevi,
sempre edito dalla Cedam, nel 2012, e tutti concernenti l’ordinamento
penitenziario, l’ultimo di quegli scritti, dedicato al tormentoso tema dell’art. 41-bis, Grevi aveva voluto amabilmente dedicarlo a chi vi parla – e si
accinge a concludere – nella raccolta che l’Università di Milano gli aveva
offerto a fine carriera (11).
11. – E vado a concludere, perché su Vittorio Grevi, «penitenziarista»,
e processualista, e tant’altro, a questo punto delle nostre reminiscenze
rievocative e nostalgiche sopravviene, improvvisa ed imprevista, l’ombra
della morte. La morte che, però, resta presto superata e dissolta, nel
ricordo, dalla pienezza – per le intenzioni e per gli esiti – della vita di
lui (12): una vita tutta attraversata, come per ogni vero giurista militante,
da un continuo inesauribile impegno di ricerca, e da una sottile, tenace e
feconda ansia di giustizia e di verità.
MARIO PISANI
(11) Si tratta dello studio intitolato In tema di presupposti per la proroga del regime
carcerario differenziato ex art. 41-bis ord. penit., in Studi in onore di Mario Pisani, vol. III,
Piacenza 2010, p. 71.
(12) Per un suo «ricordo» v. Kostoris, in questa Rivista 2011, p. 377.
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DIBATTITI
LA DECISIONE NEL PROCESSO DEL LAVORO
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Sentenza definitiva e sentenze parziali su questioni di rito e
di merito. – 3. Formazione della sentenza e suoi vizi peculiari. – 4. Peculiarità nelle
pronunce di condanna. – 5. Rapporti tra le ordinanze di cui all’art. 423 c.p.c. e la
decisione definitiva.
1. – Il processo del lavoro, come ogni percorso a cognizione piena che
si ponga al servizio della funzione dichiarativa, ossia dell’accertamento di
qual è il diritto nel caso concreto, giunge, dopo la definizione dell’oggetto
da decidere, la perimetrazione delle questioni da trattare e l’eventuale
istruzione probatoria, se i fatti rilevanti sono controversi e, non sembrando
sufficienti le prove precostituite prodotte, vi sono mezzi di prova costituendi che il giudice ritenga di ammettere, alla definizione del giudizio con
la decisione della causa.
Ci prefiggiamo in questo scritto il compito di mettere in luce alcune
peculiarità che emergono nel rito lavoro, rispetto al rito ordinario, nella
fase decisoria. Si tratta di analizzare il contenuto delle possibili sentenze, il
procedimento di formazione delle sentenze, nonché alcuni peculiari contenuti ed effetti della decisione assunta (1).
2. – Al termine di un percorso che si spera assai rapido il giudice, visto
l’art. 429 c.p.c., quando ritiene che la causa sia matura per la decisione,
invita le parti alla discussione ed alla precisazione delle loro conclusioni e
quindi definisce il processo con la pronuncia di una sentenza che, come
tutte le sentenze, consta di due parti: il comando concreto (il dispositivo) e
la sua giustificazione (la motivazione). Queste due parti possono rimanere
legate, leggendo il giudice in udienza dispositivo e motivazione, oppure
possono essere slegate, leggendo il giudice subito il dispositivo, per poi,
successivamente, depositare la motivazione.
Fermo restando che su questo iter formale e sui suoi possibili vizi
torneremo, si deve prima e preliminarmente verificare se nel rito del lavoro
siano concepibili sentenze parziali su questioni, come tali immediatamente
appellabili, salvo riserva.
(1) Resterà fuori dalla trattazione quella particolare sentenza parziale che è disciplinata
nell’art. 420-bis c.p.c., che potrebbe essere oggetto di un’autonoma trattazione.
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rivista di diritto processuale 2016
Nel rito ordinario, visti gli articoli 187 e 279 c.p.c. sono possibili
sentenze parziali su questioni di rito o su questioni di merito. Esse rappresentano, in fondo, un frutto patologico del processo, perché emergono
dal mancato funzionamento di un meccanismo che invece vorrebbe essere
di economia processuale. Accade che la causa, rimessa interamente in
decisione sulla base, però, di una sola questione che sia stata, in via di
delibazione, ritenuta idonea a definire il giudizio nel senso del rigetto della
domanda, non possa invece essere decisa in via definitiva perché l’organo
della decisione ritiene di risolvere quella certa questione in modo opposto
a quanto in precedenza delibato dall’organo della trattazione-istruzione.
Cosı̀ egli pronuncia una sentenza parziale, perché non definitiva del grado
di giudizio, su quella questione ed un’ordinanza con cui fa regredire il
processo affinché la causa sia trattata ed istruita in modo completo.
Rimessa in decisione la causa perché si ritiene che manchi un presupposto processuale, e quindi che la domanda debba essere rigettata in rito,
si finisce, invece, per affermare la sussistenza di quel presupposto e, quindi, pronunciata sentenza parziale su di esso, si rimette in istruttoria la
causa sul resto, essendosi il giudice spogliato del potere di tornare su
quella questione, la cui decisione sarà rivedibile solo in sede d’impugnazione.
Rimessa in decisione la causa perché si ritiene fondata una certa eccezione di merito, e quindi che la domanda debba essere rigettata in merito,
si finisce per negare la fondatezza di quella eccezione e cosı̀, pronunciata
una sentenza solo su detta questione, rivedibile anch’essa unicamente in
fase d’impugnazione, si fa regredire il processo per istruire completamente
la causa.
In entrambi i casi accade che, se il percorso poteva durare poco e
semplificarsi per la possibilità di decidere la causa avendo istruito solo una
delle tante questioni rilevanti, invece il processo si complica, perché il
giudice pronuncia una sentenza solo su quella questione, con una duplice
conseguenza negativa: a) che si è perso tempo per la rimessione in decisione ed altro se ne perderà per la prosecuzione del processo, b) che quella
sentenza, con la quale, si ripete, il giudice si spoglia del suo potere decisorio, non sulla causa ovviamente, bensı̀ sulla questione posta in gioco, è
immediatamente appellabile, cosa che, se l’interessato non fa riserva, può
comportare una frantumazione del giudizio a causa della immediata pendenza del giudizio d’appello e magari anche una sospensione del giudizio
di primo grado.
Questo meccanismo opera anche nel processo del lavoro?
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la decisione nel processo del lavoro
723
La risposta non è del tutto chiara e comunque, anche in caso di
risposta affermativa, da più parti si ritiene che esso debba subire alcune
correzioni nel momento in cui è trasferito nell’ambiente processuale che
ora ci occupa.
Che esso operi in riferimento alle questioni di rito, ossia a quelle che
attengono alla sussistenza dei presupposti del processo, pare certo, vista la
previsione dell’art. 420, comma 4˚, c.p.c. Ma non è pacifico, però, il modo
in cui debba essere intesa questa previsione.
Alcuni ritengono che con essa il legislatore abbia voluto imporre al
giudice del lavoro, che si trovi di fronte ad un’eccezione attinente alla
carenza di un presupposto processuale, comunque e sempre una decisione
immediata: con sentenza definitiva in caso di accoglimento e con sentenza
parziale in caso opposto (2). Ma, francamente, a me pare che abbiano
ragione coloro che, invece, richiamano qui lo stesso meccanismo che vige
nel rito ordinario (3), perché l’idea che le questioni pregiudiziali di rito
debbano trovare sempre e comunque una loro definizione in limine litis
parrebbe contraria alle esigenze di economia processuale e non necessitata
dalla previsione di cui all’art. 420, comma 4˚, c.p.c.
Invero, non si vede per quale ragione il giudice del lavoro dovrebbe
rimettere in decisione sulla base di una questione di rito che si ritenga
infondata, con la consapevolezza di perdere tempo sul percorso che lo
deve portare alla definizione della lite e con il rischio di un’impugnazione
immediata della sentenza parziale e conseguente frammentazione del processo, eventualità non certo auspicabile.
Ciò, evidentemente, significa accettare anche due corollari.
Il primo: che il giudice, se poi in sede di decisione ritiene di rigettare
l’eccezione e cosı̀ affermare la sussistenza del presupposto processuale
messo in gioco, non può pronunciare un’ordinanza, dovendo egli pronunciare una sentenza, con la quale si spoglia del potere decisorio sulla questione.
Il secondo: che la scelta del giudice di accantonare la questione, perché in via di delibazione ritenuta non idonea a definire il giudizio, e di
rinviarne la decisione al momento della pronuncia della sentenza definiti-
(2) Cosı̀ Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano 1987, p. 177-178. Anche in
parte della giurisprudenza, per la quale vedi Cass., 23 gennaio 1984, n. 552, in Dejure; Cass.
(sez. un.), 8 gennaio 1992, n. 117, in Foro it. 1992, I, 3032.
(3) Luiso, Il processo del lavoro, Torino 1992, p. 232-233. Anche in altra parte della
giurisprudenza, per la quale vedi Cass., 7 settembre 1993, n. 9389, in Dejure e Cass., 16
novembre 2010, n. 23112.
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va, non può essere, se cosı̀ si può dire, minata alla radice da qualche altro
meccanismo, come ad esempio quello che può emergere dalla messa in
campo del concetto di pronuncia implicita. Qui ha ragione chi (4) ha detto
che nell’ordinanza con cui il giudice dispone per l’istruttoria e quindi per
la prosecuzione del giudizio, accantonando la questione di rito, non vi è
mai alcuna decisione implicita della questione stessa, magari di rigetto di
essa, anche se magari il giudice può aver svolto argomentazioni nella detta
ordinanza avverso l’accoglibilità della questione. In tal caso si ha solo la
scelta di non decidere e di accantonare la questione, la decisione della
quale viene rinviata alla sentenza finale, nella quale, fra l’altro, il giudice
ben potrebbe ripensare alla sua precedente delibazione e cosı̀ rigettare in
rito la domanda proprio sulla base di quella stessa questione di rito (5).
Invero, la tesi contraria è assurda perché: 1) indebolisce il contraddittorio tra e con le parti, le quali devono sapere con chiarezza rispetto
all’esercizio di quale potere del giudice esse devono interloquire; 2) vanifica la possibilità per il giudice di scegliere tra il decidere immediatamente
la questione e l’accantonarla, perché di fatto nell’accantonarla si vedrebbe
la decisione implicita di rigetto della questione, anche dando alla parte
maliziosa il potere di complicare le cose. Si pensi, ad esempio, all’eventualità che, trattandosi di questione di competenza, quella parte maliziosa
sfrutti la possibilità di proporre subito regolamento di competenza al fine
di ottenere una sospensione del processo.
Rispetto alle questioni di merito il quadro si complica maggiormente.
Secondo una parte della dottrina il citato art. 420, comma 4˚, c.p.c.
varrebbe solo per le questioni di rito, con la conseguenza che nel rito del
lavoro non sarebbero ipotizzabili sentenze parziali di merito, conclusione
che sarebbe coerente con l’impianto del processo del lavoro, imponendo la
legge di istruire in modo completo tutte le questioni prima di passare alla
decisione (6).
Secondo la giurisprudenza, invece, la citata disposizione non può essere interpretata restrittivamente, per cui nel processo del lavoro sarebbero ipotizzabili sia sentenze parziali di rito sia sentenze parziali di merito (7).
(4) Luiso, Il processo del lavoro, cit., p. 234-235.
(5) Ipotesi possibile, nella quale pure, ovviamente, il meccanismo di economia processuale non ha funzionato, perché vi è stata una trattazione-istruzione tanto completa quanto
inutile.
(6) Cosı̀ Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano 1975, p. 180; Raiti, Concentrazione, speditezza e sentenze non definitive nel processo del lavoro, in Riv. dir. proc. 1991, p.
448 ss., spec. p. 463.
(7) Cass. 10 giugno 2003, n. 9265, in Dejure; Cass. 23 gennaio 1998, n. 640, in Dejure.
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la decisione nel processo del lavoro
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Tra queste due opposte posizioni se ne pone una intermedia, che
vorrebbe essere di mediazione. Si è detto: se anche nel rito lavoro si deve,
per ragioni di economia processuale, dare la possibilità al giudice di rimettere in decisione sulla base di una sola questione di merito, risparmiando il tempo necessario all’istruzione relativa alle altre questioni, è anche
vero che il modo di operare di questo meccanismo deve avere tecnicamente una sua peculiarità nel processo del lavoro, che la differenzi dal modo di
operare di esso nel rito ordinario. Questa peculiarità starebbe nel possibile
esito per l’eventualità che in fase di decisione venga smentita la precedente
delibazione: se nel rito ordinario il giudice deve pronunciare una sentenza
parziale sulla questione, nel rito del lavoro, invece, egli pronuncia una
ordinanza, con quale non viene pregiudicato un, possibile, successivo
ripensamento sulla medesima questione quando il giudice andrà a pronunciare la sentenza definitiva (8).
Ma francamente a me pare che questa proposta di mediazione sia, per
cosı̀ dire, un po’ troppo creativa. Invero, delle due l’una: o si ritiene che il
meccanismo in parola non abbia diritto di cittadinanza nel processo del
lavoro oppure, affermando il contrario, non si vede in base a cosa lo si
dovrebbe diversificare in un suo punto qualificante rispetto a rito ordinario. E poiché a me sembra che il meccanismo in parola possa e debba
operare anche di fronte al giudice del lavoro, perché, se è ben possibile in
astratto che la causa possa essere decisa sulla base di una sola questione,
non si vede la ragione per cui, nonostante l’approntamento di un modello
legislativo rapido e snello del percorso processuale in oggetto, si dovrebbe
comunque imporre al giudice un’attività istruttoria completa su tutte le
questioni rilevanti in causa, evidentemente se ne devono trarre tutte le
conseguenze.
Tra queste si deve allora annoverare anche la regola ordinaria per cui il
giudice, smentendo in fase decisoria la precedente delibazione fatta sulla
questione di merito, debba a questo punto, però, decidere su di essa e non
porre in campo in fondo una nuova delibazione da lui stesso ancora
successivamente rivedibile, cosa che accadrebbe se gli si desse l’opportunità di pronunciare solo un’ordinanza. Insomma, postosi sul percorso in
oggetto, il giudice dovrà sempre pronunciare una sentenza: definitiva, con
la quale si spoglia del potere di decidere la causa, o non definitiva (ad
esempio negando la prescrizione del diritto fatto valere), con la quale si
(8) Tarzia, op. cit., p. 179-180; Luiso, Il processo del lavoro cit., p. 237-238.
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spoglia del potere di decidere, non tutta la causa, ma certamente quella
certa questione.
Infine resta un ultimo dubbio, da alcuni messo a fuoco trattando delle
questioni di rito, ma che, se fondato, dovrebbe valere per tutte le questioni. Si è detto: posto che l’art. 420, comma 4˚, c.p.c. dispone che il
giudice invita le parti alla discussione sulla questione pregiudiziale, evidentemente nel rito lavoro la rimessione in decisione diciamo cosı̀ anticipata, ossia senza una completa istruzione su tutte le questioni rilevanti in
causa, riguarda solo quella certa questione che è stata ritenuta idonea a
definire il giudizio e non la causa, come avviene nel rito ordinario, con la
conseguenza che appunto in decisione il giudice o definisce la causa ritenendo fondata la questione che aveva provocato la rimessione oppure
certamente dispone la regressione del processo, non potendosi mai decidere la causa magari sulla base di altra e diversa questione che pure appare
dalle carte non bisognosa di prova ed altrettanto idonea a definire il
giudizio (9).
Francamente questa conclusione non sembra necessitata dalla lettera
della norma riportata, che non parla di un invito delle parti alla discussione sulla sola questione pregiudiziale, affermando solo che l’invito alla
discussione è originato dall’insorgenza di una simile questione, senza
con ciò limitare l’oggetto della discussione a quella sola questione e tantomeno escludere che l’oggetto della discussione sia sempre la causa. Ed
anzi, se si prende la lettera dell’art. 187 c.p.c., in cui si parla di una
«decisione separata» della questione ritenuta idonea a definire il giudizio,
l’idea che tale rimessione «anticipata» devolva in decisione la causa solo
nei limiti della questione che l’ha provocata potrebbe sostenersi più nell’ambito del rito ordinario piuttosto che nell’ambito del rito lavoro.
Ed, allora, se giustamente gli interpreti hanno aggiustato la lettera
dell’art. 187 c.p.c., perché una diversa lettura sarebbe antieconomica, a
me pare che lo stesso aggiustamento, peraltro meno visibile, vada fatto nel
processo del lavoro. Il giudice che rimette in decisione la causa, la rimette
tutta per quello che si può. Cosı̀, è possibile che la domanda sia immediatamente decisa in modo definitivo sia sulla base della questione già
delibata sia sulla base di altra questione, a cui magari nessuno aveva
pensato prima, ma che in decisione può invece apparire appunto decisiva.
L’importante è che su di essa si sia avuta la possibilità di discutere.
(9) Luiso, Diritto processuale civile. IV. I processi speciali, Milano 2015, p. 68-69.
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la decisione nel processo del lavoro
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3. – La decisione della causa presuppone le conclusioni delle parti, alla
fine di una discussione orale, e consiste nella pronuncia della sentenza con
lettura del dispositivo in udienza, alla quale può aggiungersi anche l’immediata lettura della motivazione, la cui stesura, però, può essere rinviata,
in caso di particolare complessità della lite, stabilendo il giudice un termine non superiore a sessanta giorni per il suo deposito. Questa attività può
avvenire all’udienza in cui il giudice ha esaurito la trattazione-istruzione
oppure ad un’udienza successiva, a cui il giudice, su richiesta delle parti,
può rinviare dando termine alle parti stesse per depositare previamente
memorie difensive. Insomma, è possibile che tra la fine dell’attività istruttoria e la fase decisoria vi sia una pausa di riflessione, sempre che il giudice
ed almeno una parte la ritengano opportuna (10).
Questo modulo procedimentale, descritto nell’art. 429 c.p.c., ha dato
adito a diversi dubbi e precisazioni formali, in ordine al suo svolgimento e,
quindi, inevitabilmente in ordine alle conseguenze da collegare alla violazione delle previsioni sommariamente descritte.
Innanzitutto si è detto che nel rito del lavoro mancherebbe ciò che nel
rito ordinario è chiamata la precisazione delle conclusioni, negazione che si
dovrebbe ricavare dal rilievo per cui le posizioni delle parti sono qui
cristallizzate negli atti introduttivi (11). Ma l’assunto, se è condivisibile
ove con esso si voglia far emergere l’idea che non si debba celebrare
un’apposita udienza di precisazione delle conclusioni, potendosi passare
alla discussione e alla decisione in ogni udienza (12), non lo è altrettanto
se, invece, con esso si vuole negare la sussistenza in sé della precisazione
delle conclusioni, negazione che non può né fondarsi sulla lettera dell’art.
429 c.p.c. né derivare dal richiamato sistema di preclusioni.
Non su quella perché nella norma citata si parla pure di conclusioni
delle parti e non si vede a cosa questo dovrebbe riferirsi se non a quella
stessa attività che nel rito ordinario si svolge a norma dell’art. 189 c.p.c. Né
(10) Ferma la valutazione del giudice, sembra che sia sufficiente la richiesta anche di
una sola parte: cosı̀ Tarzia, op. cit., p. 192; Luiso, Il processo del lavoro cit., p. 239-240.
Peraltro su questo tema la C.S. ha detto che la concessione del termine per il deposito di
memorie scritte rientra in una scelta discrezionale ed insindacabile del giudice: Cass. 3 luglio
1981, n. 4325, in Dejure, aggiungendo che, comunque, il deposito di memorie difensive non
autorizzate, in violazione del secondo comma dell’art. 429 c.p.c., non provoca alcuna nullità,
derivandone solo l’inutilizzabilità di quanto esposto nelle dette memorie: cosı̀ Cass. 3 giugno
1985, n. 3310, in Dejure.
(11) Fabbrini, op. cit., p. 182. In giurisprudenza Cass. 12 dicembre 2003, n. 19056, in
Dejure; Cass. 24 aprile 2006, n. 9235, in Dejure; Cass. 26 febbraio 2008, n. 5026, in Dejure;
Cass. 2 ottobre 2014, n. 20820, in Diritto & giustizia 2014, con nota di Valerio.
(12) L’idea emerge ad esempio in Cass. 24 aprile 2006, n. 9235 cit.
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si potrebbe dire che qui le conclusioni si riferirebbero alle argomentazioni
delle parti, perché è evidente che esse sono spese prima, ossia nella discussione orale, ovvero, nell’eventualità che si conceda quella pausa di
riflessione appena sopra ricordata, prima nelle note difensive scritte e
poi ancora ribadite nella successiva discussione orale.
Ma l’assenza di una precisazione delle conclusioni in senso proprio
non è neanche giustificata dal rigido sistema delle preclusioni nel rito
lavoro. Ciò per due ragioni: a) perché la rigidità di cui si parla non è
assoluta, pur potendosi avere delle variazioni successive agli atti introduttivi, quantomeno quelle derivanti dalla dialettica del contraddittorio tra le
parti e tra queste ed il giudice; b) perché comunque le conclusioni finali
potrebbero pur, per cosı̀ dire, ridursi rispetto a quanto chiesto negli atti
introduttivi.
La verità, allora, è che anche nel rito lavoro si ha una precisazione
delle conclusioni. Ma, come avviene nel rito ordinario, è anche vero che
queste non sono necessarie, perché in caso di loro mancanza, lungi dal
prospettarsi una nullità, s’intendono assunte le precisazioni delle conclusioni già svolte negli atti introduttivi.
Problemi che a me sembrano più seri derivano dai rapporti tra discussione, lettura del dispositivo e stesura della motivazione. Dal telaio
dell’art. 429 c.p.c. sembra emergere il rilievo per cui la discussione orale
e la lettura del dispositivo non siano staccabili l’una dall’altra, mentre la
stesura della motivazione può essere rinviata, quindi staccata dalla lettura
del dispositivo.
Seguendo il primo rilievo, se ne ricava la sostanziale inutilità della
discussione orale (13), perché il giudice, dovendo decidere la causa immediatamente dopo aver ascoltato l’argomentare delle parti, evidentemente
giunge all’udienza preparato, la qual cosa significa che vi giunge con il
dispositivo «già in tasca», senza aver prima ascoltato quelle argomentazioni che solo successivamente gli saranno note. Cosı̀ la discussione orale
della causa finisce per risolversi nella celebrazione di un rito formale e
vuoto (14).
Peraltro, a questa sconfortante conclusione si potrebbe non giungere
se si volesse, ma solo un po’, forzare la previsione normativa negando che
(13) Peraltro in giurisprudenza si afferma che la mancanza della discussione orale non
provoca una nullità (Cass. 12 novembre 2998, n. 11458, in Dejure) e che la mancata
partecipazione di una parte ad essa non impedisce la decisione (Cass. 24 aprile 2004, n.
7866, in Dejure).
(14) Luiso, Il processo del lavoro, cit., p. 241.
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la decisione nel processo del lavoro
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il giudice debba sempre dare lettura del dispositivo immediatamente dopo
la discussione orale. Questa è l’idea della giurisprudenza (15), che, se può
apparire criticabile agli occhi di un rigido lettore della legge, ha però il
pregio di restituire valore a quella discussione, costruendo la non peregrina ipotesi di un’udienza, quella disciplinata dall’art. 429, comma 1˚, c.p.c.,
che, se concettualmente deve contemplare una serie di attività, tuttavia,
temporalmente, non deve necessariamente svolgersi in un’unica unità di
tempo.
In secondo luogo ci si deve soffermare sulla lettura del dispositivo e
sulla sua valenza. Qui siamo di fronte all’esternazione del comando concreto che (im)pone il giudice alle parti, quindi al cuore imperativo dell’atto
giurisdizionale che chiamiamo sentenza.
La lettura del dispositivo è elemento essenziale e imprescindibile, derivando dalla mancanza di detta lettura, del cui effettivo avvenimento fa
fede fino a querela di falso il verbale della udienza (16), una nullità (17).
Ma la valenza di questa nullità può essere discutibile, come emerge anche
dalla dottrina, la quale, riflettendo su certe posizioni della giurisprudenza
ha rilevato come la C.S., pur sembrando molto rigida quando qui parla di
nullità assoluta, finisca poi per attutire di molto quella rigidità nel momento in cui fa conseguire dalla rilevata nullità in appello semplicemente la
necessità di decidere nuovamente la causa (18).
Tuttavia vi sono pronunce che più recentemente fanno conseguire dal
rilievo in appello della nullità in parola non più la «ripulitura» del processo
nello stesso grado, bensı̀ la necessità di una rimessione al primo giudice,
come se qui si trattasse di sentenza inesistente (19). Ed, allora, la questione
che sembrava ormai inquadrata pacificamente potrebbe tornare in acque
agitate, perché, ad essere coerenti, da queste più recenti pronunce dovreb-
(15) Vedi Cass. 9 marzo 2010, n. 5659, in Dejure e Cass. 14 luglio 2006, n. 16114, in
Dejure, nelle quali si afferma che la lettura del dispositivo possa avvenire anche ad un’udienza successiva a quella di discussione della causa.
(16) Cass. 8 giugno 2009, n. 13165, in Dejure; Cass. 22 novembre 2011, n. 24573, in
Dejure; Cass., 11 dicembre 2014, n. 26105, in Dejure.
(17) Cass. 25 novembre 2000, n. 15219, in Dejure; Cass. 8 settembre 2006, n. 19299, in
Dejure; Cass. 14 luglio 2006, n. 16114, in Dejure; Cass. 9 marzo 2010, n. 5659, in Dejure.
(18) Luiso, Il processo del lavoro, cit., p. 243-245; Id., Diritto processuale civile cit., p.
75. Se a ciò si aggiunge il fatto che la giurisprudenza nega la possibilità di appellare per la
sola nullità della sentenza, senza lamentarne anche l’ingiustizia, praticamente siamo in presenza di una nullità assai meno rilevante di quello che sembra. Sull’argomento vedi anche M.
Vellani, Alcune considerazioni in tema di lettura del dispositivo in udienza nel processo del
lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2008, p. 435 ss., spec. p. 446 ss., 450.
(19) Cass. 28 novembre 2014, n. 25305, in Dejure; Cass. 8 giugno 2009, n. 13165, in
Dejure.
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be anche ricavarsi l’idea di un vizio che, in mancanza della proposizione
dell’appello, non dovrebbe essere sanato col passaggio in giudicato della
sentenza. Ma a simili conclusioni la giurisprudenza non giunge, forse per la
mancanza di casistica al riguardo, conclusioni che a me parrebbero eccessive, per cui la loro sola prospettabilità dovrebbe indurre a ritornare su
percorsi più solidi, insomma indurre a ribadire che la nullità rilevata in
appello non conduca alla rimessione al giudice di primo grado.
Il dispositivo, come si diceva, contiene il comando concreto. Esso è la
sentenza nel suo momento imperativo: con esso il giudice si spoglia del
potere di decidere la causa, residuando solo il dovere di apportare la
giustificazione di quella decisione, che in sé ha immediata efficacia esterna
e, quindi, non è modificabile e revocabile (20). Insomma la motivazione,
anche se non letta contestualmente alla lettura del dispositivo, non può
discostarsene: essa al più può fornire un contributo interpretativo del
dispositivo, ma non smentirlo (21).
Da ciò consegue che in caso di difformità tra dispositivo e motivazione
prevale quello (22). Ed anche che, se le parti della motivazione in contrasto
col dispositivo vanno considerate inesistenti, evidentemente il dispositivo
che non sia sorretto da una motivazione si presenta come una sentenza
affetta da nullità appunto per mancanza di motivazione (23).
Residua, infine, un problema in riferimento al giudice. Ci si chiede: vi
deve essere identità tra il giudice che ha istruito la causa e quello che la
decide? Vi deve essere identità tra il giudice che ha partecipato alla discussione e colui che detta il dispositivo? Vi deve essere identità tra il
(20) Cass. 3 febbraio 2015, n. 1906, in Dejure; Cass. 4 novembre 2009, n. 23333, in
Dejure; Cass. 1 marzo 2001, n. 2958, in Dejure; Cass. 26 ottobre 2010, n. 21885, in Dejure;
Cass. 27 giugno 2012, n. 10783, in Dejure; Cass. 10 maggio 2011, n. 10305, in Dejure; Cass.
14 aprile 2010, n. 8894, in Dejure; Cass. 29 luglio 2004, n. 14416, in Dejure.
(21) Cass. 26 maggio 2005, n. 11195, in Dejure; Cass. 5 aprile 2004, n. 6635, in Dejure.
In entrambe si ribadisce che il comando concreto è nel dispositivo, aggiungendosi che la
motivazione può servire ad interpretare il dispositivo, purché non si ponga in contrasto con
esso.
(22) Cosı̀ oltre alla giurisprudenza vedi in dottrina Tarzia, op. cit., p.193; Luiso, Il
processo del lavoro, cit., p. 246.
(23) Si ricordi tuttavia la voce distonica di Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale
civile, Napoli 2014, p. 816, il quale ritiene che, invece, debba prevalere la motivazione, in
quanto atto successivo al dispositivo compiuto dal giudice che è pur sempre investito della
causa. Ovviamente il giudice che cosı̀ facesse provocherebbe una nullità. Tuttavia, se questa
nullità non è fatta valere, passa in giudicato la sentenza secondo la motivazione e non
secondo il dispositivo. Nello stesso senso Balena, Istituzioni di diritto processuale civile,
III, Bari 2015, p. 46.
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la decisione nel processo del lavoro
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giudice che ha letto il dispositivo in udienza e colui che redige la motivazione?
Alla prima domanda si deve dare risposta negativa, per cui si può
ammettere che il giudice il quale gestisca la fase decisoria non sia quello
che ha istruito la causa (24). Alla seconda domanda si deve dare risposta
affermativa, per cui il giudice che conduce la discussione deve anche
essere colui che legge il dispositivo in udienza (25), ancorché sembrerebbe
eccessivo far conseguire dalla violazione del principio addirittura una inesistenza della sentenza (26), perché, come altri ha detto, la sostituzione del
giudice non tronca il collegamento tra la causa ed il giudice (27).
Alla terza domanda si deve ancora dare risposta affermativa, sempre in
virtù del principio di unitarietà della fase decisoria, per cui deve redigere la
motivazione quello stesso giudice che ha letto il dispositivo in udienza.
Cosı̀, per fare un esempio, se il giudice muore dopo la lettura del dispositivo, non si può affidare ad altro suo collega la stesura della motivazione,
ma è necessario nominare un nuovo giudice e rinnovare di fronte a questi
tutta la fase decisoria, dalla discussione tra le parti in poi (28). Tuttavia, se
non dovesse seguirsi questo percorso, a me non sembra che la violazione
di quel principio di unitarietà della fase decisoria possa condurre a qualificare la sentenza cosı̀ pronunciata come inesistente (29). Invero tra una
giurisprudenza che sembra più permissiva (30) ed una posizione dottrinaria che rischia di approdare a conseguenze eccessive, forse è meglio scegliere una strada di prudente mediazione e, pur affermando il principio e
la conseguente nullità in caso di sua violazione, non farne tuttavia conseguire una nullità-inesistenza, insomma un vizio non sanabile col passaggio
in giudicato della sentenza.
4. – Analizzati i possibili tipi di sentenze e la disciplina della fase
decisoria, bisogna ora verificare se vi sono nel rito lavoro delle peculiarità
per quanto riguarda effetti e contenuti delle decisioni.
(24) Cosı̀ Cass. 18 giugno 2010, n. 14781, in Dejure; Cass. 20 novembre 2000, n. 14982;
Cass. 11 aprile 2001, n. 5443.
(25) Cass. 29 settembre 2014, n. 20463, in Dejure; Cass. 13 agosto 1987, n. 694, in
Dejure; Cass. 3 aprile 1985, n. 2273, in Foro it. 1986, I, 519, con nota di Balena.
(26) Cosı̀ in Cass. 3 aprile 1985, n. 2273 cit.
(27) Proto Pisani, op. cit., p. 817.
(28) Cosı̀ Luiso, Diritto processuale civile, cit., p. 76.
(29) In tale modo invece si esprime Proto Pisani, op. cit., p. 817.
(30) Vedi Cass. 29 settembre 2014, n. 20463 cit., in cui sembra non tenersi molto al
principio in questione.
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Nel rito ordinario ormai vige il principio per cui tra gli effetti naturali
della sentenza di primo grado vi è anche quello esecutivo, sempre ovviamente che si abbia una sentenza di condanna, ossia una pronuncia che,
oltre ad un accertamento, contenga anche un ordine di prestazione in
attuazione di un rapporto obbligatorio. La peculiarità che emerge nel rito
lavoro è che la sentenza di condanna a favore del solo lavoratore è esecutiva fin dal dispositivo letto in udienza, mentre il datore di lavoro, a favore
del quale dovesse pur essere pronunciata una sentenza di condanna, ottiene il titolo esecutivo con la sentenza completa di dispositivo e motivazione.
Ciò è quanto emerge dall’art. 431 c.p.c., che, insieme al secondo
comma dell’art. 433 c.p.c., delinea un diverso regime della decisione di
condanna a seconda appunto che essa sia a favore del lavoratore o del
datore di lavoro.
La peculiarità più evidente sta nell’istituto del c.d. appello con riserva
dei motivi, che è il corrispettivo che al datore di lavoro è dato per aver
concesso al lavoratore la possibilità di usufruire di un titolo esecutivo
ancor prima che la sentenza sia completa della sua motivazione.
La diversità, oltre che collegata alla fattispecie costitutiva dell’azione
esecutiva, emerge anche in sede di possibile sospensione dell’efficacia
esecutiva della sentenza. Invero, a fronte del dispositivo esecutivo a favore
del lavoratore il datore di lavoro può ottenere la sospensione se prova il
gravissimo danno che potrebbe derivare dall’esecuzione. Il lavoratore,
invece, a fronte del titolo esecutivo del datore di lavoro, che, si ripete,
sta nella sentenza completa e non nel solo dispositivo, utilizza i principi
generali degli articoli 282 e 283 c.p.c., per cui egli ottiene la sospensione in
presenza di gravi motivi, rientrando nella valutazione del giudice anche la
delibazione della possibile fondatezza dell’appello, cosa non ripetibile a
favore del datore di lavoro soccombente ed impugnante.
Del resto nell’ambito di quel peculiare mezzo d’impugnazione, che è
l’appello con riserva dei motivi, che al datore di lavoro è concesso a fronte
di un dispositivo che è titolo esecutivo senza essere corredato ancora di
una motivazione, è impossibile valutare la possibile fondatezza dell’appello, perché, non conoscendosi ancora i motivi che giustificano quel dispositivo, al momento della richiesta d’inibitoria non saranno stati esposti
neanche i motivi dell’impugnazione.
Infine, si pone il quesito: se, ai sensi dell’art. 433 comma 2˚, c.p.c.,
l’appello con riserva dei motivi è proponibile solo ove l’esecuzione sia
iniziata, ciò significa che il datore di lavoro può attivarsi in tal senso già
a fronte della notificazione dell’atto di precetto oppure che, al contrario,
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la decisione nel processo del lavoro
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quel mezzo d’impugnazione non è spendibile se non dopo il pignoramento?
Qui ha ragione chi ha affermato che l’idea secondo la quale per proporre appello con riserva dei motivi si debba avere un compiuto pignoramento finisce per spuntare l’arma concessa al datore di lavoro (31). Né
sembra che la citata disposizione contenuta nell’art. 433 c.p.c. debba
essere letta alla luce dell’art. 491 c.p.c., secondo il quale l’espropriazione
forzata inizia col pignoramento. Invero, se la misura espropriativa, individuata nel suo oggetto nel bene che si individua per l’aggressione, inizia
certo col pignoramento, il processo esecutivo, quale percorso rivolto all’attuazione del credito assistito dal titolo esecutivo, inizia con la notifica
del precetto, col quale si individua il credito per cui si procede, attualizzando il titolo esecutivo, e si avvisa della imminente espropriazione. Insomma, la domanda esecutiva è già formulata col precetto e, pendendo
allora con essa l’esecuzione, si ha come verificato il presupposto di cui al
secondo comma dell’art. 433 c.p.c. (32).
Infine, sempre a favore del solo lavoratore l’art. 429, comma 3˚, c.p.c.
prevede che vi sia nella sentenza di condanna anche un’ulteriore statuizione in ordine alla rivalutazione monetaria, per cui il giudice rivaluta il
credito capitale e poi a questo aggiunge gli interessi.
Analizzando il profilo processuale della detta disposizione, è evidente
come qui ci si trovi di fronte ad una pronuncia senza domanda (33).
Inoltre comunemente si afferma che: a) il lavoratore non ha l’onere di
provare la svalutazione, in quanto trattasi di fatto notorio, b) trattasi di
un accessorio del credito da capitale, quindi di una parte dell’unitario
credito del lavoratore, c) è richiedibile anche in appello per la prima volta,
purché la richiesta effettuata in primo grado non sia stata rigettata, d)
trovandoci qui di fronte ad un accessorio, non è ipotizzabile un autonomo
processo su di esso, per cui, se non emerso nel processo sul credito da
capitale, esso si brucia (34).
(31) Proto Pisani, op. cit., p. 819; Luiso, Diritto processuale civile, p. 81.
(32) Sulla domanda esecutiva come fattispecie complessa il cui perfezionamento inizia
con la notifica del precetto vedi Saletti, Processo esecutivo e prescrizione. Contributo alla
teoria della domanda esecutiva, Milano 1992, p. 48-60, 64 ss., 86, 150 ss. In argomento vedi
Furno, La sospensione del processo esecutivo, Milano 1956, p. 67 ss. e, se vuoi, Bove (Balena),
Le opposizioni e le vicende anomale del processo esecutivo, in Le riforme più recenti del
processo civile, Bari 2006, p. 285 ss., spec. p. 302 ss.
(33) Vedi Tarzia, op. cit., p. 197; Luiso, Diritto processuale civile, cit., p. 77; Proto
Pisani, op. cit., p. 820. In senso contrario si esprimeva Fabbrini, op. cit., p. 187.
(34) Su questi punti vedi, per tutti, Luiso, Diritto processuale civile, cit., p. 76 ss. e Proto
Pisani, op. cit., p. 820 ss.
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Se tutte queste affermazioni sono vere, si devono però fare alcune
precisazioni.
Se è vero che la rivalutazione può essere chiesta per la prima volta
anche in appello, perché in fondo essa attiene ad una parte dell’unico
credito del lavoratore (35), a meno che essa non sia stata negata in primo
grado, eventualità questa in cui l’interessato deve attivarsi in appello, non
potendo più il giudice di secondo grado provvedere d’ufficio, non si può
negare il punto di partenza mediante l’uso di un improprio ed inammissibile concetto di pronuncia implicita. Cosı̀ non è accettabile quella giurisprudenza che impone l’onere dell’appello a fronte di una implicita pronuncia negativa in primo grado (36). In questo modo sembra che il giudice
d’appello non possa più statuire sulla rivalutazione quando il suo collega di
primo grado, nulla avendo detto in proposito, s’intende che con ciò abbia
implicitamente statuito per la negativa. Applicare in questo modo il principio per cui la statuizione in parola è possibile anche d’ufficio finisce in
realtà per limitarne l’operatività solo nell’ambito del giudizio di primo
grado, onerando il lavoratore di una richiesta in appello, al fine di evitare
la stabilizzazione di una inesistente pronuncia implicita negativa.
Affermare, poi, che la svalutazione è una componente dell’unico credito del lavoratore, per cui la componente da essa derivante si brucia se
non fatta valere nel processo sul credito da capitale significa escludere che
in questo processo il lavoratore abbia il potere di riservarsi la possibilità di
farla valere in un separato processo (37). Invero, se si assume il presupposto, non si può ammettere una simile riserva, perché significherebbe ammettere che il creditore abbia la facoltà di frazionare processualmente il
suo credito, cosa che oggi non si ritiene più ammissibile (38).
Altra ipotesi si ha, invece, quando il datore di lavoro paghi stragiudizialmente in ritardo il solo credito da capitale: qui certamente il lavoratore
potrà agire per la sola parte accessoria (39), ma non perché egli possa
frazionare il credito, bensı̀ semplicemente perché egli, facendo valere un
credito unitario, ne fa valere solo la parte non adempiuta, essendoci stato
da parte del debitore un parziale adempimento.
(35) Cass. 5 marzo 1994, n. 2145, in Dejure.
(36) Cass. 15 luglio 2009, n. 16484, in Dejure e Cass., 26 marzo 2010, n. 7395, in
Dejure.
(37) Cosı̀ Luiso, Diritto processuale civile, cit., p. 78.
(38) Sulla non frazionabilità della credito vedi, se vuoi, Bove, Il principio della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione, Napoli 2010, p.
99 ss.
(39) Cass. 21 giugno 1986, n. 4132, in Dejure.
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la decisione nel processo del lavoro
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5. – Infine, ci si deve interrogare sui rapporti tra le ordinanze interinali
disciplinate dall’art. 423 c.p.c. e la decisione definitiva, ancorché sia sufficiente qui una breve riflessione. Invero, se si volesse approfondire la
problematica sul piano teorico, dovrebbe aprirsi un ben più ampio discorso sui rapporti in generale tra i provvedimenti sommari di tipo anticipatorio-interinale e la decisione di merito della causa con cui si ha la definizione del processo dichiarativo (40). Ma non è questo ora il nostro obiettivo, anche considerando il fatto che le ordinanze in oggetto hanno avuto
una ben scarsa utilizzazione.
Qui l’unica domanda da porsi è cosı̀ formulabile: è possibile che la
causa, in tutto o in parte, finisca per essere decisa nel merito, non con la
ordinaria sentenza, bensı̀ con una di queste ordinanze? Insomma possiamo, a certe condizioni, collegare ad esse la cosa giudicata?
I presupposti di tali ordinanze sono diversi.
Quella di cui al primo comma dell’art. 423 c.p.c. presuppone l’istanza
di una qualsiasi delle due parti e la non contestazione ad opera di una
parte costituita, quindi non contumace, la quale assume un atteggiamento
difensivo complesso, contestando alcuni aspetti dell’impianto processuale
dell’altra parte ed evidentemente non contestandone altri. Quella, invece,
di cui al secondo comma della medesima norma presuppone l’istanza del
solo lavoratore e il raggiungimento della prova in ordine ad una parte della
somma richiesta, discostandosi cosı̀ da una sentenza di condanna generica
per la sommarietà dell’accertamento che la fonda (41) e per il fatto di non
poter essere concessa a favore di una qualsiasi delle parti.
Tornando, ora, alla domanda posta, a me sembra che in ogni caso
essa debba essere negativa. Ciò sia per l’eventualità che successivamente
alla pronuncia dell’ordinanza si giunga alla sentenza definitiva sia nell’eventualità in cui, invece, il processo si estingua senza porre capo a detta
sentenza.
Nella prima ipotesi mi pare che la valenza esclusivamente anticipatorio-esecutiva emerga dalla stessa disciplina che di esse ci dà il codice di
rito. L’ordinanza per il pagamento di somme non contestate di cui all’art.
423 c.p.c., se non può essere disciplinata in modo lontano dalla medesima
ordinanza che ai sensi dell’art. 186-bis c.p.c. può essere concessa nel rito
ordinario, evidentemente è modificabile e revocabile, non solo con la
(40) Riferimenti, se vuoi, per tutti in Bove, Tutela sommaria e tutela a cognizione piena:
criteri discretivi, in Il giusto processo civile 2014, p. 55 ss., spec. p. 71 ss.
(41) Tarzia, op. cit., p. 187; Luiso, Il processo del lavoro cit., p. 227-228.
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sentenza finale, ma anche prima della pronuncia di questa (42). Ed allora,
a prescindere dalla disputa in ordine all’oggetto della non contestazione (43), pare certo che essa non abbia una base negoziale (44) e che, quindi,
la sua pronuncia non riduca l’oggetto del processo e della futura decisione
del giudice (45). Ragionamento analogo, anche se non identico, va fatto
per l’ordinanza di cui al secondo comma dell’art. 423 c.p.c., la quale, se ha
in fondo la sostanza della sentenza di condanna generica, non ne ha, però,
la forma e la disciplina giuridica, prevedendo l’ultimo comma del medesimo articolo che essa sia revocabile con la sentenza che decide la causa.
Ciò significa che anche con essa il giudice non si spoglia di un potere
decisorio, che insomma anche qui non si abbia una riduzione dell’oggetto
del processo e della decisione finale.
Più dubbio potrebbe essere il discorso per l’eventualità che, dopo la
pronuncia di una di queste ordinanze, il processo si estingua, perché a tal
proposito la legge non è chiara. Ed allora l’interprete deve giungere ad una
soluzione con i pochi strumenti normativi che ha a disposizione, partendo
dal giusto presupposto, almeno nell’attuale quadro normativo, che sarebbe
poco ragionevole proporre soluzioni diversificate per le due diverse ordinanze di cui si tratta (46). Invero, se esse hanno presupposti diversi, è pur
vero che la loro funzione nell’ambito del processo dichiarativo è la medesima.
L’unica traccia normativa che abbiamo è nel secondo comma dell’art.
186-bis c.p.c., nel quale si legge che l’ordinanza per il pagamento di
somme non contestate è titolo esecutivo e conserva la sua efficacia in caso
di estinzione del processo. Qui, si ripete allargando il campo applicativo
della norma alle due ordinanze di cui all’art. 423 c.p.c., bisogna fare una
scelta di fondo.
(42) Cosı̀ si esprimeva già Fabbrini, op. cit., p. 198 prima dell’introduzione nel codice di
rito dell’art. 186-bis.
(43) Per l’analisi delle diverse posizioni vedi, fra gli altri, Luiso, Il processo del lavoro,
cit., p. 224 ss. e più in generale Menchini, Il giudicato civile, in Giur. sist. di dir. proc.
civ. diretta da Proto Pisani, Torino 2002, p. 332 ss.
(44) Idea sostenuta, invece, con forza da Tarzia, op. cit., p. 181 ss.
(45) Si aggiunga che, se il beneficiato inizia un processo esecutivo sulla base di una di
queste ordinanze in pendenza del processo dichiarativo nel cui ambito esse sono state
pronunciate, l’esecutato non può lamentare profili d’ingiustizia o invalidità del titolo esecutivo in sede di opposizione all’esecuzione, dovendo spendere le proprie argomentazioni
nel processo dichiarativo già pendente. Sul tema generale vedi, se vuoi, Bove, Tutela sommaria e tutela a cognizione piena: criteri discretivi, cit., p. 74.
(46) Cosı̀ Luiso, Il processo del lavoro, cit., p. 228.
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la decisione nel processo del lavoro
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Si potrebbe dire che, in nome di un principio di economia dei giudizi,
la parte che avrebbe potuto evitare l’estinzione del processo dichiarativo
non può sottrarsi alla stabilizzazione del provvedimento interinale, che a
questo punto, secondo una logica analoga a quella sottesa al procedimento
per ingiunzione, dismette i panni del provvedimento anticipatorio-esecutivo per indossare le vesti di una decisione con valore di giudicato (47).
Ma a me non sembra che questo ragionamento sia convincente. Se
l’appiglio normativo da valorizzare è solo quello che si ricava dal secondo
comma dell’art. 186-bis c.p.c., io non vedo come la sopravvivenza dell’ordinanza-titolo esecutivo all’estinzione del processo dichiarativo nel cui
ambito è stata pronunciata possa significare anche mutazione della funzione di un simile provvedimento.
Di conseguenza, facendo un discorso unitario per tutte le ordinanze di
cui stiamo trattando, io credo che esse mantengano sempre la loro natura
originaria e quindi la loro disciplina. Cosı̀, lungi dall’aversi qui decisioni
paragonabili alla sentenza che avrebbe deciso la causa ove il processo non
si fosse estinto, abbiamo solo titoli esecutivi senza accertamento, o quantomeno senza alcun stabile accertamento, per cui l’esecutato potrà sempre
contestare una carenza nel titolo esecutivo ovvero l’ingiustizia dell’esecuzione (48).
MAURO BOVE
Professore ordinario nell’Università di Perugia
(47) Questa è la proposta, ad esempio, di Luiso, Il processo del lavoro, cit., p. 227-228.
(48) In tal modo mi ero già espresso in Tutela sommaria e tutela a cognizione piena:
criteri discretivi cit., p. 78-79.
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RICORSO PER CASSAZIONE IMPROCEDIBILE
E SANABILITÀ PER RAGGIUNGIMENTO DELLO SCOPO:
LA QUESTIONE TORNA ALLE SEZIONI UNITE
SOMMARIO: 1. Premessa: la questione rimessa alle Sezioni Unite. – 2. La critica all’attuale
orientamento delle Sezioni Unite e gli argomenti a sostegno della sanabilità del ricorso
improcedibile nell’ordinanza di rimessione. La rilevanza dello scopo della norma. – 3.
(Segue) Il principio di effettività della tutela giurisdizionale. – 4. Le ulteriori ragioni che
depongono nel senso della sanabilità per raggiungimento dello scopo del ricorso improcedibile. – 5. Lo scopo dell’art. 369, comma 2˚, n. 2, c.p.c. e le fattispecie di
raggiungimento di tale scopo. – 6. Conclusioni.
1. – Sull’abbrivio di una recente tendenza antiformalistica della Suprema Corte, l’ordinanza interlocutoria 21 gennaio 2016 n. 1081 della
prima Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione
alle Sezioni Unite, tra l’altro, della questione riguardante la «procedibilità
del ricorso per cassazione quando la copia notificata della sentenza impugnata, non prodotta dal ricorrente che pur abbia dichiarato l’esistenza di
tale evento, sia stata depositata da un’altra parte del giudizio di legittimità» (1).
La Corte prende le mosse dalla considerazione dell’orientamento più
rigoroso, seguito dalle due pronunce delle Sezioni Unite che si sono occupate del tema in esame, orientamento secondo il quale «va data un’interpretazione letterale dell’art. 369 c.p.c., riguardando la norma anche
l’ipotesi in cui sia stata depositata in giudizio la copia notificata della
sentenza impugnata ad opera della parte controricorrente, deposito che
non vale ad escludere la sanzione dell’improcedibilità, dalla legge comminata per la mera inosservanza dell’adempimento formale» (2).
(1) Va segnalato che l’ordinanza della prima Sezione 21 gennaio 2016, n. 1081 ha
rimesso al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite anche l’ulteriore questione,
oggetto di contrasto, concernente la validità, o meno, della procura conferita ad un difensore, ma con autenticazione della firma della parte ad opera di altro difensore che sia anche
indicato nell’epigrafe dell’atto e che lo abbia sottoscritto.
(2) Orientamento rigoroso cosı̀ riportato dall’ordinanza n. 1081/2016 e affermato dalle
pronunce di Cass., Sez. un., 25 novembre 1998, n. 11932, in Giur. it. 1999, I, 1, 1584, con
nota di richiami, e Cass., sez. un., 16 aprile 2009, n. 9005, in Corriere giur. 2009, 1355 ss.,
con nota di A. Carrato, Le sezioni unite riaffermano l’improcedibilità del ricorso per cassazione per la mancata prova della notifica della sentenza impugnata; in Giur. it. 2010, 382 ss.,
con nota di M.C. Vanz, Sulle sorti (forse ancora da ridiscutere) del ricorso in cassazione in caso
di mancato deposito della copia autentica della sentenza e della relata di notifica e in Riv. dir.
proc. 2010, 180 ss., con nota di F. Auletta, G. Della Pietra, Dalla nomofilachia alla cronofilachia: le Sezioni Unite esigono il tempestivo deposito della sentenza munita di relata.
Rivista di diritto processuale 3/2016
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ricorso per cassazione improcedibile e sanabilità
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Per la Corte, tale orientamento, con riguardo alla specifica ipotesi
esaminata, potrebbe essere rimeditato, alla luce delle conclusioni già raggiunte dalla stessa «Corte, anche a Sezioni Unite, in altre fattispecie, per
taluni versi non dissimili dalla presente, quanto ai valori sottesi oggetto di
bilanciamento».
2. – La Corte prende quindi in considerazione, nell’ordinanza qui
esaminata, uno per uno analiticamente gli argomenti utilizzati dalle Sezioni
Unite a sostegno dell’orientamento rigoroso (e comunque dalla giurisprudenza che ha seguito la tesi restrittiva) e ne mette in discussione la fondatezza.
A) Si comincia con l’argomento letterale, per il quale la lettera della
norma dell’art. 369, comma 2˚, c.p.c. «non si presta a dubbi interpretativi
di sorta, collegando la sanzione alla mancanza di deposito ‘insieme col
ricorso’ della ‘copia autentica … con la relazione di notificazione’».
In proposito la Corte osserva, anzitutto, che le stesse Sezioni Unite del
2009, nonostante l’inequivoca lettera della legge, hanno compiuto un’apertura, laddove hanno affermato che il deposito della copia notificata può
avvenire non solo con il deposito del ricorso, ma anche a norma dell’art.
372 c.p.c., sia pure entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369
c.p.c.; e «ciò, in difformità dalla mera lettera della legge, compiendo
dunque un’interpretazione teleologica».
La Corte ricorda poi che, invece, per quel che attiene al necessario
deposito di copia «con la relazione di notificazione», «l’interpretazione
delle Sezioni Unite nelle sentenze menzionate è letterale».
A questo punto la Corte fa presente che, tuttavia, la possibilità di una
lettura della norma che proceda «lungo direttrici che permettano l’interpretazione del dato testuale alla stregua della complessiva ricostruzione
ermeneutica della medesima» ben si ritrae dalla giurisprudenza della stessa
Corte, a sezioni semplici o unite, «pur dopo il 2009, sia con riguardo alla
norma in discorso, sia ad altre disposizioni processuali».
Nella dichiarata direzione la Corte ricorda una serie di pronunce e di
orientamenti in cui, a proposito dell’individuazione del regime dell’improcedibilità del ricorso per cassazione, la giurisprudenza di legittimità si è
incentrata sullo scopo della norma considerata (e sulle modalità del suo
raggiungimento) rispetto al dato letterale della disposizione. E richiama gli
insegnamenti secondo cui:
– se il ricorso per cassazione viene proposto nel termine di sessanta
giorni dal deposito del provvedimento, non rileva se sia stato depositato il
provvedimento stesso notificato;
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rivista di diritto processuale 2016
– in ipotesi di notificazione della sentenza impugnata a mezzo posta, è
sufficiente il deposito della copia autentica della sentenza con la mera
attestazione dell’ufficiale giudiziario della spedizione dell’atto (in virtù di
considerazioni ispirate ad una interpretazione costituzionalmente orientata
della norma in esame, in ossequio anche al principio del giusto processo);
– l’incompletezza della copia autentica della sentenza non comporta
l’improcedibilità dell’intera impugnazione, impedendo soltanto lo scrutinio dei motivi relativi alle parti mancanti della sentenza impugnata e solo
quando neppure dal fascicolo della controparte o d’ufficio si rinvenga la
copia integrale il ricorso è improcedibile;
– l’onere, a pena d’improcedibilità, del deposito, insieme al ricorso,
degli atti processuali, documenti, contratti o accordi collettivi sui quali il
ricorso si fonda, ex art. 369, comma 1˚, c.p.c. è soddisfatto, sulla base del
principio di strumentalità delle forme processuali, mediante la produzione
nel fascicolo di parte nel quale gli atti processuali e i documenti sono
contenuti o mediante il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio (ricordando altresı̀ le affermazioni secondo cui: a) le esigenze
o le disfunzioni organizzative degli uffici giudiziari non possono giustificare decadenze non espressamente previste dalla legge; b) il principio della
ragionevole durata del processo è stato bensı̀ costituzionalizzato, ma con la
previsione che è la legge ad assicurarla ed è sempre la legge a regolare il
«giusto processo»);
– è escluso che la sanzione di improcedibilità riguardi i contratti collettivi di diritto pubblico, per il fatto che essi sono immediatamente conoscibili grazie alla loro pubblicazione in Gazzetta Ufficiale;
– il mancato deposito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio, di cui all’art. 369, ultimo comma, c.p.c., determina l’improcedibilità
del ricorso soltanto se l’esame di quel fascicolo risulti indispensabile ai fini
della decisione del giudice di legittimità.
B) Ciò chiarito in punto di (non certo decisiva) rilevanza dell’argomento letterale, la Corte, sempre nell’ordinanza n. 1081/2016, sposta l’attenzione sugli argomenti di natura teleologica utilizzati dall’orientamento
rigoroso a suo tempo seguito dalle Sezioni Unite.
Si ricorda, in primo luogo, che la tesi restrittiva richiama lo scopo
dell’art. 369 c.p.c. di consentire la verifica della tempestività dell’atto
d’impugnazione. Ma qui, osserva la Corte nell’ordinanza in esame, «pare
agevole replicare che proprio quella verifica permette la sentenza notificata
prodotta dalla parte controricorrente». Si fa leva, inoltre, prosegue la
Corte, sulla specifica ratio della disposizione, volta a permettere alla Suprema Corte la verifica tempestiva dell’eventuale inammissibilità, appunto
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ricorso per cassazione improcedibile e sanabilità
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ponendo un autonomo requisito di procedibilità. E in proposito l’ordinanza di rimessione rileva, in replica, che «è ben più celere il deposito
della copia notificata da parte del controricorrente, rispetto al momento in
cui la Corte esaminerà il ricorso (vuoi pure presso la VI Sezione)».
Ulteriore argomento di pari natura – sviluppato dalle Sezioni Unite del
2009 e considerato dall’ordinanza di rimessione – attiene all’esigenza di
celerità ed ai caratteri di specialità del processo di Cassazione, la prima
ricollegata al principio del giusto processo, la seconda alla funzione nomofilattica del giudice di legittimità.
A tale riguardo, la Corte nell’ordinanza de qua afferma che «il principio del giusto processo implica, almeno con pari dignità, l’esigenza di
tutelare l’esercizio del diritto di difesa, allorquando l’interesse per favorire
il quale si giunga alla sua compressione sia comunque soddisfatto, nella
specie permettendo la copia prodotta nel fascicolo di controparte il controllo del rispetto del termine per impugnare».
Per quanto riguarda, poi, la funzione di legittimità, la Corte osserva
che essa certamente esige l’individuazione di criteri selettivi d’accesso, ma
questi devono basarsi su connotati oggettivi concernenti il ricorso come
tale (ad es., entità o importanza dell’oggetto, o l’essere il ricorrente incorso
in irrimediabile decadenza), non già su eventi accidentali.
In effetti, non sembra rispondere alla medesima ratio lo sbarramento
in rito comminato, si noti, non quando il ricorso sia intempestivo, bensı̀
quando sia tempestivo; e, al contrario, «lasciarne permanere la procedibilità e l’attitudine a pervenire alla pronuncia decisoria, laddove in ipotesi
semplicemente il ricorrente nulla abbia dedotto circa la data di notificazione della sentenza impugnata, evenienza in cui la Suprema Corte dovrebbe considerare il ricorso senz’altro proposto nel termine lungo ed
astenersi dal pronunciare qualunque inammissibilità».
La tesi restrittiva si richiama poi – con la pronuncia di Cass. 1˚ ottobre
2004, n. 19654 (3) – alla funzione dell’adempimento in quanto volto
«all’ordinato svolgimento del giudizio di cassazione»; e qui la Corte, nell’ordinanza di rimessione, nota come tale aspetto risulti, nella sentenza che
lo ha invocato, «alquanto indeterminato».
Infine, la Corte si occupa dell’argomento, fatto proprio dalla tesi restrittiva – ancora, ad es., con Cass. 1˚ ottobre 2004, n. 19654 –, secondo
cui, con il consentire la sanatoria per mezzo del deposito della copia con la
relata ad opera del controricorrente, si finirebbe: a) per porre la sorte del
(3) Per esteso in Guida dir. 2004, fasc. 41, 16.
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giudizio di cassazione nelle mani del controricorrente, dalla cui decisione
di produzione della suddetta copia con la relata dipenderebbe la procedibilità; ovvero, b) per introdurre nel sistema elementi di alea ed imprevedibilità che sarebbero gravemente pregiudizievoli del principio della certezza del diritto, finendo per far dipendere il giudizio sull’osservanza delle
forme e dei termini, e l’esito stesso del giudizio, da circostanze casuali ed
imponderabili.
Al primo tipo di rischio la Corte risponde osservando che sono proprio le Sezioni Unite, «nelle sentenze gemelle del 2009, a dar peso all’eccezione del controricorrente pur nell’ambito del giudizio di procedibilità
del ricorso, laddove affermano che è proprio l’eventuale eccezione del
controricorrente sull’avvenuta notificazione ad imporre alla Corte, pur
quando il ricorrente nulla abbia dedotto circa la notifica della sentenza,
di rilevare – e solo allora – l’omissione, sanzionandolo con la declaratoria
d’improcedibilità». Ed al secondo che «l’effetto di scongiurare l’improcedibilità conseguirebbe all’oggettivo deposito fattuale in giudizio della copia
notificata: proprio come la speculare omissione da parte del ricorrente non
viene valutata affatto sotto il profilo soggettivo della sua colpevolezza».
Le ora richiamate osservazioni della Corte nell’ordinanza di rimessione
a mio avviso debbono senz’altro essere condivise e consentono di ritrarre
alcune prime importantissime conclusioni in merito ai criteri che l’interprete deve utilizzare nella ricostruzione della disciplina della improcedibilità del ricorso per cassazione (e del giudizio di appello):
a) il principio di strumentalità delle forme – con i suoi corollari, ivi
incluso il principio di sanabilità del vizio per raggiungimento dello scopo –
si applica anche alle difformità dell’atto previste a pena d’improcedibilità.
b) non esiste un regime, una disciplina dell’improcedibilità delle impugnazioni, ma tante diverse discipline quanti sono i singoli requisiti previsti dalla legge a pena d’improcedibilità; nel senso che ciascun vizio,
ciascun difetto di requisito è caratterizzato da una specifica disciplina;
c) per individuare il regime del difetto di un requisito previsto a pena
d’improcedibilità, occorre individuare lo scopo oggettivo della specifica
disposizione che si occupa di quel requisito;
d) una volta definito lo scopo oggettivo della disposizione in analisi,
occorre individuare le possibili fattispecie di raggiungimento di quello
scopo (4).
(4) Per questo modo d’impostare lo studio della improcedibilità v. R. Poli, Invalidità ed
equipollenza degli atti processuali, Torino 2012, 92 ss., 341 ss.; e già in Id., Improcedibilità del
ricorso per cassazione e sua sanabilità per raggiungimento dello scopo, in Riv. trim. dir. proc.
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ricorso per cassazione improcedibile e sanabilità
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3. – Il ragionamento della Corte ora esaminato, che valorizza adeguatamente il principio di strumentalità delle forme anche con specifico riguardo al giudizio di legittimità, si coniuga ed armonizza perfettamente
con quanto la stessa Corte aggiunge nell’ordinanza in esame con riferimento al principio, interno e sovranazionale, di effettività della tutela
giurisdizionale.
L’ordinanza ora in discorso ricorda anzitutto che «per ‘principio di
effettività’ si intende l’esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati
debba, per quanto possibile e segnatamente nell’attività di interpretazione
delle norme processuali, corrispondere una effettiva ed esauriente risposta
da parte degli organi statuali preposti all’esercizio della funzione giurisdizionale». Di qui – dopo aver ricordato che esso, insito nell’art. 111 Cost.
ove menziona il diritto al «giusto processo», è dunque anche un principio
generale del diritto dell’Unione –, il richiamo ai corollari che discendono
da tale principio per come individuati dalla giurisprudenza di legittimità e
della Corte di Strasburgo:
a) le garanzie procedurali sancite dall’art. 6 CEDU in relazione all’equità, alla pubblicità ed alla celerità risulterebbero prive di senso, qualora
non fosse tutelato il presupposto di tali garanzie, ossia l’accesso al giudice;
b) gli stati aderenti, e per essi i massimi consessi giudiziari, devono
evitare gli «eccessi di formalismo», segnatamente in punto di ammissibilità
o ricevibilità dei ricorsi, consentendo, per quanto possibile, la concreta
esplicazione di quel diritto di accesso al giudice sopra menzionato;
c) le restrizioni ai giudici supremi non possono limitare l’accesso disponibile alla parte in causa in maniera o a un punto tali che il suo diritto a
un tribunale venga leso nella sua stessa sostanza;
d) tali restrizioni si conciliano con l’art. 6, § 1 CEDU soltanto se
tendono ad uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di
proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito;
e) il diritto di accesso ad un tribunale viene leso quando la sua regolamentazione cessa di essere utile agli scopi della certezza del diritto e della
buona amministrazione della giustizia e costituisce una sorta di barriera
che impedisce alla parte in causa di vedere la sostanza (rectius, il merito)
della sua lite esaminata dall’autorità giudiziaria competente.
Alla luce di tale quadro normativo, la Corte osserva che, in «conclusione, la sanzione dell’improcedibilità del ricorso per cassazione potrebbe,
civ. 2006, 1133 ss.; Id., Sulla sanabilità della inosservanza di forme prescritte a pena di
preclusione e decadenza, in Riv. dir. proc. 1996, 473, nt. 53.
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dunque, costituire una limitazione del diritto ad una tutela giurisdizionale
effettiva non proporzionale allo scopo perseguito dalla regola in esame».
Prima di concludere su questo punto, mette conto qui sottolineare
come nell’ordinanza n. 1081/2016 il principio di effettività della tutela
giurisdizionale venga riferito alla stessa stregua non solo alle ipotesi di
improcedibilità del ricorso per cassazione, ma anche a quelle di inammissibilità del ricorso stesso.
4. – Alle numerose ed acute argomentazioni contenute nell’ordinanza
in esame si possono aggiungere alcune osservazioni su di un piano più
generale e sistematico, sempre peraltro in replica alle ragioni addotte a
sostegno dell’orientamento restrittivo.
In tempi meno recenti è stato affermato che, fra gli orientamenti
possibili, deve essere seguito l’orientamento più rigoroso in quanto «l’unico conforme al dettato di legge, alla funzione propria dei termini e
dell’onere in esso previsti, nonché l’unico idoneo a fissare una regola certa
per l’ordinato svolgimento dei giudizi (…). Ora, se il deposito della copia
autentica della sentenza deve avvenire insieme con il deposito del ricorso
e, cioè, nello stesso termine, e se detto termine è previsto ‘a pena di
decadenza’, non si vede come tale decadenza, che deve essere dichiarata
d’ufficio, possa essere sanata da adempimenti altrui eventuali (…) avvenuti
in ogni caso dopo la scadenza del termine e, cioè, dopo la già verificatasi
decadenza» (5).
A mio avviso questo ragionamento non può essere condiviso, non solo
perché non tiene in adeguata considerazione il principio di strumentalità
delle forme ed i suoi corollari, ma perché sembra fondarsi sulla erronea
confusione tra effetto decadenza ed effetto improcedibilità: invero, altro è
l’effetto decadenza, che consegue al mancato compimento dell’atto entro il
termine previsto dalla legge – colpisce direttamente la sfera dei poteri della
parte e indirettamente il ricorso – e comporta l’impedimento a compiere
l’atto in un momento successivo; altro è l’effetto improcedibilità, che
consegue alla dichiarazione giudiziale (cfr. art. 387 c.p.c.) – colpisce direttamente il ricorso e indirettamente la sfera dei poteri della parte – e
comporta la non riproponibilità del ricorso (cfr. ancora l’art. 387 c.p.c.).
Ciò vuol dire che residua un ampio spazio fra la verificatasi decadenza
e la (eventuale) dichiarazione d’improcedibilità del ricorso, ampio spazio
dove può assumere piena rilevanza il raggiungimento dello scopo quale
(5) Cass. 11 settembre 1980, n. 5246, in Foro it. 1981, I, 766, in motivazione.
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causa di sanatoria del vizio che inficia il ricorso (sul quale ricade la sanzione in caso di omesso deposito ex art. art. 369, comma 2˚, n. 2, c.p.c.),
senza che ciò comporti alcuna violazione delle norme in tema di termini e di
decadenza.
Successivamente, Cass. 10 luglio 2007, n. 15396 (6), dopo aver richiamato tutte le argomentazioni contenute nella precedente decisione n.
19654/2004 prima ricordata, aggiunge la seguente osservazione: la possibilità di dar rilievo, ai fini del conseguimento dello scopo, allo svolgimento
dell’attività processuale successiva al mancato compimento del deposito
nel termine fissato «è chiaramente esclusa dalla dichiarata volontà del
legislatore di sanzionare il mancato compimento dell’attività entro il termine fissato con una sanzione che vuole esprimere l’irreparabilità del vizio
di attività e che volutamente non riceve qualificazione in termini di nullità,
ma appunto in termini di improcedibilità. L’uso di tale termine impedisce
al giudice di ‘procedere’ e, pertanto, di formulare un’ulteriore valutazione
circa il raggiungimento dello scopo che si sarebbe dovuto assicurare per il
tramite tempestivo dell’attività».
Qui la Corte afferma che quando ricorre a tale tipo di sanzione, il
legislatore intende porre un «comando al giudice di applicare la sanzione
senza poter in alcun modo esprimere alcun apprezzamento sul se lo scopo
cui doveva assolvere il compimento dell’attività possa essere considerato
raggiunto altrimenti ed in particolare per il tramite di evenienze verificatesi
nel successivo svolgimento dell’attività processuale». E ciò perché l’uso di
tale termine impedisce al giudice di «procedere».
Come si può notare, in questa prospettiva la ricostruzione del regime
dell’improcedibilità si fonda sulla valorizzazione del significato etimologico
del termine utilizzato dal legislatore. Tuttavia, se da un lato questo profilo
non può certo esaurire l’attività di valutazione necessaria al fine di ricostruire il regime della figura di invalidità in esame (7), esso dall’altro lato
non comporta le conseguenze che si è ritenuto di ritrarne.
(6) In Riv. dir. proc. 2008, 795 ss., con nota di F. Auletta, G. Della Pietra, «È il
formalismo bellezza. E non puoi farci niente. Niente». Sull’improcedibilità del ricorso per
cassazione per omesso deposito di copia della sentenza munita di relata.
(7) Come già abbiamo avuto modo di notare in più occasioni, per ricostruire il regime
di un atto e, di conseguenza, dei suoi vizi, occorre esaminare almeno: (i) le norme generali in
tema di forma dell’atto processuale; (ii) le norme che prendono direttamente in esame le
modalità di formazione dello specifico atto di cui si tratta; (iii) le norme che regolano la fase
processuale in cui la produzione degli effetti di quello specifico atto viene in rilievo (cfr. R.
Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., 32 ss., 61 ss.).
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Invero, giammai i termini utilizzati dal legislatore in materia di illegittimo esercizio del potere di azione assumono il significato, esasperatamente letterale e formalistico, fatto proprio dalla sentenza in esame. A parte
quanto già abbiamo detto sul principio di strumentalità delle forme e sui
suoi corollari (8) – e qui la Corte non motiva circa una pretesa non
applicazione del principio di strumentalità delle forme in generale – la
nullità, la preclusione, la decadenza e l’estinzione, ma anche l’inammissibilità e la stessa improcedibilità in altri casi sono sempre applicate dopo
aver verificato se evenienze verificatesi nello svolgimento dell’attività processuale successivo all’inosservanza della forma richiesta siano tali da integrare il raggiungimento dello scopo della norma non rispettata (9).
Secondo le Sezioni Unite del 2009, poi, l’interpretazione restrittiva
troverebbe un’ulteriore conferma dal fatto che il rilievo dell’improcedibilità dell’impugnazione deve precedere quello dell’inammissibilità della
stessa. E ciò perché la valutazione inerente l’improcedibilità del ricorso,
in quanto relativa alle modalità minime necessarie perché abbia luogo lo
svolgimento dell’esercizio del diritto d’impugnazione e, quindi, il processo
di impugnazione in Cassazione, appare, infatti, preliminare alla valutazione
della tempestività di quell’esercizio (10). Pertanto, osservano le Sezioni
Unite del 2009, qualora il ricorrente abbia depositato la copia autentica
senza la relazione di notificazione, ma questa sia stata depositata dal controricorrente, la Corte, indipendentemente dal riscontro della tempestività
o meno dell’esercizio del diritto d’impugnazione rispetto al termine breve
da quella notificazione decorrente, deve rilevare che la parte ricorrente
non ha ottemperato all’onere di deposito della copia notificata della sentenza e dichiarare la improcedibilità del ricorso (e ciò, quindi, pur avendo
la Corte a disposizione tutti gli elementi per verificare la tempestività del
ricorso ed essendo per l’effetto acquisito al processo il medesimo fine cui
presiede l’art. 369, comma 2˚, c.p.c.) (11).
(8) E ora rilevano in particolare i corollari per cui: a) le norme aventi ad oggetto le
prescrizioni formali devono essere interpretate privilegiando l’aspetto funzionale delle stesse,
rispetto a quello meramente o prevalentemente sanzionatorio; b) il rispetto delle prescrizioni
formali è necessario solo nella misura in cui ciò sia indispensabile per il raggiungimento
dello scopo dell’atto di cui si tratta; c) il vizio è sanato se lo scopo della norma in concreto è
stato raggiunto.
(9) Come, a tacer d’altro, ben emerge da tutti gli esempi richiamati nella motivazione
dell’ordinanza n. 1081/2016.
(10) Argomento utilizzato in precedenza anche da Cass. 1˚ ottobre 2004, n. 19654, cit.
(11) Tra le più recenti in questo senso v. Cass. 4 settembre 2015, n. 17632.
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ricorso per cassazione improcedibile e sanabilità
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In realtà, detto principio non è affatto incompatibile con l’ammissione
di cause di sanatoria: anche ammesso che l’esame delle cause di improcedibilità preceda quello delle cause di inammissibilità, se, in base agli atti di
causa, è possibile verificare la tempestività dell’impugnazione, perché la
causa di improcedibilità è sanata per raggiungimento dello scopo, si deve
procedere per verificare tale tempestività. D’altro canto, il principio ora
considerato ha avuto origine da fattispecie in cui non venivano in gioco
possibili cause di sanatoria della improcedibilità e quindi in contesti affatto
diversi rispetto a quello considerato nella pronuncia ora in esame (12).
5. – Se si condividono le considerazioni che precedono, si deve ritenere che fondatamente l’ordinanza interlocutoria di rimessione n. 1081/
2016 ha chiesto alle Sezioni Unite di rivedere l’orientamento restrittivo
affermatosi in punto di asserita insanabilità per raggiungimento dello scopo del ricorso per cassazione affetto da un vizio di improcedibilità.
Ciò chiarito – e dunque correttamente riaffermata, anche per quanto
ci riguarda, la piena (e piana) applicabilità del principio di strumentalità
delle forme e dei suoi corollari all’inosservanza di forme previste a pena
d’improcedibilità –, resta ora da stabilire, coerentemente, qual è il termine
ultimo entro cui deve essere presente agli atti del giudizio di legittimità la
copia autentica della sentenza impugnata, munita di relata, affinché sia
raggiunto lo scopo dell’art. 369 c.p.c. Ed a questo proposito occorre tener
presente la recente riforma del giudizio di legittimità, ed in particolare la
riscrittura dell’art. 380 bis c.p.c. (13).
Ebbene, alla luce dell’attuale procedimento di legittimità, si può affermare che lo scopo dell’art. 369 c.p.c. – con specifico ed esclusivo riguardo
alla copia autentica della sentenza impugnata munita di relata e relativamente alle funzioni della Suprema Corte e del pubblico ministero – è
raggiunto se tale copia è presente agli atti del giudizio di cassazione al
momento in cui il relatore di cui al nuovo comma 1˚ dell’art. 380 bis, o il
relatore per i ricorsi assegnati alle sezioni unite chiamate a pronunciarsi sul
ricorso ex art. 374 c.p.c., iniziano a verificare se sussistono i presupposti
per la pronuncia in camera di consiglio, anche se detta copia è stata
depositata dal controricorrente o è contenuta nel fascicolo d’ufficio (14).
(12) V., ad es., Cass. 7 luglio 1965, n. 1415.
(13) Per i termini del problema prima della riforma del 2009, v. R. Poli, Improcedibilità
del ricorso per cassazione e sua sanabilità per raggiungimento dello scopo, cit., 1147, testo e
nt. 29.
(14) Per tali ragioni non può essere omologata la pur pregevole ricostruzione di F.
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Quanto appena osservato non implica tuttavia l’erroneità dell’affermazione secondo cui tale scopo deve essere raggiunto «entro il termine previsto per il deposito del ricorso»: infatti, tale specifica esigenza è posta,
non già – come abbiamo appena visto – nell’interesse della Corte, bensı̀
nell’interesse della «parte contro la quale il ricorso è diretto», ex art. 370,
comma 1˚, c.p.c., la quale deve essere messa in grado, sin dal momento
della costituzione del ricorrente, di verificare la regolarità di tale costituzione con riguardo a quei profili cui il deposito dei documenti a pena di
improcedibilità è strumentale, al fine di poter adeguatamente contraddire
al ricorso anche in punto di rito (ancora ex art. 370, comma 1˚, c.p.c.) (15).
In sintesi su questo punto, si può affermare che lo scopo del deposito
di cui all’art. 369, comma 2˚, n. 2, c.p.c. è quello di consentire alle altre
parti di verificare la regolarità della costituzione del ricorrente sin dal
decorso del termine perentorio per cui essa è prevista (termine breve,
correlato all’esigenza di un ordinato e sollecito svolgimento del giudizio
di legittimità) e di consentire alla Suprema Corte la verifica, al momento
del controllo della sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera
di consiglio (e al pubblico ministero, al momento in cui deve formulare le
Auletta, G. Della Pietra, op. ult. cit., 804, secondo i quali si dovrebbe «circoscrivere l’improcedibilità all’omesso deposito nel termine di copia autentica e a ritenere consentita la
produzione della copia notificata anche successivamente. Per tale via l’acquisizione della
copia munita di relata viene spogliata della falsa valenza d’impedimento all’esame del merito
e restituita alla sua unica e naturale funzione di verifica del rispetto del termine d’impugnazione, cui la Corte si dedica – come già il giudice d’appello – solo al momento della
decisione» (tale ricostruzione, peraltro, sembra essere stata considerata e recepita dalla
Corte nelle pronunce di Cass. (ord.) 19 febbraio 2008, n. 4229 e Cass. 14 marzo 2008, n.
7027, precedenti l’intervento delle Sezioni Unite del 2009). Infatti, è vero che allo scopo
indicato ora nel testo «soccorrerebbe senz’altro anche la copia con relata esibita dal resistente» (op. ult. cit., 803), ma in tale evenienza saremmo già nella prospettiva, a valle, di
un’eventuale sanatoria dell’improcedibilità e non in quella, a monte, di esclusione del vizio,
caldeggiata nello scritto in esame. E ciò, anche ove non si condivida l’assunto per cui il
deposito nel termine della copia autentica munita di relata è previsto anche nell’interesse del
resistente, di cui dirò subito appresso nel testo.
(15) Per le ragioni ora indicate nel testo, non sembra pienamente condivisibile il rilievo
di M. C. Vanz, Sulle sorti (forse ancora da ridiscutere) del ricorso in cassazione in caso di
mancato deposito della copia autentica della sentenza e della relata di notifica, cit., 384,
secondo la quale «la severità della scelta legislativa va di gran lunga oltre le necessità
perseguite dalla norma, poiché non vi è alcun bisogno di fissare una scansione temporale
cosı̀ ristretta, e tanto pesantemente sanzionata, per il deposito di documenti finalizzati a
controlli proiettati in là nel tempo (…) al momento della decisione, perciò a gran distanza
dalla scadenza del termine stesso». Né la fissazione del termine perentorio ci sembra giustificabile con l’obbiettivo, per le ragioni messe in luce anche nell’ordinanza di rimessione n.
1081/2016, «di imporre al ricorrente un onere di celerità nello svolgimento delle attività
previste dall’art. 369 c.p.c., il cui inadempimento è sanzionato pesantemente, proprio in
funzione delle particolari caratteristiche del giudizio di legittimità» (Id., op. cit., 385).
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sue conclusioni), dell’ammissibilità della impugnazione, incluso il profilo
della tempestività, e della fondatezza dei motivi di ricorso proposti.
Allora lo scopo dell’art. 369 c.p.c. può dirsi raggiunto, nell’ipotesi ora
considerata, e l’improcedibilità sanata:
a) quando la copia autentica della sentenza impugnata (con la relazione di notificazione, se avvenuta), pur non depositata «insieme col ricorso»,
sia poi depositata dal ricorrente a norma dell’art. 372, comma 2˚, c.p.c.
entro il «termine di venti giorni dall’ultima notificazione alle parti contro
le quali è proposto» il ricorso. Infatti, «la funzione d’ordine processuale
esplicata dalla norma, non attiene alla contestualità (che non avrebbe senso
alcuno), ma alla rapidità di determinati adempimenti fin dalla fase di
costituzione del ricorrente (espressa nel termine di venti giorni dalla notificazione) in una visione di equilibrio paritario tra le posizioni delle parti
(l’art. 370 ha disposizione analoga per la costituzione del controricorrente
e l’art. 371 comma 3˚ c.p.c. richiama l’intero art. 369 per il ricorso incidentale) e di tutela iniziale delle altre parti del processo» (16).
b) Quando la copia autentica della sentenza impugnata (con la relazione di notificazione, se avvenuta) sia stata prodotta dal controricorrente.
In questo caso, invero, il controricorrente è stato in grado di verificare la
regolarità della costituzione del ricorrente in tempo utile per adeguare il
suo controricorso. Pertanto, se tale costituzione appare regolare, nulla
quaestio; se, diversamente, vi sono vizi della costituzione del ricorrente
(ad es., inammissibilità del ricorso per tardività della notifica), saranno
questi ad essere eccepiti nel controricorso, e non già l’improcedibilità
per omesso deposito di copia autentica della sentenza, giacché tale omissione ha ormai perso qualsiasi rilevanza in virtù del deposito effettuato dal
controricorrente e del fatto che per la Suprema Corte la sentenza è indispensabile, come abbiamo visto, solo al momento della verifica della sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio.
c) Più articolato è il discorso per quanto riguarda l’ipotesi in cui la
copia della sentenza sia presente nel fascicolo d’ufficio trasmesso alla
Suprema Corte. Anzitutto, va osservato che il problema può verosimilmente porsi solo quando non vi sia stata notifica della sentenza, ché
diversamente non si vede come la copia con la relazione di notificazione
possa trovarsi nel fascicolo d’ufficio. Ove comunque dovesse verificarsi
(16) Cass. 14 luglio 1993, n. 7802, in Foro it. 1993, I, 3018 ss., con nota di G. Tombari
Fabbrini, Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per
raggiungimento dello scopo.
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tale ultima evenienza, valgono le seguenti considerazioni per il caso di
mancata notifica.
Il mero rinvenimento di copia autentica della sentenza nel fascicolo
d’ufficio non integra lo scopo dell’art. 369 c.p.c. per le stesse ragioni che
abbiamo visto a proposito del deposito tardivo nelle forme dell’art. 372,
comma 2˚, c.p.c. Peraltro, sempre per le medesime ragioni ivi considerate,
si deve ritenere che la mancata eccezione di omesso deposito nel termine,
proponibile dalle parti interessate, determini la convalidazione soggettiva
del relativo vizio; sicché, considerato il raggiungimento dello scopo per
quel che concerne le funzioni della Corte e del pubblico ministero, dovrebbe escludersi anche qui la dichiarazione di improcedibilità del ricorso,
essendone del pari venuti meno tutti i presupposti.
All’esito di questa riflessione, ci sembra che debbano senz’altro essere
respinte le conclusioni cui è giunta la Suprema Corte nella sentenze n.
19654/2004, n. 15396/2007 e ribadite dalle Sezioni Unite con la decisione
n. 9005/2009. Né appare utile la distinzione, operata in dette sentenze, tra
il caso in cui il ricorrente abbia allegato il fatto dell’avvenuta notifica della
sentenza contro cui ricorre e il caso in cui non abbia allegato tale fatto,
dovendosi piuttosto avere riguardo all’effettiva effettuazione della notifica
o alla sua mancanza.
Infatti: a) se la notifica della sentenza è avvenuta, il ricorrente deve
provare la tempestività del ricorso producendo la copia autentica con la
relazione di notificazione, o insieme col ricorso o anche separatamente, ma
al più tardi nei venti giorni successivi alla notifica del ricorso stesso, nelle
forme di cui all’art. 372, comma 2˚, c.p.c. Se non produce la copia autentica della sentenza entro tale termine o la produce priva della relazione di
notificazione, si espone al rilievo d’ufficio e/o alla eccezione della controparte di improcedibilità, la quale deve essere dichiarata salvo che agli atti
del giudizio di legittimità sia presente copia autentica della sentenza impugnata con la relazione di notificazione, in quanto depositata dal controricorrente (nel caso ora considerato, di avvenuta notifica della sentenza,
non appare verosimile che la copia autentica con la relazione possa essere
contenuta nel fascicolo d’ufficio delle fasi di merito).
b) Se la notifica della sentenza non è avvenuta, il ricorrente deve
comunque provare la tempestività del ricorso producendo la copia autentica della sentenza impugnata, o insieme col ricorso o anche separatamente, ma al più tardi nei venti giorni successivi alla notifica del ricorso stesso,
nelle forme di cui all’art. 372, comma 2˚, c.p.c. Se non produce la copia
autentica della sentenza entro tale termine, si espone al rilievo d’ufficio e/o
alla eccezione della controparte di improcedibilità, la quale deve essere
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dichiarata salvo: aa) che agli atti del giudizio di legittimità sia presente
copia autentica della sentenza impugnata, in quanto depositata dal controricorrente; bb) che il controricorrente non abbia sollevato l’eccezione di
improcedibilità e tale copia autentica sia contenuta nel fascicolo d’ufficio (17).
6. – Tre brevi notazioni per concludere.
A) Anzitutto, va espresso deciso apprezzamento per l’ordinanza di
rimessione n. 1081/2016, la quale si distingue per chiarezza di dettato,
ricchezza d’informazione priva di eccessi verbali, acuta esegesi ed attenzione per il sistema, anche sovranazionale, nonché per il modo equilibrato
d’intendere la portata dei diversi valori sottesi al «giusto processo» di cui
all’art. 111 Cost.
B) A quest’ultimo proposito l’ordinanza de qua si pone, come notavo
all’inizio di queste osservazioni, nell’alveo di una recente tendenza antiformalistica della Suprema Corte, la quale attraverso una serie di importanti decisioni mostra rinnovata – e ritrovata – attenzione per il fine
(anche) costituzionale della tutela giurisdizionale: la pronuncia nel merito della domanda proposta (in primo grado o in sede d’impugnazione) (18).
C) Quest’ultima tendenza, d’altronde, appare decisamente più conforme all’attuale sistema della precedente, incline ad un eccessivo formalismo,
che ha caratterizzato gli ultimi due lustri. Infatti, il nostro sistema processuale appare strutturato in base al principio per il quale, quando l’atto
processuale è compiuto in modo difforme dal modello legale, se il vizio
non condiziona l’esistenza o l’individuabilità del potere processuale esercitato, ma incide solo sui poteri degli altri soggetti del processo – escludendoli o limitandoli – il procedimento conosce sempre uno schema di
sanatoria del vizio stesso, che opera conservando gli effetti del potere
(17) Per questa ricostruzione v., anche per una più diffusa argomentazione in proposito, R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit., 92 ss., spec. 111 ss.
(18) Infatti, oltre alle decisioni richiamate nella motivazione della stessa ordinanza n.
1081/2016, possono essere ricordate, tra le altre, Cass., Sez. un., 4 marzo 2016, n. 4248, in
tema di sanabilità ex tunc anche nel giudizio di legittimità del difetto di rappresentanza
processuale; Cass., Sez. un., 5 gennaio 2016, n. 29, in punto di pregiudizialità giurisdizione/
competenza, che rimarca significativamente come il giusto processo viene celebrato per
rendere una decisione di merito; Cass. 30 marzo 2015, n. 6427, che ha rimesso alle Sezioni
Unite la questione della validità scientifica ed utilità pratica della distinzione tra nullità ed
inesistenza della notificazione; e Cass. 5 febbraio 2015, n. 2143, a proposito dell’interpretazione del novellato art. 342 c.p.c.
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esercitato, esistente e individuabile, prodottisi sin dal primo compimento
dell’atto viziato (19).
Per questa ragione, è auspicabile che, nell’attuale stagione della Suprema Corte, si trovi anche il modo di rivedere gli altri orientamenti che
collidono con tale principio, come, ad es., quello per cui, in caso di errore
sulla scelta dell’atto introduttivo del giudizio (citazione al posto del ricorso
e viceversa), il vizio è sanato solo se l’atto erroneamente posto in essere è
depositato o, rispettivamente, notificato entro il termine previsto per l’atto
che si sarebbe dovuto compiere (20); nonché – specie alla luce di Cass.,
Sez. un., 12 marzo 2014, n. 5700, ricordata anche nell’ordinanza di rimessione n. 1081/2016, da cui hanno preso le mosse queste osservazioni –
quello per cui, nel rito del lavoro, in caso di vizio della notificazione del
ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, la concessione di un termine per provvedere ad una nuova notificazione sarebbe ammissibile solo
in caso di nullità (in senso stretto) e non anche di omissione della notificazione stessa (21).
In questa prospettiva, i tempi sono maturi, a mio avviso, per cominciare a riconsiderare, in termini che tengano in maggior conto il fine
costituzionale del processo, anche le conseguenze dell’atto di impugnazione erroneamente proposto avanti ad un giudice diverso da quello previsto
dalla legge (22).
ROBERTO POLI
Professore associato nell’Università di Cassino e del Lazio meridionale
(19) Per un argomentato discorso al riguardo, v. R. Poli, Invalidità ed equipollenza, cit.,
11 ss.; 146 ss.; 158 ss.; 176 ss.; 201 ss.; 204; 221 ss.; 227 ss.; 233 ss.; 253 ss.; 259; 260 ss.;
287; 310; 333; 344; 390 ss.; 461; 465; 527 ss.; 631 ss.; 647 ss.
(20) Cass., sez. un., sentenza 10 febbraio 2014, n. 2907, in questa Rivista, con mia nota,
Le Sezioni Unite sul regime del ricorso proposto erroneamente al posto della citazione e
viceversa.
(21) Cass., Sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, in Foro it. 2009, I, c. 1130 ss., con nota di
A.D. De Santis, Opposizione a decreto ingiuntivo per crediti di lavoro e conseguenze della
violazione del termine per la notifica del ricorso e del decreto (e anche del ricorso in appello).
Importanti indicazioni nel senso di cui al testo già in Cass. 27 gennaio 2015, n. 1483.
(22) Su tale tema rinvio a R. Poli, Impugnazione proposta al giudice incompetente
e translatio iudicii. in questa Rivista 2016, 396 ss.
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ATTUALITÀ LEGISLATIVA
L’ISCRIZIONE A RUOLO NEL PROCESSO ESECUTIVO
RIFORMATO
SOMMARIO: 1. La nuova iscrizione a ruolo del processo espropriativo. – 2. Adempimenti a
carico del creditore. – 3. Il termine per l’iscrizione a ruolo. – 4. L’iscrizione a ruolo
nell’espropriazione presso terzi. – 5. Segue: nell’espropriazione di autoveicoli. – 6.
L’iscrizione a ruolo in caso di conversione del sequestro conservativo in pignoramento.
– 7. Segue: nel pignoramento di partecipazione di s.r.l. e nel pignoramento di navi. – 8.
Il nuovo art. 159 ter disp. att. c.p.c. – 9. Conseguenze della omessa o tardiva iscrizione
a ruolo.
1. – Nel noto d.l. 12 settembre 2014, n. 132 convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162 è contemplato un Capo V intitolato, emblematicamente, «Altre disposizioni per la tutela del credito nonché per la semplificazione e l’accelerazione del processo di esecuzione
forzata e delle procedure concorsuali», con cui il legislatore italiano interviene ancora sul processo esecutivo perseguendo, anche questa volta, l’ambizioso obiettivo di contrastare la lentezza del processo esecutivo.
Tra i rimedi concepiti a questo scopo, l’art. 18 introduce a carico del
creditore l’onere di depositare la nota di iscrizione a ruolo del processo
espropriativo (1), entro un termine stabilito a pena di inefficacia del pignoramento. Si abbandona cosı̀ la pratica dell’iscrizione a ruolo automatica nel tentativo: di contrastare l’inutile avvio di processi espropriativi
destinati all’estinzione (2) e di sopperire all’inadeguatezza del personale
che nell’ufficio di cancelleria è adibito alle procedure esecutive.
La nuova previsione, letta alla luce della ratio legis dichiarata, a nostro
sommesso modo di vedere, mal si concilia con l’ulteriore adempimento
rimesso al creditore per effetto della modifica apportata dall’art. 13, comma 1˚, lett. a) d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (3) al 2˚ comma dell’art. 480 c.p.c.
(1) Non anche di quelli di esecuzione in forma specifica in cui manca una scansione
temporale tra la pendenza e la formale instaurazione del processo.
(2) Si pensi all’ipotesi in cui anteriormente all’istanza di assegnazione o vendita si
verifichi una vicenda satisfattiva del diritto di credito, quale potrebbe essere un pagamento
o un accordo di rateizzazione intervenuto dopo che il debitore abbia ricevuto l’atto di
pignoramento.
(3) Intitolato: «Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di
organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria» e convertito nella l. 8
agosto 2015, n. 132.
Rivista di diritto processuale 3/2016
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che, con l’intento di promuovere la diffusione degli istituti introdotti dalla
l. 27 gennaio 2012, n. 3 (4), tra i requisiti di forma-contenuto dell’atto di
precetto oggi annovera anche «l’avvertimento che il debitore può (…)
porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento concludendo con i
creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi
un piano del consumatore» (5), senza prevedere però alcuna conseguenza
sulla sorte dell’iniziativa esecutiva qualora il debitore optasse per il rimedio
esdebitatorio.
Considerato che l’unico effetto riconducibile al mero deposito della
proposta di accordo del debitore o di piano del consumatore è la sospensione del corso degli interessi convenzionali o legali (art. 9, n. 3-quater l. 27
gennaio 2012, n. 3), vi è da ritenere che tale iniziativa non serva ad inibire
l’avvio di procedure esecutive o a sospendere quelle già intraprese, non
essendo prescritta alcuna interruzione del termine di dieci giorni assegnato
dal precetto, né alcuna sospensione del termine di efficacia dell’atto di
pignoramento. Pertanto, qualora il creditore instaurasse il processo espropriativo già all’undicesimo giorno dalla notificazione dell’atto di precetto,
l’eventuale iniziativa del debitore volta al risanamento della propria situazione ancor prima dell’iscrizione a ruolo non implicherebbe la sospensione
del relativo termine, imponendo al creditore di dare comunque impulso ad
un processo destinato alla sospensione e probabilmente all’estinzione, pur
nella consapevolezza dell’intenzione del debitore di porre rimedio alla
propria posizione di sovraindebitamento (6).
2. – Con l’introduzione dell’iscrizione a ruolo su iniziativa del creditore
sono stati riscritti il 6˚ comma dell’art. 518 c.p.c.; il 4˚ comma dell’art. 543
c.p.c. e l’art. 557 c.p.c. La novità riguarda la consegna al creditore, a cura
(4) Modificata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n.
221. Con tale complesso di norme si intende disciplinare l’insolvenza civile dei debitori non
fallibili con effetto esdebitatorio. Cosı̀ G. Trisorio Liuzzi, I procedimenti di composizione
della crisi da sovraindebitamento del debitore civile e del consumatore dopo il D.L. 18 ottobre
2012, n. 179, in Giusto proc. civ. 2013, 387 e ss., spec. 388.
(5) Malgrado il silenzio della legge, valorizzando l’inserimento dell’avvertimento nel 2˚
comma dell’art. 480, ed anche la sua funzionalità allo scopo dell’atto di precetto ai sensi
dell’art. 156 c.p.c., si potrebbe ritenere che il mancato avvertimento sia causa di nullità
dell’atto.
(6) A conferma di tale ricostruzione, l’art. 10, comma 2˚ lett. c) l. 27 gennaio 2012, n. 3
prescrive che solo dopo l’approvazione dell’accordo o del piano di ristrutturazione dei
debiti sono precluse le azioni esecutive che, se intraprese, non possono essere proseguite;
mentre l’art. 12 bis, in modo piuttosto singolare, per il piano del consumatore prevede che la
sospensione riguarderà unicamente i procedimenti di esecuzione già avviati che possano
pregiudicarne la fattibilità.
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dell’ufficiale giudiziario, rispettivamente: del processo verbale, del titolo
esecutivo e del precetto; dell’originale dell’atto di citazione, dopo che sia
stata eseguita l’ultima notificazione (7); dell’atto di pignoramento, corredato della nota di trascrizione nei registri immobiliari, qualora di questa si
fosse fatto carico lo stesso ufficiale giudiziario. Da questo momento verrà
computato il termine per l’iscrizione a ruolo, da compiersi con il deposito
della nota presso la cancelleria del giudice competente per l’esecuzione, il
cui contenuto, pressoché analogo a quello della nota di iscrizione a ruolo
del processo di cognizione, è specificato dal nuovo art. 159 bis disp. att.
c.p.c. (8). L’attestazione di conformità agli originali delle copie degli atti
da depositare insieme alla nota (ed a partire dal 31 marzo 2015 da trasmettere invece telematicamente (9)) è rimessa all’avvocato e ha efficacia
limitata a tale adempimento (10).
Sebbene negli articoli riformati si faccia unicamente riferimento al
creditore, quale soggetto interessato all’adempimento e dunque alla prosecuzione del processo esecutivo, per effetto del nuovo art. 159 ter disp.
att. c.p.c. introdotto dalla l. 6 agosto 2015, n. 132 di conversione del d.l.
27 giugno 2015, n. 83, l’iscrizione a ruolo potrà oggi essere richiesta anche
da un soggetto diverso (come meglio vedremo infra al § 8). Permarrà però
ancora a carico del creditore pignorante l’onere di depositare, a supporto
della nota di iscrizione a ruolo, gli altri atti indispensabili alla formazione
del fascicolo d’ufficio, nei termini stabiliti dalla legge sempre a pena di
inefficacia del pignoramento. Ciò rivela l’indispensabilità di tale adempimento, sebbene nella rubrica e nel testo dell’art. 164 ter disp. att. c.p.c. le
conseguenze di tale inefficacia vengano riferite unicamente al «mancato
deposito della nota di iscrizione a ruolo» nel termine stabilito.
(7) Il riferimento ancora all’atto di citazione anziché a quello di pignoramento sembra
frutto di una mera dimenticanza.
(8) Ad integrazione degli elementi indicati in questo articolo, il d. m. 19 marzo 2015,
pubblicato in Gazz. uff. serie generale 23 marzo 2015, n. 68, fornisce ulteriori dati da
inserire obbligatoriamente nella nota, tra cui quelli identificativi del titolo esecutivo ed
inoltre: per l’espropriazione immobiliare tutto quanto sia necessario ad individuare il bene
oggetto di pignoramento; per l’espropriazione mobiliare presso il debitore anche i dati
identificativi dell’eventuale custode e per quella presso terzi, l’indicazione della data dell’udienza di comparizione delle parti. Tanta puntualità nell’indicazione degli elementi della
nota di iscrizione a ruolo dovrebbe scongiurare il rischio di un suo vizio di nullità per
indeterminatezza del bene oggetto del pignoramento.
(9) Da qui la modifica al 2˚ comma dell’art. 16 bis, d.l. 18 ottobre 2012, n. 179,
convertito nella l. 17 dicembre 2012, n. 22.
(10) A tal fine basterà inserire la relativa attestazione nell’indice o nella nota di deposito
che si allega come atto principale in corrispondenza di ogni documento. In tal senso v. il d.
m. 28 dicembre 2015, in Gazz. uff. 7 gennaio 2016, n. 4.
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Invero il deposito degli altri atti, indispensabile per formalizzare l’iscrizione a ruolo, consente di perseguire un duplice obiettivo. Da un
canto, grazie alla collaborazione del creditore, il quale dovrà farsi carico
della conversione in copie informatiche degli atti ricevuti dall’ufficiale
giudiziario e della loro trasmissione all’ufficio di cancelleria, si favorisce
la diffusione del processo esecutivo telematico, che prende avvio con la
formazione del fascicolo in cui convergeranno tutti gli atti del processo
espropriativo (11); dall’altro, viene scongiurato il rischio dello svolgimento
del processo espropriativo senza il deposito del titolo esecutivo e dell’atto
di precetto (12). Al riguardo va anzi ravvisato il mancato adeguamento alle
nuove previsioni dell’art. 488, comma 2˚ c.p.c., in cui si legge ancora che il
creditore può essere autorizzato a depositare, in luogo dell’originale, una
copia autentica del titolo esecutivo. Nulla esclude invece che il giudice
dell’esecuzione, sempre ai sensi della medesima disposizione, in qualsiasi
momento dell’espropriazione, possa ordinare al creditore il deposito dell’atto in originale (13).
Stante la complessità degli adempimenti necessari al perfezionamento
dell’iscrizione a ruolo, non se ne può escludere il compimento in tempi
diversi, ma pur sempre nel rispetto del termine prescritto dalla legge.
Evenienza inevitabile nell’ipotesi di iscrizione a ruolo avviata ai sensi dell’art. 159 ter disp. att. c.p.c., ma possibile anche quando ad essa provveda
integralmente il creditore. Per ciò che attiene infine al versamento del
contributo unificato, l’art. 14, comma 1˚, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115
sulle spese di giustizia, continua a prevedere che sia dovuto contestualmente all’istanza di assegnazione o vendita del bene pignorato (14).
(11) Il fascicolo rimarrà unico anche nell’evenienza di più pignoramenti successivi nei
confronti dello stesso debitore o del pignoramento compiuto cumulativamente da più
creditori sullo stesso bene, ai sensi dell’art. 493, comma 1˚ c.p.c.
(12) Anteriormente alla riforma si era affermato il principio secondo il quale non fosse
inficiata da nullità l’ordinanza di vendita, nonostante il deposito del titolo esecutivo e del
precetto fosse avvenuto oltre il termine prescritto dall’art. 557, comma 2˚, c.p.c. In tal senso
Cass. 22 marzo 2007, n. 6957, in Giur. it. 2007, Mass. Oggi invece il deposito di tali atti
oltre il termine perentorio stabilito dalla legge determinerà l’inefficacia del pignoramento,
che potrebbe condizionare la validità dell’ordinanza di vendita.
(13) L’inottemperanza alla richiesta del giudice impedirà la prosecuzione del processo
esecutivo e se protratta potrebbe preludere ad una chiusura anticipata del processo ex art.
164 bis disp. att. c.p.c. Diversamente P. Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto
pratico, Milano 2015, 152, per il quale ciò determinerebbe l’immediata estinzione del processo esecutivo.
(14) Previsione confermata dalla Circolare ministeriale 3 marzo 2015, n.38550 che ha
escluso la modifica dell’art. 14, nonostante la nuova formulazione dell’art. 518, comma 6˚,
c.p.c. Tale scelta si pone in evidente dissonanza con quanto invece prescritto nell’art. 14,
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3. – Il termine per gli adempimenti necessari all’iscrizione a ruolo del
processo esecutivo è quello di quindici giorni per il pignoramento mobiliare e immobiliare, di trenta invece per il pignoramento presso terzi e per
quello di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi, secondo quanto disposto
dall’art. 521 bis, comma 5˚ c.p.c. Sebbene non sia qualificato espressamente come perentorio, a renderlo tale è la previsione dell’inefficacia del
pignoramento in caso di inottemperanza. Fuorché per il pignoramento
di autoveicoli, il dies a quo coincide con quello in cui l’ufficiale giudiziario
consegna al creditore, senza ritardo, gli atti necessari per procedere all’iscrizione a ruolo.
Non essendo disposto alcunché circa la tempestività della consegna, né
sulle sue modalità, riterrei che sul primo punto possa valere quanto prescritto nella disciplina previgente circa il deposito degli atti necessari alla
formazione del fascicolo d’ufficio, a cura dello stesso ufficiale giudiziario, il
quale, nel caso di pignoramento mobiliare, avrebbe dovuto provvedervi
entro ventiquattro ore dal compimento delle operazioni.
Quanto al secondo punto, sebbene il termine «consegna» evochi l’iniziativa «spontanea» dello stesso ufficiale giudiziario, è estremamente
improbabile che questi si preoccupi di curare la trasmissione dell’atto di
pignoramento all’indirizzo del creditore (15), il quale dovrà farne piuttosto
esplicita richiesta. Ciò renderà incerto il dies a quo per il computo del
termine di iscrizione a ruolo (16), per una verifica del quale l’ufficiale
giudiziario dovrà annotare in calce agli atti la data dell’avvenuta consegna (17). Tale incertezza, che potrebbe procrastinare lo stato di quiescenza
comma 1˚ bis, introdotto dal d.l. 12 settembre 2014 n. 132, conv. con modif. nella l. 10
novembre 2014, n. 162, a mente del quale l’istante dovrà versare il contributo unificato
contestualmente alla richiesta di autorizzazione della ricerca dei beni da pignorare ai sensi
dell’art. 492 bis c.p.c., che giustificherebbe le perplessità sull’attuale utilità dell’istanza di
vendita, espresse in dottrina da G. Miccolis, Le modifiche alla disciplina dell’esecuzione
forzata: quadro generale, in Foro it. 2015, V, 77.
(15) Il quale sarebbe auspicabile che venisse almeno avvertito dell’avvenuto compimento delle operazioni di pignoramento.
(16) Il creditore potrebbe temporeggiare fintantoché non abbia conosciuto l’esito della
notificazione dell’atto di pignoramento eseguita, in caso di irreperibilità del destinatario, ai
sensi dell’art. 140 c.p.c. ovvero a mezzo posta, ai sensi dell’art. 149 c.p.c. Cosı̀ A.M. Soldi,
Manuale dell’esecuzione forzata, Padova 2016, 459.
(17) Pur nel silenzio della legge, tale adempimento si rende necessario per consentire al
debitore di verificare la tempestività dell’iscrizione a ruolo con la semplice consultazione del
fascicolo d’ufficio nel quale sono state depositate, tramite il sistema informatico, copie degli
atti interamente riprodotti. Si supererebbe cosı̀ il dubbio sulle modalità con cui il debitore
possa avere accesso ai registri dell’ufficiale giudiziario, «da cui dovrebbe risultare l’avvenuta
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del processo espropriativo già pendente per effetto del pignoramento,
viene contrastata dal termine acceleratorio prescritto per l’istanza di assegnazione o vendita che invece è predeterminato e il cui mancato rispetto,
sanzionato sempre con l’inefficacia del pignoramento, dovrebbe indurre il
creditore a non temporeggiare troppo nella richiesta dell’atto di pignoramento funzionale all’iscrizione a ruolo. Invero il dimezzamento del termine
prescritto dall’art. 497 c.p.c., ad opera dalla citata legge n. 132 del 2015,
avrebbe potuto indurre il legislatore a prevedere un termine unico, valido
anche per l’istanza di iscrizione a ruolo divenuta ormai il primo atto di
impulso processuale dopo il pignoramento. Pur in mancanza di una esplicita previsione in tal senso, non è da escludere che in talune ipotesi le due
istanze vengano depositate contestualmente.
È verosimile che l’iscrizione a ruolo preceda l’istanza di vendita nel
pignoramento immobiliare, qualora sia lo stesso creditore a farsi carico
dell’adempimento pubblicitario. Al riguardo, accedendo alla tesi prevalente che individua nella trascrizione l’atto perfezionativo del pignoramento
anche ai fini del computo del termine acceleratorio di cui all’art. 497
c.p.c. (18), è da ritenere che il creditore possa essere obbligato ad iscrivere
a ruolo il processo espropriativo ancor prima che il pignoramento si sia
perfezionato (19). L’art. 557, comma 2˚ c.p.c. puntualizza infatti che la
nota di trascrizione dovrà essere depositata dal creditore appena restituitagli dal conservatore dei registri immobiliari, dunque anche successivamente al deposito della nota di iscrizione a ruolo e degli altri atti prescritti,
senza che questo alteri la decorrenza del termine di quindici giorni, da
riferire sempre alla consegna dell’atto di pignoramento (20). Si eviterà cosı̀
consegna», avanzato in dottrina da B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile,
Torino 2016, 208.
(18) In tal senso G. Verde, Il pignoramento. Studio sulla natura e sugli effetti, Napoli,
1964, 20 ss. e 30, nota 58, per il quale il termine dilatorio dell’art. 501 c.p.c., cosı̀ come
quello acceleratorio dell’art. 497 c.p.c., «non può non decorrere dalla trascrizione eseguita a
norma degli ultimi due commi dell’art. 555». Cosı̀ recentemente anche Cass. 20 aprile 2015,
n. 7998, in Riv. esecuz. forz. 2015, 529, che definisce il pignoramento immobiliare come una
fattispecie a formazione progressiva, che si compone di due momenti processuali autonomi
cui corrispondono due diversi adempimenti, entrambi però necessari al perfezionamento del
pignoramento. Nello stesso senso, tra gli altri, B. Capponi, op. cit., p. 228, il quale pone in
evidenza come ciò sia coerente con la previsione per cui, senza la trascrizione, il giudice
dell’esecuzione non possa disporre sull’istanza di vendita.
(19) Né si potrebbe pensare che il creditore temporeggi nella richiesta dell’atto di
pignoramento per avvantaggiarsi di una decorrenza del termine di iscrizione a ruolo posticipata rispetto alla trascrizione, per provvedere alla quale egli già dispone dell’atto di
pignoramento.
(20) È questa la ragione per cui l’art. 557, comma 3˚ c.p.c. non include la copia
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che il creditore possa beneficiare di un termine più lungo, qualora avesse
lasciato decorrere inutilmente quello stabilito per assolvere all’onere di
iscrizione a ruolo, o essere penalizzato invece nell’ipotesi di restituzione
tardiva della nota di trascrizione da parte della conservatoria.
Nel caso di pignoramento mobiliare, in cui è senz’altro possibile depositare contestualmente le due istanze, è prescritto che, fino alla scadenza
del termine di cui all’art. 497 c.p.c., una copia del verbale di pignoramento
rimanga presso l’ufficiale giudiziario, sı̀ da permettere al debitore di consultarla per valutare se avvalersi di istituti quali: la riduzione o la conversione del pignoramento ovvero per proporre eventuali rimedi oppositivi.
Probabilmente si è inteso cosı̀ sopperire alla previsione dell’art. 518, comma 6˚ c.p.c. che, modificata nel 2006, consentiva al debitore di richiedere
all’ufficiale giudiziario la trasmissione del processo verbale (21).
Qualora il creditore intendesse pignorare insieme coll’immobile anche
i mobili che lo arredano, l’art. 556 c.p.c. prescrive che l’ufficiale giudiziario
formi «atti separati per l’immobile e per i mobili», per poi depositarli
insieme nella cancelleria del tribunale. La norma, che è rimasta immutata,
deve intendersi oggi nel senso che l’ufficiale giudiziario depositi in cancelleria il verbale di pignoramento mobiliare, in cui è fatta esplicita menzione
del collegamento, e la scrittura di pignoramento immobiliare affinché si
provveda all’iscrizione a ruolo, per poi consegnarli al creditore, il quale
sarà comunque onerato della loro trasmissione telematica, unitamente agli
ulteriori atti indicati negli artt. 518 e 557 c.p.c. Il fascicolo dell’esecuzione
continuerà ad essere unico, per effetto dell’attrazione del pignoramento
mobiliare in quello immobiliare, cosı̀ come ritenuto dalla dottrina pressoché unanimemente.
4. – Nel pignoramento presso terzi il termine per l’iscrizione a ruolo è
raddoppiato. Si confida infatti sul previo perfezionamento del pignoramento, oggi favorito dalla dichiarazione del terzo da inviare al creditore
con lettera raccomandata o tramite PEC. Dunque se è verosimile che
prima della scadenza del termine per iscrivere il p.e. a ruolo il creditore
avrà già ricevuto la dichiarazione scritta del terzo, è altresı̀ vero che il
autenticata della nota di trascrizione tra gli atti da depositare insieme alla nota di iscrizione a
ruolo a pena di inefficacia del pignoramento. Per una lettura più rigorosa v. A. Miozzo, Sub
art. 557 c.p.c., in Codice dell’esecuzione forzata, a cura di E. Vullo, Milano 2015, 485.
(21) Ritenuta ancora possibile da A.M. Soldi, op. cit., p. 843. Sarebbe senz’altro opportuno che il debitore ricevesse quantomeno una comunicazione della data di consegna del
verbale di pignoramento al creditore procedente.
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termine di dieci giorni, prescritto nell’art. 543, comma 2˚, n. 4 c.p.c. per
rendere la dichiarazione, non è perentorio. Pertanto, qualora il terzo dovesse disattenderlo, il creditore pignorante, pur non potendone prevedere
la condotta futura, dovrà comunque depositare la nota di iscrizione a
ruolo, se cosı̀ possiamo dire al buio, per evitare la perenzione del pignoramento (22), confidando sugli effetti della non contestazione qualora la
dichiarazione non venisse resa in alcuna delle due udienze previste dall’art.
548 c.p.c. (23).
Le aspettative del creditore potrebbero però andare deluse qualora il
terzo, comparendo all’udienza, rendesse una dichiarazione negativa. Al
verificarsi di una simile evenienza non si potrà scongiurare l’avvio di un
procedimento destinato probabilmente all’estinzione (24), né ad esonerare
il cancelliere dall’attività finalizzata alla formazione del relativo fascicolo.
La situazione non è destinata a cambiare quando l’espropriazione
abbia ad oggetto crediti del debitore esecutato o beni mobili che si trovino
nella disponibilità di terzi rinvenuti dall’ufficiale giudiziario in esito all’indagine telematica condotta sul patrimonio del debitore. In tal caso il 5˚
comma dell’art. 543 c.p.c., introdotto dall’art. 19, comma 1˚ lett. e) del d.l.
n. 132 del 2014, rinvia al comma precedente per gli adempimenti necessari
all’iscrizione a ruolo, nel tentativo di coordinare tale onere del creditore
con le prescrizioni dell’art. 492 bis c.p.c. e con le novità introdotte in
materia di pignoramento presso terzi. Il risultato è una procedura che si
rivela piuttosto farraginosa (25), considerate le deroghe che si impongono
rispetto al modello ordinario.
(22) In tal senso M. Bove, La nuova disciplina in materia di espropriazione del credito, in
Nuove leggi civ. comm. 2015, 1 e ss., spec. 7, il quale, al riguardo, evidenza come gli
accadimenti concreti possano alterare il «modello ideale».
(23) Con le modifiche apportate a questa norma dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228
prima e, successivamente, dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, solo dopo la celebrazione della
seconda udienza senza che il terzo sia comparso o abbia reso alcuna dichiarazione, il credito
pignorato o il bene del debitore in possesso del terzo si considerano non contestati ai fini del
procedimento espropriativo, a condizione però che l’indicazione del creditore ne consenta
l’esatta identificazione, perché, diversamente, cosı̀ come oggi dispone il 1˚ comma dell’art.
549 c.p.c. dopo la più recente modifica apportata dalla l. 6 agosto 2015, n. 132 di conversione del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, occorrerà ancora l’intervento del giudice dell’esecuzione
per ovviare alla indeterminatezza dell’oggetto del pignoramento. Ciò consente di superare i
dubbi espressi in dottrina da A. Saletti, Le novità dell’espropriazione presso terzi, in Riv.
esecuz. forz. 2013, 8 ss., spec. 14 ss.
(24) Rimane ovviamente ferma la possibilità di rimettere al giudice dell’esecuzione l’
«accertamento» della veridicità della dichiarazione resa dal terzo, ai sensi dell’art. 549 c.p.c.
(25) In tal senso A. Tedoldi, Le novità in materia di esecuzione forzata nel d.l. 132/2014,
in Corriere giur. 2015, 390 ss., spec. 397. La maggiore complessità della procedura è
sottolineata da M. Bove, op. ult. cit., 12, che al riguardo parla di «percorso speciale» e
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In tal caso infatti l’atto di pignoramento si articolerà in due momenti (26). Il primo rimesso all’ufficiale giudiziario che, dando seguito all’istanza formulata dal creditore con la richiesta di autorizzazione all’avvio delle
indagini patrimoniali, pignorerà «d’ufficio» il credito o il bene del debitore
nella disponibilità di un terzo rinvenuto in esito a quelle indagini (27). A
tal fine redigerà il processo verbale da notificare al debitore ed al terzo (28),
nel rispetto di tutti i requisiti dell’atto di pignoramento «ordinario», fuorché la fissazione dell’udienza, la «citazione» del debitore e l’invito al terzo
a rendere la dichiarazione, posticipati al deposito del ricorso di assegnazione o vendita. Dopo tale istanza il giudice fisserà l’udienza per l’audizione delle parti con decreto che deve anche contenere l’invito al terzo a
rendere la dichiarazione ai sensi dell’art. 543, comma 2˚, n. 4 c.p.c. (29),
con l’avvertimento delle conseguenze della sua omessa dichiarazione (30).
Questo secondo momento, che consentirà di completare l’atto di pignoramento parzialmente compiuto dall’ufficiale giudiziario, è rimesso all’iniziativa del creditore il quale, nonostante la specialità di questo avvio del
processo espropriativo, sarà comunque onerato dell’iscrizione a ruolo, da
compiersi secondo le modalità prescritte per il modello ordinario e sempre
entro il termine di trenta giorni dalla consegna del verbale precedentemente notificato al debitore e al terzo.
da P. Farina, L’espropriazione presso terzi, in Il processo civile. Sistema e problematiche. Le
riforme del quinquennio 2010-2014, a cura di C. Punzi, Torino 2015, 514, che la ritiene
improntata ad un «modello misto».
(26) Di «atto complesso» parla S. Ziino, Le novità in materia di ricerca dei beni da
pignorare e le disposizioni sulla espropriazione degli autoveicoli, in op. ult. cit., 493 e s.
(27) Se in esito alla ricerca risultassero più crediti o più beni del debitore che siano nella
disponibilità di un terzo, ovvero beni mobili che si trovino in luoghi appartenenti al debitore
non compresi nel territorio di competenza dell’ufficiale giudiziario, questi rilascerà copia
autentica del verbale al creditore che, entro dieci giorni, a pena d’inefficacia della originaria
richiesta di pignoramento, dovrà indicare quali beni sottoporre ad espropriazione.
(28) Con l’indicazione delle banche dati consultate e degli esiti della ricerca. A tutela
del diritto di privacy del debitore, il verbale verrà notificato al terzo per estratto e conterrà
esclusivamente i dati a lui riferibili.
(29) La data dell’udienza dovrà essere fissata tenendo conto del termine minimo di
dieci giorni per consentire al terzo di rendere la sua dichiarazione. Dunque si procederà ai
sensi dell’art. 548 c.p.c. In tal caso però le indicazioni risultanti dall’indagine patrimoniale
telematica favoriranno la difesa del creditore nell’eventuale giudizio promosso ai sensi
dell’art. 549 c.p.c., rendendolo verosimilmente superfluo qualora il terzo non rendesse
affatto la dichiarazione. Diversamente da quanto prescritto per il modello ordinario, per
il quale v. supra, alla nota 23.
(30) Avvertimento che andrebbe però formulato in termini diversi, dando atto che
l’eventuale non contestazione si formerebbe sulle risultanze dell’indagine telematica. In tal
senso A.M. Soldi, op. cit., p. 511.
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La sequenza degli adempimenti necessari per il compimento dell’atto di pignoramento e per l’iscrizione a ruolo è però tutt’altro che lineare.
Infatti, sebbene le informazioni acquisite dalle banche dati consultate
dall’ufficiale giudiziario forniscano delle indicazioni attendibili sulla posizione creditoria del debitore esecutato, non si potrà prescindere dalla
dichiarazione del terzo che verrà resa dopo la notificazione del decreto
con cui il giudice dell’esecuzione fissa l’udienza di comparizione delle
parti, che a sua volta è condizionato al deposito dell’istanza di assegnazione, che dunque precede il perfezionamento del pignoramento. È
facile notare come, seguendo questo modello, gli adempimenti a carico
del creditore si intreccino in modo disorganico complicando la fase
introduttiva del processo espropriativo. Il creditore sarà tenuto a depositare l’istanza di assegnazione rispettando il termine dilatorio dei dieci
giorni che comincerà a decorrere, verosimilmente, dal momento della
notificazione del verbale al debitore e al terzo (31). L’iscrizione a ruolo,
da cui dipende la designazione del giudice che fisserà con decreto l’udienza per l’audizione delle parti, probabilmente sarà compiuta dopo
l’istanza di assegnazione ( 32) e sempre prima della dichiarazione del
terzo.
Questo meccanismo, oltre che farraginoso, sembrerebbe paradossale,
se non fosse che l’alea del pignoramento in tal caso è contrastata dall’attendibilità degli esiti della ricerca telematica che rende altamente probabile
la definizione dell’oggetto dell’espropriazione, tanto da indurre il legislatore a prevedere che quella fissata dal giudice ai sensi dell’art. 543, comma
5˚ c.p.c. sia già l’udienza per l’autorizzazione dell’assegnazione o della
vendita. Ciò non toglie però che quest’udienza potrebbe mutare veste
qualora il creditore comunicasse di non aver ricevuto la dichiarazione
del terzo o su questa dovessero sorgere contestazioni. In tal caso il procedimento si incardinerà sul modello espropriativo ordinario e non si
potrà escludere lo svolgimento della fase «cognitiva» ulteriore, necessaria
per definire l’oggetto del pignoramento qualora il terzo con la sua dichiarazione smentisse le risultanze dell’indagine telematica.
5. – Anche nel neo-introdotto pignoramento di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi, il processo esecutivo andrà iscritto a ruolo nel termine di
trenta giorni, che comincerà a decorrere però da quello in cui il creditore
(31) Di cui dovrà esser data comunicazione al creditore per consentirgli di promuovere
l’avvio di questa seconda fase del pignoramento.
(32) Sarebbe auspicabile che le due istanze venissero proposte contestualmente.
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l’iscrizione a ruolo nel processo esecutivo riformato
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riceverà dall’Istituto vendite giudiziarie (d’ora in poi Ivg) la comunicazione
della materiale apprensione del bene pignorato che, ai sensi dell’art. 521
bis c.p.c., dovrà essere consegnato dal debitore entro dieci giorni dalla
notifica dell’atto di pignoramento. Ciò renderà il dies a quo per il computo
del termine per il deposito della nota di iscrizione a ruolo ancora più
incerto, dipendendo dal momento della consegna del bene all’organismo
incaricato della vendita (33), che presuppone una condotta collaborativa
del debitore, in mancanza della quale si dovrebbe confidare sul rinvenimento del bene da parte degli organi di polizia (34).
Questo meccanismo era comunque destinato ad incepparsi qualora la
consegna del bene non fosse stata effettuata tempestivamente. Il creditore,
infatti, per evitare l’inefficacia del pignoramento, avrebbe dovuto decidere
se dare impulso o no alla procedura con l’istanza di assegnazione o vendita, confidando nell’intercettazione del bene da parte della polizia o in una
sua consegna, seppur tardiva, all’Ivg da parte del debitore (35). Per ovviare
a tale anomalia, opportunamente, il legislatore è intervenuto con la l. 6
agosto 2015, n. 132, di conversione del d.l. n. 83, introducendo nell’art.
521 bis un nuovo 7˚ comma che, in deroga a quanto disposto dall’art. 497
c.p.c., subordina l’istanza di assegnazione o di vendita all’iscrizione a
ruolo (36), da compiersi sempre dopo la comunicazione di materiale apprensione del bene da parte dell’Ivg.
In tal modo, nonostante il perfezionamento del pignoramento e la sua
opponibilità ai terzi, il processo espropriativo rischia una pendenza sine
die, resa però opportuna dall’incongruenza dell’iscrizione a ruolo di un
processo che, in caso di persistente mancanza dell’oggetto, potrebbe essere
dichiarato improcedibile (37).
(33) Aggiungendosi in tal caso all’incertezza sul quando, anche quella sull’an. In tal
senso M. Bove, Pignoramento e custodia di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi, in Giur. it.
2015, 1754 e ss., spec. 1757.
(34) Gli organi di polizia, intercettato il bene, dovrebbero essere in grado di verificare
contestualmente le risultanze del P.R.A. Inoltre secondo A.M. Soldi (op. cit. p. 861 e s.) in
tal caso il compimento della ricerca dei beni presupporrebbe la denuncia-querela sporta dal
creditore contro il debitore ai sensi dell’art. 388 c.p.
(35) I primi commentatori avevano suggerito varie ricostruzione del quadro normativo
per tentare di conciliare il rispetto del termine per l’iscrizione a ruolo con la previsione
dell’art. 497 c.p.c., per le quali v. M. Bove, op. ult. cit., 1757 ss.
(36) Sul punto forse il legislatore sarebbe potuto intervenire estendendo tale previsione
ad ogni forma di espropriazione, scongiurando cosı̀ i dubbi circa l’individuazione del dies a
quo da cui far decorrere il termine stabilito dall’art. 497 c.p.c., specie quando all’avvio
dell’iscrizione a ruolo provveda un soggetto diverso dal creditore (sul punto v. infra al §
8). Per tale suggerimento, M. Bove, Pignoramento e custodia di autoveicoli, cit., 1758.
(37) In tal senso M. Bove, Riforme sparse in materia di esecuzione forzata tra il d.l. n. 83/
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La questione risolta nel 2015, a mio sommesso modo di vedere, non è
destinata a riproporsi qualora la nota di iscrizione a ruolo provenisse da un
soggetto diverso dal creditore pignorante e fosse depositata ancor prima
dell’apprensione materiale del bene da parte dell’Ivg (38).
Infatti, l’art. 521 bis, comma 7˚ c.p.c., ancora in deroga a quanto
prescritto dall’art. 497 c.p.c., dispone che il termine di quarantacinque
giorni per il deposito dell’istanza di assegnazione o vendita in tal caso
cominci a decorre dal deposito delle copie conformi degli atti da produrre
a corredo della nota di iscrizione a ruolo, rimesso sempre al creditore.
Per esso l’art. 159 ter disp. att. c.p.c. rinvia al termine di cui all’art. 521
bis c.p.c, da riferire non solo alla durata (trenta giorni), ma anche al dies a
quo, dunque al momento in cui il creditore riceverà la comunicazione che
l’Ivg ha acquisito la disponibilità del bene staggito (39). Mi sembra questa
la soluzione più ragionevole, considerato che solo a partire da questo
momento il creditore potrà scegliere consapevolmente se proseguire nell’espropriazione.
6. – Qualora il creditore abbia già eseguito un sequestro conservativo
su un bene del presunto debitore, la conversione in pignoramento opera
ipso iure nel momento in cui è pronunciata la sentenza di condanna esecutiva, cosı̀ come dispone l’art. 686, comma 1˚ c.p.c.
Accedendo all’opinione più accreditata sia in dottrina che in giurisprudenza, l’onere del sequestrante di effettuare il deposito di copia della
sentenza nella cancelleria del giudice competente per l’esecuzione, ai sensi
dell’art. 156 disp. att. c.p.c., integrerebbe soltanto un requisito di procedibilità, sanzionabile con l’inefficacia del pignoramento. A questo adempimento oggi si aggiunge anche quello relativo al deposito della nota di
iscrizione a ruolo che, oltre ai dati relativi a ciascun tipo di espropriazione,
dovrà altresı̀ contenere: l’indicazione del tribunale che ha emesso la sen-
2015 e la legge di conversione n. 132/2015, in Riv. esecuz. forz. 2016, 9 ss., spec. 19, il quale
evidenzia come l’apprensione materiale del bene sia essenziale, non tanto al perfezionamento del pignoramento, quanto all’espropriazione forzata. Per la possibilità di rimettere all’ufficiale giudiziario l’acquisizione del bene che si trovi nella disponibilità di un terzo, C.
Cariglia, La nuova disciplina del pignoramento e della custodia degli autoveicoli, in Nuove
leggi civ. comm. 2015, 455 ss.
(38) Rischio paventato da M. Bove, Pignoramento e custodia di autoveicoli, cit., 1759,
ma non riproposto nel successivo Riforme sparse, cit., 20 e 23.
(39) Anziché da quello in cui il creditore abbia avuto «conoscenza (legale o di fatto)
dell’iscrizione a ruolo del processo», come invece ritenuto da A.M. Soldi, op. cit., 464.
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l’iscrizione a ruolo nel processo esecutivo riformato
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tenza o il provvedimento con cui opera la conversione; il numero e la data
del provvedimento e l’importo del credito (40).
Quanto alla decorrenza del termine per il deposito della nota di iscrizione a ruolo, in tal caso ovviamente non vi sarà una consegna dell’atto di
pignoramento al creditore, già depositato presso la cancelleria del giudice
competente per l’esecuzione dall’ufficiale giudiziario al momento del sequestro (41). Pertanto, il termine di quindici o trenta giorni per l’iscrizione
a ruolo dovrebbe essere computato dal momento della conversione. In
mancanza però di una esplicita previsione normativa, considerando che la
sentenza di condanna esecutiva non è altro che il titolo esecutivo atteso dal
creditore e da questi ricevuto in comunicazione per provvedere al deposito
entro il termine di sessanta giorni prescritto dall’art. 156 disp. att. c.p.c., si
potrebbe ritenere di far coincidere con questo termine anche quello per il
deposito della nota di iscrizione a ruolo (42), che verrebbe cosı̀ «prorogato» rispetto a quello ordinario stabilito nei diversi tipi di espropriazione.
ciò potrebbe trovare una giustificazione nella contestualità prescritta dal
legislatore per il deposito della pluralità di atti necessari al perfezionamento dell’iscrizione a ruolo, comprensivi tanto della relativa nota, che del
titolo esecutivo.
7. – Nonostante quella sull’iscrizione a ruolo sembri una disciplina
applicabile ad ogni forma espropriativa, la mancanza nell’art. 18 del d.l.
n. 83 del 2014 di una specifica previsione in tal senso, ci induce ad
interrogarci sulla necessità di tale adempimento nell’espropriazione di
partecipazioni di s.r.l. (43). Sotto il profilo sistematico, senza timore di
smentite, può oggi affermarsi che questa forma speciale di espropriazione
segua le regole del pignoramento mobiliare diretto (44). Ciò nonostante il
(40) Secondo le indicazioni prescritte nel d. m. 19 marzo 2015, cit. supra nota 8.
(41) Cosı̀ G. Verde, op. cit., 79 nota 155, che evidenzia come il sequestro si esegua nelle
forme del pignoramento. Mancando in tal caso il deposito telematico a cura del creditore, la
conversione dell’atto sarà rimessa al cancelliere.
(42) Questa è l’opinione di A.M. Soldi, op. cit., 477. Seguendo questa ricostruzione è
verosimile che l’istanza di vendita, da proporre ormai entro quarantacinque giorni dal
compimento del pignoramento, preceda l’iscrizione a ruolo.
(43) Da compiersi mediante la notificazione del pignoramento al socio-debitore ed alla
società, cui segue l’iscrizione nel registro delle imprese, alla quale provvederà lo stesso
ufficiale giudiziario oppure il creditore.
(44) Non invece del pignoramento presso i terzi. Cosı̀ ancora Trib. Melfi, 13 gennaio
2010, in Giust. civ. 2010, 1246, con nota critica di M.P. Gasperini, Persistenti disorientamenti giurisprudenziali in tema di pignoramento di partecipazioni in una società a responsabilità limitata.
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dubbio permane perché nelle scarne indicazioni processuali sul pignoramento di partecipazioni sociali, rinvenibili nell’art. 2471 c.c., manca un
esplicito rinvio alla relativa disciplina del codice di rito (45).
La questione a tutta prima potrebbe ritenersi superata rilevando che
comunque sempre in dottrina e giurisprudenza si è dibattuto sull’inquadramento di questa forma espropriativa speciale nell’ambito di una delle
tre categorie «ordinarie» contemplate nel codice di rito, proprio per ovviare alla laconicità dell’art. 2471 c.c. Rimane però da chiedersi se la
disciplina prescritta dagli artt. 513 e ss. c.p.c. sia direttamente applicabile
ovvero sia suscettibile di un’applicazione soltanto in via analogica e salvo il
limite della sua compatibilità con le caratteristiche proprie dell’espropriazione delle partecipazioni sociali, cosı̀ come hanno recentemente ritenuto i
giudici del Tribunale di Milano (46). Optare per questa seconda, più
rigorosa alternativa non significa però escludere l’applicazione della disciplina sull’iscrizione a ruolo, trattandosi di un adempimento generico a
carico del creditore, compatibile anche con questo tipo speciale di espropriazione. Ad essa dunque va applicato l’art. 518, comma 6˚ c.p.c., senza
che il limite posto al potere certificativo dell’avvocato per attestare la
conformità all’originale degli ulteriori atti da allegare alla nota di iscrizione
ai soli effetti di tale adempimento imprima alla disposizione carattere di
specialità, trattandosi di un limite imposto appunto per un’attività finalizzata all’iscrizione a ruolo.
Quanto al termine di quindici giorni entro cui compiere l’iscrizione a
ruolo, comincerà a decorrere dal momento in cui il creditore riceverà gli
atti dall’ufficiale giudiziario. Seguendo l’opinione prevalente, la notificazione dell’atto al socio-debitore segna il momento perfezionativo del pignoramento, per cui la nota di iscrizione a ruolo potrà essere depositata
contestualmente all’istanza di vendita ex art. 497 c.p.c. (47).
L’interrogativo postoci inizialmente conduce invece ad un esito opposto qualora l’espropriazione abbia ad oggetto una nave o un aeromobile.
In tal caso la previsione nel codice della navigazione di una disciplina
(45) Diversamente, quando l’esecuzione abbia ad oggetto diritti patrimoniali di proprietà industriale, il 2˚ comma dell’art. 137 d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che detta le regole
del pignoramento, contempla un esplicito rinvio alla disciplina dell’espropriazione mobiliare
diretta.
(46) L’ordinanza 8 ottobre 2014 è consultabile per esteso su www.ilcaso.it.
(47) In tal senso P. Gobio Casali, Il procedimento di espropriazione della quota di s.r.l.,
in www.ilcaso.it, 5. Potrà invece essere differito il deposito della nota certificativa dell’avvenuta iscrizione nel registro delle imprese, per la quale non è prescritto alcun limite
temporale.
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estremamente dettagliata, qual è quella degli artt. 643 e ss. e 1061 e ss., e la
contestuale mancanza in tali norme di alcun rinvio esplicito alla disciplina
del codice di rito, se non per specifiche disposizioni, ci induce ad escludere tale onere a carico del creditore, il quale dovrà depositare, entro
novanta giorni dal pignoramento, presso la cancelleria del giudice competente per l’esecuzione, gli atti ivi indicati. Cosı̀ si legge negli artt. 653,
comma 3˚ e 1064, comma 3˚, in cui è contemplato un unico rinvio all’art.
488 c.p.c., alle cui prescrizioni dovrà attenersi il cancelliere incaricato della
formazione del fascicolo d’ufficio.
8. – Come abbiamo già avuto modo di anticipare, in sede di conversione del d.l. n. 83 del 2015, è stato introdotto, tra le disposizioni attuative
del codice di rito, l’art. 159 ter che consente l’iscrizione a ruolo del processo espropriativo ad un soggetto diverso dal creditore.
Con tale previsione il legislatore ha inteso ovviare ad alcuni dei dubbi
interpretativi posti dall’art. 18 del d.l. n. 132 del 2014, riconoscendo a
coloro che possano acquisire la qualità di parte nel processo esecutivo la
possibilità di iscriverlo a ruolo. Tra costoro va annoverato anche il debitore, che assumerà questa iniziativa per ottenere la declaratoria di inefficacia del pignoramento (come meglio vedremo infra § 9) o per proporre
istanza di riduzione o conversione del pignoramento (48), oltreché i rimedi
oppositivi. Tra gli altri soggetti interessati a compiere atti o a proporre
istanze nel processo esecutivo non ancora iscritto a ruolo vanno compresi:
i creditori legittimati all’intervento ex art. 499 c.p.c., che potranno presentare il relativo ricorso soltanto dopo aver depositato la nota di iscrizione
a ruolo (49), e probabilmente anche il terzo che, pregiudicato dalla scelta
del bene staggito, intenda proporre la relativa opposizione.
Per coloro che tra questi soggetti possano compiere atti senza il patrocinio del difensore tecnico o per i dipendenti di cui si avvalgono le
pubbliche amministrazioni per stare in giudizio personalmente, l’art. 159
ter consente una deroga: all’obbligatorietà del deposito con modalità telematiche (50) e all’attestazione di conformità all’originale della copia del-
(48) Per le quali è però verosimile che il debitore aspetti che il processo espropriativo
venga iscritto al ruolo dal creditore. Per M. Bove, Riforme sparse, cit., 21, solo nel caso di
riduzione del pignoramento si potrebbe ipotizzare che la relativa istanza preceda lo scadere
del breve termine rimesso al creditore per l’iscrizione a ruolo.
(49) M. Bove, op. loc. cit., reputa insolita un’iscrizione a ruolo da parte del creditore
titolato per il solo fatto dell’intervento.
(50) Previsto dall’art. 23, comma 11 bis, d.l. 27 giugno 2015, n. 83 come eventuale,
ancora a partire dal 2 gennaio di quest’anno.
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l’atto di pignoramento che l’istante dovrà depositare contestualmente alla
nota di iscrizione a ruolo (51). Rimane invece sempre a carico del creditore
il deposito telematico dell’atto di pignoramento.
Un’ulteriore deroga alla disciplina prescritta per l’iscrizione a ruolo a
cura del creditore è prevista nelle residuali ipotesi in cui l’istanza provenga
dallo stesso ufficiale giudiziario e all’iscrizione a ruolo provveda ancora
d’ufficio il cancelliere (52).
La categoria dei soggetti diversi dal creditore che possono iscrivere il
processo espropriativo a ruolo è dunque eterogenea, cosı̀ come l’interesse
a tale adempimento, che potrebbe essere lo stesso del creditore oppure
quello opposto, come nel caso del debitore il quale potrebbe iscrivere a
ruolo il processo espropriativo al solo fine di ottenere la declaratoria di
inefficacia del pignoramento. Però mentre in quest’ultimo caso l’istanza di
iscrizione a ruolo interverrà quando già il termine è scaduto; nell’altro,
invece, si prescinde da tale evenienza. Che è quanto potrebbe accadere
anche allo stesso debitore che proponesse un’opposizione agli atti esecutivi
ancor prima dell’iscrizione a ruolo del p.e. (53). Probabilmente in tal caso
la sospensione automatica imposta dall’art. 628 c.p.c. al decorso del termine previsto nell’art. 497 c.p.c. andrà oggi riferita al termine per l’iscrizione a ruolo, non costituendo più l’istanza di assegnazione o vendita il
primo atto di impulso processuale. Pertanto, a dispetto del dato testuale, la
sospensione ex lege del termine di efficacia del pignoramento dovrebbe
riguardare quello stabilito per gli adempimenti ancora a carico del creditore e necessari al perfezionamento dell’iscrizione a ruolo. Ciò mi sembra
(51) A tal fine, fuorché per il debitore al quale l’atto è stato notificato, si potrebbe
ipotizzare che l’interessato proponga una istanza scritta, con cui si impegna ad iscrivere il
processo esecutivo a ruolo, da esibire all’ufficiale giudiziario per ottenere la copia dell’atto di
pignoramento. In tal senso A.M. Soldi, op. cit., 464.
(52) Come nel caso di beni mobili da affidare alla custodia del cancelliere ai sensi del
dell’art. 520, comma 1˚ c.p.c., richiamato dall’art. 159 ter o nell’espropriazione disciplinata
dall’art. 556 c.p.c., per la quale v. supra al § 3.
(53) Il termine di proposizione dell’opposizione potrebbe scadere infatti prima di
quello prescritto per l’iscrizione a ruolo. Per M. Bove, op. ult. cit., 21, immaginando tale
evenienza, la norma è «scritta assai male», perché imporrebbe al debitore di iscrivere a ruolo
il processo espropriativo prima di proporre il ricorso in opposizione, quando sarebbe
proprio il compimento dell’atto a consentire l’iscrizione a ruolo ad un soggetto diverso
dal creditore. Quanto alla scadenza del termine, il problema ovviamente non si pone per
l’opposizione all’esecuzione. Qualora però il debitore avesse proposto un’opposizione preventiva ai sensi dell’art. 615, comma 1˚ c.p.c. e la sospensione dell’efficacia esecutiva del
titolo esecutivo non intervenisse in tempo utile a scongiurare l’avvio del processo espropriativo, che poi non venisse iscritto a ruolo, il procedimento di opposizione sarebbe
comunque destinato a proseguire.
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in linea con la logica della disposizione in esame che disciplina una forma
di sospensione ad esclusivo vantaggio del creditore (54), il quale potrebbe
decidere di attendere la definizione del controllo di regolarità formale
degli atti, senza però rischiare l’inefficacia del pignoramento (55).
L’ulteriore adempimento rimesso al creditore pignorante consiste nel
deposito delle copie conformi agli originali degli atti indicati dagli artt.
518, 521 bis, 543, 557 c.p.c., norme alle quali l’art. 159 ter rinvia anche per
l’individuazione del termine entro cui effettuare il deposito quando l’iscrizione a ruolo sia stata avviata tempestivamente. In tale ipotesi è comprensibile che la scelta di proseguire nell’espropriazione sia rimessa ancora al
creditore (56), la cui collaborazione è indispensabile per il perfezionamento dell’iscrizione a ruolo, per la quale è necessario il deposito di atti che
sono (e rimangono) nella sua esclusiva disponibilità.
Con riferimento al termine, il rinvio agli artt. 518, 521 bis, 543 e 557
c.p.c., dovrebbe essere inteso non solo in rapporto alla durata, ma anche al
momento a partire dal quale esso va computato. Questa lettura mi sembra
quella più rispettosa del dato testuale delle norme richiamate, in cui è
stabilito un termine unico per gli adempimenti a carico del creditore.
Non riterrei insomma che il creditore possa beneficiare di una sorta di
«proroga» sol perché non abbia dato avvio personalmente all’iscrizione a
ruolo. Che è quanto potrebbe accadere qualora si ritenesse di far decorrere il termine di quindici o trenta giorni per il deposito degli ulteriori atti
dalla conoscenza del deposito della nota di iscrizione a ruolo (57) e questa
fosse successiva alla consegna degli atti. La scissione in due momenti
diversi degli adempimenti per l’iscrizione a ruolo, inevitabile in questo
caso, non dovrebbe incidere insomma sull’individuazione del dies a quo
per il computo del termine, considerando che la scelta di continuare
nell’espropriazione è sempre e solo del creditore pignorante.
9. – Il legislatore, proseguendo in quella che si potrebbe definire
un’opera di responsabilizzazione del creditore, pone a suo carico l’incombenza di informare il debitore e l’eventuale terzo dell’intervenuta inefficacia del pignoramento, entro il termine di cinque giorni dalla scadenza di
(54) Cosı̀ C. Furno, La sospensione del processo esecutivo, Milano 1956, 119 e 124.
(55) La sospensione andrà ancora riferita al termine previsto nell’art. 497 c.p.c., qualora
il creditore avesse già provveduto all’iscrizione a ruolo.
(56) Sul punto qualche perplessità nutre M. Bove, Pignoramento e custodia di autoveicoli, cit., 1756 e alla nota 28.
(57) In tal senso A.M. Soldi, op. cit., 464.
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quello stabilito per l’iscrizione a ruolo, «mediante atto notificato» (58).
Questo è quanto dispone, piuttosto laconicamente, l’art. 164 ter, comma
1˚ disp. att. c.p.c.
Il brevissimo termine di cinque giorni non è però qualificato come
perentorio, né è prescritta alcuna specifica sanzione per la sua inosservanza. A ciò si aggiunga che la notificazione «tardiva» della dichiarazione (59)
non priverebbe il debitore della possibilità di avvalersene comunque per
ottenere la liberazione del bene dal vincolo giuridico cui è stato sottoposto
per effetto del pignoramento, fermo restando che, come disposto nello
stesso primo comma, «in ogni caso ogni obbligo del debitore e del terzo»
cessa in caso di omessa o tardiva iscrizione a ruolo (60).
Nonostante questa puntualizzazione, se il creditore non collaborasse,
potrebbe rendersi necessario un provvedimento giudiziale per riconoscere
le conseguenze «materiali» riconducibili all’inefficacia del pignoramento,
che è quanto prevede l’art. 164 ter, comma 2˚ laddove fa dipendere da un
ordine del giudice la cancellazione della trascrizione del pignoramento,
prospettando cosı̀ un’alternativa funzionale al medesimo fine perseguibile
con la dichiarazione del creditore (61). Ciò fa presumere però che vi sia già
un giudice e dunque che il processo sia già stato iscritto a ruolo, seppur
tardivamente. In tal caso il giudice designato per l’esecuzione potrà anche
dichiarare d’ufficio l’inefficacia del pignoramento causata dall’inerzia del
creditore, ordinando contestualmente la cancellazione della trascrizione (62). Quella in esame può essere annoverata tra le fattispecie di estin-
(58) Sebbene nulla sia disposto dall’art. 164 ter, è verosimile che la dichiarazione vada
resa per atto pubblico o con scrittura privata autenticata. In tal senso G. Miccolis, op. cit.,
78, nota 3.
(59) È da escludere la consegna brevi manu al debitore ed al terzo della dichiarazione
scritta.
(60) Nonostante l’«estrema superficialità» con cui la norma è stata scritta, non potrà
certo ritenersi cessato l’obbligo del debitore nei confronti del creditore o quello del terzo nei
confronti del debitore esecutato, riferendosi piuttosto la norma agli obblighi derivanti dal
pignoramento, qual è anzitutto quello di custodia del bene. Cosı̀ G. Miccolis, op. cit., 78,
nota 4. Per tale puntualizzazione anche M. Gradi, Inefficienza della giustizia civile e fuga dal
processo, Messina 2015, 55.
(61) Sebbene l’art. 164 ter, comma 2˚, faccia unicamente riferimento all’ordine giudiziale di cancellazione della trascrizione del pignoramento, l’intervento del giudice potrebbe
rendersi necessario ogni qual volta serva la collaborazione di un terzo per la liberazione del
bene pignorato. Come potrebbe accadere nel pignoramento del credito qualora il terzo,
nonostante la cessazione ope legis degli obblighi a suo carico, si rifiutasse di svincolare i
crediti pignorati.
(62) Cosı̀ dispone esplicitamente l’art. 562, comma 1˚ c.p.c., in caso di inefficacia del
pignoramento per decorso del termine di cui all’art. 497 c.p.c. Per G. Ficarella, L’iscrizione a
ruolo del processo esecutivo per espropriazione, in Misure urgenti per la funzionalità e l’effi-
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l’iscrizione a ruolo nel processo esecutivo riformato
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zione del processo esecutivo (63), alla stregua del mancato deposito dell’istanza di assegnazione o vendita entro il termine prescritto dall’art. 497
c.p.c., ormai pacificamente incluso tra le ipotesi di estinzione del processo
per inattività delle parti, da dichiararsi ai sensi di quanto disposto dall’art.
630, comma 2˚ c.p.c. (64).
Infatti, malgrado l’art. 164 ter disp. att. c.p.c. non faccia un esplicito
rinvio all’art. 630 c.p.c., questo deve ritenersi applicabile, costituendo
l’estinzione del processo la naturale conseguenza della sopravvenuta inefficacia del pignoramento, da dichiararsi con ordinanza reclamabile. Pertanto, solo dopo che siano stati esperiti tutti i rimedi impugnatori il debitore potrà ottenere la piena liberazione del bene pignorato, il che spiegherebbe la previsione della via più breve della dichiarazione del creditore per
perseguire il medesimo risultato.
Se invece fosse mancata del tutto l’iscrizione a ruolo, non distinguendo
l’art. 164 ter, comma 1˚ e 2˚ tra le due diverse cause di inefficacia del
pignoramento, l’omessa dichiarazione del creditore renderebbe necessario
l’intervento del giudice. Ciò giustificherebbe l’iniziativa del debitore di
iscrivere il processo espropriativo a ruolo (65), oggi consentita dalla previsione del nuovo art. 159 ter disp. att. c.p.c. e destinata a divenire l’alternativa preferita dal debitore, il quale, diversamente, dovrebbe intraprendere la ben più onerosa via di un autonomo giudizio di cognizione
per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale subito a causa della
condotta sleale del creditore (66). Ciò potrebbe provocare un imprevisto
cienza della giustizia civile: d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, in l.
10 novembre 2014, n. 162, a cura di D. Dalfino, Torino 2015, 217 e s., nota 27, ciò avrebbe
dovuto suggerire un’integrazione dell’art. 562 con l’ulteriore ipotesi di inefficacia del pignoramento disciplinata dall’art. 164 ter disp. att. c.p.c.
(63) In tal senso G. Bongiorno, L’iscrizione a ruolo del processo esecutivo, in Il processo
civile sistema e problematiche, cit., 529.
(64) Dunque nella prima udienza successiva al verificarsi della causa estintiva, che
eventualmente sarà fissata dal giudice, ai sensi dell’art. 485 c.p.c., proprio al fine di rendere
la relativa dichiarazione, nel rispetto di quanto prescritto dall’art. 172 disp. att. c.p.c.
Valorizzando il carattere automatico dell’inefficacia del pignoramento A.M. Soldi, op. cit.,
477, esclude invece che la relativa declaratoria possa subire un termine decadenziale.
(65) Considerata poco ragionevole da M. Bove, Riforme sparse, cit., 22, per il quale
basterebbe una richiesta all’ufficio esecutivo dell’ordine di cancellazione del pignoramento.
Seppur anteriormente all’introduzione dell’art. 159 ter disp. att. c.p.c., M. Pilloni, L’iscrizione a ruolo del processo esecutivo e l’inefficacia del pignoramento effettuato in violazione
della relativa disciplina: le novità introdotte nel c.p.c. e nelle disposizioni d’attuazione, in
Nuova giur. civ. comm. 2015, 481 ss., spec. 487, prospetta una diversa evoluzione del
processo espropriativo a seconda che questo non sia stato affatto iscritto a ruolo o lo sia
stato solo tardivamente.
(66) Per questa ricostruzione A. Tedoldi, op. cit., 401 e V. Amendolagine, Processo
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incremento dei giudizi cognitivi, che il legislatore della più recente riforma
probabilmente ha inteso scongiurare consentendo l’iscrizione a ruolo del
processo espropriativo anche a chi abbia soltanto l’interesse a provocarne
l’estinzione (67).
Sarà questo il naturale epilogo a fronte dell’inerzia del creditore, il
quale non potrà beneficiare di alcuna forma di quiescenza per il processo
espropriativo non iscritto a ruolo. Si potrà tutta al più ipotizzare un’istanza
di rinnovazione dell’atto di pignoramento perento, sempre nel rispetto del
termine di efficacia del precetto che, sospeso con il primo pignoramento,
ricomincerà a decorrere dallo scadere del termine stabilito per l’iscrizione
a ruolo. Tale considerazione, unitamente ad altri indizi rinvenibili nella
nuova disciplina, genera il sospetto che l’onere dell’iscrizione a ruolo a
carico del creditore sia stato introdotto non tanto per contrastare la lentezza del processo espropriativo, quanto piuttosto per scoraggiare l’iniziativa espropriativa che, se intrapresa, costringerà comunque il creditore ad
una condotta collaborativa utile a sopperire alle inefficienze del sistema
giudiziario.
CONCETTA MARINO
Professore associato nell’Università di Catania
civile: le novità del decreto di degiurisdizionalizzazione, Milano 2014, 210, che ritiene obbligatorio in tal caso l’espletamento della negoziazione assistita o del tentativo di conciliazione a mente dell’art. 5 del d. l.gs. n. 28 del 2010. Un autonomo giudizio risarcitorio da
promuovere ai sensi dell’art. 2943 c.c. sarebbe inevitabile anche rinvenendo nella condotta
omissiva del creditore gli estremi della responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 86 c.p.c.
Dunque, proprio il rischio di esposizione ad un giudizio di merito potrebbe fungere da
deterrente per il creditore, favorendone la dichiarazione.
(67) Questo giustificherebbe il mantenimento del versamento del contributo unificato
al momento della presentazione dell’istanza di assegnazione o vendita. Sul punto v. supra § 2
e nota 14. Quanto alla regolamentazione delle spese, il giudice le liquiderà secondo quanto
disposto dall’art. 632 c.p.c.
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DIRITTO PROCESSUALE STRANIERO E COMPARATO
ACCORDI PROCESSUALI NEL DIRITTO BRASILIANO
SOMMARIO: 1. Introduzione. Dal privatismo della litiscontestatio al pubblicismo del veto del
processo convenzionale. – 2. I limiti degli argomenti dell’inammissibilità delle convenzioni processuali. – 3. I limiti degli argomenti di inopportunità delle convenzioni
processuali. – 4. Vantaggi delle convenzioni processuali. – 5. Il Codice di Procedura
Civile brasiliano del 2015: cosa c’è di nuovo in tema di convenzioni processuali?
Clausole generali e maggior numero di convenzioni tipiche. – 6. Vincolo del giudice
ai negozi giuridici processuali. – 7. Conclusione.
1. – Convenzione e processo. L’incontro improbabile di due mondi che,
per molti, sarebbero tanto distanti quanto incompatibili. Normalmente presentato come dissenso, disputa, già descritto come gioco, guerra o duello, il
processo porterebbe sempre in sé una belligeranza aliena al consenso e
all’incontro di volontà (1). D’altra parte, gli “accordi” o “convenzioni” (2),
ispirati al volontarismo ed alla libertà, rispetterebbero una logica contrattuale
privata, inconciliabile con gli spazi pubblicisti del diritto processuale.
Ma gli accordi sono pratica tanto antica quanto lo è lo stesso Diritto.
Fin da quando gli uomini hanno cominciato a vivere in gruppi o tribù, gli
integranti di questi aggruppamenti rispettavano regole di convivenza accettate da tutti. E già ai primordi del diritto processuale, ancora nel diritto
romano, si trova quel che potrebbe esser descritto come il prototipo degli
accordi processuali: la litiscontestatio (3). L’influenza dell’istituto della
(1) Calamandrei, Il processo come giuoco, in Opere Giuridiche, Napoli, vol. I, 1965,
p. 559.
(2) Per il diritto processuale useremo i termini “accordo” e “convenzione” come
sinonimi, in opposizione a “contratto”, più comune sul piano del diritto materiale, e che
presuppone l’esistenza di interessi contrapposti. Nella convenzione o accordo gli interessi
possono essere comuni o convergenti.
(3) Y. Muller, Le contrat judiciaire en droit privé. Tesi, Università di Parigi I, 1995, p.
11 ss.; Betti, Istituzioni di Diritto Romano, Padova, vol. I, 2ª Ed., 1947, p. 256-259; Cadiet,
Propos introductif: ‘faire lien’, in Chassagnard-Pinet e Hiez, La contractualisation de la
production normative, Paris 2008, p. 170, 178; Ancel, Contractualisation, in Loı̈c Cadiet
(Dir.), Dictionnaire de la justice, Paris 2004, p. 234. La letteratura descrive la litiscontestatio principalmente come un contratto o accordo. Endemann, Das Prinzip der Rechtskraft.
Eine zivilistische Abhandlung, Heidelberg 1860, p. 22, nota n. 6; p. 31, 33, 129. La natura
effettivamente contrattuale della litiscontestatio è, difatti, dubbia. Prima era obbligatoria,
contro la libertà propria dei negozi. D’altra parte, al di là della volontà dei litiganti, la
litiscontestatio esigeva l’intervento del magistrato, che dovrebbe approvare la formula. Betti,
Istituzioni di Diritto Romano, cit., p. 257. Questo miscuglio di volontà privata (anche se non
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litiscontestatio nel diritto processuale è stata cosı̀ grande che molti autori
hanno cominciato a definire la stessa natura del processo come un contratto o quasi-contratto.
Secoli dopo in Germania, quando il tema delle convenzioni processuali
cominciava ad assumere un profilo accademico, con l’edizione di innumerevoli opere che difendevano la possibilità di celebrazione di negozi giuridici
processuali (4), si sono definite importanti premesse del pubblicismo processuale, che si sarebbe rivolto contro questo formato privatistico del processo romano, proponendo l’abbandono del processo come “cosa delle
parti” (Sache der Parteien), la necessità di concepire la relazione processuale
come un ramo del diritto pubblico (data la presenza dello Stato), e un
crescente incremento del potere ufficioso del giudice (5). A questo scopo,
una delle bandiere sventolate dai difensori del pubblicismo è sempre stata
quella di negare il processo convenzionale (Konventionalprozeß) (6), citando
totalmente libera) e autorità statale ha indotto alcuni commentatori ad affermare che, nella
tradizione romana, era più la forma contrattuale e meno l’incontro di volontà a fornire al
processo la sua base convenzionale. Planck, Lehrbuch des deutschen Civilprozessrechts, Nördlingen, I, 1887, p. 79.
(4) J. Kohler, Ueber processrechtliche Verträge und Creationen. Gruchots Beiträge,
XXXI, 1887; Idem, Der Prozeß als Rechtsverhältnis: Prolegomena zu einem System des
Civilprozesses, Mannheim 1888, p. 61 ss.; K. Hellwig, Prozeßhandlung und Rechtsgeschäft.
Festgabe der Berliner Juristischen Fakultät für Otto von Gierke, vol. II, 1910, p. 79 ss.;
Planck, Lehrbuch des deutschen Civilprozessrechts, cit., p. 78 ss.; Trutter, Ueber prozessualische Rechtsgeschäfte, München 1890, p. 100 ss.; Neuner, Privatrecht und Prozeßrecht, Mannheim 1925, p. 106 ss.; Oertmann, Grundriß des deutschen Zivilprozeßrechts, Leipzig, 4ª ed.,
1930, p. 138 ss.; Schiedermair, Vereinbarungen im Zivilprozess, Bonn 1935, p. 42 ss.; R.
Schmidt, Lehrbuch des deutschen Civilprozessrechts, Leipzig 1898, p. 358 ss.; Weismann,
Lehrbuch des deutschen Zivilprozeßrechts, Stuttgart, vol. I, 1903, p. 298; Mecklenburg, Die
Rechtsnatur on Prozeßhandlungen und die Anwendbarkeit zivilrechtlicher Vorschriften, insbesondere über Willensmängel, Schein und Scherz, Gelnhausen 1934, p. 12 ss.; Wach,
Handbuch des Deutschen Civilprozessrechts, Leipzig, vol. 1, 1885, p. 24 ss., 188; Idem,
Das Geständnis: Ein Beitrag zur Lehre von den prozessualischen Rechtsgeschäften. Archiv
für die civilistische Praxis, vol. LXIV, 1881, p. 218.
(5) Bülow, Dispositives Civilprozeßrecht und die verbindliche Kraft der Rechtsordnung,
cit., p. 62-69, 78, nota 47, 100 ss. Alla p. 108, afferma: “Alles Recht ist erhaben über jedes
gegensätzliche Bestreben des individuellen Willens. Der Rechtsordnung gebührt in allen
ihren Theilen eine unverbrüchlich verbindliche Kraft. Die Rechtsordnung räumt dem Individualwillen nie die Macht ein, Rechtsbestimmungen vor(zu)nehmen, die von ihr abweichen. Wohl aber ermächtigt sie in vielen und wichtigen Beziehungen den Individualwillen
dazu, zwischen mehreren von der Rechtsordnung vorgesehenen und bestätigten Rechtsbestimmungsmöglichkeiten zu wählen”. Bülow, Das Geständnissrecht: Ein Beitrag zur allgemeinen Theorie der Rechtshandlungen, Tübingen 1899, p. 38-39. Confira-se, em lı́ngua
italiana, a crı́tica de Chizzini, Konventionalprozess e poteri delle parti, Rivista di Diritto
Processuale, LXX, n. 1, 2015, p. 50.
(6) Bülow, Dispositives Civilprozeßrecht und die verbindliche Kraft der Rechtsordnung,
cit., p. 1: “Wie alles Recht, so ist auch das Civilprozeßrecht eine Schranke individueller
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accordi processuali nel diritto brasiliano
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la litiscontestatio come esempio di una tradizione da dimenticare. Per metonimia, la litiscontestatio è stata assimilata a qualunque negozio processuale,
essendo rimasti, gli accordi processuali, storicamente nell’ombra del privatismo romano, associati all’idea di un processo civile che risponde unicamente
agli interessi delle parti, nel quale il giudice assume atteggiamento passivo,
poco potere e quasi nessuna iniziativa.
A rimorchio di questa percezione, lo studio degli accordi processuali si
è trovato al centro del dibattito tra pubblicismo e privatismo. Secondo la
logica predominante, la supposta autonomia delle parti nella definizione
dei percorsi del procedimento non era conciliabile con la presenza dello
Stato e gli interessi pubblici propri della giurisdizione. Le norme processuali sarebbero sempre (o nella loro immensa maggioranza) cogenti, inderogabili dalla volontà delle parti, e per questo non potrebbero mai essere
sostituite da regole convenzionali; al giudice, figura centrale del processo,
verrebbe attribuita, con esclusività, la conduzione del procedimento, e
qualunque convenzione delle parti al riguardo interferirebbe sul potere
del giudice (7). Si è anche immaginato, nello stesso ordine di idee, che
l’archetipo degli atti processuali sarebbe l’atto unilaterale praticato dalla
parte e diretto esclusivamente al giudice. Il negozio giuridico, il contratto o
l’accordo non sarebbero categorie processuali e, per garantire alle parti un
qualche margine di disponibilità, sarebbe sufficiente il concetto di eccezione processuale, anche se questa conferisce loro appena una disposizione
esercitata in modo unilaterale e reattivo (8).
Willkür. Die Prozeßsubjekte sind durch die Bestimmungen der Prozeßordnung rechtlich
gebunden. Das Gericht darf nur auf dem vom Prozeßrecht vorgeschriebenen Wege vorgehen und eben so wenig wie dem Gericht steht es den Parteien frei, sich über die prozeßrechtliche Vorschriften irgendwie hinwegzusetzen. Die Prozeßordnung wäre kein Bestandtheil der Rechtsordnung, wenn sie nicht mit einer über alles gegensätzliche Wollen
und Handeln, über jedes abweichende Parteibelieben erhabenen Macht ausgestattet wäre.
Es gibt keinen Conventionalprozeß”. Seguito da K. Hellwig, Prozeßhandlung und Rechtsgeschäft, cit., p. 41, 79-90; Wach, Handbuch des Deutschen Civilprozessrechts, cit., p. 114-115,
188. Si veda la critica a questo pensiero in Schiedermair, Vereinbarungen im Zivilprozess,
cit., p. 71.
(7) Chiovenda, Principii di Diritto Processuale, Napoli 1965, p. 105: “La presenza
dunque di un organo dello Stato nel processo fa sı̀ che soltanto in pochi casi siano validi
gli accordi delle parti per regolare a modo loro il rapporto processuale, in guisa che la parte
possa pretendere di fronte alla parte il rispetto dell’accordo. Poiché l’accordo processuale
per sua natura ha sempre di mira più o meno direttamente l’attività del giudice, che in virtù
dell’accordo stesso viene limitata di fronte all’altra parte”.
(8) Secondo Bülow, per esempio, nell’attribuire esclusivamente ai litiganti l’iniziativa di
portare determinata questione alla cognizione giudiziale, vietandone la cognizione ex officio,
l’omissione volontaria ad annetterla potrebbe rappresentare un atto di disposizione. Bülow,
Die Lehre von der Prozesseinreden und die Prozessvoraussetzungen, cit., p. 305.
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rivista di diritto processuale 2016
Poco a poco, le premesse pubblicistiche si sono sparse per l’Euroe i riferimenti dottrinari alle convenzioni processuali sono diventate
sempre più rare finché il tema è praticamente scomparso dai trattati e dai
manuali, limitandosi qua e là a brevi menzioni in piccoli contributi, voci o
articoli sparsi.
Quindi gli accordi processuali sono stati ibernati per decenni senza
sensibili avanzamenti dei loro studi e disciplina, ed anche in Brasile sono
stati sotto teorizzati. Di fatto, anche se disciplinati nel Codice di Procedura
Civile del 1939 ed in quello del 1973, le convenzioni processuali erano
viste come una mostruosità: difficili da definire, impossibili da categorizzare, complicate da applicare.
Nel leggere o udir parlare di “convenzioni”, la prima reazione di gran
parte dei processualisti è quella di negarne perentoriamente l’applicabilità nel
processo. È esattamente l’eco che si percepisce fin oggi in parte della dottrina:
a volte vengono redatti veri e propri manifesti contro la convenzionalità
processuale, pieni di ideologie e settarismo metodologico, secondo i quali
le convenzioni in materia processuale rappresenterebbero una “privatizzazione del processo” (10). In altre occasioni si fa semplicemente silenzio sul tema.
In ogni caso, si è prodotto un trauma epistemologico non facile da superare.
Sono numerose le generazioni di giuristi formatisi in questa tradizione.
Ma prima che i nuovi venti di questa evoluzione forzassero una svolta
teorica nella dottrina (11), la pratica forense e quella contrattuale si sono
pa (9),
(9) Nella dottrina italiana, Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura
Civile, Milano, vol. II, 3ª ed., 1923, p. 551; Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato,
Milano, Vita e Pensiero, 1931, p. 43 ss. Con il passar del tempo, lo stesso Satta ha adottato
posizioni meno radicali e più permeabili agli accordi processuali, affermando, cosı̀ come
Chiovenda, che questi avrebbero potuto esser celebrati soltanto nei casi espressamente
previsti dalla legge. Cfr. Satta, Accordo (diritto processuale civile), Enciclopedia del Diritto,
Milano, Giuffré, vol. I, 1958, p. 300-301.
(10) José Carlos Barbosa Moreira. O Neoprivatismo no Processo Civil. in Temas de
Direito Processual - 9ª série, São Paulo 2007; Idem, Privatização do Processo?, in Temas
de Direito Processual – 7ª série, São Paulo 2001.
(11) La maggiore e più rilevante letteratura è quella tedesca, che nel corso del XX
secolo si è andata gradualmente inclinando verso l’ammissibilità della categoria: Sachse,
Beweisverträge. Zeitschrift für deutschen Zivilprozeß, anno 54, 1929, p. 412; Schiedermair,
Vereinbarungen im Zivilprozess, cit., p. 42-155; Baumgärtel, Wesen und Begriff der Prozeßhandlung einer Partei im Zivilprozeß, cit., p. 184 ss.; Schlosser, Einverständliches Parteihandeln im Zivilprozeß, cit., p. 1 ss., 9 ss., 12 ss., 43 ss.; Grunsky, Grundlagen des Verfahrensrechts, Bielefeld, 2ª ed., 1974, p. 208; Knecht, Die Beweisverträge im Zivilprozeß, Freiburg im Breisgau 1937; Rosenberg, Die Beweislast auf Grundlage des Bürgerlichen Gesetzbuchs und der Zivilprozessordnung, München, 5ª ed., 1965, p. 98 ss.; Eickmann, Beweisverträge im Zivilprozeß, cit., passim; Prütting, Gegenwartsprobleme der Beweislast, München
1983; Ritzmann. Über den Feststellungsvertrag. Dissertação: Hamburg 1973; Wehling, Fi-
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rivelate più forti della resistenza della penna dei letterati e sono avanzate
nella negoziazione processuale degli ultimi anni (12). Ribellandosi contro
l’insufficienza delle forme di prestazione di tutela giurisdizionale, la prassi
si è aperta strade per disegnare il procedimento secondo le proprie necessità, inserendo sempre più, in contratti celebrati tra privati, clausole che
cercano di modellare il rito di un processo giurisdizionale che possa eventualmente venir ad essere instaurato in futuro per risolvere ipotetiche
controversie decorrenti dal negozio. Questa reazione si deve basicamente
a due ragioni. Da un lato, la crescente inadeguatezza delle formalità del
procedimento statale alle necessità del traffico giuridico: le modalità di
tutela giurisdizionale e gli strumenti processuali stabiliti per assicurarne
la presentazione non rispondono più alle esigenze di flessibilità, adattamento, effettività. Il procedimento ordinario, rigido e inflessibile, non
sempre offre, con efficienza e rapidità, quello di cui hanno bisogno le
parti per la soluzione del loro conflitto. Da un altro lato, questo movimento si deve all’impossibilità di adottare meccanismi extragiudiziali di soluzione di controversie – come l’arbitrato, la conciliazione e la mediazione –
per innumerevoli tipi di litigi nei quali questi metodi non sarebbero adeguati o non si rivelerebbero economicamente applicabili.
Viviamo difatti, nel diritto processuale civile, un estremo di contrapposizioni manichee. Da un lato, il pubblicismo processuale, che afferma
nanzierung von Zivilverfahren, Hamburg 2009; M. Bydlinksi, Kostenersatz im Zivilprozeß,
Wien 1992; Dimde, Rechtsschutzzugang und Prozessfinanzierung im Zivilprozess: Eine ökonomische Analyse des Rechts, Berlin 2003; Riehl, Prozesskosten und die Innanspruchnahme
der Rechtspflege: Eine ökonomische Analyse des Rechtsverhaltens, Berlin 2003; Nitzsche,
Ausgewählte rechtliche und praktische Probleme der gewerblichen Prozesskostenfinanzierung
unter besonderer Berücksichtigung des Insolvenzrechts, Dissertação: München 2002; Maubach, Gewerbliche Prozessfinanzierung gegen Erfolgsbeteiligung, Bonn 2002; Breyer, Kostenorientierte Steuerung des Zivilprozesses, Tübingen, 2006; A. Bruns, Das Verbot der quota
litis und die erfolgshonorierte Prozessfinanzierung, Juristen Zeitung, 2000; Conrad, Erfolgshonorare: Zulässigkeit von Vereinbarungen für rechtsanwaltliche Prozesskostenfinanzierung
und Inkassozession, Monatsschrift für Deutsches Recht, 2006; Emmerich, Zulässigkeit und
Wirkungsweise der Vollstreckungsverträge, loc. cit.; A. Bruns, Das Wahlrecht des Insolvenzverwalters und vertragliche Lösungsrechte, Zeitschrift für Zivilprozeß, vol. 110, n˚ 3, 1997;
Dittrich, Die sogennanten Exklusivverträge über prozessuale Rechtsverhältnisse, Heidelberg:
Dissertaēăo 1908; Wieser, Die Dispositionsbefugnis des Vollstreckungsgläubigers, Neue Juristische Wochenschrift, vol. 41, n˚ 11, mar, 1988; Bohn, Die Zulässigkeit des vereinbarten
Vollstreckungsausschlusses, Zeitschrift für Zivilprozeß, vol. 69, n˚ 1, 1956; Gaul, Zulässigkeit
und Geltendmachung vertraglicher Vollstreckungsbeschränkung, Juristische Schulung, 1971;
Raatz, Vollstreckungsverträge, Berlin 1935; Rinck, Parteivereinbarungen in der Zwangsvollstreckung aus dogmatischer Sicht: Zugleich ein Beitrag zur Abgrenzung von materiellem Recht
und Prozessrecht in der Zwangsvollstreckung, Frankfurt am Main 1996.
(12) Davis e Hershkoff, Contracting for procedure, William & Mary Law Review, vol.
63, n. 2, 2011, p. 517.
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rivista di diritto processuale 2016
l’interesse dello Stato, la presenza del giudice e l’inderogabilità delle norme processuali, e non accetta convenzioni processuali; dall’altro, il privatismo processuale – se non quello della litiscontestatio certamente quello
dell’arbitrato – che permette alle parti un ampio margine di libertà per
elaborare regole di procedimento secondo i propri interessi. Se l’individuo
aspira ad una flessibilità delle forme, ricorre all’arbitrato; ma se registra la
sua richiesta presso un tribunale statale, la sua autonomia non è tale da
poter interferire nel procedimento. Giammai le convenzioni potrebbero
convivere con il processo giudiziario.
Ma sarà proprio necessario permanere in questo dualismo? Difendere
la possibilità di celebrare accordi processuali comporta necessariamente un
ritorno al privatismo della litiscontestatio? Noi pensiamo che le convenzioni processuali, nel processo contemporaneo, siano compatibili con il
pubblicismo processuale. Sono inoltre, attualmente, un poderoso strumento di lotta all’incertezza del processo, prestando maggior efficienza e adattabilità al procedimento.
In questo senso, negli ultimi tempi si osserva un cambiamento radicale
non solo nella prassi forense, ma anche nella dottrina del diritto processuale civile. Senza dubbio in Europa lo sviluppo maggiore viene dal diritto
francese (13), che ha influenzato altri paesi in tutto il mondo, tanto di civil
(13) Si distinguono gli studi del Prof. Loı̈c Cadiet, molti di essi citati in questo lavoro.
Outros trabalhos relevantes são: Cadiet, Des modes alternatifs de règlement des conflits en
général et de la médiation en particulier, in Amrani-Mekki, Cadiet, Charpenel, Dewost
(Org.), La médiation, Paris 2009; Idem, L’économie des conventions relatives à la solution
des litiges, in Deffains (Dir)., L’analyse économique du droit dans les pays de droit civil, Paris:
Cujas 2002; Idem, La justice face aux défis du nombre et de la complexité, Les Cahiers de la
Justice, n˚ 1, 2010; Idem, Le jeux du contrat et du procés. in Philosophie du Droit et Droit
Économique. Mélanges offerts à Gérard Farjat. Paris 1999; Idem, Le spectre de la societé
contentieuse, in Beauchard e Couvrat, Droit civil, procedure, linguistique juridique. Écrits en
homage a Gérard Cornu, Paris 1994; Idem, Les accords sur la jurisdiction dans le procès, in
Ancel e Rivier. Le conventionnel et le jurisdictionnel dans le règlement des différends, Paris
2001; Idem, Les clauses contractuelles relatives à l’action en justice, in Les principales clauses
des contrats conclus entre professionnels, Aix-en-Provence 1990; Idem, Les conventions relatives au procès en droit français: sur la contractualisation du règlement des litiges, in Accordi
di parte e Processo. Supplemento della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, anno
LXII, n˚ 3, 2008; Idem, Liberté des conventions et clauses relatives au règlement des litiges,
Petites Affiches, n˚ 86, maio, 2000; Idem, Ordre concurrentiel et justice, in L’ordre concurrentiel: Mélanges en l’honneur d’Antoine Pirovano, Paris 2003; Idem, Procès équitable et
modes alternatifs de règlement des conflits, in Delmas-Marty, Muir Watt e Ruiz Fabre (Dir.).
Variations autour d’un droit commun, Paris 2002; Idem, Propos introductif: ‘faire lien’, in
Chassagnard-Pinet e Hiez, La contractualisation de la production normative, Paris 2008;
Idem,
Une justice contractuelle, l’autre, in Goubeaux et alii (Org.), Le contrat au début du
e
XXI siècle. Études
offerts à Jacques Ghestin, Paris 2001; Cadiet e Jeuland. Droit judiciaire
a
privé, Paris, 8 Ed., 2013; Cadiet, Normand, Amrani-Mekki, Théorie générale du procès,
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accordi processuali nel diritto brasiliano
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law (14) quanto di common law (15), a pensare ed applicare accordi
Paris 2010. Oltre a Cadiet, conviene citare, a titolo di esempio: Caillosse, Jacques, Interrogations méthodologiques sur le ‘tournant’ contractuel de l’action publique: les contrats publiques entre théorie juridique et sciences de l’administration, in Clamour e Ubaud-Bergeron
(Org.), Contrats Publics. Mélanges en l’honneur du Professeur Michel Guibal, Montpellier,
vol. II, 2006; Caratini, A propos du “contrat de procédure”, Gazette du Palais, n˚ 1, jan-fev,
1986; Idem, Le ‘contrat de procédure’: une illusion?, Gazette du Palais, nov., 1985; Chiavario,
La justice négociée: une problématique à construire, Archives de Politique Criminelle, n˚ 15,
1993; Estoup, Le contrat de procédure en appel, Recueil Dalloz, crônica XXXIV, 1985;
Frumer, L’encadrement supranational de la solution contractuelle: l’impact des guaranties
du process équitable, in Chassagnard-Pinet e Hiez, La contractualisation de la production
normative, Paris 2008; Gaudin, Le contrat de procédure? Une troisième voie, Gazette du
Palais, jan-fev, 1986; Jarrosson, Le principe de la contradiction s’applique-t-il à la médiation?,
Revue générale des procédures 1999; Idem, Les clauses de renegociation, de conciliation et de
mediation, in Les Principales clauses des contrats conclus entre professionnels, Aix-en Provence 1990; Leborgne, Les aménagements conventionnels du procès, Revue génerale du droit
dês assurances, n˚ 3, 2010; Magendie, Le nouveau ‘contrat de procédure’ civile: objectifs,
exigences et enjeux de la reforme parisienne, Gazette du Palais, mar-abr, 2001; AmraniMekki, La clause de conciliation, in Amrani-Mekki, Cadiet, Charpenel, Dewost (Org.). La
médiation, Paris 2009; Ancel, Contractualisation. in Cadiet (Dir.). Dictionnaire de la justice.
Paris 2004; Bonnet, La convention de procédure participative. Procédures, n. 3, 2011;
Boyron, Regard comparatiste sur la contractualisation de la justice: l’example de la mediation
en droit public comparé, in Chassagnard-Pinet e Hiez. La contractualisation de la production
normative. Paris: Dalloz 2008.
(14) In Italia, Caponi, Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, Civil
Procedure Review, vol. 1, n˚ 2, jul-set, 2010; Canella, Gli accordi processuali francesi volti alla
‘regolamentazione collettiva’ del processo civile, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura
Civile, anno LXIV, n˚ 2, junho, 2010; Chizzini, Konventionalprozess e poteri delle parti,
Rivista di Diritto Processuale, anno LXX, n. 1, 2015; Pezzani, Il regime convenzionale delle
prove, Milano, Giuffrè, 2009; Picozza, Il calendario del processo, Rivista di Diritto Processuale, anno LXIV, n. 6, 2009. In Brasile, negli ultimi anni, c’è stata una grande produzione
accademica. Cfr. Cunha, Negócios jurı´dicos processuais: Relatório Nacional (Brasil), Relazione
al I Congresso Peru-Brasile di Diritto Processuale, mimeografato, 2014; Didier Jr. Cláusulas
gerais processuais, Revista de Processo, anno 35, n˚ 187, set, 2010; Idem, Curso de Direito
Processual Civil, Salvador, vol. 1, 17ª ed., 2015; Idem, Princı́pio do respeito ao autorregramento da vontade no processo civil, in Cabral e Nogueira (Org.). Negócios processuais,a
Salvador 2015; Didier Jr. e Nogueira, Teoria dos fatos jurı´dicos processuais, Salvador, 2
Ed., 2012; Godinho, A autonomia das partes no projeto de Código de Processo Civil: a
atribuição convencional do ônus da prova, in Freire et alii (Org.), Novas tendências do
processo civil, Salvador, vol. III, 2014, p. 558-559; Hoffman, Saneamento compartilhado,
Săo Paulo: Quartier Latin 2011; Lima, Sobre o negócio jurı́dico processual, in Didier Jr. et
alii (Coord.), Revisitando a teoria do negócio jurı´dico: homenagem a Marcos Bernardes de
Mello, São Paulo: Saraiva 2010; Cabral e Nogueira (Org.), Negócios processuais, Salvador
2015; Yarshell, Convenção das partes em matéria processual: rumo a uma nova era?, in Cabral
e Nogueira (Org.), Negócios processuais, Salvador 2015; Andrade, As novas perspectivas do
gerenciamento e da “contratualização” do processo, Revista de Processo, anno 36, vol. 193,
mar., 2011; Almeida, Das convenções processuais no processo civil., Università dello Stato di
Rio de Janeiro: Tesi di Dottorato, 2014; Chateaubriand Filho, Negócio de acertamento: uma
abordagem histórico-dogmática, Belo Horizonte 2004.
(15) Negli Stati Uniti, e in generale negli ordinamenti di common law, in cui tradizio-
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processuali per flessibilizzare il procedimento. E, come vedremo, questo
movimento ha indotto il legislatore brasiliano ad introdurre importanti
disposizioni nel nuovo Codice di Processo Civile del 2015, senza uguali
nel diritto comparato.
Prima, però, bisogna considerare gli argomenti favorevoli e quelli
contrari alla possibilità di celebrazione di negozi giuridici processuali.
2. – Tradizionalmente, oltre alla supposta onnipresenza dell’interesse
pubblico nel processo, che porterebbe al carattere cogente delle norme
nalmente si è sempre data grande libertà alle parti nella conduzione del procedimento,
sarebbe da immaginare che ci fosse un più ampio studio degli accordi processuali. Ma
pur trattandosi di sistemi a base avversativa, con protagonismo delle parti nella definizione
delle formalità processuali, è strano notare che nemmeno lı̀ c’è una dottrina solida sulle
convenzioni processuali. Sebbene esista sull’arbitrato una vasta produzione bibliografica, è
da meno di dieci anni che la letteratura ha cominciato a preoccuparsi accademicamente
degli accordi processuali, e fin’oggi non è ancora stata pubblicata un’opera sistemica al
riguardo. Cfr. Rhee, Toward procedural optionality: private ordering of public adjudication,
cit., p. 514 ss.; Dodge, The limits of procedural private ordering, cit., p. 726-727, 729, 732,
766; D. Horton, The shadow terms: contract procedure and unilateral amendments, UCLA
Law Review, vol. 57, 2010, p. 605 ss.; Moffit, Customized litigation: the case for making civil
procedure negotiable, George Washington Law Review, vol. 75, 2007, p. 461 ss.; Davis e
Hershkoff, Contracting for procedure, cit., p. 510-511: “Depending on the perspective, these
private processes allow the parties to exit – or exile the parties – from the public system of
adjudication, effectively ‘carving out spheres of ‘private government’ with their own tribunals, procedures, and rules of decision. On a parallel track, private process has migrated in
surprising ways into the public courts: despite public rules of procedure, judicial decisions
increasingly are based on private rules of procedure drafted by the parties before a dispute
has arisen”. Cfr. ancora: Cliffe Taylor, Civil Procedure by Contract: A Convoluted Confluence
of Private Contract and Public Procedure in Need of Congressional Control, University of
Richmond Law Review 2002, p. 185 ss.; Mullenix, Another Choice of Forum. Another Choice
of Law: Consensual Adjudicatory Procedure in Federal Court, Fordham Law Review 1988, p.
291 ss.; Cole, Managerial Litigants? The Overlooked Problem of Party Autonomy in Dispute
Resolution, Hastings Law Journal 2000, p. 1199 ss.; Thornburg, Designer Trials, Journal of
Dispute Resolution, 2006, p. 181 ss.; Bone, Party Rulemaking: Making Procedural Rules
Through Party Choice, Texas Law Review, n. 90, 2011-2012, p. 1329 ss.; Tyler, Lawmaking
in the Shadow of the Bargain: Contract Procedure as a Second-Best Alternative to Mandatory
Arbitration, Yale Law Journal, n. 122, 2013, p. 1560 ss.; Noyes, If You (Re)Build It They
Will Come: Contracts to Remake the Rules of Litigation in Arbitration Image, Harvard
Journal of Law and Public Policy, n. 30, 2007, p. 579 ss.; D. Marcus, The Perils of Contract
Procedure: a Revised History of Forum Selection Clauses in Federal Courts, Tulane Law
Review 2009, p. 974 ss.; Hoffman, Whither Bespoke Procedure? Temple University, Illinois
University Law Review 2014, p. 389 ss.; O’Hara, O’Connor, Drahozal, Carve-Outs and
Contractual Procedure, Valderbilt University Law School, Working Paper nn. 13-29/13-16;
Strong, Consensual Modifications of the Rules of Evidence: The Limits of Party Autonomy in
An Adversary System, Nebraska Law Review 2001, p. 156 ss.; Strong, Limits of Procedural
Choice of Law, Brooklyn Journal of International Law 2014, p. 1027 ss.; Dodson, Party
Subordinance in Federal Litigation, George Washington Law Review, n. 83, 2014-2015, p.
1 ss.; K. Kapeliuk, Contracting Around Twombly, DePaul Law Review 2010, 60, 1, 1 ss.
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processuali, vengono elencati i seguenti argomenti contrari ai negozi giuridici processuali: che i poteri d’ufficio del giudice eliminano le prerogative
delle parti nella conduzione del processo; che non è possibile rinunciare
alle garanzie fondamentali del processo, soprattutto a quelle previste dalla
Costituzione; che la fonte della norma processuale deve essere sempre la
regola legale, non la regola convenzionale.
Orbene, a nostro avviso si tratta di premesse sbagliate. Il riconoscimento di poteri del giudice per la pratica di atti d’ufficio non potrebbe
mai eliminare le prerogative delle parti nel processo. Il formalismo contemporaneo si basa sull’equilibrio di potere e sulla divisione di funzioni,
affinché non vi sia un soggetto processuale che concentri tutti i poteri e si
sovrapponga agli altri. L’equilibrio tra parti e giudice impone che si comprenda che tutti devono esser coprotagonisti nella conduzione del processo. E questo è reso effettivo dalla congiunzione del principio dispositivo
con il principio della trattazione. Il principio dispositivo conferisce alle
parti la possibilità di disporre del diritto materiale, potendo rinunciare
al diritto, riconoscere la procedenza della richiesta, celebrare la transazione, ecc. E il principio della trattazione attribuisce alle parti protagonismo
per quanto riguarda le prerogative da allegare e provare. D’altra parte,
bisogna ricordare i principi di libertà e strumentalità delle forme per la
pratica degli atti del processo: quando la legge non esige una forma specifica, le parti potranno praticare gli atti processuali in qualunque modo
che raggiunga lo scopo.
Quindi è facile constatare che anche alle parti (non solo al giudice) è
dato largo margine di poteri, facoltà e oneri riguardo alla conduzione del
procedimento e definizione delle sue formalità. Il pubblicismo processuale
non elimina le parti. Non si può concepire che, con il pretesto di evitare il
modello romano del processo come “cosa delle parti”, si possa immaginarlo attualmente come “cosa senza parti”.
Quanto alla supposta irrinunciabilità dei diritti fondamentali processuali, anche tale premessa non sembra corretta. Nella realtà del mondo
contemporaneo, le persone abdicano ogni giorno a diritti fondamentali.
Basta assistere a quei programmi televisivi in cui individui permettono di
esser filmati nella loro intimità; o programmi di uditorio in cui delle
persone si sottopongono ad attività degradanti che potrebbero esser considerate offensive per la loro dignità umana; o eventi sportivi in cui lottatori salgono su un ring volontariamente, ammettendo di poter subire
lesioni corporali, in violazione al loro diritto fondamentale all’integrità
fisica. Bene, di fronte a questi comuni atti di disposizione su garanzie
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fondamentali, perché ci si dovrebbe scandalizzare quando, in un processo,
parti maggiori e capaci concordano sulla riduzione di un termine?
C’è già, nel diritto pubblico, un’immensa produzione accademica sulla
rinuncia a diritti fondamentali (16), diritti che magari, in una scala assiologica, potrebbero esser collocati in posizione molto più elevata dei diritti
processuali. Quindi non perché una posizione giuridica di vantaggio è
prevista nella Costituzione deve dedursi che non se ne potrebbe negoziare
o disporre. Se cosı̀ fosse, il pacto de foro prorogando non sarebbe valido, in
quanto dispone sulla garanzia del giudice naturale; la clausola solve et
repete sarebbe invalida perché dispone sulla garanzia del contraddittorio;
la clausola compromissoria o l’arbitrato sarebbero invalidi perché dispongono sul diritto di accesso alla giustizia, e cosı̀ via. Sembra ovvio che il
semplice fatto che una garanzia sia prevista in una norma costituzionale
non impedisca che se ne disponga.
Tuttavia bisogna riconoscere che i diritti fondamentali proteggono
l’individuo anche contro sé stesso, ossia a volte annullano l’efficacia della
manifestazione di volontà per proteggere l’essere umano da condotte inconsulte, impensate o disperate. Non si deve trascurare la protezione del
nucleo essenziale dei diritti processuali fondamentali. Ciò nonostante, non
si tratta di una questione di ammissibilità (o della possibilità di celebrare
negozi giuridici processuali), ma di una questione che riguarda il margine
di negoziabilità, il limite all’interno del quale l’individuo può legittimamente disporre dei suoi diritti processuali, alterando il procedimento.
Infine, in relazione alla fonte della norma processuale, penso che, nel
diritto contemporaneo, non si può più ridurre la norma processuale alla
regola della legge. È possibile pensare che la convenzione o l’accordo
possano perfino esser la fonte della norma processuale. Comprendere
che la norma giuridica (ed anche la norma giuridica processuale) possa
avere fonte negoziale è più adeguato ad una visione dello Stato contemporaneo come uno Stato non solo sanzionatore, produttore di norme, ma
uno Stato che fomenta strumenti cooperativi, consensuali, negoziali, un
ordine giuridico meno autoritario e più emancipatore per gli individui,
riconoscendo ad essi spazi di autoregolamentazione. L’agire convenzionale,
con la possibilità che gli individui producano o partecipino alla produzione delle norme, diventa più pregevole del suo strumento finale (la legge o
il contratto). Si tratta di privilegiare più il contrahere che il contractus o la
conventio.
(16) Adamy, Renúncia a direito fundamental. São Paulo 2011.
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Su questo scenario, l’autoregolamentazione e l’eteroregolamentazione
si completano. Contratto, convenzione e legge non sono più intesi come
strumenti mutuamente escludenti, ma convergenti. La convenzione non
dispone contra legem, ma secundum legem. Legge e accordo si coordinano
nella regolamentazione del processo (17).
3. – Gli ardenti oppositori delle convenzioni processuali, basandosi
sempre sulle premesse pubblicistiche, quando cominciano a rendersi conto
che gli accordi delle parti sulle regole processuali sono una realtà pratica, e
che non si giustifica più nessun argomento contrario alla loro ammissibilità, rivolgono la loro artiglieria contro la supposta inopportunità degli
accordi processuali. Dicono che la soluzione risultante dal procedimento
previsto dalla legge sarebbe di miglior qualità; che la cooperazione processuale sarebbe un sogno, poiché il processo è un duello, una guerra, una
disputa inevitabile; o ancora che ci sarebbe un problema di disuguaglianza,
poiché le convenzioni processuali rappresenterebbero una rifeudalizzazione delle relazioni di forza nel processo, che verrebbe ad esser manipolato
da una logica di mercato (18), a danno dei più vulnerabili (gli incapaci, i
consumatori, i lavoratori, ecc.). Su questa linea, il processo pubblico, con
la mano ferma dello Stato, sarebbe necessario per garantire l’uguaglianza.
Da parte nostra discordiamo da tutti questi argomenti. Da un lato,
concepire che nel processo vi sia una disputa sui diritti materiali non
significa che non vi sia spazio per il consenso, soprattutto su come risolvere
la lite. Le parti possono divergere su chi abbia il diritto sostanziale, ma
concordare sul procedimento per la soluzione della controversia. Questa è
la stessa conclusione a cui sono giunti tutti gli autori che esaltano i cosiddetti “mezzi alternativi per la soluzione dei conflitti”, come la mediazione,
la conciliazione e l’arbitrato. Anzi, come si può affermare che i mezzi
alternativi per la soluzione di controversie sono importanti e necessari
per il sistema di giustizia, e poi rifiutare i negozi giuridici processuali
perché la soluzione legale e impositiva sarebbe di miglior qualità? Sarebbe,
come minimo, una contraddizione riconoscere che consenso e dissenso
possano convivere nell’arbitrato, ma non nel processo statale; o immagi-
(17) Questo coordinamento è particolarmente interessante in Europa per la coincidenza dei sistemi giuridici nazionali con l’ordine giuridico dell’Unione Europea, con i suoi vari
tribunali e fonti legislative.
(18) Legendre. Remarques sur la re-féodalisation de la France, in Études em l’honneur
de Georges Dupuis. Paris 1997.
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nare che le parti possano cooperare fuori dal processo, ma dentro di esso
non vi sarebbe spazio per la cooperazione.
Quanto all’argomento della disuguaglianza, mi sembra che parta da
due false premesse. In primo luogo, non è il processo che crea disuguaglianza. Essa esiste all’interno del processo, ma esiste anche al di fuori di
esso. In secondo luogo, il carattere pubblico del processo non risolve il
problema della disuguaglianza. Vediamo ancora processi nei quali i soggetti che vi partecipano non sono in situazione di parità. Quindi non si
può giustificare la necessità del giudice e della regola legale con l’idea che
sarà lo Stato a risolvere il problema della disuguaglianza, cosa non comprovabile.
Con questo non si vuol dire che la ricerca di isonomia non sia una
preoccupazione importante. Ma è compito del diritto processuale provvedere a strumenti per ridurre o eliminare i fattori di disuguaglianza, e
costruire meccanismi di controllo della negoziazione processuale per evitare che le convenzioni processuali siano celebrate e utilizzate con abuso o
a danno dei soggetti vulnerabili.
4. – Sono molti i vantaggi delle convenzioni processuali. Alcuni sono
già stati presentati, quindi ci limiteremo qui a rivederli brevemente.
Le convenzioni processuali possono conferire al processo maggior efficienza e rapidità, in forza della loro durata ragionevole. Nel senso dell’efficienza amministrativa, gli accordi processuali possono servire per una miglior programmazione dell’attività del giudiziario: si possono amministrare
in maniera più efficiente risorse materiali e umane, anche con direttive per le
spese ed elaborazione di preventivo di spesa pubblica, anno per anno.
Un altro lato positivo degli accordi processuali riguarda il vantaggio
evidente che possono apportare in termini di certezza e prevedibilità (19).
Questo perché il processo è incerto e l’incertezza sul suo esito è fonte di
rischi per le parti (20).
Ma dobbiamo distinguere il rischio dalla incertezza, due parole che,
pur essendo normalmente associate, hanno significati diversi. Dire che il
processo è rischioso suppone che vi si associa una probabilità di risultato
per ciascuno dei suoi stadi (per esempio, la soluzione di una questione);
o
(19) Dodge, The limits of procedural private ordering, Virginia Law Review, vol. 97, n
4, jun., 2011, p. 731, 739. Si veda il seguente caso giudicato dalla Suprema Corte Nordamericana: The Bremen v. Zapata Off-Shore Co., 407 U.S. 1, 13-17 (1972).
(20) Deffains e Doriat-Duban, Le procès: risque économique, Revue génerale du droit dês
assurances, n˚ 3, 2010, p. 87 ss.
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affermare che il processo è incerto significa ignorare le probabilità associate a tali questioni (21). Quindi incertezza è uno stato futuro di distribuzione sconosciuta di beni e informazione imperfetta. Il rischio invece è
uno stato futuro di un formato conosciuto di distribuzione di beni. Cioè, il
rischio può esser valutato e stimato. Mentre invece costantemente non si
riesce a stimare il risultato del processo, ossia il contenuto probabile della
decisione giudiziale, imprevedibilità che decorre non solo dall’ordinamento processuale, è vero, ma che può anche esser direttamente indotta da un
deficit di uniformità e coerenza del sistema processuale (22). Infatti vi sono
vari fattori aleatori e poco prevedibili nella giurisdizione statale.
Normalmente, quando si riconosce il rischio del processo, le ragioni
sono varie. Tali ragioni sono metodologiche (modelli di decisione, forme
per applicare il contraddittorio e per interpretare i poteri del giudice in
relazione alle parti); empiriche (per esempio il ruolo informativo degli
avvocati), e normative (v.g., il peso dei precedenti e della giurisprudenza
nelle decisioni posteriori). Inoltre i rischi del processo sono legati alla
questione dei costi, perché il processo è caro a causa della necessità di
programmare la difesa ed organizzare le strategie. E l’attore ha un vantaggio naturale sul convenuto: il fatto di aver valutato previamente l’aspettativa di vittoria. Avendo optato per la presentazione della domanda, è
naturale immaginare che l’attore creda che sarà vittorioso, il che genera
un’asimmetria informativa in relazione al convenuto (23). Tra le parti può
esserci squilibrio anche in funzione delle differenti maniere in cui ciascuna
di esse può assorbire il costo del processo (24).
Allora, in ogni disputa giudiziaria i litiganti fanno un calcolo a partire
dalle proprie aspettative per il recupero del patrimonio violato, scontando
il costo del processo. Per stipulare una transazione, per esempio, si proietta il lucro in caso di vittoria o la perdita in caso di condanna, più i costi
(dipendendo dalla vittoria o dalla condanna, è chiaro) (25). Il calcolo sulla
prognosi dell’esito e l’analisi costo-beneficio prendono in considerazione
(21) F. Knight. Risk, Uncertainty and Profit, London: Reprints of the London School of
Economic and Political Science, 1948.
(22) V. Ferrari, Le parti e il rischio del processo, in Accordi di parte e Processo. Supplemento della Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, LXII, n˚ 3, 2008, p. 40-44.
(23) Bebchuk, Litigation and settlement under imperfect information, Rand Journal of
Economics, vol. 15, n˚ 3, 1984, p. 404-415.
(24) Cooter e Rubinfeld, Economic analysis of legal disputes and their resolution, Journal
of Economic Litterature, n˚ 27, 1989, p. 1067 ss.
(25) Rhee, A price theory of legal bargaining: an inquiry into the selection of settlement
and litigation under uncertainty, Emory Law Journal, vol. 56, 2006, p. 631-632.
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vari fattori, come la resistenza dell’avversario (26), le spese e gli sforzi
necessari per l’ottenimento delle prove, ecc. (27). Alcuni aspetti considerati dai litiganti nel valutare il rischio, sono il valore della causa, l’esistenza
del diritto materiale o la previsione che esso venga riconosciuto nel processo, circostanze esterne al conflitto, come la scelta del giudice, qualità e
prezzo degli onorari degli avvocati e cosı̀ via. In un quadro di grande
incertezza sul risultato del processo, quasi tutti questi aspetti sono di
difficilissima prognosi.
In ogni caso, qualunque siano i fattori, in questo calcolo le regole
processuali sono sempre state considerate costanti e non variabili (28).
Questo cambia radicalmente con gli accordi processuali. Potendo alterare
le regole del processo, le convenzioni processuali rappresentano una nuova
tecnica di riduzione di incertezza e, con questo, gli accordi processuali
assumono un’importante funzione di gestione del rischio (29). Gli accordi
processuali, quindi, non solo servono a semplificare il procedimento e
ridurne il costo (30), ma funzionano anche come strumento di gestione
del rischio processuale, uno strumento che permette alle parti di avere una
maggior prevedibilità sul risultato ed anche sulle spese che la lite possa
apportare (31).
D’altra parte, non bisogna dimenticare che l’interesse delle parti a
servirsi dell’accordo processuale per ottenere certezza e prevedibilità
non è una costante. Un litigante abituale, per esempio, può stimare i rischi
in modo più reale ed essere quindi in vantaggio rispetto ai litiganti occasionali. Non possiamo quindi essere tanto ingenui da pensare che questo
movimento porterà solo benefici. Se la predeterminazione dell’attività pro-
(26) Sanchirico, Relying on the information of interested and potentially dishonest parties, American Law and Economics Review, vol. 3, n˚ 2, 2001, p. 320 ss.
(27) Parisi, Rent-seeking through litigation: adversarial and inquisitorial systems compared, International Review of Law and Economics, n˚ 22, 2002, p. 193 ss.; Rubinfeld e
Sappington, Efficient awards and standards of proof in judicial proceedings, Rand Journal
of Economics, n˚ 18, 1987, p. 308-315.
(28) Rhee, Toward procedural optionality: private ordering of public adjudication, New
York University Law Review, vol. 84, 2009, p. 523.
(29) Cadiet, L’économie des conventions relatives à la solution des litiges, in Bruno
Deffains (Dir.). L’analyse économique du droit dans les pays de droit civil, Paris: Cujas
2002, p. 316; Idem, Liberté des conventions et clauses relatives au règlement des litiges,
Petites Affiches, n˚ 86, maio, 2000, p. 30; Rhee, Toward procedural optionality: private
ordering of public adjudication, cit., p. 533.
(30) V. Ferrari, Le parti e il rischio del processo, cit., p. 57.
(31) Katz, Judicial decision making and litigation expenditure, International Review of
Law and Economics, n˚ 8, 1988, p. 127-143; Mousseron, La gestion des risques par le contrat,
Revue Trimestrielle de Droit Civil, n˚ 2, 1988, p. 481.
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cessuale può creare incentivi per il compimento, può anche aumentare i
costi con l’esigenza di una pianificazione contrattuale sull’implementazione, anticipando il design del procedimento.
Il rovescio della medaglia è che non solo i costi di transazione (frontend costs), ma anche i costi di effettivazione o implementazione (back-end
costs), sono segnati da incertezza. I costi di transazione sono normalmente
più studiati e valutati dai contrattanti: si spende tempo e danaro nella
redazione di contratti che spiegano precisamente quello a cui le parti
anelano, si consultano specialisti per prevenire e anticipare contingenze
future rilevanti, si negoziano fattori di scambio, prezzo ecc. Al contrario,
i costi di effettivazione sono meno studiati ma anche meno trascurati
perché normalmente sono in relazione con il diritto processuale, sottoposto a regole ben diverse da quelle del diritto materiale. Ma entrambi i costi
(front-end e back-end) sono in relazione fra di loro. Se i costi di transazione
sono alti, fomentano la redazione contrattuale con clausole contrattuali dai
termini vaghi (v.g., “ragionevolmente”, ricercare i “migliori sforzi”, animarsi di “buona fede”), il che rende difficile la stessa implementazione del
contenuto della norma contrattuale. Sorge incertezza nell’esecuzione del
contratto, il che fa aumentare i costi dell’effettivazione (32).
Su questo scenario, gli accordi processuali favoriscono lo studio dei
costi di effettivazione o implementazione, equilibrando le fasi di formazione ed esecuzione del contratto in termini di prevedibilità.
Un altro vantaggio degli accordi processuali è che rappresentano un
terzo cammino tra l’arbitrato ed il processo statale regolato dalla legge.
La crisi del giudiziario, che riflette un problema mondiale di gestione,
arreca preoccupazioni per lo svolgimento di strumenti processuali che
possano alleggerire la pressione per la quantità e promuovere il miglioramento della qualità della prestazione giurisdizionale. Le corti statali, saturate da migliaia di processi, vedono i procedimenti prolungarsi indebitamente, contro le proteste internazionali circa la durata ragionevole del
processo. In questa scena, la scelta di mezzi alternativi di soluzione di
conflitti molte volte si deve ad una totale delusione e sfiducia nel processo
statale, il che già è stato definito come arbitrato o mediazione della disperazione. C’è una vera “fuga” (33) dal giudiziario: in assenza di un processo
o
(32) R. Scott e Triantis, Anticipating litigation in contract design, Yale Law Journal, n
115, 2006, p. 817, 823-824, 831-832, 835, 847.
(33) Blankenburg (Dir.), Prozeßflut? Indikatorenvergleich von Rechtskulturen auf dem
europäischen Kontinent. Köln: Bundesministerium der Justiz 1989, p. 257 ss.
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statale adeguato, i mezzi alternativi ed extragiudiziali di soluzione di conflitti appaiono come l’unica soluzione possibile (34).
Tuttavia, curiosamente, questi strumenti di soluzione extragiudiziale
non si sono segnalati né per quantità né per varietà. Si è creato un vuoto
tra lo spazio dell’arbitrato, di matrice puramente privato-contrattuale, ed il
processo statale. Salvo alcuni tentativi di arbitrato e mediazione giudiziali,
che non hanno trovato applicazione fertile in Brasile, non vi è una terza
strada. Non abbiamo una “alternativa ai mezzi alternativi” (35). Fino ad
oggi le uniche soluzioni erano l’arbitrato – che opta per la totale esclusione
del giudiziario statale, in cui, se si vuole, si può flessibilizzare il procedimento – o, nei contratti internazionali, la determinazione di clausole che
spostano la lite in altri paesi (forum shopping), che è un’altra forma di
“fuga”, di competa adesione ad altri sistemi processuali “pronti” (36). Ma
nemmeno qui c’era flessibilità di procedimento, solo invece la fuga da un
sistema e adesione integrale ad un altro.
Ma è già passato il tempo delle proposte di nuove tecniche per la
soluzione delle liti, che non siano plasmate sul dualismo giustizia statalegiustizia arbitrale. Non vi sono motivi per cui, nell’impasse sulle forme di
processo, o nell’inadeguatezza del procedimento statale volto alla soluzione di certe controversie, si debba offrire alle parti l’unica alternativa possibile dell’arbitrato (37), o aprire spazio alla pratica del forum shopping (38).
Devono pur esistere strade intermedie ed ibride (39), che si possano
percorrere mediante l’incorporazione, anche nei processi statali di soluzione di litigi, di formalità a base negoziale e privata (autoregolamentazione
formale) (40). Non vi è pertanto “alternatività” tra gli strumenti, ma complementarietà, in una relazione di adeguamento tra il mezzo processuale ed
lo scopo a cui si anela: la tutela dei diritti.
Ricordiamo che l’arbitrato non si applica a tutti i tipi di conflitto. A
volte non è utilizzabile perché non sempre vi è disponibilità di interessi
(34) Taruffo, Un’alternativa alle alternative: modelli di risoluzione dei conflitti, Revista
de Processo, n. 152, out., 2007, p. 321.
(35) Costa e Silva, A nova face da justiça: os meios extrajudiciais de resolução de controvérsias, Lisboa: Coimbra 2009, p. 35-36.
(36) Dodge, The limits of procedural private ordering, cit., p. 744.
(37) Wagner, Prozeßverträge: Privatautonomie im Verfahrensrecht, Tübingen: Mohr
Siebeck 1998, p. 3-4.
(38) Dodge, The limits of procedural private ordering, cit., p. 791.
(39) A ragione, Caponi, Autonomia privata e processo civile: gli accordi processuali, Civil
Procedure Review, vol. 1, n˚ 2, jul-set, 2010, p. 47.
(40) Resnik, For Owen Fiss: some reflections about the triumph and the death of adjudication, University of Miami Law Review, vol. 58, 2003, p. 191.
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accordi processuali nel diritto brasiliano
789
materiali; in altri casi l’arbitrato semplicemente non è adeguato o conveniente perché molto caro, molto di più di quanto le parti potrebbero
pagare. L’arbitrato in Brasile è un lusso, fuori dalla portata di gran parte
della popolazione (41).
Vi saranno quindi conflitti in cui l’arbitrato è inapplicabile o inadeguato per gli interessi delle parti, che vorranno prevedere le formalità di
soluzione del conflitto, ma giudizialmente. Cercheranno, cioè, nell’autonomia della loro volontà, di adattare e flessibilizzare il procedimento a quel
che ritengono adeguato per la soluzione del loro conflitto, ma all’interno
dello stesso processo statale. In questo modo, gli accordi processuali diventano “la terza via” di accesso alla giustizia, incorporando al procedimento,
in seno alla stessa giustizia statale (42), flessibilità formale e adattamenti
dialogali. Cosı̀ gli accordi processuali non solo umanizzano il processo e
rafforzano la cooperazione, ma presentano anche ai litiganti un meccanismo statale alternativo all’arbitrato, applicabile anche nei casi in cui i mezzi
extragiudiziali di soluzione di conflitto non sono adeguati.
Quindi intendiamo che vi sia uno sforzo per l’accesso alla giustizia (e
non una sua violazione), perché, in fin dei conti, vi è un incremento delle
forme di tutela giurisdizionale per quelle persone che non hanno mai
potuto avere un procedimento adattabile alle loro necessità.
Infine, è da sottolineare come sia strano che la resistenza agli accordi
processuali che presenta il pubblicismo non sia diretta, con la stessa veemenza, ai mezzi alternativi di soluzione di controversie. Al contrario dell’arbitrato, nelle convenzioni processuali non si vuole escludere lo Stato, conformando il procedimento a margine del processo statale. La convenzionalità nel
processo significa negoziazione, collaborazione e adattamento all’interno della tutela statuale nel seno dello stesso Stato, in modo istituzionalizzato e
controllato (43). Quindi le convenzioni processuali significano flessibilità
procedurale senza necessariamente tradursi in una degiudizializzazione (44).
(41) Godinho, Convenções sobre o ônus da prova: estudo sobre a divisão de trabalho
entre as partes e os juı´zes no processo civil brasileiro, Tesi, Pontifı́cia Universidade Católica de
São Paulo 2013, p. 16.
(42) Cfr. Cadiet, La justice face aux défis du nombre et de la complexité, Les Cahiers de la
Justice, n˚ 1, 2010, p. 16; Idem, Los acuerdos procesales en derecho francés: situación actual de
la contractualización del proceso y de la justicia en Francia, Civil Procedure Review, vol. 3, n.
3, ago-dez, 2012, p. 2.
(43) Cadiet, Le spectre de la societé contentieuse, in Jean Beauchard e Pierre Couvrat.
Droit civil, procedure, linguistique juridique. Écrits en homage a Gérard Cornu, Paris 1994, p.
46-47.
(44) Cadiet, Case management judiciaire et déformalisation de la procédure, Revue française d’administration publique, n˚ 125, 2008, p. 149 ss.
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rivista di diritto processuale 2016
5. – Il contesto dell’edizione di un nuovo Codice di Procedura Civile
già di per sé sarebbe propizio ad una rinnovata riflessione sui temi classici
del diritto processuale, incluso quello che ci interessa ora. Tuttavia, in
relazione agli accordi processuali, l’interesse accademico e pragmatico si
intensifica perché il CPC/2015 riduce la piega pubblicistica e cerca di
rendere sempre più protagoniste le parti nella soluzione della lite. Per
esempio, nella parte generale, il Codice stabilisce come direttiva il fomento
dell’autocomposizione (art. 3˚ § 2˚). Tra le norme fondamentali del processo, vi è il principio della cooperazione, che ingloba tanto le parti quanto
il giudice, imponendo sia diritti che doveri (art. 6˚).
Specificamente in tema di convenzioni processuali, il nuovo Codice di
Procedura Civile prevede, in due articoli, clausole generali di negoziazione
processuale. Da un lato, nell’art. 200 (45), copia letterale dell’art. 158 del
Codice anteriore (del 1973), già c’era un’ampia previsione di negozi giuridici processuali, inclusi negozi giuridici unilaterali (46).
Ma la grande conquista della nuova legislazione si trova nel suo art.
190, una clausola generale di convenzionalità nel processo. Cosı̀ recita il
nuovo Codice: “trattando la causa di diritti che ammettano autocomposizione, è lecito alle parti pienamente capaci di stipulare cambiamenti nel
procedimento per adattarlo alle specificità della causa e convenire sui suoi
oneri, poteri, facoltà e doveri processuali, prima o durante il processo”. E
nel paragrafo unico dello stesso articolo 190, dispone che: “D’ufficio o su
richiesta, il giudice controllerà la validità delle convenzioni previste in
questo articolo, rifiutandone l’applicazione soltanto nei casi di nullità o
inserimento abusivo in contratto di adesione o in qualunque parte si trovi
in manifesta situazione di vulnerabilità”.
Nonostante l’innovazione, è un errore pensare che le convenzioni sul
processo siano una novità nel sistema processuale brasiliano. Né si può
affermare che il tema è un’invenzione del legislatore del nuovo CPC del
2015. Si tratta di una falsa percezione, poiché i negozi giuridici processuali
esistono già da molto tempo nella legge. Nei Codici anteriori si possono
riscontrare innumerevoli convenzioni tipiche su regole procedurali: conven-
(45) “Art. 200. Gli atti delle parti consistenti in dichiarazioni unilaterali o bilaterali di
volontà producono immediatamente la costituzione, modifica o estinzione di diritti processuali. Paragrafo unico. La desistenza dall’azione avrà effetto soltanto dopo l’omologazione
giudiziaria.”.
(46) Penso che l’art. 158 del CPC/1973 già conteneva una disposizione dalla quale
poteva estrarsi ampia negoziazione processuale, sebbene nella pratica non fosse questa la
concezione prevalente nella giurisprudenza, influenzata ancora dal pubblicismo processuale.
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accordi processuali nel diritto brasiliano
791
zioni sull’onere della prova, sulla competenza, sula sospensione del processo,
dilazione di termini, ecc. La novità del Codice del 2015 è quella di aver
stabilito nella legge una clausola generale di convenzionalità, che apre spazio
alla atipicità dei negozi giuridici, ossia le parti non sono più limitate dalle
convenzioni processuali espressamente disciplinate dalla legge.
Ma oltre alle clausole generali degli articoli 190 e 200, il nuovo Codice
di Procedura Civile brasiliano è andato ancora più oltre perché ha ampliato il numero di accordi processuali tipici. Ad esempio ha disciplinato, nell’art. 191, (47) il calendario del procedimento, con evidente ispirazione
francese e con previsione anche nel Codice di Procedura Civile italiano.
Nell’art. 471 ha previsto anche la scelta consensuale del perito (vincolante
per il giudice), (48) e la delimitazione convenzionale, dalle parti, delle
questioni di fatto e di diritto oggetto della cognizione del giudice (art.
357 § 2˚) (49), che trova un parallelo nell’art. 12 del Code de Procédure
Civile francese ed anche nei noti accordi di choice of law del diritto
angloamericano (50).
6. – Punto centrale nelle controversie circa le convenzioni processuali
è la posizione del giudice di fronte ad esse. La cosa merita brevi commenti:
il giudice è parte della convenzione? È vincolato a quanto deliberato dalle
parti?
La tradizione pubblicistica era quella di negare completamente il vincolo delle convenzioni per il giudice, che avrebbe potuto semplicemente
ignorarle o negarne l’applicazione (51). Non è questa la corretta soluzione,
(47) Art. 191. Di comune accordo, il giudice e le parti possono definire il calendario per
la pratica degli atti processuali, quando del caso. §1˚ Il calendario vincola le parti ed il
giudice, e i termini in esso previsti verranno modificati soltanto in casi eccezionali, debitamente giustificati. § 2˚ Si dispensa l’intimazione delle parti per la pratica di atto processuale
o per la realizzazione di udienza le cui date siano state fissate in calendario.
(48) Art. 471. Le parti possono, di comune accordo, scegliere il perito, indicandolo
mediante richiesta, purché: I – siano pienamente capaci; II – la causa possa essere risolta per
autocomposizione.
(49) Art. 357. Non verificandosi nessuna delle ipotesi di questo Capitolo, il giudice
dovrà, con una decisione di sanamento e di organizzazione del processo: (...) I – delimitare
le questioni di fatto sulle quali ricadrà l’attività probatoria, specificando i mezzi di prova
ammessi; (...) IV – delimitare le questioni di diritto rilevanti per la decisione del merito; (...)
§ 2˚ Le parti possono presentare al giudice, per l’omologazione, delimitazione consensuale
delle questioni di fatto e di diritto a cui si riferiscono gli incise II e IV, il che, se omologato,
vincola sia le parti che il giudice. (...)
(50) Solimine, Forum-selection clauses and the privatization of procedure; Cornell International Law Journal, vol. 25, 1992, p. 51-52.
(51) Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, cit., p. 47.
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rivista di diritto processuale 2016
soprattutto nel diritto processuale attuale. Nel legittimo spazio di negoziazione, le convenzioni delle parti vincolano il giudice.
Però, anche ammettendo che gli accordi processuali siano vincolanti
per il giudice, che dovrà applicarli e farli rispettare, alcuni autori intendono che il giudice possa esser parte di alcune convenzioni processuali
(quando ad esempio la legge ne esige l’omologazione). Non è questa è
la nostra opinione.
Da una parte, non vediamo il giudice come parte della convenzione,
perché egli non ha la capacità negoziale che gli permetta di disporre degli
interessi in gioco nel processo. Evidenziare atti giudiziari nei quali il giudice abbia spazio di conformazione per agire con discrezionalità, o nei
quali il giudice abbia un qualche margine di flessibilità formale, non significa che lo faccia in ragione di volontà negoziale. E pur esistendo
interessi pubblici nel processo, tali interessi non appartengono al giudice
né al giudiziario, ma a tutta la società, e non è ammissibile che il giudice
agisca per disporne. Nelle convenzioni processuali le parti sono i soggetti
che possono effettivamente disporre di situazioni giuridiche processuali.
Quindi, non essendo parte della convenzione, la volontà del giudice non è
necessaria affinché l’accordo processuale esista e sia valido.
Ma se il giudice non è parte della convenzione, e quindi non la firma,
in che modo è vincolato all’accordo? Non v’è necessità che il giudice sia
parte della convenzione o che la firmi perché sia obbligato a rispettarla ed
applicarla. E la chiave per comprendere il vincolo del giudice è la differenza tra autovincolazione e eterovincolazione. Con l’autovincolazione della volontà, le convenzioni processuali vincolano soltanto le parti che le
hanno firmate, e non possono produrre effetti verso terzi (relatività delle
convenzioni processuali). Ma il giudice si vincola alle convenzioni per
eterovincolazione: in uno Stato di diritto, il giudice è vincolato a norme
giuridiche valide. Essendo un organo applicatore e concretizzatore di norme, ed essendo la norma convenzionale ammessa nel sistema, il magistrato
non può negare applicazione ad accordi processuali validi. Lo stesso accade con i contratti privati: il giudice non ne è parte, non li firma, ma
quando sorgono nel processo, deve applicarli anche se derogano alla regola generale. E lo fa perché la norma del contratto, cosı̀ come la norma
della convenzione processuale, sono tutte norme giuridiche valide.
Ciò nonostante, questo non vuol dire che il giudice non abbia alcuna
funzione nel campo della negoziazione processuale. Egli esercita, da una
parte, una funzione di stimolo in ragione della direttiva del Codice di
Procedura Civile brasiliano di incentivare l’autocomposizione della lite
(art. 3˚ § 2˚). Ma esercita anche e soprattutto una funzione di controllo,
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accordi processuali nel diritto brasiliano
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poiché deve analizzare se le convenzioni sono valide o invalide, come ad
esempio se sono state firmate in abuso di diritto, in mala fede o in modo
da pregiudicare gli interessi di persone vulnerabili (52).
L’omologazione giudiziaria si esige solo nei pochi casi in cui la legge
dispone espressamente in tal senso, ampliando il controllo formale del
negozio giuridico da parte del giudice. In questi casi tuttavia nemmeno
è necessaria la volontà del giudice per la formazione (esistenza) dell’accordo, e ancor meno per la sua validità. Quando la legge esige omologazione
giudiziale, sta stabilendo una condizione legale (conditio iuris), che si pone
sul piano dell’efficacia del negozio giuridico, che sarà esistente, valido, ma
inefficace fino alla sua omologazione da parte del giudice.
7. – Il diritto processuale brasiliano, come in molti altri paesi, va verso
una progressiva flessibilità del procedimento in seno al processo statale,
permettendo che le parti, per loro manifestazione di volontà, possano
disporre, in maniera vincolante per il giudice, riguardo al procedimento
o a situazioni giuridiche processuali.
Si tratta di un interessante meccanismo di gestione che può dare al
processo più efficacia, prevedibilità, sicurezza con minor costo e durata
più breve. La sfida è trovare il punto di equilibrio tra pubblicismo e
privatismo, tra gli interessi delle parti di adattamento e flessibilità con
gli interessi pubblici di assicurare le dovute garanzie al processo legale.
Sarà compito della dottrina e della giurisprudenza concretizzare la
clausola generale di convenzionalità processuale e fissarne i limiti di attuazione. E, se ben utilizzato ed applicato, il nuovo Codice di Procedura
Civile brasiliano può servire certamente come parametro mondiale in tema
di convenzioni processuali.
ANTONIO CABRAL
Professore ordinario nell’Universidade do Estado do Rio de Janeiro
(52) Come dispone l’art. 190 del Codice brasiliano del 2015, il giudice controlla la
validità, non la convenienza di celebrare l’accordo.
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RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Massimo Ceresa-Gastaldo, Procedura penale delle società, Giappichelli,
Torino 2015, pp. V-219.
Il titolo del lavoro di Massimo Ceresa-Gastaldo, primo volume della
Collana «Procedura penale speciale» di Giappichelli Editore, rivela subito
il pregevole intento di affrontare, con l’impostazione manualistica, la materia tanto attuale e densa di incertezze del processo penale alle società.
Il risultato è un lavoro che, non è difficile prevederlo, si affermerà
quale strumento imprescindibile per l’operatore del diritto penale economico che debba confrontarsi con i peculiari schemi di accertamento dell’illecito amministrativo ex d.lgs. 231/2001, nonché quale volume di studio
nei corsi universitari.
La sistematica dell’opera è quella di un manuale che non si limita ad
un’analisi statica della materia, ma che fornisce utili spunti di ragionamento sulle più rilevanti questioni concrete. Dopo il Capitolo I, che illustra i
meccanismi sostanziali di ascrizione della responsabilità all’ente, il volume
sviluppa una trattazione del processo penalsocietario secondo una efficace
quadripartizione strutturale: la giurisdizione penale quale sede per l’accertamento della responsabilità amministrativa (Capitolo II), le peculiarità di
un «imputato» che ha vesti di persona giuridica (Capitolo III), il problematico tema delle cautele avverso la società (Capitolo IV), gli sviluppi delle
indagini e della fase processuale vera e propria (Capitolo V).
Peraltro si segnala che l’Autore non ha indugiato in una posizione
neutra ed acritica, cui l’impostazione manualistica poteva indurre, per
lasciare invece chiaramente trasparire come nel sistema oggetto di analisi
esistano numerosi punti critici, che lo studioso non può non prendere in
considerazione.
La scelta stessa di affidare alla giurisdizione penale l’accertamento
della responsabilità dell’ente, se da un lato si comprende alla luce della
necessità di garantire un’efficace ricostruzione dell’illecito amministrativo
– intimamente connesso a quello del reato-presupposto –, e di assicurare
all’ente imputato i medesimi spazi di difesa spettanti alla persona fisica,
dall’altro lato solleva problematiche non trascurabili. In effetti, il principio
del cd. simultaneus processus, che si prefigge di garantire proprio il perseguimento delle anzidette finalità, risulta frequentemente disatteso dalla
concreta fisionomia del processo all’ente nel d.lgs. 231/2001, che soffre
Diritto e pratica tributaria 3/2016
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recensioni e segnalazioni
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numerose deroghe alla disciplina ordinaria: deroghe tali da fare, forse,
sorgere dei dubbi circa le intenzioni garantiste del legislatore. Si pensi al
modo in cui l’effettiva partecipazione dell’ente al processo viene subordinata ad un inedito onere di costituzione, di ascendenze civilistiche, e di
dubbia compatibilità con i principi garantistici del processo penale, o alla
reinterpretazione che conoscono, nel processo all’ente, canoni fondamentali come la presunzione di non colpevolezza o il diritto al silenzio dell’imputato.
La lucida analisi dell’Autore, corroborata da sistematici riferimenti
giurisprudenziali, fa affiorare alla superficie l’intento legislativo di concepire l’ente quale oggetto di una politica repressiva specialpreventiva che,
da un lato, lo chiama ad espiare le proprie colpe nella sede del processo
penale ordinario, e dall’altro lato lo priva di alcuni strumenti necessari
affinché in tale sede possa essere esercitata una difesa effettiva.
Una problematica, questa, su cui l’Autore suscita nel lettore una giusta
e provvidenziale preoccupazione: che sia sı̀ virtuoso indurre forme di
interazione tra autorità pubbliche ed enti privati, ai fini di incentivare
un buongoverno di questi ultimi, ma anche che il processo penale possa
non essere il luogo più adatto ove realizzare simili istanze (Gaia Caneschi).
Silvana Dalla Bontà, Contributo allo studio del filtro in appello, Editoriale
Scientifica, Napoli 2015, pp. XII - 269.
Lo studio monografico dell’Autrice si concentra ex professo sul c.d.
filtro in appello, introdotto nel 2012 con gli artt. 348 bis e s. c.p.c. Un
istituto unanimemente criticato dalla dottrina, che ha avuto nel primo
biennio quel successo che s’accompagna naturaliter alle sempre più effimere novità del nostro tempo, ma che pare ora appannato e quasi accantonato nella prassi giudiziaria, prediligendo le corti territoriali adottare le
non meno concise e rapide forme delle sentenze con motivazione contestuale di cui all’art. 281 sexies c.p.c., precedute da pseudo-discussione
orale (ché le pronunce usualmente sono già state deliberate e scritte prima
dell’udienza di discussione), e che ha già dato luogo a contrasti tra sottosezioni della sezione filtro della Suprema Corte (di cui ci siamo occupati
nell’articolo intitolato Il maleficio del filtro in appello, in questa Rivista
2015, 751 ss.), alfine composti da Cass., sez. un., 2 febbraio 2016, n. 1914,
anche se con passaggi e massime non prive di qualche residua oscurità.
Pareva che il legislatore intendesse cancellare l’istituto dall’ordito codicistico venendo incontro, almeno per una volta, alla communis opinio
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rivista di diritto processuale n. 3/2016
doctorum: il d.d.l. delega C 2953 dell’11 marzo 2015 ne prevedeva l’abolizione ma, come talora avviene in articulo mortis, nuovo soffio vitale pare
ora volersi instillare in questo golem, in grazia di emendamenti apportati al
suddetto d.d.l. dalla Commissione Giustizia della Camera dei deputati nel
febbraio 2016, per estenderlo anche agli appelli avverso ordinanze sommarie (attualmente esentate dal filtro ex art. 348 bis, comma 2º, lett. b,
c.p.c.) e per disciplinarne più compiutamente le modalità procedurali, ad
instar del procedimento camerale in Cassazione, facendo precedere l’udienza di trattazione in appello da una relazione scritta del consigliere,
sulla quale le parti sono chiamate a prender posizione e a discutere prima
che il giudice d’appello emetta l’ordinanza di «inammissibilità» per manifesta infondatezza del gravame, proponendosi di divenire cosı̀ metodo
prediletto per far piazza pulita di appelli che appaiano ictu oculi privi
d’ogni speranza d’accoglimento (hopeless dicon gli anglofoni).
Il libro ha il merito di ampliare il ristretto orizzonte esegetico di norme
infelici e mal scritte, come gli artt. 348 bis e s. c.p.c., scandagliando le
origini del giovane istituto nel contesto comparatistico, soprattutto con
riguardo all’ordinamento tedesco, non senza riferimenti anche a quello
austriaco, alla permission to appeal del sistema inglese e qualche cenno a
quello francese, tradizionalmente privo di filtri in ossequio all’inveterato
principe du double degré de juridiction, ma che ha conosciuto una qualche
incrinatura con la radiation du rôle dell’appello, quando la sentenza di
primo grado non sia stata eseguita dal soccombente (salvo che l’esecutorietà non sia stata sospesa, ben s’intende).
Il libro è organizzato in tre capitoli, il primo dei quali contiene le
premesse introduttive e spiega le ragioni della comparazione, dedicando
alcuni paragrafi agli ordinamenti inglese e francese, per concludere che
unico e vero modello ispiratore della novella italiana del 2012 è la disciplina tedesca dell’appello (Berufung).
Il secondo e centrale capitolo è interamente votato all’analisi del filtro
in appello nell’esperienza tedesca: è una parte di diritto straniero, nella
quale si trovano numerosi e assai ricchi riferimenti alla dottrina e alla
giurisprudenza tedesche, ivi inclusi i lavori preparatorii e l’evoluzione di
quello che il § 522 della ZPO più esattamente individua e disciplina come
rigetto immediato dell’appello privo di qualsiasi prospettiva di successo,
con ordinanza (Zurückweisungsbeschluss) che inizialmente era non impugnabile, ma che dal 2011 è stata resa direttamente impugnabile.
Ben diversi, come può subito cogliersi a una semplice lettura del § 522
ZPO arricchita dai doviziosi richiami e dai numerosi e dettagliati paragrafi
del secondo capitolo nel libro qui recensito, sono la trama letterale e
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recensioni e segnalazioni
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concettuale del filtro tedesco, le sue condizioni di applicabilità, i suoi
effetti e il suo regime di impugnabilità diretta, rispetto al pastiche dei
nostrani artt. 348 bis e s. c.p.c., che inventano di sana pianta un ricorso
in Cassazione per saltum contro la sentenza di prime cure (che tale non è
affatto, a leggere molte massime della Suprema Corte, le quali esigono che
si riporti e censuri comunque anche la motivazione dell’ordinanza-filtro,
anziché tenerla in completo non cale, come parrebbe volersi nell’intentio
legis) e una «doppia conforme» sul giudizio di fatto, del tutto ignota al
sistema tedesco (quantomeno dalla CPO del 1877 in poi, come ricorda
l’a.) e, dopo le recenti riforme volute da Papa Francesco, finanche all’ordinamento giudiziario canonico, da cui storicamente proviene.
Il confronto con il filtro germanico, che conclude il lavoro nel capitolo
terzo, a guisa di sutura e di sintesi conclusiva, è dunque impietoso: il filtro
«all’italiana», anche se regge al vaglio di conformità alla Costituzione e alla
CEDU, è soverchiamente macchinoso e «nocivamente inutile», scrive l’a.,
occorrendo ben altro che questo per realizzare quell’«iconoclastia» nel
processo italico more molti anni addietro additata da Mauro Cappelletti:
non l’introduzione del filtro, ma una rivisitazione dell’Istanzenzug nei tre
gradi di giudizio, purché in prime cure la lite sia stata compiutamente e
attentamente trattata, istruita ed esaminata in tutti i suoi profili, con il
contributo sinergico e dialettico di tutti coloro che vi partecipano. Un’utopia che, per realizzarsi, esige anzitutto di passare drasticamente e radicalmente dall’attuale approccio burocratico e asimmetrico del processo a
un nuovo ordine isonomico e profondamente umano... forse troppo umano (Alberto Tedoldi).
Filippo Danovi, Il processo di separazione e divorzio, Giuffrè, Milano 2015,
pp. XVII-905.
L’opera è inserita, a pieno titolo, nel ben noto Trattato di diritto civile
e commerciale diretto originariamente da Cicu e Messineo e successivamente da Mengoni e Schlesinger, di cui costituisce – nell’ambito del tema
sulla «Crisi della famiglia» – il IV tomo.
Il lavoro si articola in undici ampi capitoli, molte volte suddivisi in
varie sezioni.
I primi sette sono dedicati all’esame, in una prospettiva unitaria, dello
svolgimento dei procedimenti di separazione e di divorzio nelle loro varie
fasi: dopo un’apertura dedicata alla natura giuridica di questi procedimenti
e all’opportunità di esaminarli in un contesto unitario, costituendo essi
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rivista di diritto processuale n. 3/2016
espressione di un modello processuale unico, si affrontano, in un’ideale
rassegna, il tema dei presupposti processuali e quello delle caratteristiche
della fase presidenziale (con estensione anche ad aspetti collaterali, ad
esempio sulla mediazione familiare), per passare alla fase davanti al giudice
istruttore e a quella decisoria. L’opera si sofferma, poi, su natura ed
efficacia dei provvedimenti cosı̀ resi e sulle garanzie patrimoniali, estendendo l’esame anche ai temi esecutivi propri della materia, per concludere
questa parte del lavoro con la disamina del regime delle impugnazioni.
A questa amplissima trattazione dei procedimenti in questione quando
si atteggiano come contenziosi, seguono due capitoli nei quali vengono
analizzati, separatamente, le loro forme, che presentano sensibili divergenze,
quando la separazione o il divorzio siano condivisi tra i coniugi. L’a. analizza, cosı̀, la separazione consensuale, da un lato, e il divorzio a domanda
congiunta, dall’altro; per poi riprendere il suo cammino unitario nei due
ultimi capitoli, soffermandosi sui giudizi di modifica e revisione e concludendo con il tema delle alternative stragiudiziali ai nostri procedimenti.
Si tratta di un lavoro pregevole sotto molteplici aspetti. In primo luogo
per la sua impostazione sistematica, che conferisce unità a due forme
procedimentali disciplinate autonomamente in ragione delle vicende storiche, ma che ben avrebbero potuto costituire oggetto di un’unica normativa, differenziata solo per pochi aspetti: impostazione che ha il pregio sia
di eliminare inutili duplicazioni nella trattazione, sia di meglio evidenziare
le differenze che sussistono, chiarendo i limiti in cui sono possibili uniformi risultati, nonostante lacune o diverse previsioni normative. Ma l’opera
fornisce anche un quadro completo, chiaro ed aggiornato dei problemi
della materia e delle soluzioni, dottrinali e giurisprudenziali, che ne sono
state date, giungendo a conclusioni equilibrate e condivisibili.
Insomma, un’opera estremamente apprezzabile, che costituisce uno
strumento imprescindibile di studio e di lavoro (Achille Saletti).
Antonio Didone (a cura di), Le riforme del processo civile 2015, Giuffrè,
Milano 2015, pp. VIII-232
L’opera collettanea curata da A. Didone fornisce un commento approfondito delle norme contenute nel d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132 – cd. decreto «Facilita
Italia» –, che non ha lasciato indenne da novità il processo civile, modificandolo in taluni profili della negoziazione assistita, del processo civile
telematico (p.c.t.) e dell’esecuzione forzata. Vengono altresı̀ analizzate le
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recensioni e segnalazioni
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novità contenute nella l. 6 maggio 2015 n. 55, relativa al cd. divorzio breve,
e nel d.lgs. 6 agosto 2015, n. 130, riguardante le alternative dispute resolution (a.d.r.) sulle controversie dei consumatori.
L’opera si apre con un capitolo introduttivo curato dallo stesso A.
Didone in cui si tratta in maniera fortemente critica il rapporto tra nomofilachia e smaltimento del contenzioso arretrato pendente in Cassazione
oramai incrinato – a suo dire – dalla continua produzione normativa.
Nel secondo capitolo A. Villecco descrive i profili del processo civile
telematico (p.c.t.), muovendo dal suo embrione normativo costituito dal
d.p.r. 13 febbraio 2001, n. 123, fino a giungere alle novità introdotte dalla
l. n. 132/2015.
Nel terzo capitolo F. De Santis disserta sulle modifiche che nel biennio
2014-2015 hanno coinvolto le procedure esecutive (singolari e concorsuali), con una puntuale e precisa analisi degli aspetti positivi e negativi sia del
cd. decreto «Sblocca Italia» di cui alla d.l. 12 settembre 2014, n. 132,
convertito con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 164, sia del
citato d.l. n. 83/2015, convertito con modificazioni dalla l. n. 132/2015.
Nel quarto capitolo, redatto dal curatore, ci si concentra sulla sostanziale inapplicabilità del nuovo art. 183 bis c.p.c. rubricato «passaggio dal
rito ordinario al rito sommario di cognizione» dovuto – a dire dell’Autore
–, a due fattori, quali: a) la conclamata incapacità del processo ordinario di
cognizione a presentare al giudice gli esatti confini della controversia sin
dalla prima udienza, con l’evidente logica difficoltà di giungere ad un’attenta e compiuta valutazione dell’indice di complessità della causa; b) la
possibilità di attivare il contraddittorio in forma scritta prima di procedere
alla trasformazione del rito, in tal modo impedendo, almeno in astratto, di
attuare concretamente l’obiettivo di accelerazione dei tempi di durata dei
procedimenti civili.
Infine nei due capitoli finali, P. Sandulli esprime il suo favor alla nuova
disciplina in tema di alternative dispute resolution (a.d.r.) sulle controversie
dei consumatori contenuta nel cit. d.lgs. n. 130/2015, mentre S. Stefanelli
focalizza la sua attenzione sulle criticità del cd. divorzio breve disciplinato
dalla citata l. n. 55/2015 (Alfonso Cerrato).
Matteo Pacilli, L’abuso dell’appello, Bononia University Press, Bologna
2015, pp. 304.
Significativamente anticipato dalla celebre massima oraziana – «Est
modus in rebus: sunt certi denique fines, quos ultra citaque nequit consistere
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rectum» – il recente volume di Matteo Pacilli, nella Collana delle pubblicazioni del Seminario giuridico dell’Università di Bologna, pare tutto proteso a dimostrare, appunto, che l’anelito al giusto limite nel ricorso all’appello sia stato la «buona intenzione» del legislatore del 2012 nell’introdurre il famigerato «filtro». E che all’intenzione siano, ber buona parte, seguiti
i risultati, a dispetto della diffusa cattiva stampa della quale la via italiana al
filtro ha spesso, come noto, sofferto.
Il volume si apre con piane riflessioni che descrivono la temperie
culturale in cui le nuove figure di inammissibilità dell’appello s’inscrivono:
tanto quella realizzata mediante la novella all’art. 342, comma 1º, c.p.c.
(definita quale «filtro in rito» dall’a.), quanto quella ex artt. 348 bis e ter
c.p.c. (il «filtro» per antonomasia – diremmo – giocato, come noto, su
parametri decisori di merito). Quel clima di «crisi» nel quale la giustizia
civile da tempo versa e che impone l’individuazione di un punto di equilibrio tra istanze difensive individuali ed istanze di efficienza collettive: la
soglia oltre la quale anche la domanda impugnatoria d’appello si fa «abuso», da scongiurare non più solo repressivamente, ma anche in via preventiva. La contestualizzazione culturale dell’istituto non è, nell’economia
del lavoro, il frutto di un’analisi compiuta in mera chiave sociologica o di
politica processuale. Essa dà ragione altresı̀ di una delle idee più enfaticamente ribadite nell’opera, tendente a giustificare l’impiego di una tradizionale categoria formale, quale quella dell’inammissibilità, a sanzione di
un controllo (sulle ragionevoli probabilità di accoglimento dell’appello)
che partecipa inequivocabilmente dell’indagine sul merito della domanda.
A far da «cerniera» tra i due ambiti è infatti la condizione dell’«interesse
ad impugnare», indubbiamente non ravvisabile in chi propone un appello
destinato verosimilmente al rigetto.
Tutto ciò non toglie che la non certo eccellente scrittura normativa e
l’eterodossia sistematica del «filtro» lasci aperte – come noto – molte
questioni (basti pensare al controverso regime d’impugnabilità dell’ordinanza-filtro ex art. 111 Cost., al rapporto con la disciplina sulle impugnazioni incidentali, in specie tardive, etc.): questioni che l’a. non si esonera
dall’affrontare, con animo alieno da alcun facile disfattismo. Ne scaturiscono, anzitutto, le pagine dedicate al significato da attribuire alla nozione
di «carenza di ragionevoli probabilità di accoglimento», equiparata, sulla
scorta di argomentazioni principalmente (ma non solo) funzionali, con la
manifesta infondatezza del gravame e ritenuta conseguire alla plena cognitio su di esso, concepibile pur ad un primo (ma esaustivo) sguardo; o
quelle sul rapporto intercorrente fra inibitoria ai sensi dell’art. 351 c.p.c.
e pronuncia sul filtro «in merito», o fra quest’ultima e la sentenza sem-
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plificata ex art. 281 sexies c.p.c.: in entrambi i casi ritenendosi doversi
assicurare priorità al nuovo strumento decisorio, pur a dispetto (segnatamente nel secondo caso) della perdita di garanzie che il filtro determina e
con scelta contraria a quella talvolta caldeggiata dal supremo organo giurisdizionale (v. Rel. del primo presidente della Cassazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2012).
Tutto il lavoro, della cui ricchezza contenutistica è evidentemente
impossibile dar qui testimonianza, è – del resto – connotato, lo si è accennato, da un cauto favor verso l’azione legislativa sull’appello degli ultimi
anni. Un favor che include la novella all’art. 342, comma 1º, c.p.c. se colta
– come opportunamente auspicato – in chiave non esasperatamente formalistica, e nella quale – con uno slancio di ottimismo, forse – l’a. coglie
un argomento ulteriore contro la prassi giurisprudenziale dei cc.dd. «giudicati impliciti», facendo della mancanza di motivazione, ad essi immanente, il sintomo dell’incompatibilità con l’applicazione della nuova disciplina
sulla «motivazione dell’atto di appello» dalla quale far discendere il dovuto
abbandono della detta controversa prassi giurisprudenziale (ma tale geometria concettuale avrebbe potuto verosimilmente fondare la ripulsa dei
giudicati impliciti, pur prima della novella del 2012).
Del tutto condivisibile è (invece) la geometria espositiva dell’opera: dal
linguaggio e dalla sintassi sempre molto sobri e limpidi, in ideale consonanza con il miglior stile della gloriosa scuola processual-civilistica del
quale Pacilli è degno, giovane prosecutore (Giovanni Raiti).
Gian Franco Ricci, Diritto processuale civile, Giappichelli, Torino 2016,
pp. IV-333 (vol. I) pp. IV-354 (vol. II) e pp. IV-554 (vol. III).
Sono passati tre anni da quando, nel 2013, ho avuto occasione di
recensire sulle pagine di questa Rivista l’opera di Gian Franco Ricci, il
cui primo volume era giunto alla quarta edizione, mentre il secondo ed il
terzo volume alla terza. Nell’arco di circa trentasei mesi si sono avvicendate altre due edizioni, la seconda delle quali ha visto la luce nel febbraio
di quest’anno. Sicché Gian Franco Ricci offre ora ai lettori una sesta
edizione del primo volume della sua opera e una quinta edizione del
secondo e del terzo volume.
Tutto ciò è stato provocato da quello che, nella precedente recensione,
definivo il «frenetico legislatore processuale di queste ultime stagioni» impegnato a fare e disfare nuovi istituti processuali, tanto da abrogarli a pochi
mesi dalla loro introduzione, spesso difficile e tormentata nell’applicazione
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(esemplare il caso del «quesito di diritto» espunto dalla normativa del
ricorso per cassazione a non più di trentasei mesi dalla sua introduzione).
Lo confessa lo stesso Ricci nella prefazione di questa edizione dove
riconosce che, per effetto «dell’attività tanto frenetica quanto poco chiara
del legislatore odierno, ogni edizione finisce quasi immediatamente per
essere superata da una nuova spesso anche in poco più di un anno».
E cosı̀ Ricci deve constatare che l’aggiornamento che aveva fatto nell’edizione precedente, a seguito della riforma del 2014, è già superato dal
d.l. n. 83/2015, convertito nella l. n. 132/2015.
Tutto ciò spiega certamente il fatto che dell’opera di Ricci abbiano
visto la luce ben sei edizioni in non più di dieci anni.
Impegno gravoso, quello che si è assunto l’a. e che ha assolto con
serietà scientifica e non con il comune metodo delle interpolazioni, oggi
facilitato dai moderni strumenti tecnologici. La rivisitazione sistematica dei
singoli istituti interessati dalle varie riforme, cosı̀ come è stata condotta da
Gian Franco Ricci nelle varie edizioni ed ora in quella da poco pubblicata,
rappresenta quindi un contributo importante che, per la sua chiarezza,
sarà certo apprezzato dagli studenti, ma che risulta prezioso per tutti
coloro che, per ragioni scientifiche o professionali, si occupano del processo civile e delle sue continue trasformazioni, con le ovvie difficoltà di
applicazione (Carmine Punzi).
Shira A. Scheindlin, Daniel J. Capra, The Sedona Conference, Electronic
Discovery and Digital Evidence. Cases and Materials, 3a ed., West Academic Publishing, St. Paul 2015, XXXVII-1131
Da quando la maggior parte delle informazioni si conservano elettronicamente, l’acquisizione della prova nel processo americano è diventata
ancora più problematica. La discovery attraverso l’accesso a tutti i possibili
elementi contenuti in un computer e pubblicati sulla rete è mezzo particolarmente efficace di acquisizione della prova, ma allo stesso tempo pericoloso, sia per la mole di materiale richiesta alla controparte, sia per i
costi spropositati, sia per la violazione della riservatezza di soggetti anche
estranei al processo. Questione, quest’ultima, che in USA si pone più dal
punto di vista etico, che non del rispetto di un diritto.
Il testo che si recensisce, ormai alla terza edizione, esce dalla penna di
uno studioso e docente della law of evidence, già membro della Commissione per la riforma delle Federal Rules of Civil Procedure, Capra, una
giudice del distretto di New York, Scheindlin, e un membro della Sedona
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Conference, gruppo molto attivo nello studio delle problematiche connesse
al trasferimento di dati e alla electronic discovery, Kenneth Withers.
In apertura un saggio di Richard Marcus che evidenzia le modifiche
legislative, per far fronte alle impellenti esigenze dell’acquisizione di documenti elettronici, che hanno cambiato profondamente la discovery.
Il testo è strutturato in 12 capitoli. Dopo aver enumerato e chiarito
quali sono le fonti della e-discovery, si occupa delle modalità e degli obblighi di preservare le informazioni elettroniche da parte dei soggetti su cui
incombe una futura azione civile. La discovery abbisogna della cooperazione tra le parti e quindi di un piano di acquisizione. In che modo la
produzione di documenti debba essere organizzata, come si acquisiscono i
cd. metadata, le modalità ispettive di un computer, la richiesta a terzi e le
reticenze alla produzione di prove con il metodo della discovery che mostrano le parti non statunitensi sono oggetto di un capitolo molto denso.
Di particolare importanza i metodi di ricerca delle informazioni elettroniche, rispetto ai quali sono stati elaborati una serie di metodi molto più
sofisticati rispetto alla semplice ricerca per parole chiave, che rendono la
ricerca più accurata e precisa. Un altro capitolo (dolente) è quello dei costi
del procedimento. La riforma che è entrata in vigore lo scorso dicembre ha
previsto un ordine del giudice per l’allocazione dei costi. Sono poi analizzate le sanzioni di recente introduzione cui le parti vanno incontro per non
aver preservato adeguatamente i dati che possono essere loro richiesti dalla
controparte. Un apposito capitolo è dedicato alle questioni etiche connesse
all’e-discovery e ai relativi obblighi di schiettezza, correttezza, controllo, in
particolare rispetto alle risorse provenienti dai social media. Sebbene la ediscovery riguardi maggiormente il processo civile, può accadere che il PM
chieda all’indagato di produrre delle informazioni elettroniche, oltre che
raccogliere prove in questo formato. Nel capitolo dedicato alle informazioni privilegiate, da non esibire, si esaminano i costi per l’identificazione
di tali tipi di documenti. Di estrema importanza è l’ultimo capitolo, dedicato all’ammissibilità della prova digitale, che viene confrontata a quella
concernente le prove non digitali. L’intero volume è corredato dalle norme
di riferimento, oltre che dalla giurisprudenza rilevante, che viene puntualmente commentata, nonché da riferimenti dottrinali (Gina Gioia).
Aldo Schiavone, Ponzio Pilato, Einaudi, Torino 2016, pp. 3-174.
Aldo Schiavone ha scritto un libro bellissimo, di storia innanzitutto ma
denso anche di implicazioni processuali: e dunque importante e stimolante
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anche per il processualista che voglia ampliare il proprio sguardo aldilà
della contingenza e dell’amministrazione tecnica dell’esistente. Il libro è
dedicato a Ponzio Pilato, la cui figura – che ondeggia da sempre fra storia,
invenzione e memoria (e difatti «Un enigma tra storia e memoria» è il
sottotitolo del libro) – viene ricostruita attraverso tutte le fonti possibili,
dai Vangeli agli apocrifi alle opere di Flavio Giuseppe (le «Antichità» e la
«Guerra»), di Filone, di Tertulliano, di Tacito, fino ad arrivare alle suggestioni rintracciabili in Anatole France e Bulgakov; oltre che naturalmente
attraverso la sterminata mole della bibliografia di riferimento. Ma il lavoro
di Schiavone non si riduce a una pura e semplice esegesi, funzionale alla
descrizione di un dibattito millenario, bensı̀ sembra voler inserirsi in tale
dibattito portandovi contributi propri.
La tesi storica, in nuce: la responsabilità della morte di Gesù non può
essere ascritta né solo ai Romani né solo ai giudei. È vero: l’arresto non era
stato eseguito materialmente da uomini alle dipendenze di Pilato, nella sua
qualità di governatore della Giudea, provincia dell’impero, bensı̀ da uomini alle dipendenze del Sinedrio, aiutati da una squadra della cosiddetta
«Polizia del Tempio». E poiché il Sinedrio rappresentava il più importante
organismo collegiale di autogoverno locale (era formato da ex sommi
sacerdoti, da una parte dei sacerdoti del Tempio e da alcuni esponenti
dell’aristocrazia non sacerdotale e svolgeva anche funzioni di tribunale in
materia religiosa), dal punto di vista formale nulla vieterebbe di considerare l’arresto come frutto di una decisione solo giudaica. Ma Pilato ne
sarebbe stato senz’altro al corrente, e sussisterebbero anzi tutti gli elementi
per supporre ragionevolmente che «l’intera operazione fosse stata concepita e poi realizzata sulla base di un accordo esplicito fra il prefetto e le
autorità religiose giudaiche» (p. 21). Al tempo stesso, né il Sinedrio né il
sommo sacerdote che lo presiedeva avevano il potere di emanare sentenze
capitali, perché tale potere spettava solo al governatore romano (per quanto il punto sia tuttora discusso, come Schiavone dà atto); ed era questo il
motivo che rendeva necessario il coinvolgimento di Pilato, il quale da parte
sua non avrebbe avuto ragione di incriminare Gesù ma doveva anche
essere realista (nel senso del realismo politico): amministrare la provincia
senza consenso lo avrebbe esposto a difficoltà di ogni genere, a pericoli di
rivolta, a verosimili crisi nei rapporti fra l’autorità romana e l’aristocrazia
locale. Ma perché Pilato, infine, mise a morte Gesù? Solo perché glielo
avevano chiesto i giudei? Per ragioni di democrazia, come suggerito ad
esempio da Hans Kelsen? No. Al riguardo, Schiavone contesta sotto ogni
profilo – perfino quello archeologico – l’idea che fosse stato il popolo
ebraico nella sua interezza a gridare il «crucifige!» (quest’idea poteva ser-
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vire solo ad addossare la responsabilità della morte di Gesù a tutto il
popolo ebraico e alla sua discendenza, appunto, e costituisce non a caso
«il punto zero della genealogia dell’antisemitismo»: p. 111): a volere la
morte di Gesù era stato invece un ristretto gruppo di sacerdoti. Ma soprattutto, secondo Schiavone, ciò che davvero aveva indotto Pilato, all’esito del processo, a condannare a morte Gesù era stata la consapevolezza,
maturata nel corso del processo stesso, dell’inevitabilità che questa fosse la
fine. Pilato assecondò il disegno di Gesù, perché aveva capito che era
Gesù, «lungi dal volersi proteggere», a voler «piuttosto precipitarsi verso
la condanna» (p. 127). Tertulliano definisce Pilato «un cristiano nel cuore»; e forse voleva proprio alludere al suo aver assecondato quello che
aveva percepito come un volere divino, o superiore.
Perfettamente coerenti rispetto alla tesi storica sono le considerazioni
processuali: e qui la tesi di fondo del libro di Schiavone è che nulla, del
processo a Gesù, partecipa delle caratteristiche di un vero processo. Nulla,
lungo il processo, sembra seguire regole prefissate; nulla sembra seguire un
ordine schematico. Manca perfino un atto di accusa, se è vero che, appena
dopo l’arresto, Pilato non rivolge a Gesù un’imputazione ma una domanda: «Sei tu il re dei giudei?»; e dunque manca perfino un oggetto di
accertamento. Manca una verbalizzazione; manca l’assunzione di qualunque prova (l’unico testimone è lo stesso Gesù, quale testimone di se stesso
e della «verità»). Nulla assume mai la forma di «un vero atto di giurisdizione» (p. 130): solo il momento della condanna come tale «sembra irrigidirsi», per la prima volta, «nel formalismo» da cui «un vero atto di
giurisdizione» dovrebbe essere contraddistinto, ed è il momento nel quale
Pilato, che ormai ha scelto (nella tesi di Schiavone: ha scelto di assecondare
il disegno di Gesù), «siede in giudizio», «sul palco ... dove evidentemente
era solito amministrare la giustizia», e dice agli accusatori «Crocifiggerò il
vostro re» (p. 130). È il dispositivo della sentenza, potremmo affermare, al
quale segue infine la crocifissione. Ma è comunque qualcosa di molto
diverso da una condanna formale, ed è anche una sentenza priva di motivazione.
La realtà, secondo Schiavone, è che Pilato non voleva interrogare
Gesù, né pretendeva di provocarne la confessione o di accertarne la colpevolezza (del resto l’abbiamo visto: era mancata un’incriminazione vera e
propria): l’interrogatorio si era risolto piuttosto in un colloquio, in un
«dialogo platonico» (p. 96), nel quale inquisito e inquisitore si erano rivolti
domande a vicenda, e vicendevolmente si erano ascoltati. Ma Pilato non
era interessato a inquisire, quanto a capire; e tutto il processo, semmai,
racconta il suo smarrimento, attraverso momenti che evocano perfino una
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«risonanza metafisica» nelle domande. Come quando Pilato chiede a Gesù
«Di dove sei?», ma non per apprendere qualcosa di più «dal punto di vista
dei fatti e delle cose», bensı̀ per sapere «da dove arrivano i suoi pensieri»:
«l’indagine non ruotava più ormai intorno all’accertamento di un crimine,
ma alla natura e alla missione di chi gli stava di fronte» (p. 120).
Schiavone è naturalmente consapevole dei limiti relativi all’applicazione di categorie processuali moderne, ma definisce in ogni caso «un deformante e ostinato pregiudizio», senza mezzi termini, la tendenza di molti
storici a «ritenere che, dopo la cattura, Gesù avesse subito un regolare
processo, o almeno qualcosa di molto simile a un regolare processo» (pp.
27-28) (Niccolò Nisivoccia).
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GIURISPRUDENZA
CORTE DI CASSAZIONE, sez. un. civ., sentenza 15 giugno 2015, n. 12310
Pres. Rovelli – Est. Di Iasi
M.E. c. MA.GI e F.R.
È ammissibile nel processo di primo grado la modifica, nella prima memoria prevista dall’art.
183 c.p.c., della iniziale domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c. in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo della proprietà (massima non ufficiale).
(Omissis). Col primo dei tre motivi di ricorso, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., art. 112 c.p.c., art. 163 nn. 3 e 4, nonché art. 2932 e 1350 c.c., in riferimento all’art. 360, nn. 3 e 5, M.E. si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano ritenuto ammissibile la domanda di pronuncia dichiarativa dell’avvenuto trasferimento della
proprietà del terreno in questione proposta nella memoria autorizzata ai sensi dell’art. 183
c.p.c., benché essa fosse da ritenersi diversa rispetto alla domanda di pronuncia costitutiva
ai sensi dell’art. 2932 c.c., proposta nell’atto di citazione con riguardo al medesimo immobile, e chiede pertanto a questo giudice di dire: se sia ammissibile la proposizione, nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5˚, di domanda diretta ad ottenere l’accertamento
del trasferimento della proprietà di un immobile dopo che era stata proposta con l’atto di
citazione domanda diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre relativamente al medesimo immobile; se le due domande siano diverse per petitum e
causa petendi; se il passaggio dall’una all’altra costituisca emendatio libelli ovvero mutatio libelli.
(Omissis). La specifica questione di diritto oggetto della censura in considerazione
(modificabilità, con la memoria prevista dall’art. 183, comma 5˚, c.p.c., della domanda costitutiva ex art. 2932 c.c., in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo) è –
ed è stata – oggetto di contrasto nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità, peraltro già una volta composto dalle sezioni unite di questa Corte poco meno di venti anni fa.
Con la sentenza n. 1731 del 1996 (in questa sede invocata da ricorrente a sostegno
delle proprie ragioni), infatti, queste sezioni unite, aderendo a quello che allora si presentava come l’orientamento minoritario (Cass. n. 1782 del 1993; Cass. n. 8442 del 1990; Cass.
n. 5250 del 1986), a composizione di un contrasto che già all’epoca si proponeva sostanzialmente negli attuali termini, hanno affermato che costituisce domanda nuova vietata la richiesta di una sentenza che accerti l’avvenuto effetto traslativo dopo che sia stata in precedenza richiesta pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., essendo tali domande diverse sotto il
profilo del petitum e della causa petendi. In tali termini le sezioni unite del 1996 hanno disatteso l’orientamento, allora decisamente maggioritario, secondo il quale, nel caso in cui
l’attore, dopo aver domandato con l’atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva
ai sensi dell’art. 2932 c.c., sulla base di un contratto qualificato come preliminare di vendita
immobiliare, richieda successivamente una pronuncia dichiarativa dell’avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, non è configurabile una mutatio bensı̀ una
semplice emendatio libelli, restando il thema decidemdum circoscritto all’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, e rimanendo
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cosı̀ identico nella sostanza il bene effettivamente chiesto e identica la causa petendi, costituita dal contratto del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto
una diversa qualificazione giuridica (cosı̀ Cass. n. 11840 del 1991 – citata nella sentenza impugnata in questa sede -; n. 6740 del 1987; n. 1788 del 1983; n. 1751 del 1980; n. 5619 del
1979; n. 4736 del 1978; n. 787 del 1971).
Dopo la citata sentenza del 1996, come prevedibile (nonostante non fosse stata ancora
introdotta la regola dello stare decisis per le sezioni semplici della Corte, prevista, al penultimo comma dell’art. 374 c.p.c., solo col d.lgs. n. 40 del 2006), la giurisprudenza di legittimità ha (tranne isolate eccezioni di cui in prosieguo) seguito l’orientamento indicato dalle sezioni unite (v. Cass. numeri 15541 del 2000; 1740 del 2008; 23708 del 2009 e 12039 del
2010, cui sono da aggiungere Cass. n. 15859 del 2002; n. 13420 del 2003; n. 2723 del 2010
che hanno affermato il medesimo principio in senso inverso – cioè con riferimento a modifica dell’iniziale domanda di accertamento del contratto di compravendita in domanda di
esecuzione coattiva di un contratto preliminare –).
L’orientamento minoritario è allo stato costituito da due isolate sentenze (Cass. n.
14643 del 1999 e n. 7383 del 2001) che si rifanno alla giurisprudenza anteriore all’intervento delle sezioni unite del 1996 senza tuttavia dar conto né del contrasto che sulla questione
si era evidenziato né della sentenza delle sezioni unite che tale contrasto aveva composto né
tanto meno sulle ragioni per le quali da questa si sono dissociate) nonché dalla ordinanza
n. 20177 del 2013 della IV-3 sezione civile di questa Corte, la quale, pur dando atto dell’esistenza di un nutrito orientamento contrario rappresentato in primis dalle sezioni unite del
1996, ha, con decisione camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., affermato il principio opposto a tale orientamento, evidenziando le esigenze di speditezza e concentrazione che devono caratterizzare il processo anche alla luce del novellato art. 111 Cost., e precisando che
la qualificazione della domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo come mera
emendatio libelli non comporta violazione dei valori sostanziali a tutela dei quali è stato elaborato il principio della immutabilità della domanda iniziale, non essendo necessario procedere all’esame di fatti nuovi né richiedendosi attività diversa dalla mera qualificazione giuridica della domanda attrice.
Tanto premesso, occorre evidenziare che, come si chiarirà meglio in prosieguo, la necessità di un nuovo intervento compositivo sembra emergere in considerazione (non tanto
del numero – esiguo – delle pronunce in aperto contrasto col precedente dictum delle sezioni unite sulla specifica questione né del tempo trascorso dall’intervento compositivo del
1996 quanto) dei mutamenti del quadro normativo di riferimento ad opera del legislatore –
anche costituzionale – e dei corrispondenti mutamenti nella giurisprudenza di legittimità,
soprattutto a sezioni unite (pure se non specificamente riferibili alla problematica in esame
e riguardanti, in una prospettiva più generale, non solo la disciplina dei «nova» nel processo ma anche le problematiche collegate, ad esempio quelle relative all’ambito ed ai limiti
del rilievo officioso nel processo dispositivo, soprattutto in tema di patologie negoziali, e
quelle «proiettive» correlate all’ombra lunga del giudicato implicito), nella consapevolezza
che l’esegesi della normativa processuale deve sempre salvaguardare la coerenza circolare
del sistema e che l’intervento nomofilattico compositivo è necessario quante volte occorra
riportare a sintesi univoca e manifesta il tormentato processo di adeguamento della ermeneutica giuridica al contesto legislativo e culturale in trasformazione. È allora innanzitutto
necessario individuare la reale portata del contrasto in esame, posto che (come in parte già
evidenziato) la questione oggetto della censura di cui si discute, al di là del particolare (e
per certi versi paradigmatico) rapporto tra domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto e domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo della
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giurisprudenza
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proprietà di un bene immobile, investe uno degli «snodi» fondamentali del processo ed impone quindi di affrontare il tema dei margini di ammissibilità dei nova - a prescindere dalla
peculiarità del caso specifico – innanzitutto a partire da una ricognizione della struttura
dell’udienza di comparizione come disciplinata dall’art. 183 c.p.c., norma prevedente l’ammissibilità di modifiche alle domande, eccezioni e conclusioni proposte negli atti introduttivi, con la possibilità che, a seguito di tale ricognizione, il contrasto in esame si riveli più ampio ed articolato di quanto risultante ad una prima lettura delle pronunce sopra richiamate.
La possibile emersione di tale più ampio (e in parte silente) contrasto è in larga misura
correlata ad alcune necessarie precisazioni in ordine alla «lettura» dei dati giurisprudenziali
in proposito.
La prima precisazione prende l’avvio dalla considerazione che, in linea generale, la
giurisprudenza sembra finora univoca e tetragona nell’affermare il principio secondo il quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice emendatio libelli, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi (ma solo sulla
interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto) né sul petitum (se
non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere), mentre sono assolutamente inammissibili quelle modificazioni della domanda che costituiscono mutatio libelli, ravvisabile quando si avanzi una
pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum
diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, cosı̀ ponendo al giudice
un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo (v. tra numerose altre Cass. numeri 1585 del 2015; 12621 del 2012; 17457 del 2009; 17300 del 2008;
12017 del 2007; 9247 del 2006).
Questa apparente uniformità di principio (che relega senza incertezze nel campo della
inammissibile mutatio libelli le modifiche alla domanda iniziale incidenti su petitum e causa petendi) sottende tuttavia una realtà più frastagliata, posto che, se pure nessuna pronuncia ha finora esplicitamente affermato che sono ammissibili domande «nuove» (intese come tali quelle
delle quali risultano modificati in tutto o in parte il petitum e/o la causa petendi), nei singoli
casi, escludendo che fosse intervenuto il suddetto inammissibile cambiamento, si è in concreto
(talora attraverso equilibrismi teorici a volte comprendenti anche rivisitazioni e ridefinizioni
dei concetti di petitum e causa petendi) giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano invece mutamenti in ordine ai suddetti elementi identificativi.
Gli esempi di tale modo di argomentare nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità sono numerosi, si pensi, tanto per citarne uno, a Cass. n. 20899 del 2013, che ammette, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., una «modifica» della iniziale domanda di risoluzione per
inadempimento consistente nell’aggiunta di una domanda subordinata di adempimento del
contratto, ravvisando in essa una mera emendatio libelli. E certamente uno degli esempi
più rappresentativi del suddetto modo di argomentare è costituito proprio dall’orientamento giurisprudenziale che a più riprese nel corso degli anni ha ritenuto ammissibile la proposizione della domanda di accertamento dell’intervenuto effetto traslativo del bene dopo che
nell’atto introduttivo era stata proposta domanda di sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c.,
orientamento fondato, come sopra evidenziato, sulla considerazione che nella specie non
sarebbe configurabile una mutatio ma solo una emendatio libelli, perché il thema decidendum rimarrebbe circoscritto all’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, restando cosı̀ identico nella sostanza il bene effettivamente richiesto e la causa petendi, costituita dal contratto del quale viene prospettata sol-
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tanto una diversa qualificazione giuridica. Ciò in quanto risulta invece evidente che nella
domanda come formulata prima e dopo la modifica vengono allegati a sostegno delle pretese avanzate fatti costitutivi differenti (un contratto preliminare nel primo caso ed un contratto traslativo della proprietà nel secondo); che non si tratta della diversa qualificazione
giuridica dello stesso fatto, ma dell’accertamento di due fatti diversi (la comune intenzione
dei contraenti indirizzata, nella prima ipotesi, ad un contratto ad effetti obbligatori, nell’altra ad un contratto ad effetti reali), accertamento eventualmente non limitato alla mera interpretazione della scrittura privata ma esteso alla valutazione del comportamento complessivo dei contraenti ex art. 1362 c.c.; che risulta altresı̀ diverso soprattutto il petitum, non solo se inteso come provvedimento richiesto (una sentenza costitutiva nel primo caso ed una
sentenza di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo nell’altro), ma anche se inteso come petitum sostanziale, ossia il bene della vita conteso, posto che quando si discute tra
compravendita immobiliare e corrispondente preliminare quasi mai quel che è oggetto di
controversia tra le parti è l’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento dell’immobile, essendo invece in contestazione il momento in cui il suddetto trasferimento è
avvenuto o deve avvenire, con la conseguenza che il «bene» della vita conteso finisce per
essere non l’immobile bensı̀ proprio il «tempo» (meglio, il diverso momento in cui avviene,
nelle due ipotesi, il trasferimento). E ciò, come è intuibile, in relazione ad una serie di accadimenti inducenti effetti spesso di consistente rilievo economico (e non solo), basti pensare,
tra i molti, al perimento della cosa, alle conseguenze – anche penali – della rovina degli edifici, all’intervento del fallimento di uno dei contraenti, al godimento da parte di uno dei
predetti (ovvero all’aspettativa di godimento ed alla necessità di porsi in condizione di
fruirne) delle agevolazioni fiscali relative alla c.d. «prima casa», al momento di deliberazione di eventuali spese condominiali.
Occorre pertanto considerare che le numerose pronunce che, anche in tempi risalenti,
hanno affermato la possibilità di modificare l’iniziale domanda di sentenza costitutiva ex
art. 2932 c.c. in domanda di sentenza di accertamento dell’intervenuto effetto traslativo (e
viceversa) si sono di fatto (al di là delle differenti affermazioni di principio) poste in contrasto (anche se forse non sempre volontario o consapevole) con la apparentemente granitica
e tuttora formalmente indiscussa giurisprudenza affermativa del divieto della c.d. mutatio
libelli (intesa come modificazione degli elementi costitutivi oggettivi – petitun e/o causa petendi – della domanda).
(Omissis). Sulla base di quanto sopra doverosamente precisato, non si ritiene dunque
di perpetuare la logica giurisprudenziale del caso per caso volta a privilegiare un approccio
«settoriale» che, come accaduto finora – in misura maggiore o minore – nelle sentenze in
relazione alle quali è stato rilevato il contrasto, non pone in discussione le affermazioni di
principio in materia, ma anzi ricostruisce le singole decisioni proprio a partire da quei principi dati formalmente per indiscutibili.
Prima di procedere però alla diretta ricognizione della struttura e della portata precettiva dell’art. 183 c.p.c., con riguardo all’ampiezza della ivi prevista ammissibilità della modifica di domande, eccezioni e conclusioni, è però indispensabile innanzitutto «resettare» le
pre-cognizioni in materia e sgombrare il campo di analisi da preconcetti e suggestioni – linguistiche prima ancora che giuridiche – soprattutto con riguardo ad espressioni sfuggenti
ed abusate che hanno finito per divenire dei «mantra» ripetuti all’infinito senza una preventiva ricognizione e condivisione di significato. È vero che l’utilizzo di formule brevi e
icastiche può servire a semplificare la comunicazione ed a favorire il richiamo convenzionale di concetti, deve tuttavia trattarsi di formule che abbiano, appunto, un indiscusso retroterra concettuale, essendosene preventivamente stabilito in modo convenzionale ed inequi-
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voco il significato, mentre il richiamo a termini il cui significato resta oscuro serve solo ad
aumentare la confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonché la pigrizia esegetica,
inducendo a cedere alla tentazione sbrigativa e autoritaria della «formuletta» che, ripetuta
acriticamente ed in rapporto a situazioni eterogenee, finirebbe in ogni caso, perfino se preceduta da una seria e condivisa ricognizione di senso, per usurarsi. È questo certamente il
caso della nota coppia retorica emendatio/mutatio libelli, e della connessa convinzione di
ammissibilità della prima ed inammissibilità della seconda.
Il principio (finora, come rilevato, apparentemente indiscusso nella giurisprudenza di
questo giudice di legittimità) secondo il quale è inammissibile ogni modifica della domanda
iniziale che incida sul petitun e/o sulla causa petendi prende le mosse dalla corretta considerazione iniziale secondo la quale, ad ogni finalità giuridicamente rilevante (ad esempio, la litispendenza, l’individuazione dell’ambito del giudicato), i momenti identificativi della domanda sono rappresentati dai tre elementi delle personae (sotto il profilo soggettivo), del
petitum e della causa petendi (sotto il profilo oggettivo).
Gli aspetti problematici della ricostruzione in esame cominciano a configurarsi quando, con un vero e proprio salto logico, il problema dell’identificazione della domanda si salda con quello della sua modificabilità, sulla base di due passaggi dati per scontati e/o assunti come obbligati ma che non trovano completo riscontro nella struttura e nella portata
precettiva dell’art. 183 c.p.c.: la convinzione che non è ammessa la proposizione di domande «nuove» nel corso dell’udienza di cui alla citata norma, e la connessa convinzione che
nella logica di detta norma devono ritenersi «nuove» le domande che differiscono da quella
iniziale anche solo per uno degli elementi identificativi sul piano oggettivo (petitum, causa
petendi), con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la modifica della domanda
iniziale che abbia inciso su uno dei suddetti elementi e che pertanto la modificazione consentita sia qualcosa di meno della vera e propria mutatio e si identifichi con la emendatio libelli, non meglio definita e/o definibile se non in negativo, nel senso che non può consistere nella vietata mutatio.
La fondatezza di tali convinzioni non può che essere verificata sulla base di un’attenta
analisi della norma in esame, partendo dalla constatazione che in essa non è dato rinvenire
un esplicito divieto di domande nuove come quello riscontrabile nell’art. 345 c.p.c., laddove si afferma che «nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e se proposte devono essere dichiarate inammissibili d’ufficio», ma che «possono tuttavia domandarsi
gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa».
Ovviamente solo una tecnica di decodificazione del silentium legis assai rozza consentirebbe di trarre dirette conseguenze dalla mera assenza di un esplicito divieto (paragonabile a quello espresso nel citato art. 345 c.p.c., per il giudizio d’appello) di proporre domande
nuove nell’ambito dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., tuttavia è evidente che il rilievo costituisce un dato oggettivo da interpretare alla stregua del contesto di riferimento.
È inoltre da evidenziare che l’art. 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio, prevede che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni
che intendono sottoporre al collegio «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o
a norma dell’art. 183 c.p.c.», in tal modo ribadendo, ove vi fossero dubbi, che a norma dell’art. 183 c.p.c., le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell’atto introduttivo in maniera sensibilmente apprezzabile (quindi non limitata a mere qualificazioni
giuridiche o precisazioni di dettaglio), restando tuttavia ancora in parte imprecisato il tenore di tale cambiamento. Per una maggiore comprensione della effettiva portata del cambiamento ammissibile ai sensi dell’art. 183 c.p.c., occorre procedere dalla considerazione che,
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in rapporto alla domanda originaria, nell’economia della suddetta norma risultano previsti
altri tre tipi di domande: le domande «nuove», le domande «precisate» e le domande «modificate». Con riguardo alle domande «nuove», va anzitutto evidenziato che, pur non riscontrandosi un espresso divieto come quello di cui all’art. 345 c.p.c., questo può essere
implicitamente desunto dal fatto che risultano specificamente ammesse per l’attore le domande e le eccezioni «che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto», ben potendo l’affermazione suddetta leggersi nel senso che
sono (implicitamente) vietate tutte le domande nuove ad eccezione di quelle che per l’attore rappresentano una reazione alle opzioni difensive del convenuto, secondo una struttura
in parte dissimile da quella riscontrabile nel più volte citato art. 345 c.p.c., dove il divieto
di domande nuove risulta esplicitato, sicché non resta deducibile a contrario dalla esplicita
ammissione delle domande relative a frutti, interessi, accessori e danni rispettivamente maturati e sofferti dopo la sentenza impugnata.
L’unico limite a questa tecnica di interpretazione del silentium legis è indubbiamente,
come sarà più chiaro in prosieguo, costituito dal fatto che il silenzio non può «colorarsi» e
prendere voce se non in rapporto alla parte esplicita della norma alla quale si riconnette e
che pertanto il divieto implicito non potrebbe che riguardare domande «nuove» nel senso
in cui sono «nuove» le domande del tipo di quelle che il legislatore ha ritenuto di dover
espressamente ammettere.
Quanto alle domande «precisate», è intuitivo che esse sono le stesse domande introduttive che non hanno subito modificazioni nei loro elementi identificativi, ma semplici precisazioni, per tali intendendosi tutti quegli interventi che non incidono sulla sostanza della domanda
iniziale ma servono a meglio definirla, puntualizzarla, circostanziarla, chiarirla.
L’identificazione delle c.d. domande «modificate» si presenta invece più ardua, soprattutto ove si intendesse mantenersi fedeli al principio generale – esplicitato o presupposto da tutta la giurisprudenza finora esaminata – secondo il quale sono domande nuove vietate quelle in cui risultino modificati in tutto o in parte uno o entrambi gli elementi identificativi sul piano oggettivo della domanda originaria (cioè petitum e causa petendi).
In proposito, non è superfluo precisare che non ha alcuna consistenza ontologica prenormativa la pretesa differenza linguistica tra «mutamento» e «modifica» da alcuni sostenuta sulla falsariga del binomio emendatio-mutatio libelli, posto che nella lingua italiana i verbi
modificare e mutare (come anche, ad esempio, cambiare), utilizzati con riferimento ad una
cosa, risultano sinonimi se intesi nel significato di «trasformare», e lo sono sostanzialmente
anche se intesi nel significato di «sostituire», se non per la sfumatura che, nel caso di modifica, potrebbe trattarsi solo di una «sostituzione – mediante – trasformazione», nel senso in
cui si può dire, ad esempio, che la domanda (come modificata) sostituisce la precedente oggetto di modifica.
È inoltre da considerare che la norma in esame non prevede limiti né qualitativi né
quantitativi alla modificazione ammessa e che in nessuna parte della norma suddetta è dato
riscontrare un (esplicito o implicito) divieto di modificazione – in tutto o in parte – di uno
degli elementi oggettivi di identificazione della domanda. In ogni caso risulta veramente
difficile immaginare una modifica della domanda che non si riduca ad una mera precisazione e neppure incida (almeno in parte) sui suddetti elementi identificativi, come in concreto
provato dalla stessa giurisprudenza che, ritenuta in astratto indiscutibile l’inammissibilità
degli elementi modificativi oggettivi della domanda, ha poi trovato tali difficoltà ad indicare
una ammissibile modificazione della medesima che non si riduca ad una mera precisazione,
da pervenire ad affermazioni illogiche identificando la modificazione ammissibile ai sensi
dell’art. 183 c.p.c., non nella prospettazione di un fatto costitutivo diverso da quello addot-
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giurisprudenza
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to nell’atto di citazione bensı̀ nella diversa qualificazione giuridica di tale fatto (v. tra le altre Cass. n. 17457 del 2009 e 12621 del 2012), come se una diversa qualificazione giuridica
del fatto non fosse sempre ammissibile, perfino nel corso dei giudizi di impugnazione ad
opera della parte ed anche del giudice, senza bisogno di una specifica norma che autorizzi
a tanto, addirittura distinguendo questa attività da quella di precisazione della domanda e
prevedendo tale possibilità solo all’inizio del procedimento di primo grado e con la contemporanea prescrizione di importanti «cautele» a tutela della controparte, come la previsione di doppi termini per memorie e articolazione di prova diretta e contraria.
Per comprendere allora l’effettiva portata della modificazione ammissibile occorre fare
un passo indietro e tornare a delimitare il reale ambito del divieto di domande «nuove» implicitamente desunto (nel silenzio del legislatore) dalla ammissione espressa di domande costituenti conseguenza della riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto.
Se, come sopra precisato, il «silenzio» assume valore e significato in relazione alla previsione espressa dalla quale è desunto, occorre allora prendere atto che possono ritenersi
vietate solo domande le cui caratteristiche di «novità» corrispondono a quelle riscontrabili
nelle domande espressamente ammesse in deroga ad una inammissibilità implicitamente assunta come principio generale. E la prima caratteristica riscontrabile nelle domande «nuove» ammesse, nell’economia dell’art. 183 c.p.c., in risposta alle opzioni difensive del convenuto, è che esse si aggiungono alla domanda proposta nell’atto introduttivo, sono «altro»
da quella domanda, innanzitutto perché con essa convivono, con la conseguenza che possono (implicitamente) ritenersi inammissibili solo le (altre) domande che (al pari di quelle eccezionalmente ed esplicitamente ammesse) si aggiungono alla domanda principale.
La vera differenza tra le domande «nuove» implicitamente vietate – in relazione alla
eccezionale ammissione di alcune di esse – e la domande «modificate» espressamente ammesse non sta dunque nel fatto che in queste ultime le «modifiche» non possono incidere
sugli elementi identificativi, bensı̀ nel fatto che le domande modificate non possono essere
considerate «nuove» nel senso di «ulteriori» o «aggiuntive», trattandosi pur sempre delle
stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali
– o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività.
In questo pertanto, secondo la disciplina positiva enucleabile dalla struttura dell’art.
183 c.p.c., sta tutto il loro non essere domande «nuove», rispetto ad un divieto implicitamente ricavato dalla (e pertanto oggettivamente correlato alla) necessità espressa di prevedere l’ammissibilità di alcune specifiche domande «nuove» aventi la caratteristica di non essere alternative alla (o sostitutive della) domanda iniziale, ma di aggiungersi ad essa: in pratica, con la modificazione della domanda iniziale l’attore, implicitamente rinunciando alla
precedente domanda (o, se si vuole, alla domanda siccome formulata nei termini precedenti
alla modificazione), mostra chiaramente di ritenere la domanda come modificata più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio. Una differente ricostruzione renderebbe, come già evidenziato, difficilmente comprensibile una modifica prevista come diversa dalla mera precisazione e tuttavia
non suscettibile di incidere neppure in parte sugli elementi identificativi della domanda. Ed
inoltre, come pure rilevato, se si trattasse di modificazioni incidenti solo su aspetti marginali
della domanda iniziale ovvero sulla mera qualificazione giuridica del fatto costitutivo inizialmente dedotto, non sarebbe giustificata la previsione di un termine di trenta giorni per il
deposito di memorie in relazione a precisazioni e modificazioni di domande, eccezioni e
conclusioni, un ulteriore termine di trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni
nuove o modificate, proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande ed eccezio-
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ni suddette ed indicare i mezzi di prova e le produzioni documentali, nonché ancora un
termine di ulteriori venti giorni per le indicazioni di prova contraria.
D’altro canto, una modificazione della domanda ammissibile senza limiti (quindi anche eventualmente incidente sugli elementi oggettivi di identificazione della medesima) risulta logicamente comprensibile siccome situata all’esito dell’udienza di comparizione, cioè
una udienza in cui non è ancora sostanzialmente iniziata la trattazione della causa, non è intervenuta l’ammissione di mezzi di prova, e quindi una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe pregiudizio all’ordinato svolgimento del processo (a differenza
delle modifiche ammissibili, prima delle riforme degli anni novanta, perfino in appello).
È inoltre da considerare che la possibilità di una simile modificazione risulta prevista,
nella complessa architettura della norma in esame, dopo gli atti introduttivi di entrambe le
parti, le eventuali domande riconvenzionali e richieste di autorizzazione a chiamare in causa
terzi, ma, soprattutto, dopo l’esplicazione dei poteri (non solo di direzione, ma anche) di
«indirizzo» processuale attribuiti al giudice pure attraverso la previsione, nella medesima
norma, della richiesta di chiarimenti alle parti e dell’indicazione delle questioni rilevabili
d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione, quindi in un momento in cui, all’esito
di un’udienza potenzialmente «chiarificatrice», può risultare assai più evidente alle parti, in
relazione alla situazione sostanziale dedotta in causa, la soluzione effettivamente rispondente ai rispettivi interessi e intendimenti.
È perciò da ritenersi che il legislatore abbia scelto proprio questo momento per consentire, prima dell’inizio della trattazione della causa, «correzioni di tiro» e cambiamenti
anche rilevanti (rispetto ai quali, come già sottolineato, è addirittura previsto un triplo ordine di termini) al fine di massimizzare la portata dell’intervento giurisdizionale richiesto cosı̀
da risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che hanno portato le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima
vicenda sostanziale. Diversamente opinando si finirebbe per imprigionare la ratio che presiede alla organizzazione dell’art. 183 c.p.c., nell’ambito di una logica deontica fine a se
stessa, intesa ad inquadrare e regolamentare permessi, obblighi e divieti con l’unica preoccupazione che siano certi i confini tra quel che si può, quel che si deve e quel che è vietato
fare, anche a discapito della funzionalità dell’intero processo e dei suoi valori fondanti.
Ridurre la modificazione ammessa ad una sorta di precisazione o addirittura di mera diversa qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto (per la quale, come già precisato,
neppure sarebbe necessaria un’apposita previsione, e addirittura la concessione di termini e
«contro termini») significherebbe infatti, contro la lettera e il tenore della norma, costringere
la parte che abbia meglio messo a fuoco il proprio interesse e i propri intendimenti in relazione ad una determinata vicenda sostanziale – eventualmente anche grazie allo sviluppo dell’udienza di comparizione – a rinunciare alla domanda già proposta per proporne una nuova in
un altro processo, in contrasto con i principi di conservazione degli atti e di economia processuale, ovvero a continuare il processo perseguendo un risultato non perfettamente rispondente ai propri desideri e interessi, per poi eventualmente proporre una nuova domanda (con indubbio spreco di attività e risorse) dinanzi ad un altro giudice il quale dovrà conoscere della
medesima vicenda, sia pure sotto aspetti in parte dissimili, con effetti incidenti negativamente:
sulla «giustizia» sostanziale della decisione (posto che essa può essere meglio assicurata se sono veicolati nel medesimo processo tutti i vari aspetti e le possibili ricadute della medesima vicenda sostanziale ed «esistenziale», evitando di fornire al giudice la conoscenza di una realtà
sostanziale artificiosamente frammentata con l’effetto di determinarne una visione parziale);
sul rischio di giudicati contrastanti; sulla ragionevole durata dei processi, valore costituzionale
da perseguire anche nell’attività di interpretazione delle norme processuali da parte del giudi-
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ce. Peraltro, una interpretazione come quella in questa sede proposta, che vede la possibilità
di una modifica della domanda iniziale anche con riguardo agli elementi identificativi della
stessa, non espone al rischio di trasformare il processo in un «tram» da prendere al volo caricandolo di tutte le possibili ed eventualmente eterogenee ragioni di lite nei confronti di una
determinata controparte, se si considera che, oltre a rimanere ovviamente immutato rispetto
alla domanda l’elemento identificativo soggettivo delle personae, la domanda modificata deve
pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque essere a questa collegata, regola sicuramente ricavabile da tutte le indicazioni
contenute nel codice in relazione alle ipotesi di connessione a vario titolo, ma soprattutto se si
considera in particolare che, come sopra evidenziato, la domanda modificata si presenta certamente connessa a quella originaria quanto meno per “alternatività”, rappresentando quella
che, a parere dell’attore, costituisce la soluzione più adeguata ai propri interessi in relazione
alla vicenda sostanziale dedotta in lite.
Né l’interpretazione proposta rischia di allungare i tempi del processo nel quale la modifica della domanda interviene, posto che: la domanda «modificata» sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa; la modifica interviene pur sempre nella fase iniziale
del giudizio di primo grado, prima dell’ammissione delle prove; la modifica – quale ne sia
la portata – non potrebbe giammai comportare tempi superiori a quelli già preventivati dal
medesimo art. 183 c.p.c., laddove prevede che il giudice, su richiesta delle parti, concede
una serie di termini predeterminati, anche in ipotesi di mera precisazione ovvero di modificazione intesa nei più ristretti termini finora ammessi in linea di principio dalla giurisprudenza di legittimità.
E neppure può ritenersi che una simile interpretazione della portata della modificazione ammessa possa «sorprendere» la controparte ovvero mortificarne le potenzialità difensive perché: l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima
vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio; la parte sa
che una simile modifica potrebbe intervenire a norma della disciplina processuale vigente,
sicché non si trova rispetto ad essa come dinanzi alla domanda iniziale; alla suddetta parte
è in ogni caso assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche
sul piano probatorio. È peraltro necessario evidenziare che nel caso specifico portato alla
cognizione di queste sezioni unite non è neppure ravvisabile una semplice connessione per
alternatività tra la domanda iniziale e la domanda modificata, ma addirittura una connessione per incompatibilità, basti pensare che, accertato in ipotesi dal giudice che la comune intenzione dei contraenti fu quella di obbligarsi alla conclusione di un contratto di compravendita immobiliare, e formatosi sul punto il giudicato, la parte che volesse chiedere al giudice di accertare (avendo interesse ad una diversa decorrenza degli effetti traslativi) che tra
le parti intervenne invece un contratto con effetti reali si scontrerebbe con un giudicato
che ha diversamente accertato la suddetta «comune intenzione» dei contraenti.
4. Tanto premesso circa la necessità di interpretare nell’ambito della complessiva economia strutturale dell’art. 183 c.p.c., la riconosciuta possibilità di modificare domande, eccezioni
e conclusioni già formulate, occorre ora sottolineare che i risultati ermeneutici in tal modo
raggiunti risultano in completa consonanza sia con l’esigenza – ripetutamente perseguita nel
codice di rito talora anche attraverso modifiche della disciplina sulla competenza – di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di
connessione o di riunione dei procedimenti) sia, più in generale, con i valori funzionali del
processo come via via enucleati nel corso degli ultimi anni dalla dottrina e dalla giurispruden-
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za – soprattutto a sezioni unite – di questo giudice di legittimità. L’interpretazione adottata in
questa sede risulta infatti maggiormente rispettosa dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che, come già rilevato, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina anzi una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia, in quanto è idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi, essendo appena il caso di aggiungere che sulla irragionevole durata di un processo non incide (sol)tanto ciò che rileva all’interno di quel processo quanto il numero complessivo dei processi
contemporaneamente pendenti che ne condiziona la gestione.
La concentrazione favorita da tale interpretazione risulta inoltre maggiormente rispettosa della stabilità delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione dei giudicati
contrastanti, nonché della effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da
pronunce meramente formalistiche. A tale ultimo proposito è in linea generale ancora da
sottolineare che la previsione costituzionale di un processo «giusto» impone al giudice di
non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di
verificare sempre (e quindi ogni volta) se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di
interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di
una ermeneutica tralaticia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto si
traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di
risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale.
Va infine aggiunto che i suddetti valori funzionali del processo, a tutela dei quali deve
essere improntata l’interpretazione della disciplina processuale, risultano sempre più spesso
espressamente posti a base della esegesi adottata in alcune pronunce di queste sezioni unite
su problematiche processuali di ampio respiro, basti pensare, con particolare riguardo ai
valori costituzionali sottesi al principio di concentrazione, tra le altre, a s.u. n. 23726 del
2007 in materia di frazionamento del credito, e a s.u. n. 26242 del 2014 in materia di patologie negoziali (esplicitamente affermativa dell’esigenza di una decisione intesa al definitivo
consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio, «evitando di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito»). (Omissis).
Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale»
nel giudizio di primo grado
1. – Con l’importante pronuncia del giugno dello scorso anno le
Sezioni Unite della Suprema Corte affrontano nuovamente (1) una que-
(1) La questione era stata già risolta nell’opposto senso dell’inammissibilità della mutatio libelli da Cass., sez. un., 5 marzo 1996, n. 1731 (in Corriere giur. 1996, 639 ss., con nota
adesiva di Guarnieri, Contratto preliminare, contratto definitivo e mutatio libelli), poi per lo
più seguita dalle sezioni semplici. L’attuale pronuncia delle S.U. ravvisano tuttavia la ne-
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giurisprudenza
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stione spesso affacciatasi nella prassi ed ammettono che alla prima udienza
di trattazione (2) l’attore possa introdurre una «variazione» del thema
decidendum passando dalla domanda di esecuzione in forma specifica
dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c. alla domanda di accertamento
dell’effetto traslativo già realizzato dal medesimo contratto. Si tratta, ha
argomentato la Corte, di domande relative alla medesima «vicenda sostanziale-esistenziale» che il processo deve saper accogliere e definire nella sua
integrità (3).
La conclusione della Corte, a mio avviso da condividere (4), è affidata
ad argomenti di diverso peso. Oggettivamente un po’ forzato appare l’argomento strettamente esegetico, secondo cui a seguire l’interpretazione
stretta della nozione di «modifica» della domanda, sinora privilegiata dalla
giurisprudenza, si verrebbe a confinarne l’applicazione ai casi in cui, fermi
i fatti allegati a fondamento della causa petendi, sia in gioco soltanto
l’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall’attore,
che il giudice stesso possa operare in virtù del principio iura novit curia (si
legge nella sentenza che, a voler confinare la «modifica» ammessa ai casi in
cui non siano variati gli elementi del petitum e della causa petendi, si finisce
per «pervenire ad affermazioni illogiche identificando la modificazione
ammissibile ai sensi dell’art. 183 c.p.c. non nella prospettazione di un fatto
costitutivo diverso da quello addotto nell’atto di citazione bensı̀ nella
cessità di un nuovo intervento in ragione di un «contrasto di sistema», dato dal conflitto fra
quella soluzione e le scelte «valoriali» di taglio generale sottese ai recenti pronunciamenti
delle Sezioni Unite in tema di limiti oggettivi del giudicato e rilievo d’ufficio della nullità
negoziale (il riferimento è a Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 2642 e 2643). Sottintesa è
l’ispirazione di tali recenti pronunce all’esigenza di assicurare (per via di una concezione
estensiva dei limiti oggettivi del giudicato) la capacità del processo di definire in modo
esaustivo la controversia «sostanziale», evitando la proliferazione di giudizi che mettono
in gioco il medesimo bene della vita, esigenza oggi percepita come contrastante con l’affermazione di un «divieto assoluto di mutatio libelli».
(2) E, anzi, anche nella prima memoria ex art. 183, 6˚ comma, c.p.c., come nella specie
era avvenuto.
(3) Per una prima applicazione del nuovo orientamento, v. Cass. 12 novembre 2015, n.
23131.
(4) Il giudizio favorevole è diffuso fra i primi commentatori: v. spec. Consolo, Le S.U.
aprono alle domande «complanari»: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e
irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno, in Corr. giur. 2015, 968
ss., Motto, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, in Foro it. 2015,
3190 ss. (di questo a. si veda anche il lungo saggio occasionato dalla rimessione della
questione alle Sezioni Unite, Domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c. e domanda di accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà: mutatio o emendatio libelli?, in Giusto proc. civ. 2014, 1027 ss.; in precedenza v. anche
Muroni, A margine di due recenti ordinanze interlocutorie della Cassazione in tema di «mumutatio libelli», in Resp. civ. e prev. 2014, 507 ss.).
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diversa qualificazione giuridica di tale fatto, come se una diversa qualificazione giuridica del fatto non fosse sempre ammissibile, perfino nel corso
dei giudizi di impugnazione ad opera della parte ed anche del giudice,
senza bisogno di una specifica norma che autorizzi a tanto»). Sicché, si
lascia intendere, la più liberale opzione oggi prescelta sarebbe quasi necessitata dall’esigenza di non confinare la nozione ad un inconsistente
spazio applicativo.
A ben vedere le cose, in realtà, tale esito interpretativo è frutto della
radicata tendenza della giurisprudenza ad equiparare meccanicamente l’allegazione di nuovi fatti principali all’introduzione di una domanda nuova
secondo una rigida equazione che non è affatto obbligata. Se si conviene,
infatti, che il ruolo della causa petendi è puramente strumentale rispetto
alla identificazione del «diritto sostanziale» fatto valere, non pochi sono i
casi in cui al variare dei fatti, anche principali (5), non corrisponde affatto
la diversità del diritto e che possono perciò essere ricondotti ad una mera
«modifica» della domanda. Basti pensare ai casi – spesso sanzionati come
di inammissibile mutatio dalla giurisprudenza – di allegazione dei fatti
integranti una responsabilità per l’esercizio di attività pericolose o per
danno da cose in custodia ex artt. 2050-2051 c.c. rispetto ad una domanda
inizialmente fondata sulla responsabilità «ordinaria» ex art. 2043 (6), oppure di allegazione del compimento dell’atto dispositivo impugnato in via
revocatoria dopo il sorgere del credito rispetto alla iniziale allegazione del
suo compimento in epoca antecedente (7) o, ancora, alla allegazione dell’esecuzione di una prestazione sanitaria con violazione del dovere di raccolta del consenso informato rispetto ad una domanda risarcitoria inizialmente fondata sulla negligente esecuzione della prestazione (8). È pur
vero, in altre parole, che le domande eterodeterminate sono in linea di
(5) Intendendo per fatti “principali” quelli che possono di per sé valere come costitutivi del diritto fatto valere.
(6) V. in tal senso (seppure con il temperamento secondo cui la «variazione» potrebbe
essere ammessa se le allegazioni in fatto compiute sin dall’inizio dall’attore valgano comunque ad integrare entrambi i titoli di responsabilità), Cass. 22 ottobre 2014, n. 22335, Cass.
25 febbraio 2014, n. 4446, Cass. 20 gennaio 2014, n. 999, Cass. 5 agosto 2013, n. 18609,
Cass. 21 giugno 2013, n. 15666, Cass. 20 agosto 2009, n. 18520. Medesima fisionomia ha,
mi pare, il caso esemplificato da Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano 2015, 39, in cui
inizialmente chiesto il risarcimento dei danni da incidente stradale ad un soggetto indicato
come conducente del veicolo se ne affermi in seguito la responsabilità come proprietario
dello stesso, ex art. 2054, 3˚ comma, c.c.
(7) V. Cass. 29 maggio 2013, n. 13446.
(8) V. in tal senso Cass. 16 maggio 2013, n. 11950, Cass. 15 novembre 2013, n. 25764,
Cass. 3 settembre 2007, n. 18513.
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principio identificate dalla causa petendi, ma non perciò è vero che l’invocazione di fatti principali diversi implica sempre l’introduzione di una
causa petendi diversa, e segnatamente non lo implica se tali fatti sono
semplici elementi di un medesimo episodio storico ed invariato resta l’effetto giuridico sostanziale posto a thema decidendum del giudizio (l’obbligo di risarcire i danni, l’inefficacia dell’atto di disposizione pregiudizievole
del debitore) (9). Invariato il diritto sostanziale fatto valere, ciò che l’introduzione di nuovi fatti principali viene a modificare è, a ben vedere, il
thema probandum (10), ma non il thema decidendum (e dunque viene sı̀ a
modificare la causa petendi, ma non nella sua funzione identificativa dell’oggetto del giudizio) e tanto basta a riservare alla «modifica» della domanda uno spazio applicativo non insignificante (11).
L’aspirazione ad una legittimazione anche esegetica della soluzione
prescelta non è del resto innocua. Preso atto che nel testo dell’art. 183
c.p.c. espressamente ammesse sono solo le domande nuove che sono
reazione alle «opzioni difensive» del convenuto, non è però di per sé
desumibile a contrario, dice la sentenza, un generalizzato divieto delle
domande nuove che non siano frutto di tale reazione, ed occorre invece
distinguere tra tipi diversi di domande nuove, per poi far ricadere nel
divieto solo quelle cui il legislatore può aver fatto riferimento. La distinzione che va tracciata è, allora, fra domande nuove che si «aggiungono»
alla domanda iniziale e che con essa «convivono» (vietate se non costituenti reazione alle difese del convenuto) e le domande nuove che «non
si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono» (12), da considerarsi
(9) In sostanza, questi casi non mi paiono diversi da quelli in cui la giurisprudenza
ammette il ricorrere di una mera modifica in presenza di allegazione di fatti principali diversi
se tali nuove allegazioni non determinano applicazione dı̀ norme giuridiche diverse: v. ad
esempio, per il caso di allegazione della riconducibilità dell’evento dannoso ad una inidoneità dell’accesso al vano scale di un edificio piuttosto che alla difettosa realizzazione della
scala stessa, Cass. 28 gennaio 2015, n. 1585, e, per il caso di allegazione della riconducibilità
dell’evento dannoso ad una inesatta esecuzione di un intervento chirurgico piuttosto che
all’inadeguata assistenza postoperatoria, Cass. 26 luglio 2012, n. 13269.
(10) Proprio alla variazione del thema probandum e al diverso oggetto della prova che la
parte deve offrire in giudizio fanno invece spesso capo le pronunce citate alle note precedenti per ravvisare nella «variazione» una vera mutatio libelli.
(11) E ciò a prescindere dal fatto che di ammissibile modifica in presenza di allegazione
di diversi fatti principali è comunque dato parlare, come è pacifico, a proposito delle
domande autodeterminate.
(12) Questo il passo in questione della sentenza: «La vera differenza tra le domande
‘nuove’ implicitamente vietate – in relazione alla eccezionale ammissione di talune di esse - e
le domande ‘modificate’ espressamente ammesse non sta dunque nel fatto che in queste
ultime le ‘modifiche’ non possono incidere sugli elementi identificativi, bensı̀ nel fatto che le
domande modificate non possono essere considerate ‘nuove’ nel senso di ‘ulteriori’ o ‘ag-
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estranee al divieto e da ammettersi al pari della mera modifica della
domanda iniziale purché introdotte in prima udienza (o nella prima
memoria ad essa successiva).
Inevitabile notare che la costrizione in questa cornice della «variazione sostitutiva» ammessa (13) (nella specie, il passaggio da domanda
costitutiva degli effetti del contratto definitivo a domanda di accertamento dell’effetto traslativo già operante e/o di accertamento dell’autenticità della sottoscrizione dell’atto negoziale e viceversa (14)) ne comprometterebbe assai la pratica utilità. Se la scelta fra l’una e l’altra
domanda è resa incerta, come è normalmente, da oggettive equivocità
del testo negoziale che solo la sentenza può definitivamente dissipare, è
poco ragionevole costringere il difensore ad un’opzione secca alla prima
udienza, e dunque ad abbandonare l’impostazione iniziale «sostituendovi» quella «variata». L’incertezza non può che tradursi invece proprio
nell’«aggiungere» la «variazione», affidando la coerenza dell’impianto
difensivo alla articolazione strettamente alternativa o subordinata delle
due domande (15).
In sostanza meglio è ammettere apertamente che l’autorizzazione alla
domanda nuova «alternativa» non può ricavarsi se non dai principi o,
come si esprime la sentenza, da superiori esigenze «valoriali» (l’economia
processuale, l’effettività della tutela giurisdizionale, la ragionevole durata
del processo, la stabilità delle decisioni giudiziarie, la stessa intrinseca
giustizia delle regole processuali), che debbono poter prevalere anche su
norme implicitamente formulate in senso ostativo. Ciò che condiziona
giuntive’, trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente
anche in alcuni elementi fondamentali –, o, se si vuole, di domande diverse che però non si
aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in
un rapporto di alternatività».
(13) Il «passaggio» comporta, beninteso, per lo più anche allegazione di fatti nuovi: nel
caso di specie deciso dalla S.C. era rilevante l’affermazione dell’avvenuto passaggio del
possesso già in virtù del contratto “preliminare” e la non incidenza della previsione che
rimetteva ad un momento successivo il frazionamento catastale del fondo da altra unità sulla
sua precisa e certa identificazione nel testo del contratto.
(14) Passaggio implicante, precisa la S.Cla S.C., l’«implicita rinuncia» alla domanda
iniziale.
(15) E ciò a prescindere dal problema se la rinuncia alla domanda iniziale esiga comunque l’accettazione del convenuto costituito sı̀ da risultare poi, in assenza di tale accettazione, impedita la variazione: cosı̀, in senso critico della sentenza, Motto, Le sezioni unite
sulla modificazione della domanda giudiziale, cit., 3196; e nel senso opposto, S. Ricci, I nuovi
confini del binomio mutatio-emendatio libelli come ridisegnati dalla Corte di cassazione a
sezioni unite del 2015, in www.judicium.it, par. 3.1, che valorizza i risultati dello studio di
Giussani, Le dichiarazioni di rinuncia nel processo di cognizione, Milano 1999, 40 ss.
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l’accettabilità del percorso interpretativo è che la rispondenza del risultato
perseguito ad esigenze di razionalità e giustizia sia concretamente dimostrabile in ragione della peculiarità dei casi che si intendono sottrarre al
precetto letteralmente ostativo. Peculiarità che la sentenza ha ben colto, mi
pare, ove ha sottolineato l’identità della «vicenda sostanziale ed esistenziale» sottesa ai casi considerati e all’insieme il rapporto di alternatività e
reciproca esclusione che caratterizza sul piano sostanziale le due possibili
pretese. Difficile negare, tra l’altro, che la risposta di giustizia rischia di
essere assai deludente se può sfociare in una sentenza di rigetto la cui
motivazione evidenzia la possibile spettanza di un altro diritto in favore
dell’attore, su cui non si è però potuto pronunciare perché non fatto valere
nella fase iniziale del processo.
2. – Un importante punto resta aperto ed è probabilmente destinato a
suscitare discussione: la richiesta di accertare l’effetto traslativo prodotto
dal contratto, assunto come definitivo, aggiunta alla iniziale richiesta di
costituirne gli effetti in attuazione del contratto, assunto come preliminare,
è comunque domanda nuova (ammissibile in virtù della assimilazione ad
una modifica della domanda) oppure rappresenta effettivamente una mera
modifica di quella iniziale (16)? Non è dubbio, come già detto, che le due
«richieste» corrispondono a pretese in rapporto di alternatività sostanziale e di reciproca esclusione (come osserva la S.C., la domanda «modificata» si presenta «certamente connessa a quella originaria quanto meno per
‘alternatività’»), ma ciò non basta di per sé a risolvere il problema. Sebbene alcune affermazioni della sentenza siano allusive all’ipotesi di una
(16) Nel senso che si tratti comunque di domanda nuova, v. Consolo, Le S.U. aprono
alle domande «complanari», cit., 969 ss. (l’a. aveva già, poco dopo la riforma del 1990,
ritenuto che debba ammettersi la libera proposizione di domande nuove alla prima udienza
specie nei casi di «concorso di pretese ad un unico petitum o da diversi tipi di tutela e cosı̀ di
petita conseguenti a diverse qualificazioni della causa petendi», indicando come esemplare
proprio il caso oggi deciso dalla S.C.: Preclusioni nel processo civile e preclusioni alla definizione del processo legislativo di riforma, in Giur. it. 1993, 765 ss., spec. 771); nel senso si
tratti invece di mera modifica Motto, Le sezioni unite sulla modificazione, cit., spec. 3194 s.,
3197. In precedenza nel senso che si tratti di domande diverse, v. Carratta, in CarrattaTaruffo, Poteri del giudice, in Commentario del codice di procedura civile a cura di Chiarloni,
Bologna 2011, 114, Giorgetti, Il principio di variabilità nell’oggetto del giudizio, Torino 2008,
120 s., Guarnieri, Contratto preliminare, cit., 639; nel senso della mera modifica, Gamba,
Domande senza risposta. Sulla modificazione della domanda nel processo civile, Padova 2008,
248 s., Galanti, Sulla modifica della domanda tra mero accertamento e costituzione della
proprietà, in Giusto proc. civ. 2012, 947, Muroni, A margine di due recenti ordinanze, cit.,
515 ss.
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vera mutatio libelli (17), pur assimilabile per regime alla semplice «modifica», il punto non è da essa univocamente chiarito (18).
L’identità della domanda (e la corrispondenza della variazione a una
mera emendatio) è soluzione favorita da un’impostazione, largamente seguita negli anni recenti, che in sostanza svaluta radicalmente il ruolo della
«fattispecie legale» al fine dell’individuazione del diritto (19). Ogniqualvolta l’applicazione della diversa fattispecie legale sia in rapporto di esclusione rispetto a quella originariamente posta a fondamento della domanda
(pur se eterodeterminata), di modo che solo una possa in realtà applicarsi,
la domanda dovrebbe considerarsi unitaria e l’oggetto del giudizio non
risulterebbe immutato ma al più semplicemente «modificato».
Il rapporto di «esclusione» è ravvisato in tutti i casi in cui le diverse
fattispecie legali siano in rapporto di incompatibilità, specialità, sussidiarietà,
assorbimento, coincidenza cronologica (20), come è nei casi classici dell’alternativa fra responsabilità contrattuale e precontrattuale, fra responsabilità
contrattuale ed arricchimento senza causa, fra responsabilità contrattuale e
gestione di affari altrui. La giustificazione è data dal criterio della «simultaneità»: se dalla applicazione delle diverse fattispecie non possono derivare
due diritti effettivamente coesistenti (e cumulabili) ma uno solo è il diritto e
il bene della vita perseguibile, la domanda proposta per l’una involge anche
(17) Osserva all’esordio la S.C. che risulta «evidente che nella domanda come formulata
come prima e dopo la modifica vengono allegati a sostegno delle pretese avanzate fatti
costitutivi differenti (…); che non si tratta della diversa qualificazione giuridica dello stesso
fatto, ma dell’accertamento di due fatti diversi (la comune intenzione dei contraenti indirizzata, nella prima ipotesi, ad un contratto ad effetti obbligatori, nell’altra ad un contratto
ad effetti reali), accertamento eventualmente non limitato alla mera interpretazione della
scrittura privata ma esteso alla valutazione del comportamento complessivo dei contraenti ex
art. 1362 c.c.; che risulta altresı̀ diverso soprattutto il petitum, non solo se inteso come
provvedimento richiesto (una sentenza costitutiva nel primo caso ed una sentenza di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo nell’altro), ma anche se inteso come petitum sostanziale, ossia il bene della vita conteso».
(18) Nella parte conclusiva della pronuncia l’opzione sembra invero lasciata aperta, ove
si osserva trattarsi «pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente
anche in alcuni elementi fondamentali –, o, se si vuole, di domande diverse» (nostro il
corsivo).
(19) Per questa impostazione, seppure con percorsi argomentativi ed esiti non del tutto
coincidenti, v. i classici studi di Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in
Commentario del c.p.c. diretto da Allorio, II, 1, Torino 1980, 186 ss., 191 ss., 208 s. (che
pure considera il caso di cui ci occupiamo come di mutatio libelli: ivi, 171), Menchini, I
limiti oggettivi del giudicato civile, Milano 1987, 226 ss., 232 ss., 248 ss., e in modo conforme, Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2014 ss., 75 ss., Consolo,
Domanda giudiziale, in Dig. IV ed., Disc. priv.-sez. civ., Torino 1990, spec. 74 ss., 76 s.,
Luiso, Diritto processuale civile, I, cit., 63 s.
(20) V. l’analisi dei singoli casi in Menchini, I limiti oggettivi, cit., 250 ss.
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l’altra e unico è l’oggetto del giudizio. È, in altre parole, il diritto sostanziale
ad imporre la constatazione che la sussunzione nell’una o nell’altra fattispecie non importa la duplicazione dei diritti spettanti all’interessato: non è
dubbio che, al di là della potenziale corrispondenza dell’episodio della vita
alle più alternative fattispecie, all’interessato non può spettare sia un diritto
al risarcimento dei danni per violazione degli obblighi contrattuali sia un
diritto al risarcimento dei danni per violazione degli obblighi di buona fede
nelle trattative contrattuali, sia il diritto al corrispettivo contrattuale sia il
diritto all’indennità per indebito arricchimento o per utilità della gestione.
Lo stesso può certo dirsi per il caso che qui si considera, per il quale pure è
indiscutibile che il contratto non può che alternativamente integrare o un
contratto preliminare o un contratto definitivo, scaturendone o il diritto
potestativo alla costituzione degli effetti del contratto definitivo o i diritti
alle prestazioni corrispettive prodotti dal medesimo (21).
Il tema è di estrema complessità e certo non può al riguardo prendersi
meditata posizione in questa sede. Va detto però che il criterio fondante
l’impostazione, vale a dire il criterio della «simultaneità», non riesce ad apparirmi decisivo. Sul piano del processo i diritti si affacciano in chiave di
ipoteticità sicché stabilire se le diverse ipotetiche affermazioni vadano assunte
in termini di unicità o pluralità dei thema decidendum non può di per sé
dipendere dal fatto che, secondo il diritto sostanziale, uno solo sia il diritto
effettivamente spettante. Ciò che conta, sul piano processuale, è piuttosto se
le ipotetiche affermazioni corrispondano a diritti diversi (anche se non suscettibili di coesistenza per il diritto sostanziale) in ragione della diversità
dell’utilità giuridica assicurata dall’applicazione dell’una o dell’altra fattispecie
legale e dunque del bene giuridico che la domanda mette in gioco nella lite.
La soluzione della pluralità di diritti e di domande continua ad apparirmi pertanto la soluzione corretta nei casi in cui alla pluralità di fattispecie legali alternativamente applicabili corrisponda la diversità dell’utilità giuridica da esse assicurata: e non può dubitarsi, mi pare, che diverse
siano le utilità del corrispettivo contrattuale o dell’indennità per indebito
arricchimento o per utilità della gestione (22) o, nel caso considerato, la
(21) L’inquadramento del caso come emendatio libelli è infatti argomentata da Motto,
Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, cit., 3198, dal rilievo secondo
cui se «l’integrazione di una fattispecie esclude che possa operare l’altra (…) uno e unico è il
diritto» che può spettare all’attore (v. anche Id., Domanda di esecuzione in forma specifica,
cit., 1040, 1056, 1057 nota 77, 1077).
(22) V. per l’inquadramento di questi casi come di proposizione di una pluralità di
domande alternative pur se «il diritto [N.d.r. spettante] è indubbiamente uno solo», Tarzia,
Appunti sulle domande alternative, in questa Rivista 1964, 284, 291; nel medesimo senso mi
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realizzazione costitutiva degli effetti del contratto definitivo in luogo del
riconoscimento di un effetto traslativo reale già operante.
Si consideri in proposito che nessuno dubiterebbe che vi sia diversità
di domande e di diritti se sul piano processuale sia dedotto un atto suscettibile di essere legalmente qualificato come fondante l’acquisto di un
diritto di proprietà o alternativamente di un diritto di usufrutto (come
talora può non implausibilmente avvenire se il titolo di acquisto è dato da
un testamento). Eppure i due (diversi) diritti certo non coesistono sul
piano sostanziale e uno solo può essere quello spettante (23). Se, nonostante l’impossibilità di coesistenza, si assume la diversità di thema decidendum è in ragione, mi pare, della diversità di «tipo» di diritto e di utilità
giuridica assicurata: criterio, questo, che mi pare debba valere anche nel
campo dei diritti relativi (24).
L’alternativa «domanda nuova» o solo «modificata» non è innocua dal
punto di vista pratico. Solo nel primo caso può, mi pare, tenersi fermo che
la domanda, pur in linea di principio ammissibilmente proponibile, se di
fatto non proposta, non sia affatto coinvolta nella preclusione del deducibile della decisione di rigetto (e cosı̀ che l’attore, vistasi rigettare la
pare Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Bari 2015, 173, ove classifica come
cumulo alternativo od eventuale le domande rispettivamente fondate sul titolo contrattuale
o sull’arricchimento senza causa.
(23) Va anche notato che far leva sul criterio della «simultaneità», in luogo di quello
dell’utilità giuridica assicurata e del tipo di diritto, induce a ravvisare una pluralità di
domande proprio nei casi in cui dovrebbe essere più chiara, invece, la sussistenza di un
diritto unitario, quale è il caso del diritto di risarcimento del danno fondato sia da un titolo
di responsabilità contrattuale che da un titolo di responsabilità extracontrattuale (ove, a
prescindere dall’incidenza sulla misura della liquidazione del danno, identica mi pare l’utilità
garantita dalle norme in concorso). Infatti, la dottrina in esame perviene ad escludere la
pluralità delle domande ma solo a costo di negare che i due titoli possano simultaneamente
applicarsi, ritenendo che essi siano in rapporto di «sussidiarietà», di modo che la responsabilità extracontrattuale possa applicarsi solo se non siano realizzati i presupposti di quella
contrattuale (soddisfacendo cosı̀ il criterio dell’«esclusione» e della non simultaneità): Menchini, I limiti oggettivi, cit., 258 ss., 262. Conseguenza ne è che se siano realizzati i presupposti della responsabilità contrattuale e all’insieme quelli della responsabilità extracontrattuale, al danneggiato non è dato chiedere la liquidazione del danno secondo le regole
della seconda (ad esempio, con riferimento alla possibilità di chiedere il risarcimento dei
danni non prevedibili). All’opposto, assunta a criterio guida la sostanziale «unitarietà»
dell’utilità giuridica assicurata dalle due fattispecie, l’unicità del diritto e della domanda
può essere affermata anche ammettendo che esse sono simultaneamente e cumulativamente
applicabili.
(24) V. la chiara, contraria premessa in Menchini, I limiti oggettivi, cit., 232: «diversamente da quanto accade per i diritti reali e le obbligazioni di specie, non ha alcun valore, per
l’identificazione delle situazioni in esame [N.d.r. le obbligazioni di genere], il tipo giuridico,
al quale esse siano da ricondurre» (e per applicazioni, p. 208 s., 239, 241); analogamente
Motto, Domanda di esecuzione in forma specifica, cit., 1055 s.
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domanda ex art. 2932 c.c. sulla base dell’inquadramento del negozio come
contratto definitivo, possa ancora in seguito chiedere l’accertamento dei
diritti da esso scaturenti in separato giudizio). Sin tanto che la domanda
non sia concretamente proposta l’oggetto del giudizio resta infatti quello
delineato dalla domanda originaria e solo rispetto ad esso può commisurarsi la portata della preclusione del deducibile. All’opposto assai arduo,
mi pare, è sottrarre la domanda all’operare della preclusione del deducibile se essa è considerata quale mera modifica di quella originaria, ché essa
appartiene in tal caso all’orbita del thema decidendum da essa introdotto
(25). Risultato, questo, che mi pare iniquo: l’attore si troverebbe infatti di
fronte ad una pronuncia di rigetto che nega l’esistenza del diritto fatto
valere (nell’esempio: il diritto potestativo ex art. 2932 c.c.), ma a ragione
della possibile esistenza di altro alternativo diritto, su cui non si è potuto
pronunciare, di modo che di esso sia precluso l’esercizio benché non si
siano potute verificare con compiutezza le condizioni per la sua esistenza.
Si vorrà convenire che la preclusione non colpirebbe in tal caso semplici
deduzioni inerenti ai fatti costitutivi, impeditivi, estintivi, modificativi del
diritto all’origine fatto valere ma un diritto sostanziale da esso comunque
diverso, la cui messa «in gioco» nel processo dovrebbe essere rimessa ad
una iniziativa del suo titolare.
(25) A questo risultato intende invece pervenire Motto, Domanda di esecuzione in forma
specifica, cit., che, difesa in premessa la corrispondenza della pretesa alla pronuncia di
sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. e della pretesa all’accertamento del già verificatosi
effetto traslativo ad un’unica domanda e ad un medesimo oggetto di giudizio (di modo
che il passaggio dall’una all’altra sia ad assumersi come mera emendatio libelli), perviene poi
alla conclusione secondo cui la sentenza di rigetto pronunciata nel processo in cui l’attore ha
fatto valere solo una delle due alternative qualificazioni giuridiche (per es. la natura di
contratto preliminare del titolo) che sia ritenuta insussistente dal giudice in ragione della
sussistenza dell’altra (natura di contratto definitivo del titolo), non precluderebbe all’attore
soccombente di agire poi per fare valere tale diversa qualificazione giuridica (e ciò benché il
«successivo processo» abbia «lo stesso oggetto del precedente»: p. 1073 ss., spec. 1075). La
giustificazione addotta è che, in base al principio della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato, il giudice del primo processo non può, in assenza di una richiesta di parte,
prendere in esame l’alternativa qualificazione al fine di pronunciare un provvedimento
positivo in favore dell’attore (p. 1069, 1075 nota 113). La giustificazione francamente mi
pare forzata: anche nei casi di eccezione in senso stretto non è consentito al giudice di tener
conto del fatto estintivo per emettere una pronuncia favorevole al convenuto, eppure non si
dubita che l’eccezione sia colpita dalla preclusione del deducibile scaturente dal giudicato di
accoglimento della domanda. La correlazione fra estensione dell’oggetto del giudizio e
ambito della preclusione del deducibile si vede invece affermata costantemente da Menchini, I limiti oggettivi, cit., 251, 265.
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3. – L’orientamento inaugurato dalla Suprema Corte dovrà, per coerenza e dovuta parità di trattamento, applicarsi anche al di là del caso
specifico dato dalle alternative qualificazioni contratto preliminare/contratto definitivo di un atto negoziale, ogniqualvolta la «variazione» del
thema decidendum riguardi domande che manifestino un nesso di alternatività sostanziale affine a quello ricorrente in quel caso. Se si conviene con
quanto detto circa l’inerenza della «variazione» ammessa a diritti di tipo
diverso che, sebbene non possano convivere con quello inizialmente fatto
valere, restano da esso nettamente distinti, non avrei dubbio, ad esempio,
che la medesima apertura sia da ammettersi in relazione al caso poco fa
accennato del passaggio da una domanda relativa al diritto di proprietà su
un determinato bene ad una domanda relativa al diritto di usufrutto sul
medesimo bene (26) almeno se la spettanza dell’uno o dell’altro dipenda
dalla scelta sull’alternativo inquadramento di una medesima «vicenda sostanziale-esistenziale», ben prestandosi anche questo caso ad essere compreso nella categoria delle domande che si sono efficacemente dette «complanari» (27).
ELENA MERLIN
Professore ordinario nell’Università di Milano
(26) Nonché, per fare un esempio ricorrente nella pratica, nel passaggio da domanda di
risoluzione del contratto per inadempimento a domanda di accertamento della sua estinzione per efficace esercizio di un diritto di recesso (per il quale ancora di recente si è ritenuto il
«passaggio» inammissibile in quanto costituente vietata mutatio libelli: Cass. 26 febbraio
2016, n. 3806).
(27) Il termine, che compare nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 26242/2014, è stato
poi efficacemente utilizzato da Consolo, op. loc. cit. in nota 3, per contrassegnare l’ambito
casistico di applicazione delle «domande nuove proponibili in corso di giudizio».
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CORTE
DI CASSAZIONE,
sez. un., sentenza 4 dicembre 2015, n. 24707
Pres. Rovelli – Rel. Frasca
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La distinzione tra garanzia propria e impropria ha valore puramente descrittivo ed è priva di
effetti ai fini dell’applicazione degli artt. 32, 108 e 331 c.p.c. (massima non ufficiale).
In caso di chiamata in causa in garanzia dell’assicuratore della responsabilità civile, l’impugnazione – esperita esclusivamente dal terzo chiamato avverso la sentenza che abbia accolto sia la
domanda principale, di affermazione della responsabilità del convenuto e di condanna dello
stesso al risarcimento del danno, sia quella di garanzia da costui proposta – giova anche al soggetto assicurato, senza necessità di una sua impugnazione incidentale, indipendentemente dalla qualificazione della garanzia come propria o impropria, e anche se con la chiamata sia stato
chiesto l’accertamento del rapporto di garanzia (massima non ufficiale).
(Omissis). 9. Ritengono ora queste Sezioni Unite, condividendo le critiche alla distinzione rivolte da dottrine che, già minoritarie, sembrano ora avere acquisito maggiore consistenza, che la distinzione debba essere mantenuta soltanto a livello descrittivo delle varie
fattispecie di garanzia ma possa e debba essere abbandonata – sia agli effetti dell’art. 32, sia
agli effetti dell’art. 108 c.p.c., sia agli effetti dell’art. 331 c.p.c. – a livello di conseguenze
applicative e ciò perché non esistono ragioni normative che giustificano differenze sotto tale
aspetto.
9.1. Per iniziare a dar conto di tale affermazione è necessario prendere le mosse dagli
artt. 32 e 106 c.p.c.
Si deve in primo luogo notare che il cumulo fra causa principale e causa di garanzia
cui allude l’art. 32 c.p.c., sia per l’ambiente in cui è collocato, il quale si occupa del problema della individuazione della competenza, sia e soprattutto per come è descritto con le parole secondo cui «la domanda di garanzia può essere proposta al giudice competente per la
causa principale», potrebbe sembrare riferibile al solo caso – ipotizzato come possibile anche dalla dottrina – in cui lo stesso soggetto, cioè l’attore, proponga una domanda principale contro un certo convenuto ed una domanda di garanzia in funzione di essa rispetto ad
un terzo.
L’art. 106 c.p.c. suppone invece certamente che la chiamata in garanzia avvenga in un
processo già pendente e riferisce il potere di chiamata sia all’attore che al convenuto, posto
che fa riferimento all’uopo a «ciascuna parte». Allude, quindi, sia all’ipotesi in cui la chiamata del terzo in garanzia sia fatta dalla parte convenuta in un giudizio, sia all’ipotesi in cui
essa sia fatta dall’attore, evidentemente per un’esigenza originata dalla difesa della parte
convenuta concretatasi in una domanda riconvenzionale.
Peraltro, l’art. 32, letto nella sua interezza, non consente la lettura limitativa sopra ipotizzata, perché nel secondo inciso la norma, prevedendo che se la causa di garanzia ecceda
la competenza del giudice adito questi rimette entrambe le cause al giudice superiore, palesa che essa intende riferirsi chiaramente anche all’ipotesi in cui la chiamata in garanzia si
verifichi in un processo già insorto. È chiaro, cioè, che il legislatore, nel dire che la domanda di garanzia può essere proposta al giudice della causa principale, se avesse voluto riferirsi solo al caso in cui sia chi introduce il giudizio a proporre entrambe le domande, cosı̀ prevedendo una competenza per connessione correlata alla sola introduzione del giudizio, non
Rivista di diritto processuale 3/2016
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avrebbe potuto subito dopo dire che la competenza del giudice adito per connessione non
può in concreto operare e, quindi, determinare il simultaneus processus davanti a lui, se la
domanda di garanzia eccede la competenza del giudice adito (ed implicitamente se essa appartiene alla competenza per materia di altro giudice, che non sia il giudice di pace, rispetto al quale va considerata la cedevolezza della competenza rispetto al giudice togato superiore).
Ne segue la conclusione che anche il cumulo di cui all’art. 106 c.p.c. è soggetto alla regola di cui all’art. 32 c.p.c., per cui anche quando la chiamata in garanzia ha luogo in un
processo già introdotto su una domanda principale o per chiamata del convenuto o per
chiamata dell’attore, lo svolgimento cumulativo del processo può avere luogo se la causa di
garanzia rientra nella competenza per valore del giudice adito, mentre, se la causa di garanzia eccede quella competenza l’intero processo si deve spostare davanti al giudice superiore:
ipotesi questa che, essendo ormai distribuita la competenza per valore tra giudice di pace e
tribunale ed essendo la competenza del primo cedevole risulterebbe peraltro ora già scritta
nelle norme dell’art. 40 c.p.c., commi 6˚ e 7˚.
L’ambito dell’art. 32, dunque, comprende certamente anche quello dell’art. 106 c.p.c.
9.2. Il punto è, però, che l’oggetto di disciplina della norma dell’art. 106 c.p.c. e quello
dell’art. 32 c.p.c., nonostante questa seconda norma comprenda l’ambito di disciplina dell’altra, sono, in realtà, solo parzialmente sovrapponibili, nel senso che l’art. 106 può in realtà trovare applicazione senza che necessariamente si debba fare applicazione dell’art. 32.
Occorre considerare che l’art. 106 c.p.c. con l’espressione «chiamare nel processo un
terzo ... dal quale pretende di essere garantita», fermo che la chiamata è esercizio di un’azione (come suggerisce la rubrica del titolo in cui è inserita), si presta a comprendere due
distinti profili.
Un primo profilo è necessario, in quanto sotteso allo stesso significato della chiamata,
l’altro è solo eventuale, anche se di certo ricorre molto di più nella pratica.
Il primo profilo si coglie nel significato stesso dell’espressione «essere garantita». Poiché l’oggetto della garanzia inerisce in tutte le varie fattispecie ad una prestazione, quella di
garanzia, che si deve tenere se il modo di essere del rapporto principale risulti accertato
con un contenuto sfavorevole al soggetto, il garantito, che ne è parte, la chiamata del terzo
ha, come del resto, non si dubita, come contenuto e, quindi, come petitum dell’azione con
essa esercitata la richiesta di accertamento di quel modo di essere nel contraddittorio del
terzo chiamato preteso garante. Essendo tale accertamento già oggetto del giudizio principale, la richiesta si concreta dunque nell’estensione al terzo preteso garante dell’efficacia e,
quindi, della soggezione all’accertamento del rapporto oggetto del giudizio principale, che,
rispetto a quello di garanzia, costituisce un elemento – o per previsione normativa discendente dalla struttura delle fattispecie (in quelle che tradizionalmente vengono dette ipotesi
di garanzia proprie) o perché, al di là di una previsione normativa, il fatto dell’accertamento del rapporto principale integra uno degli elementi del rapporto di garanzia – della sua
fattispecie costitutiva e, dunque, un elemento «pregiudicante» quest’ultima.
È questo il contenuto minimale, ma necessario ed indefettibile, della chiamata del terzo garante cui allude l’art. 106 c.p.c. La chiamata in questo contenuto minimale ma necessario ha come oggetto, premessa la deduzione dell’esistenza del rapporto di garanzia soltanto come rapporto legittimante la chiamata stessa (cioè l’ingresso del terzo nel processo senza una richiesta di accertamento dell’effettiva esistenza di detto rapporto e del suo modo di
essere e del riconoscimento di diritti basati su di esso), la mera estensione al terzo garante
dell’efficacia della decisione sul rapporto principale.
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Sotto tale profilo – che qualcuno individua come denuncia della lite, ma con formulazione che non deve essere intesa letteralmente data l’implicazione che la chiamata comunque ha – la chiamata determina l’effetto di estendere sotto il solo aspetto soggettivo l’accertamento relativo al rapporto oggetto della domanda principale al di là delle parti che vi sarebbero legittimate per il modo in cui la situazione giuridica che ne è oggetto è stata prospettata.
Quindi, si risolve nell’attribuzione al terzo preteso garante di una legittimazione processuale a contraddire riguardo ad un rapporto cui egli è estraneo. Per effetto della chiamata le parti fra le quali avrà luogo l’accertamento e, quindi, la decisione, riguardo al rapporto
principale, saranno non solo quelle originarie riguardo alle quali sussisterebbe la legittimazione processuale sul piano attivo e passivo, bensı̀ anche il terzo garante e ciò sulla base
dell’allegazione nella chiamata in causa del rapporto di garanzia.
Allegazione che, però, è fatta al solo fine di giustificare tale estensione della legittimazione.
Allorquando la chiamata del terzo garante sia esercitata solo sotto il descritto profilo,
il che dipende da una scelta limitativa del soggetto garantito, che non chiede anche accertarsi il rapporto di garanzia e non chiede il riconoscimento delle sue implicazioni condizionatamente all’eventuale verificarsi di un accertamento del rapporto principale giustificativo
della garanzia, lo scopo che persegue il garantito è soltanto quello – come non ha mancato
di rilevare la dottrina – di ottenere che il garante sia assoggettato all’efficacia dell’accertamento sul rapporto riguardo al quale ad avviso del chiamante preteso garantito deve prestare la garanzia, in modo che l’esistenza di tale rapporto non possa più essere ridiscussa in
un futuro giudizio nel quale lo stesso garantito farà valere la pretesa di garanzia (fra i cui
fatti costitutivi necessariamente si pone il modo di essere del rapporto oggetto della prestazione di garanzia, cioè riguardo al quale essa è dovuta secondo la disciplina del rapporto di
garanzia). Nel successivo giudizio con cui il garantito chiederà la prestazione di garanzia
(che ha scelto di non far valere), cioè la prestazione cui il garante è tenuto in relazione a
quel modo di essere, si potrà discutere fra garantito e garante soltanto della sussistenza stessa del rapporto di garanzia, della debenza della garanzia in base ad esso e di tutte le questioni ad essa relative.
La differenza rispetto all’ipotesi in cui il garantito conviene il garante solo dopo che il
giudizio sul rapporto rispetto al quale la garanzia è dovuta sia stato accertato in modo tale
da giustificare la prestazione della garanzia e lo sia stato nel solo contraddittorio delle parti
di esso, è evidente, come non manca di sottolineare la dottrina: in questo secondo caso, essendo quel modo di essere elemento costitutivo della garanzia, nella lite con il solo garantito il garante potrà (oltre che discutere di tutti i profili sopra indicati) anche contestare l’accertamento relativo al rapporto principale, in quanto esso ha avuto corso senza il suo contraddittorio ed in tal caso occorrerà che esso venga ripetuto senza alcun vincolo di quello
seguito fra il garantito e la parte del rapporto principale.
Il giudicato sfavorevole per il garantito intervenuto senza il contraddittorio del garante
sarà trattato in guisa non diversa da come, nel giudizio di garanzia, sarebbe da trattare un
riconoscimento stragiudiziale del diritto del pretendente del rapporto principale o un negozio di accertamento di tale diritto intervenuto fra garantito e pretendente. Cosı̀ come questi
sono atti dispositivi compiuti inter alios cui il garante resta insensibile, altrettanto accade
quando della sua situazione il garantito risponde nel processo intentatogli dal pretendente
senza evocarvi il garante.
9.3. Nell’ipotesi di chiamata del terzo ora descritta si dice che l’oggetto del giudizio
non risulterebbe allargato, ma, in realtà, l’affermazione ha un valore relativo. L’oggetto del
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giudizio resta certamente quello relativo al modo di essere del rapporto principale, ma, accanto ad esso, se ne aggiunge un altro, che è l’estensione dell’efficacia dell’accertamento su
di esso al garante, che è un profilo se si vuole oggettivo quanto meno sul piano del petitum.
Non sembra possa negarsi, cioè, che un allargamento dello stesso oggetto del giudizio si verifica in tal caso sotto il profilo soggettivo, perché l’ingresso del garante nel processo determina che l’accertamento, sotto il profilo dei limiti soggettivi del giudicato, si estenderà al
terzo, cui invece, in difetto della chiamata, non si sarebbe in alcun modo esteso.
Dovendo il terzo garante soggiacere in forza della chiamata al giudicato sul rapporto
originariamente dedotto in giudizio ed essendo divenuto destinatario di una domanda di
estensione a lui dell’efficacia dell’accertamento del rapporto inter alios egli deve necessariamente poter contraddire riguardo a tale accertamento e tanto giustifica la conseguenza che
i poteri processuali funzionali alla gestione della lite diventano riferibili anche al terzo garante, come non manca di sottolineare la dottrina. Il litisconsorzio successivo che si determina per il fatto dell’allargamento della legittimazione operato dalla chiamata al garante esige che i poteri processuali che prima erano attribuiti alle parti originarie siano attribuiti
con il filtro del criterio dell’interesse anche al terzo chiamato, salvo che si tratti di poteri di
disporre dell’oggetto del processo originario, come ad esempio la confessione riguardo al
rapporto che ne è oggetto.
Poiché i detti poteri processuali sono attribuiti al terzo a tutela di un interesse proprio
(quello a che venga negato il rapporto principale, che potrebbe divenire elemento costitutivo della pretesa di garanzia nei suoi confronti) occorre notare che non si può ritenere che
egli assuma una posizione simile a quella di un terzo interventore adesivo dipendente, ancorché egli sia interessato a sostenere le ragioni del garantito.
La sua posizione è simile in realtà a quella di un interventore adesivo autonomo. Egli,
venendo chiamato nel processo relativo all’accertamento del rapporto principale riguardo
al quale opera la garanzia deve avere la stessa posizione che avrebbe avuto qualora fosse
stato convenuto dal garantito dopo il verificarsi di quell’accertamento positivo senza il suo
contraddittorio. Cosı̀ come egli avrebbe avuto riguardo all’accertamento del rapporto oggetto della pretesa garanzia tutti i poteri e le facoltà processuali, allo stesso modo deve poter esercitare questi ultimi quando viene chiamato nel processo inter alios relativo a quell’accertamento.
D’altro canto il nesso di dipendenza fra l’accertamento del rapporto principale in modo sfavorevole al garantito e la prestazione di garanzia non realizza un fenomeno di dipendenza permanente fra i due diversi rapporti discendente dal diritto sostanziale, cioè non dipende dal fatto che secondo il diritto sostanziale il rapporto di garanzia abbia come elemento costitutivo il rapporto garantito.
L’esistenza di quest’ultimo rappresenta solo un fatto concreto in presenza del quale si
realizza il presupposto per il funzionamento di quel rapporto, che non lo contempla come
tale, ma contempla solo un oggetto di garanzia astratto, cui esso, quando si verifica, può,
per previsione interna al rapporto di garanzia stesso, essere ricondotto, di modo che si giustifica la prestazione dovuta in forza della garanzia. Il rapporto di pregiudizialità non riguarda a ben vedere il rapporto principale e quello di garanzia, bensı̀ il primo, o meglio
l’accertamento di un suo modo di essere, e la prestazione oggetto del secondo. È il diritto a
questa e non il rapporto di garanzia ad essere pregiudicato dall’esito sfavorevole per il garantito del giudizio principale.
9.4. Importa a questo punto notare che, allorquando la chiamata del terzo garante assuma solo il contenuto di domanda di estensione dell’efficacia soggettiva quanto all’accerta-
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mento del rapporto principale, non si può negare che gli effetti descritti sono identici sia
per le ipotesi di garanzia cd. proprie che per quelle cd. improprie.
Importa in primo luogo notare che l’estensione soltanto soggettiva dell’accertamento
non ha e non può avere alcun rilievo ai fini della competenza, dato che, se anche si volesse
prospettare un problema di individuazione della competenza sulla «domanda di garanzia»
diretta al solo fine di estendere la decisione al terzo, la competenza non potrebbe che essere la stessa esistente sul rapporto principale, perché l’estensione riguarda sempre e solo
quest’ultimo.
Ne segue che l’art. 32 c.p.c. non viene in rilievo e ciò vale sia per la garanzia propria
che per quella impropria, sicché si perviene ad acquisire un primo risultato nel senso che la
relativa distinzione in tal caso è priva di effetti pratici.
10. Accanto al profilo che si è descritto la chiamata in causa, com’è noto, può presentarne un altro che è solo eventuale anche se certamente molto più ricorrente per evidenti
ragioni di economia processuale.
Esso si coglie quando il garantito chiami il garante in giudizio non solo chiedendo che
si estenda nei sui confronti l’accertamento del rapporto principale, ma anche formulando
una richiesta di accertamento dell’esistenza del rapporto di garanzia (che, dunque, non viene più solo prospettato come situazione legittimante la chiamata) e, nel presupposto che tale esistenza risulti accertata, eventualmente una richiesta (avente natura di domanda subordinata all’accertamento del rapporto principale in modo sfavorevole e, quindi, tale da giustificare la prestazione della garanzia) di attribuzione della prestazione di garanzia, naturalmente se ed in quanto a sua volta il modo di essere del rapporto di garanzia giustifichi
quell’attribuzione.
In tal caso l’allargamento dell’oggetto del giudizio non è solo soggettivo, ma è, come
non si dubita, anche oggettivo, nel senso che l’accertamento non riguarda più solo il rapporto principale sebbene con l’estensione soggettiva al garante della legittimazione, ma concerne anche il rapporto di garanzia, il suo modo di essere ed il diritto alla prestazione (condizionato).
Tale allargamento in senso oggettivo può, peraltro, avvenire anche per iniziativa dello
stesso garante, il quale chieda l’accertamento con efficacia di giudicato, nei confronti del
garantito che l’ha chiamato al solo fine di estendergli l’accertamento del rapporto principale, del modo di essere del rapporto di garanzia ed eventualmente di un suo modo di essere
che, quand’anche dovesse aversi esito sfavorevole per il garante quanto al rapporto principale, comunque escluda la prestazione di garanzia.
Ad avviso di queste Sezioni Unite la possibilità che la chiamata del garante da parte
del garantito implichi la descritta estensione sul piano oggettivo è già compresa nella previsione della stessa norma dell’art. 106 c.p.c., giacché l’espressione «pretende di essere garantita» ivi contenuta è tale da comprendere sia questa pretesa, intesa come richiesta di mera
estensione soggettiva al garante dell’efficacia dell’accertamento sul rapporto principale, sia
anche come richiesta di ampliamento oggettivo in funzione della consecuzione dell’accertamento del rapporto di garanzia ed eventualmente della (subordinata) consecuzione della
garanzia.
La soppressione dell’inciso «e tenerla indenne», che figurava nel testo originario dell’art. 106 e che il Guardasigilli S. aveva spiegato con l’intenzione di espungere dall’ambito
della norma le ipotesi di garanzia impropria, in disparte che non è dato comprendere come
e perché solo ad esse potesse riferirsi, è da considerare del tutto inidonea ad escludere che
la chiamata in garanzia, per come supposta nell’art. 106 vigente, possa assumere oltre all’estensione minima soggettiva anche, per scelta del chiamante, quella ulteriore oggettiva.
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10.1. Quando la chiamata in garanzia assume il più complesso contenuto derivante
dall’estensione oggettiva, il cumulo soggettivo di accertamenti che si verifica comporta che,
rispetto all’accertamento del rapporto principale, quello del rapporto di garanzia non ha
carattere dipendente per quanto attiene ai fatti costitutivi diversi dal verificarsi del presupposto per la prestazione della garanzia rappresentato dall’esito sfavorevole del rapporto
principale. Ciò che è pregiudicato è solo il diritto alla prestazione di garanzia. Solo in via
eventuale, in relazione alla struttura del rapporto di garanzia ed ai sui contenuti tale diritto
potrebbe essere l’unico nascente da detto rapporto, ma potrebbe benissimo accadere che si
tratti soltanto di uno dei diritti potenzialmente nascenti dal medesimo rapporto.
Riguardo all’accertamento del rapporto principale è comunque importante notare che
la posizione del garante resta sempre identica a quella che egli riveste nell’ipotesi di mera
chiamata estensiva dell’accertamento su di esso.
11. Si deve a questo punto rilevare che le considerazioni sul duplice possibile profilo
della chiamata in garanzia secondo il paradigma dell’art. 106 c.p.c. sono comuni sia alle fattispecie tradizionalmente qualificate come di garanzia propria sia a quelle qualificate come
garanzia impropria, nel senso che le due eventualità che si sono descritte possono verificarsi
sia nelle une che nelle altre.
Ne discende che la distinzione fra esse, se posta in relazione all’art. 106 c.p.c., si giustifica solo in termini di pura descrizione della diversità dei fenomeni riconducibili alla
norma.
Si deve, cioè, sottolineare che le peculiarità che si colgono nelle norme che disciplinano specificamente determinate forme di garanzia qualificate come proprie sono peculiarità
che non incidono sulle due eventualità supposte dall’art. 106 c.p.c.
Cosı̀, per esemplificare, la fattispecie dell’art. 1485 c.c. presenta come tratto peculiare
solo apparente l’obbligatorietà della chiamata. Ma, in realtà, si tratta di una onerosità della
chiamata del venditore: se non la si fa il giudicato sfavorevole per il compratore evitto, non
diversamente da quanto accade nelle altre ipotesi di garanzia è un fatto che come tale è opponibile al garante venditore, ma solo come fatto storico e non già nella sua implicazione
giuridica agli effetti del rapporto di garanzia.
Infatti, il venditore convenuto può dare dimostrazione che esistevano ragioni per respingere la domanda del terzo contro il compratore, cioè l’ingiustizia del detto giudicato.
Quando il compratore chiama in garanzia il venditore la chiamata si può estrinsecare certamente nella mera richiesta di estensione soggettiva dell’accertamento sul rapporto principale oppure può estendersi all’accertamento del rapporto di garanzia nascente dalla pregressa
vendita ed alla pretesa condizionata ad essere tenuto indenne.
La stessa cosa dicasi per l’ipotesi in cui la garanzia deriva da fenomeni di regresso ricollegati alle obbligazioni solidali: chi chiama in garanzia il terzo riguardo al quale ha regresso lo può fare al solo fine di estendergli l’accertamento sul rapporto principale, di modo che il terzo successivamente, una volta esercitata l’azione di regresso non possa sollevare
contestazioni su di esso, ma può anche farlo chiedendo altresı̀ l’accertamento del rapporto
giustificativo del regresso e l’attribuzione della prestazione di regresso subordinatamente all’esito sfavorevole del giudizio sul rapporto principale.
12. I due profili che può assumere la chiamata in garanzia nei sensi indicati, in realtà,
possono assumere una diversa rilevanza, ad avviso di queste Sezioni Unite, ai fini dell’applicazione dell’art. 32 c.p.c., ma ciò senza alcuna correlazione rispetto al carattere proprio o
improprio della garanzia.
L’art. 32, quando allude alla domanda di garanzia ed attribuisce alla sua proposizione,
o per cumulo originario o per cumulo nascente ai sensi dell’art. 106 c.p.c., il possibile effet-
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to – implicito – di determinare una modificazione della competenza per ragioni di territorio
derogabile davanti al giudice adito ed una modificazione della competenza per valore, con
rimessione dell’intero giudizio, anche per la causa principale, al giudice superiore, intende
riferirsi non già al caso in cui la chiamata del garante sia stata fatta al solo fine di provocare
l’estensione soggettiva dell’accertamento sulla domanda principale, bensı̀ al caso in cui abbia avuto luogo con il cumulo rispetto a tale richiesta della domanda di accertamento del
rapporto di garanzia ed eventualmente di riconoscimento della prestazione di garanzia subordinatamente all’esito sfavorevole del giudizio sul rapporto principale.
La disciplina dell’art. 32 c.p.c. viene in rilievo allora solo nei casi in cui la chiamata in
garanzia abbia avuto efficacia estensiva oggettiva e, dunque quando accanto alla domanda
di estensione soggettiva al garante dell’accertamento del rapporto principale, sottesa necessariamente a qualsiasi chiamata in garanzia, si sia accompagnata la domanda di garanzia nei
sensi su indicati. È solo in questo caso che vengono in rilievo le regole poste dalla norma
sui limiti in cui può avere luogo il simultaneus processus ed eventualmente la modificazione
della competenza.
È questa un’implicazione che si deve desumere innanzitutto dal fatto che l’art. 32
c.p.c. allude alla «domanda di garanzia» e con tale espressione (che non è presente nell’art.
106, il quale, conforme alla rubrica del titolo in cui è inserita, disciplina una modalità di
esercizio dell’azione e di un’azione già in atto, tale essendo la posizione riferibile al garantito) intende riferirsi alla proposizione della domanda intesa ad ottenere l’accertamento del
rapporto di garanzia, che corre fra il chiamante preteso garantito e il garante, ed eventualmente alla domanda consequenziale di attribuzione della prestazione di garanzia condizionatamente all’esito sfavorevole dell’accertamento del rapporto principale.
Fermo questo dato e constatato che nel confronto fra art. 32 e art. 106 c.p.c. una non
coincidenza degli oggetti di disciplina riguarda solo il dato che la chiamata in garanzia con
effetto meramente estensivo (soggettivo) della legittimazione non rileva agli effetti dell’art.
32 c.p.c., superando le considerazioni che erano state ribadite a giustificazione della sottrazione ad essa delle fattispecie di garanzia impropria (da Cass. sez. un. n. 13368 del 2004),
si deve ritenere che la giustificazione di un diverso trattamento fra i due casi non aveva e
non ha base normativa: invero, l’essere una fattispecie di garanzia «impropria» perché non
desumibile per cosı̀ dire in astratto dalla disciplina legislativa del rapporto principale e di
quello di garanzia, non trova nell’art. 32 alcun indice che giustifichi la sua applicazione solo
ad essa. Il tenore dell’art. 32, messo in relazione con l’assoluta genericità della previsione
dell’art. 106 c.p.c., giustifica, come s’è detto, solo la conseguenza che essa si riferisce alla
chiamata con effetti estensivi oggettivi e non a quella con effetti estensivi solo soggettivi.
Inoltre, non è dato comprendere come alla circostanza della previsione nella disciplina di
diritto sostanziale delle ipotesi di garanzia propria si possa attribuire rilievo a fini dell’applicazione di una norma processuale come l’art. 32. Se il legislatore avesse voluto attribuire rilievo al problema della competenza riservando la norma dell’art. 32 c.p.c. solo alle ipotesi
di cd. garanzia propria avrebbe, in realtà, dovuto dirlo, mentre nella detta norma assume rilievo la «domanda di garanzia», la quale, nei sensi descritti, può essere proposta tanto in
caso di chiamata in garanzia propria che impropria.
13. Va rilevato che nemmeno in relazione all’art. 108 c.p.c., che disciplina il fenomeno
dell’estromissione del garantito merita distinguere le ipotesi di garanzia propria da quelle
improprie, limitando l’applicazione della norma solo alle prime ed escludendola per le seconde.
Va detto innanzitutto che la norma può trovare applicazione sia nel caso di chiamata
in causa del garante ad effetto soltanto estensivo della legittimazione, sia nel caso di chia-
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mata in garanzia ad effetto estensivo dell’oggetto del giudizio, cioè con richiesta di accertamento del rapporto di garanzia. Non sembra condivisibile l’assunto di quella dottrina che
restringe l’applicazione della norma solo alla prima ipotesi, adducendo che se la si applicasse al secondo si verificherebbe che il garante che assume la lite in vece del garantito nei
confronti del pretendente dovrebbe rivestire, oltre che la legittimazione in sostituzione del
garantito rispetto al rapporto principale anche, quanto alla domanda di garanzia, contemporaneamente la posizione di attore e convenuto. L’assunto non pare condivisibile, perché
l’estromissione del garantito in questa ipotesi, cioè di chiamata oggettivamente estensiva,
suppone che costui ed il garante si accordino disciplinando la sorte del rapporto di garanzia in via provvisoria e tale che risenta poi della sorte della decisione su quello principale,
oppure lascino in sospeso quella sorte impegnandosi a regolarla in base alla detta decisione.
L’assunzione della lite da parte del garante riguarda, dunque, solo la lite sul rapporto principale, non diversamente da quanto accade nella chiamata estensiva solo in senso soggettivo.
Venendo alla distinzione fra chiamata propria ed impropria la tesi limitativa alla prima
ipotesi assume come fondamento solo e sempre la circostanza che il legislatore avrebbe inteso limitare l’applicazione della norma alle fattispecie di garanzia previste dalla legge. Ma
l’assunto non ha alcun indice giustificativo nell’art. 108 e né può dirsi che estendendo l’applicazione della norma alle ipotesi di garanzia impropria si finirebbe (come adombrò Cass.
sez. un. n. 13968 del 2004) per ammettere un caso di sostituzione processuale ai sensi dell’art. 81 al di fuori dalle previsione della legge: è sufficiente osservare che la previsione della
sostituzione, sebbene condizionata al consenso del pretendente, sta nell’art. 108 che, riferendosi alla chiamata in garanzia si riferisce a tutte le ipotesi che realizzino il fenomeno.
14. A questo punto, poste queste premesse, che apparivano necessarie per il fatto che
la fattispecie dell’art. 1917 c.c. ha avuto ed ha l’una e l’altra collocazione nel quadro della
distinzione fra garanzia propria e garanzia impropria, si può passare finalmente all’esame
della questione proposta dall’ordinanza di rimessione, che è parte di quella generale riguardante l’atteggiarsi in sede di gravame del litisconsorzio insorto per effetto di una chiamata
in causa del terzo garante: essa, infatti, concerne specificamente l’ipotesi in cui il rapporto
principale oggetto della garanzia sia stato accertato in senso sfavorevole al garantito nel
contraddittorio del garante da lui chiamato in causa. La questione dev’essere esaminata, peraltro, tenendo conto delle soluzioni da dare alle altre ipotesi che si possono verificare e,
dunque, considerando la questione generale nella sua interezza.
Si deve, inoltre, aggiungere che il problema va considerato tanto con riguardo al caso
in cui la chiamata sia stata limitata al solo aspetto dell’estensione soggettiva dell’accertamento sul rapporto principale quanto per il caso in cui con essa si sia cumulata l’azione relativa al rapporto di garanzia ed essa sia stata a sua volta accolta in conseguenza dell’accoglimento dell’azione principale.
Va ancora avvertito che anche la questione in esame si pone e deve essere risolta negli
stessi termini con riguardo a qualsiasi figura di garanzia, sia essa propria sia essa impropria:
il rilievo della distinzione fra le due tipologie di garanzia scompare anche riguardo al problema ora in esame (al contrario di quanto in passato si era ritenuto: si veda Cass. sez. un.
n. 4779 del 1981).
La ragione è che nell’uno come nell’altro caso la soluzione della questione della regola
di litisconsorzio applicabile in sede di gravame si correla e dipende, come emergerà dalle
considerazioni che si verranno svolgendo, dal dato, comune e sempre ricorrente in ogni fattispecie di chiamata del terzo garante, dell’efficacia estensiva della legittimazione del garante rispetto all’accertamento del rapporto principale. È questo, come si vedrà, il dato che ri-
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leva ai fini della regola del litisconsorzio e degli effetti dell’impugnazione e, poiché esso
connota tanto le ipotesi di garanzia propria che quelle di garanzia impropria, è questa la ragione per cui la distinzione è priva di effetti ai fini della individuazione di quella regola.
(Omissis).
15. Si tratta di verificare se le soluzioni indicate debbano essere riproposte anche per
l’ipotesi nella quale con la chiamata in garanzia il garantito non si sia limitato a chiedere l’estensione soggettiva al garante dell’accertamento sul rapporto principale, ma abbia anche
chiesto l’accertamento del rapporto di garanzia e se del caso che il giudice gli riconosca la
prestazione di garanzia condizionatamente alla soccombenza sul rapporto principale.
Caso al quale è da apparentare l’ipotesi in cui sia stato il garante, costituendosi, a chiedere un accertamento negativo del rapporto di garanzia o di un modo di essere di esso non
giustificativo della pretesa di garanzia.
Anche in queste ipotesi le considerazioni sopra svolte restano immutate con riferimento all’estensione soggettiva dell’impugnazione riguardo al modo di essere del rapporto principale.
Se l’azione relativa a tale rapporto sia stata rigettata, riguardo a tale rigetto sarà soccombente l’attore originario. (Omissis).
16. Una volta concluso che l’impugnazione del garante riguardo al rapporto principale, tanto nel caso in cui la chiamata si fosse esaurita nella sola richiesta di estensione soggettiva dell’accertamento sul rapporto principale al garante, quanto nel caso in cui ad essa fosse stata cumulata la domanda di garanzia, è idonea ad investire il giudice dell’impugnazione
anche a favore del garantito, attesa la struttura necessaria del litisconsorzio sul piano processuale e considerato che è stato lo stesso garantito a realizzare l’estensione soggettiva della
legittimazione sul rapporto principale, ci si deve domandare (nell’uno come nell’altro caso)
quali possano essere le modalità di svolgimento della difesa del garantito in sede di impugnazione.(Omissis).
Garanzia propria e impropria: una distinzione superata
1. – L’insistente esigenza classificatoria che ruota intorno all’accezione
di «garanzia» (a fini processuali) è conseguenza, da un lato, delle difficoltà
nell’individuare una definizione generale in grado di accogliere tutti i
molteplici modelli in cui essa si esprime, dall’altro della poliedricità del
fenomeno sotto il profilo dinamico, per le varie conseguenze che genera
nel giudizio. Tra le plurime rappresentazioni, alcune nascondono una
effettiva consistenza sostanziale (diversificando le fattispecie in ragione
dei poteri delle parti, quale riflesso dei rispettivi rapporti giuridici) (1),
altre sono frutto di discutibili (e discusse) scelte per la mancanza di addentellati testuali. Su una di queste ultime (la più dibattuta) – la distinzio-
(1) Cosı̀ tra garanzia formale e semplice, di cui è traccia anche nel codice del 1865.
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ne tra garanzia propria e impropria (2) – intervengono le Sezioni Unite
con la pronuncia in epigrafe (3), nel senso di riconoscere ad essa un
«valore puramente descrittivo»: al bando quindi i plurimi effetti processuali sino a ieri ricondotti al distinguo (4).
È bene da subito esprimere consenso (5) intorno alla scelta, che ci
sembra, non solo semplificante – quanto ai relativi effetti sul processo –
ma anche più in linea con il ruolo del cumulo tra azione di molestia e di
manleva, quale mezzo al fine di decisioni omogenee (6).
(2) Tace il codice del 1940 – come anche quello previgente – sulla ripartizione per
categorie tra garanzia «propria» ed «impropria», sicché occorre altrove reperire l’eventuale
suo rilievo. La genesi va ricostruita per via di prassi, l’idea della garanzia impropria venendo
consolidandosi nella pratica applicativa (in particolare, nella giurisprudenza francese del
XIX secolo), proprio allo scopo di sfuggire agli stretti vincoli dei modelli formalizzati.
(3) Per un ulteriore commento alla sentenza, Carratta, Requiem per la distinzione fra
garanzia propria e impropria in sede processuale, in Giur. it. 2016, 586; Consolo, Baccaglino,
Godio, Le Sez. Un. e il venir meno della distinzione tra «garanzia propria» e «garanzia
impropria»: cosa muta (e cosa no) nella dinamica processuale, ibidem, 593.
(4) La lettura offerta dalle Sezioni Unite trova conferma in un più recente intervento
delle stesse Sezioni Unite (Cass., sez. un., 14 marzo 2016, n. 4909), che riconosce la procura
alle liti, conferita in termini ampi e comprensivi, idonea ad attribuire al difensore il potere di
esperire l’azione di garanzia impropria anche se non espressamente prevista. La sentenza,
pur non citando Cass., sez. un., 24707/2015 (forse per un difetto di coordinamento sotto il
profilo temporale di pubblicazione delle due sentenze) equipara garanzia propria ed impropria pure da questo punto di vista. Vi si adegua anche Cass., sez. un., 19 aprile 2016, n.
7700, nello stabilire – a componimento di un contrasto interpretativo – che “in caso di
impugnazione da parte dell’attore della sentenza di rigetto della domanda, la devoluzione al
giudice del gravame della domanda in garanzia nei confronti del chiamato da parte del
convenuto/appellato, non decisa perché condizionata all’accoglimento della pretesa principale, non richiede la proposizione di appello incidentale, essendo sufficiente la mera riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.”.
(5) Criticamente Consolo-Baccaglini-Godio, Le Sez. Un. e il venir meno, cit., 593 ss.; in
linea con la prospettiva di fondo di superare il distinguo tra garanzia propria e impropria si
colloca Carratta, Requiem, cit., 591, ma non per la ragione addotta dalle Sezioni Unite circa
il valore “puramente descrittivo” del criterio discretivo, bensı̀ per l’esigenza (comune ad
entrambi i modelli di garanzia) di salvaguardare l’interesse dell’ordinamento verso il simultaneus processus.
(6) Ruolo da sempre assegnato alla disciplina processuale della garanzia. Per tutti, La
China, La chiamata in garanzia, Milano 1962, 188; Id., voce Garanzia (chiamata in), in Enc.
dir., vol. XVIII, Milano 1966, 475; Costa, voce Chiamata in garanzia, in Novissimo Digesto
Italiano, vol. III, Torino 1959, 168 ss.; Franchi, Delle modificazioni della competenza per
ragioni di connessione, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, I, 1,
Torino 1973, 301; Monteleone, voce Garanzia. II) Chiamata in garanzia – diritto processuale
civile, in Enc. giur., vol. XIV, Roma 1989, 1 ss.; Costantino, voce Garanzia (chiamata in), in
Digesto. disc. priv. sez. civ., vol. VIII, Torino 1992, 596; Balbi, voce Connessione e continenza
nel diritto processuale civile, ivi, vol. III, Torino 1988, 457 ss., spec. 462; Consolo, Il cumulo
condizionale di domande, II, Padova 1985, 599-600; Id., In tema di chiamata in causa in
ipotesi di connessione cosiddetta impropria e di disciplina del regolamento di competenza nel
processo con cumulo oggettivo, in Giur. it. 1981, I, 1, 1698; Id., Spiegazioni di diritto pro-
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giurisprudenza
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La giurisprudenza (anteriore all’ultimissimo intervento in esame) da
tempo accordava valore all’alternativa garanzia propria/impropria, nel senso che «si ha garanzia propria quando la causa principale e quella accessoria abbiano lo stesso titolo, ovvero quando ricorra una connessione
oggettiva tra i titoli delle due domande, e si configura invece la garanzia
cosiddetta impropria quando il convenuto tenda a riversare su di un terzo
le conseguenze del proprio inadempimento in base ad un titolo diverso da
quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo
connesso al rapporto principale solo in via occasionale o di fatto» (7) (il
che incontrava l’avallo di autorevole dottrina, ancorché nel contrasto con
altra (8)). Più dibattuta era invece la collocazione delle singole fattispecie
entro l’una o l’altra categoria, nonché l’esatta decifrazione dei relativi
risvolti processuali (9).
Nel processo, il discrimen assumeva valore sotto diversi profili:
a) Per ammettere gli spostamenti di competenza (art. 32 c.p.c.) in
prospettiva del cumulo processuale (spostamenti, fino a ieri, consentiti
nella garanzia propria e preclusi in quella impropria) (10).
b) Per individuare i confini dell’art. 108 c.p.c., nella garanzia impropria non ammettendosi l’estromissione del garantito.
c) Per disciplinare la pluralità di parti nei giudizi di impugnazione,
nella garanzia impropria non ritenendosi applicabile l’art. 331 c.p.c. (11)
(data la scindibilità del cumulo plurisoggettivo tra garante, garantito e
molestante) con conseguente inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva (art. 334 c.p.c.) (12).
Alla luce dell’orientamento fino a ieri prevalso, alla garanzia impropria
era dunque riconosciuto rilievo processuale solo nell’art. 106 c.p.c. (13),
cessuale civile. Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, vol. II, Torino
2015, 78; Gambineri, Garanzia e processo, vol. I e II, Milano 2002, passim.
(7) Per tutte, Cass. 16 aprile 2014, n. 8898.
(8) Le contrapposte posizioni saranno meglio esaminate infra § 2.
(9) Questione su cui si avrà modo di tornare infra §§ successivi.
(10) Cass. 16 aprile 2014, n. 8898; Cass. 24 gennaio 2007, n. 1515; Cass. 12 giugno
2007, n. 13735; Cass., sez. un., 26 luglio 2004, n. 13968, in Foro it. 2005, I, 2385, con nota
di Gambineri; Cass. 14 gennaio 2004, n. 429; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19050, in Giust.
civ. 2004, I, 2948; Cass. 5 agosto 2002, n. 1171. Isolatamente in passato la giurisprudenza ha
aperto l’art. 32 c.p.c. ad ipotesi di garanzia impropria (Cass. 17 ottobre 1991, n. 10960, in
Foro it. 1992, I, 1483, con nota di Costantino).
(11) Infra nt. 44.
(12) Cass. 28 aprile 2014, n. 9369.
(13) È rimasta isolata la tesi di chi in ipotesi di garanzia impropria negava anche la
chiamata ex art. 106 c.p.c. (Tarzia, Sulla nozione di garanzia impropria, in Giur. it. 1956, I, 2,
323, spec. 328).
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consentendo la chiamata in causa del garante, ma senza incidere su competenza, processo litisconsortile, in primo grado o in fase di impugnazione.
La posizione processuale del garante «improprio» era quindi deminuta
rispetto a quella del garante «proprio».
La situazione muta non poco con l’attuale intervento nomofilattico
dedito, non solo a dimostrare l’irrilevanza della tanto dibattuta ripartizione
per categorie, ma anche a costruire sulle sue ceneri un nuovo impianto in
cui garanzia propria e impropria camminano di pari passo lungo tutto il
corso del processo.
2. – È diffusa l’opinione secondo cui, mentre nella garanzia propria
sono da ricondurre tutti i fenomeni in cui il rapporto di garanzia ha origine
e previsione nella legge e dipende dall’azione principale (14), quella impropria sorge da rapporti meramente fattuali (15), in assenza di esplicitazioni nella legge o di veri vincoli giuridici. Ne consegue, in dottrina (16),
che la garanzia impropria, lungi dal costituire una autonoma species del
genus «garanzia», rappresenta un fenomeno diverso, «un aliud solo latamente accostabile al primo per certi profili procedurali» (17). L’obbligo
del chiamato, in altri termini, andrebbe qui qualificato come un qualsiasi
obbligo risarcitorio (per inadempimento contrattuale o responsabilità
aquiliana) idoneo a tradursi in una pretesa del danneggiato solo in ragione
della concatenazione fattuale ed occasionale dei rapporti (18). In altri
(14) Ragione questa che giustifica la possibilità di dedurre da subito, sia pure in via
condizionata alla vittoria dell’attore, in base all’art. 106 c.p.c. seconda parte, la chiamata del
garante ad opera del garantito all’interno dello stesso processo instaurato contro quest’ultimo dall’attore (Consolo, Spiegazioni, cit., 78).
(15) Cosı̀ più o meno tutta la dottrina sul tema. Questa la definizione di Merlin,
Commento all’art. 32, in Codice di procedura civile, diretto da Consolo, Torino 2013, vol.
I, 462 ss., spec. 464.
(16) Consolo, Spiegazioni, cit., vol. II, 75 ss., spec. 78, per un quadro di sintesi del
pensiero dell’A.; vd. anche Consolo, Il cumulo condizionale di domande, II, cit. 600; Id., In
tema di chiamata in causa, cit. 1698; Consolo, Baccaglino, Godio, Le Sez. Un., cit., 594. Nel
medesimo senso, Monteleone, voce Garanzia, cit., 2; La China, voce Garanzia, cit., 467; Id.,
Simiglianze e dissimiglianze fra la garanzia propria e l’impropria, in Giur. it. 1962, I, 1, 36 ss.,
spec. 37; De Petris, voce Connessione, in Enc. dir., vol. IX, Milano 1961, 10 ss., spec. 13;
Costa, voce Chiamata in garanzia, cit., 171; Tarzia, Sulla nozione di garanzia impropria, cit.,
326; Comastri, Commento all’art. 32, in Commentario del codice di procedura civile, diretto
da Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, vol. I, Milano 2012, 448 ss., spec. 452, pur
criticandone il rilievo ai fini dell’art. 32 c.p.c. Nello stesso senso, già Calamandrei, La
chiamata in garantia, Milano 1913, ora in Opere giuridiche, a cura di Cappelletti, con
presentazione di Carnacini, vol. V, Napoli 1972, 9 ss., spec. 124.
(17) Consolo, Spiegazioni, cit., 78.
(18) Consolo, Spiegazioni, cit., 79.
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termini, nella garanzia impropria sarebbe individuabile una «catena processuale» di azioni omologhe occasionate l’una dall’altra ma non connesse
per titolo o per oggetto, né legate da pregiudizialità-dipendenza, unico
elemento di comunanza essendo dato da «questioni» (19). Quanto alla
prassi ricorrente di ritenere applicabile alla garanzia impropria l’art. 106
c.p.c., parte seconda, collegato all’art. 269 c.p.c., rileva ancora Consolo
come, piuttosto che parlare di vera e propria garanzia, «meglio sarebbe
parlare di ‘chiamata impropriamente detta’, poiché la si finge tale per
utilizzare uno strumento tutto sommato comodo ed utile ad una più
compiuta decisione di tutte le liti affini, quale è, certo, l’art. 106 seconda
parte» (20).
Non vi è quindi una ostilità di fondo all’applicazione del regime della
garanzia propria a quella impropria (anche l’A. riconoscendo l’utilità pratica nel consentire – quanto meno (21) – la chiamata in giudizio del
garante improprio); l’atteggiamento critico si muove piuttosto sul profilo
classificatorio, negando che le relative fattispecie appartengano a fenomeni
di «garanzia» (22).
In posizione opposta si colloca chi osteggia la linea giurisprudenziale
fondata sul noto distinguo (23). Tutto ruota intorno alla connessione per
pregiudizialità-dipendenza, rispetto alla quale – stando a questa seconda
opzione – non vi è distinzione a seconda che si tratti dell’uno o dell’altro
modello di garanzia (24). Si rileva come, da un lato, l’«identità di titolo» –
intorno a cui suole ricostruirsi la garanzia propria e che mancherebbe per
quella impropria – è caratteristica che contraddistingue solo alcune forme
di essa (la fideiussione, non anche la garanzia per evizione), e che compare
pure in alcune tipologie di garanzia impropria (le vendite a catena); da un
(19) Ancora Consolo, op. loc. cit., rievocando l’esempio classico delle vendite a catena,
ma non diversamente per più contratti di trasporto in consecuzione dello stesso bene, tutte
fattispecie di connessione impropria.
(20) Consolo, Spiegazioni, cit., 80.
(21) Non ugualmente con riferimento all’art. 32 c.p.c., che la giurisprudenza esclude(va) per la garanzia impropria con il consenso dell’A.
(22) Sulla stessa posizione Monteleone, voce Garanzia, cit., 1, nonché – in misura più o
meno evidente – gli AA. citati retro nt. 16.
(23) Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2014, 350 ss. spec. 356;
Gambineri, Garanzia, cit., 171; Luiso, Diritto processuale civile, vol. I, Milano 2015, 345;
Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, vol. I, Bari 2015, 178. Sulla stessa direzione
sembra muoversi Comoglio, Il principio di economia processuale, vol. I, Padova 1980, 93.
(24) Ancora Gambineri, Garanzia, cit., 160 ss., includendovi pure le vendite a catena.
Conf., Proto Pisani, Lezioni, cit., 356; Balena, Istituzioni, cit., 179. Individua una connessione (non un vincolo meramente fattuale) pur senza tirare in ballo la pregiudizialità-dipendenza, Carratta, Requiem, cit., 591.
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altro, non è corretto ricondurre la garanzia impropria a meri vincoli di
fatto tra situazioni soggettive autonome (25). Vi è in altri termini nella
garanzia (quale che ne sia la natura) una azione avente ad oggetto un
diritto «condizionato nell’esistenza e nell’ammontare al diritto oggetto
originario del giudizio» (26); il che è quanto basta per ricondurre entrambe le categorie alla pregiudizialità-dipendenza.
3. – Questo l’humus da cui si staglia la voce delle Sezioni Unite.
Il caso di specie su cui sono chiamate a pronunciare è dei più dibattuti:
quello dell’assicurazione (27) contro la responsabilità civile (28). L’ordinanza di rimessione solleva il dubbio intorno alla qualificazione del relativo
rapporto contrattuale in termini di garanzia propria o impropria, al cospetto, da un lato, di una giurisprudenza oscillante (29), da un altro,
dell’esigenza – quale che sia la catalogazione privilegiata – di estendere
alla fattispecie la disciplina processuale della garanzia.
A monte si pone il più generale problema classificatorio, che perciò le
Sezioni Unite colgono l’occasione per esaminare funditus (e risolvere in via
sperabilmente stabile). L’esame si sviluppa a tutto tondo, sotto ogni profilo rispetto a cui la distinzione tra garanzia propria e impropria assume
valore in giudizio: la questione di competenza (art. 32 c.p.c.), la chiamata
in causa (art. 106 c.p.c.), l’estromissione del garantito (art. 108 c.p.c.), la
pluralità di parti in fase di gravame (art. 331, 332 c.p.c.).
Date per acquisite le due nozioni di garanzia propria e impropria, la
sentenza ritiene il discrimine «più apparente che reale», sı̀ da relegarlo
«soltanto a livello descrittivo delle varie fattispecie di garanzia», ma abbandonandolo in relazione alle ricadute applicative sul processo (artt. 32,
108, 331 c.p.c.).
Il percorso è capillare.
Quanto alla competenza – rectius, alla compatibilità del distinguo con
l’art. 32 c.p.c. – la ricostruzione va oltre il problema specifico ed interessa
l’istituto nel suo insieme. Dovendosene in primo luogo delimitare i confini
in relazione all’art. 106 c.p.c., non ha dubbi la sentenza (in linea con una
(25) Gambineri, Garanzia, cit., 143 ss.
(26) Gambineri, Garanzia, cit., 178.
(27) Su cui infra § 8.
(28) Più specificamente, si trattava di valutare se l’impugnazione proposta dalla società
assicuratrice riguardo al rapporto principale inerente la responsabilità dell’assicurato potesse
estendere i suoi effetti a favore di quest’ultimo, il quale, costituendosi, aveva condiviso le
medesime ragioni, pur in assenza di una esplicita impugnazione sul punto da parte sua.
(29) Amplius infra § 8.
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posizione già da tempo condivisa (30)) nel ritenere che l’art. 32 c.p.c.
operi, sia quando il cumulo processuale si realizza ab origine, sia quando
si verifica lite pendente.
Quanto poi all’ulteriore distinzione tra la chiamata cd. non innovati31
va ( ) – in cui l’allargamento del giudizio è solo di tipo soggettivo – e
quella cd. innovativa – che, oltre all’estensione soggettiva, realizza un
ampliamento oggettivo del processo (32) (fattispecie entrambe appartenenti all’art. 106 c.p.c. (33)) – la sentenza delimita i confini dell’art. 32 c.p.c.,
nel senso che le modificazioni della competenza per ragioni di garanzia
valgono solo nel secondo caso, non anche nel primo.
Il passaggio logico, seppure intuibile, mostra una qualche incertezza
argomentativa. Esso lascia intendere che l’art. 32 c.p.c. – disposizione
senz’altro votata a favorire spostamenti di competenza in senso verticale
– possa anche consentire modificazioni della competenza per territorio,
quando la causa di garanzia si aggiunge (lite pendente) a quella principale
(si realizza una estensione oggettiva). Si finisce cosı̀ per ritenere che la
norma operi nella sola chiamata cd. innovativa, solo qui l’allargamento
(30) Per tutti Gambineri, Garanzia, cit., 426.
(31) La terminologia (chiamata innovativa-non innovativa) non è quella usata dalla
sentenza (cosı̀ invece Luiso, Diritto processuale, cit., vol. I, 334), che preferisce riferirsi ad
un «allargamento oggettivo o soggettivo» del giudizio.
(32) La distinzione sta in ciò che, a seguito di chiamata non innovativa, il giudizio
subisce un allargamento solo soggettivo; sicché, pur non incidendo sul suo oggetto (il quale
resta «quello relativo al modo di essere del rapporto principale»), se ne realizza un ampliamento sotto il profilo soggettivo «perché l’ingresso del garante nel processo determina che
l’accertamento, sotto il profilo dei limiti soggettivi del giudicato, si estenderà al terzo, cui
invece, in difetto della chiamata, non si sarebbe in alcun modo esteso». La chiamata innovativa si ha invece quando il garante è evocato in giudizio, non solo per chiedere l’estensione
nei suoi confronti dell’accertamento sul rapporto principale, ma anche per formulare una
richiesta di accertamento della esistenza del rapporto di garanzia: si ha quindi una estensione anche di tipo oggettivo (cosı̀ le Sezioni Unite). L’ipotesi dell’allargamento solo soggettivo del giudizio è riferita all’art. 106 c.p.c., anche se – osservano Consolo, Baccaglino,
Godio, op. cit., 597 – in relazione alla «comunanza di causa» (art. 106 comma 1 prima parte
c.p.c.), diversamente da come la impostano le Sezioni Unite, riconducendola alla «chiamata
in garanzia» («qui si tratta solo di terminologicamente intendersi»: Consolo, Baccaglino,
Godio, op. cit., 598).
(33) Circa i poteri processuali, la sentenza assimila il chiamato «non innovativo», non
già – come tradizionalmente si ritiene – all’interventore adesivo dispendente (ancorché
interessato a sostenere le ragioni del garantito), bensı̀ all’interventore adesivo autonomo,
in quanto dotato di poteri suoi propri a tutela di un interesse proprio. Criticamente Consolo, Baccaglini, Godio, op. cit., 598, sia perché, nel descrivere tali poteri, la sentenza finisce
per evocare quelli propri dell’interventore adesivo dipendente, sia perché si parificano cosı̀
due situazioni che andrebbero mantenute distinte. Critico anche Carratta, Requiem,
cit., 592.
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oggettivo del processo potendo giustificare uno spostamento di competenza per valore.
Vale la pena chiedersi tuttavia perché non ammettere lo spostamento
di competenza territoriale nelle ipotesi in cui, chiamato il garante in via
non innovativa, l’eventuale modificazione della competenza avvenga solo
in senso orizzontale. Presumibilmente, la decisione muove dalla considerazione che l’ingresso della garanzia nel processo assume valore ai fini
dell’art. 32 c.p.c. quando nei confronti del garante si propone una «domanda» (si estende l’oggetto del giudizio), unica ipotesi che direttamente
interessa la disposizione; sicché, il pur possibile spostamento di competenza territoriale va considerato ancillare e succedaneo a quello in senso
verticale.
In effetti, ove di solo spostamento della competenza territoriale si
dovesse parlare (in caso di allargamento soggettivo del giudizio), non
entrerebbe in gioco l’art. 32 c.p.c., bensı̀ eventualmente l’art. 33 c.p.c.
Certo è che – al cospetto di una sentenza che non risparmia energie nella
ricostruzione di interi istituti – una maggiore chiarezza sul punto (non
limpidamente risolto nella prassi applicativa) avrebbe agevolato l’opera
dell’interprete (34).
Quanto alla ripartizione «garanzia propria/impropria», le Sezioni Unite rilevano come l’art. 32 c.p.c. – quand’anche limitato alla sola cd. chiamata non innovativa – non pone limiti a seconda che la fattispecie in gioco
sia dell’uno o dell’altro tipo (35). Di là dalla distinzione tra chiamata
innovativa e non innovativa, infatti, un qualsiasi altro distinguo – tale da
poter segnare i confini dell’art. 32 c.p.c. – sarebbe privo di addentellati
testuali o giustificazioni logiche.
In estrema sintesi, questi i risultati raggiunti intorno all’art. 32 c.p.c.
a) La disposizione, letta in rapporto all’art. 106 c.p.c., opera, sia
quando il cumulo tra azione principale e di garanzia è realizzato ab initio,
sia quando consegue a chiamata in causa;
(34) Sul tema sia consentito rinviare a Tiscini, Commento all’art. 32, cit., in Delle
modificazioni della competenza per ragioni di connessione. Del difetto di giurisdizione, dell’incompetenza e della litispendenza, Bologna, 2016, in corso di pubblicazione.
(35) Criticamente su tale soluzione Consolo, Baccaglini, Godio, op. cit., 598, osservando come ciò finisce per determinare un ampliamento della nozione di comunanza di causa
dell’art. 106 comma 1 prima parte c.p.c., tradizionalmente intesa come legittimata da una
connessione per oggetto e/o per titolo della domanda o per netta pregiudizialità fra rapporti
e che oggi verrebbe allargata anche ai casi di connessione tra domande che abbiano in
comune solo mere ragioni di fatto. L’osservazione muove dal significato assegnato dagli AA.
(in conformità all’opinione già espressa da Consolo, cu cui retro § 2) nel senso di collocare la
garanzia impropria al di fuori delle fattispecie di vera e propria garanzia.
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b) essa va però circoscritta (sempre nei suoi rapporti con l’art. 106
c.p.c.) alle sole ipotesi di cd. chiamata innovativa (con allargamento, tanto
oggettivo, quanto soggettivo del processo);
c) in ogni caso, né dall’art. 32 c.p.c., né altrove si può trarre la distinzione tra garanzia propria e impropria, perciò da relegare a ruolo
«descrittivo», senza incidere sulla portata applicativa della norma ai fini
dello spostamento di competenza per ragioni di connessione (36).
Il tutto, applicato al caso dell’assicurazione contro la responsabilità
civile, sminuisce l’acceso dibattito (37). Pur essendo già la giurisprudenza
giunta alla conclusione di ritenere qui operante l’art. 32 c.p.c., il percorso
seguito è stato tortuoso e plurimi i voli pindarici spesso compiuti per
giungere al risultato. Oggi la risposta al problema è trasparente: la deroga
alle regole di competenza in presenza di partecipazione (innovativa) dell’assicuratore per la responsabilità civile è ben possibile, quale che ne sia la
categoria di appartenenza (propria o impropria). Il resto ha valore puramente «descrittivo».
4. – Occorre poi individuare i confini della disciplina processuale della
garanzia (nell’alternanza tra propria e impropria), quanto all’estromissione
del garantito (art. 108 c.p.c.) ed alla pluralità di parti nei giudizi di impugnazione (artt. 331 e 332 c.p.c.).
Il distinguo non merita riguardo neppure sotto il profilo dell’estromissione del garantito. Premessa del discorso (38) è (a dispetto dell’opinione
maggioritaria (39)) nel senso che l’art. 108 c.p.c. si applichi, sia alla partecipazione del garante con allargamento dell’oggetto del giudizio, sia quando essa è soltanto soggettiva (40). Con la precisazione tuttavia – come
opportunamente rilevato non solo a commento della sentenza (41), ma
anche in tempi non sospetti (42) – che l’estromissione del garantito, ove
il garante abbia partecipato al giudizio con estensione della domanda nei
suoi confronti, è concretamente configurabile qualora egli rinunci alla
domanda di condanna svolta verso il garante (43).
(36)
(37)
(38)
(39)
(40)
cit., 592.
(41)
(42)
(43)
Criticamente, ancora, Consolo, Baccaglino, Godio, op. loc. cit.
Su cui amplius infra § 8.
Non diversamente da come visto in relazione all’art. 32 c.p.c. (§ precedente).
Per tutti, Consolo, Spiegazioni, cit., vol. II, 88; Luiso, Diritto, cit., vol. I, 356.
Criticamente Consolo, Baccaglino, Godio, op. cit., 599; Carratta, Requiem,
Consolo, Baccaglino, Godio, op. cit., 599.
Luiso, Diritto, vol. I, cit., 356.
Ipotesi scarsamente configurabile in concreto, difficilmente immaginandosi la
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Guardata poi l’estromissione in relazione alla garanzia propria/impropria, nuovamente se ne sminuisce il discrimen, ammettendo l’uscita del
garantito dal processo, sia nell’uno che nell’altro caso. Anche qui, argomento forte è la mancanza di indici normativi che militino in direzione
contraria a quella privilegiata.
Non diversa la scelta in ordine al modo di intendere il processo litisconsortile in fase di gravame. La disamina è puntuale, con riferimento a
tutte le situazioni configurabili, che tengano conto dell’oggetto del giudizio
in primo grado, da un lato (con particolare riguardo all’alternativa «chiamata innovativa/non innovativa»), e dell’esito della decisione impugnata,
dall’altro. In estrema sintesi, tuttavia, lo sviluppo argomentativo finisce per
non distinguere tra garanzia propria e impropria, immaginando l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. anche in questo secondo caso, a dispetto dell’orientamento sino ad ora ritenuto dominante (44).
Vi è – evidente – l’interesse della Suprema Corte a svilire sotto ogni
profilo processuale un criterio discretivo che sino a ieri ha governato il
sistema. La logica è analoga a quella già individuata (45): offrire una
soluzione semplificante che getti acqua sul fuoco intorno ad una ripartizione per categorie che, lungi dal trovare conferma in chiari testi di legge,
disponibilità del garantito alla rinuncia agli atti e la contestuale accettazione del garante alla
domanda di garanzia (Consolo, Baccaglino, Godio, op. cit., 599). Di qui l’auspicio per un
ripensamento.
(44) Anche questo è settore in cui la distinzione tra garanzia propria e impropria ha
dato mostra di conseguenze (negative) non certo confortanti sul piano della certezza del
diritto. Nel dubbio se nella garanzia impropria le cause (principale e di garanzia) fossero
legate da un vincolo di inscindibilità (art. 331 c.p.c.) o scindibilità (art. 332 c.p.c.), prevaleva
l’opinione favorevole alla qualificazione in termini di scindibilità (Cass. 16 maggio 2013, n.
11968; Cass. 4 febbraio 2010, n. 2557; Cass. 22 gennaio 2010, n. 1197; Cass. 4 giugno 2007,
n. 12942; Cass. 23 aprile 2007, n. 9648; contra Cass. 26 aprile 1999, n. 4156). Con tutte le
conseguenze che ne derivavano, ad esempio nel senso che la tempestiva notifica dell’impugnazione nei confronti del chiamato in garanzia impropria da parte degli altri soccombenti
in prime cure non consentiva la sanatoria dei difetto di notifica al convenuto «giusta parte»,
mediante integrazione del contraddittorio, possibile solo in ipotesi di cause inscindibili ex
art. 331 c.p.c. (Cass. 25 luglio 2013, n. 18044), ovvero nel senso che l’evento interruttivo che
in primo grado colpiva il garante determinava la sola interruzione della causa di garanzia
(Cass. 22 aprile 2013, n. 9686). Quanto al caso specifico dell’assicurazione per la responsabilità civile, la giurisprudenza non mancava ancora di mostrarsi oscillante per altri profili:
prevale(va) la qualificazione in termini di garanzia impropria, cosı̀ facendola rientrare tra le
ipotesi di cause scindibili dell’art. 332 c.p.c. (Cass. 22 aprile 2013, n. 9686; Cass. 6 febbraio
1990, n. 797, cit.), ma contraddicendo l’orientamento altrove invocato secondo cui si tratterebbe di una forma di garanzia propria in ragione della portata dell’art.1917 c.c. (su cui
amplius infra § 8).
(45) Retro § precedente.
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affonda le radici su artifici interpretativi che non pagano nella prospettiva
di armonia e semplificazione nell’ordinamento.
5. – La fermezza dell’intervento nomofilattico induce a ben sperare
intorno alla possibilità che sulla questione sia posto il punto. Qualche
ulteriore riflessione varrà a confermare le conclusioni raggiunte.
A dispetto dell’apparenza (supportata dalla costante trasmissione di
slogan definitori sempre uguali a sé stessi), l’individuazione dell’esatta linea
di confine tra «garanzia propria ed impropria» non ha mancato di mostrare in passato talune incertezze (il che avvalora l’inopportunità del
distinguo sul piano processuale (46)); incertezze evidenti sotto il profilo,
tanto strutturale, quanto funzionale.
È il caso delle vendite a catena (ipotesi classica di garanzia impropria),
ove posta a confronto con la garanzia per evizione (tipicamente ricondotta
a quella propria). Che nelle vendite a catena non sia dato ravvisare una
vera e propria obbligazione di garanzia (47) non pare condivisibile, né
sotto il profilo strutturale, né ex latere di quello funzionale. Dal punto
di vista strutturale, non sembra in effetti mancare qui una connessione in
termini giuridici (pregiudizialità-dipendenza) (48); conclusione raggiungibile per il confronto con la garanzia per evizione. In quest’ultima (art.
1483 c.c.), la possibilità del compratore di rivalersi sul venditore a seguito
di diritti vantati da terzi sulla cosa venduta (e dunque chiamare in causa il
venditore) non di molto si discosta da quella riconosciuta al dettagliante di
rivalersi sul produttore (suo venditore) per i vizi della cosa venduta (nelle
vendite a catena).
In entrambi i casi vi è dipendenza tra domande. Unica differenza sta
nel fatto che, mentre nell’evizione l’azione di garanzia costituisce oggetto
autonomo ed esclusivo della domanda (di garanzia), nelle vendite a catena,
la possibilità del compratore di rivalersi sul dettagliante (ed a sua volta
quest’ultimo sul produttore) assume una doppia veste: da un lato, di
obbligazione autonoma e di per sé principale (una delle azioni edilizie o
omologhe descritte nel codice civile (49)), da un altro, di garanzia che
consente al debitore principale di essere manlevato per le conseguenze
negative che dovessero derivargli da una eventuale condanna nei suoi
(46) Sul punto insiste la dottrina (Costa, voce Chiamata in garanzia, cit., 171; Gambineri, Garanzia, cit., 143 ss.; Merlin, Commento all’art. 32, cit., 465).
(47) Cosı̀ Consolo, Spiegazioni, cit., 79 (retro § 2).
(48) Gambineri, Garanzia, cit., 171 (retro § 2).
(49) Ancora Consolo, Spiegazioni, cit., 79.
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confronti. Sul piano strutturale, però, nessuna differenza di rilievo distanzia le due fattispecie (50).
Anche il profilo funzionale non evidenzia diversità significative. Se
nella garanzia per evizione è chiaro l’intento perseguito dal compratore
nell’agire nei confronti del venditore, non meno trasparente è il medesimo
scopo nelle vendite a catena. È ben vero – come osserva Consolo (51) –
che la garanzia per vizi vantata, nelle vendite a catena, nei confronti del
grossista si risolve in una normale pretesa contrattuale, che poteva essere
esercitata pure a prescindere dalla pendenza della causa del consumatore
contro il dettagliante e dal suo esito (52). Tuttavia, né la proponibilità in via
autonoma dell’azione nei confronti del grossista (quella che dovrebbe
essere «di garanzia»), né il fatto che tale azione trovi una sua causa contro
il grossista, a prescindere dall’effetto di garanzia in favore del commerciante, possono valere quali giustificazioni per negare che quel rapporto
tra commerciante e dettagliante (intorno alla vendita della cosa) abbia una
funzione di garanzia.
Tutto (e solo) ruota intorno al fatto (lo si ripete) che nelle vendite a
catena – a differenza che nell’evizione – la medesima operazione economica ha una duplice veste: da un lato, di manleva (in ragione del vincolo
contrattuale che lega i soggetti della catena), da un altro, di autonoma
azione (a prescindere dalla garanzia). Al netto di questa distinzione, nulla
cambia sotto il profilo della garanzia.
6. – A sostegno delle peculiarità della garanzia impropria, si è solitamente addotto il fatto che, mentre la garanzia propria è esplicitata nella
legge, le fattispecie di garanzia impropria dipendono da legami di mero
fatto, in assenza previsione normativa. L’assunto – in ogni caso smontato
dalle Sezioni Unite, per la sua irrilevanza nel contesto processuale – è
contraddetto dalla disciplina (relativamente) nuova della «vendita dei beni
di consumo» (53).
(50) Individua invece una differenza strutturale tra i due modelli di garanzia Carratta,
Requiem, cit., 588, ravvisando nella mancata rilevazione di tale differenza il principale vizio
del percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite pur nella condivisibilità della conclusione a cui giungono.
(51) Consolo, Spiegazioni, cit., 79.
(52) È quindi corretto affermare che «la domanda del dettagliante si risolve in una
richiesta al giudice di accogliere una domanda ben diversa, per titolo (un diverso contratto)
ed oggetto (un diverso prezzo)»; tanto vero che «se il dettagliante avesse scoperto i vizi del
bene prima di venderlo al consumatore, egli avrebbe potuto ugualmente proporre la domanda di riduzione del prezzo contro il grossista» (Consolo, op. cit., 79).
(53) Approfonditamente sul tema, Prendini, L’azione di c.d. regresso del venditore finale
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L’art. 1519 quinquies c.c. contempla(va) il «diritto di regresso» (cosı̀ la
rubrica della disposizione) del venditore finale nei confronti del soggetto o
dei soggetti responsabili per ottenere la reintegra di quanto versato a
seguito dell’azione esercitata in suo danno dal consumatore a causa di
un difetto di conformità imputabile ad una azione od omissione del produttore. La disposizione è stata abrogata dall’art. 146 cod. cons. (d.lgs. n.
2005/206) e confluita nell’art. 131 del medesimo codice.
È evidente come la norma riproduca testualmente una fattispecie corrispondente alla garanzia derivante da vendite a catena. Vale dunque la
pena domandarsi se il fatto che il fenomeno sia stato riversato in un
esplicito testo di legge basti per giustificarne la mutazione genetica in
termini garanzia propria (54). Il meccanismo dell’art. 131 cod. cons. è
(salvo peculiarità che non incidono sul tema che ci occupa (55)) del tutto
corrispondente al diritto di regresso del dettagliante nei confronti del
produttore per essere manlevato dalle conseguenze negative dell’azione
esercitata dal consumatore contro di lui; né ha senso ritenere che vi sia
qui una connessione diversa da quella delle vendite a catena. L’esplicita
previsione di legge non sposta i termini della questione: si tratta di una
azione di regresso esperibile in ragione, tanto della disciplina positiva,
quanto del vincolo tra i rapporti contrattuali, tale che l’uno dipende dall’altro ed è idoneo a produrre l’effetto della garanzia (56).
7. – Ad ulteriore avallo dell’opzione che scredita la distinzione tra
garanzia propria ed impropria si colloca il contesto europeo (argomento
questo invocato, tanto dalle Sezioni Unite nel noto arresto, quanto dall’ordinanza di rimessione n. 16780/14).
fra garanzia «propria» e «impropria»: profili processuali e comparatistici, in Corr. giur., 2005,
121 ss.
(54) A questa conclusione giunge Prendini, L’azione c.d. di regresso, cit., 126, seppure
alla luce di una più attenta disamina della disciplina positiva e dei poteri delle parti. Conf.
Consolo, Baccaglino, Godio, op. cit., 598.
(55) Diversamente Prendini, L’azione, cit., 127, rilevando come la disciplina (oggi)
regolata dal codice del consumo individua una ben precisa connessione riconducibile allo
schema della pregiudizialità-dipendenza tra la causa proposta dal consumatore contro il
venditore finale, da una parte, e quella mossa da quest’ultimo nei confronti del proprio
grossista, dall’altra. Con la conseguenza di ricondurla entro lo schema processuale della
garanzia propria (di natura «meramente indennitaria» in quanto limitata ex lege alla reintegrazione di quanto prestato al consumatore e condizionata alla circostanza che il venditore
finale abbia (già) ottemperato al convenuto dei rimedi esperiti dal consumatore).
(56) Contra, Consolo, Spiegazioni, cit., 85; Prendini, L’azione, cit., 128.
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Il Reg. CE n. 44/2001 (art. 6 n. 2), in parte qua recepito dal Reg. CE
1215/2012 (art. 8 n. 2) - con riferimento alla deroga alla giurisdizione
internazionale per ragioni di connessione - non conosce una distinzione
corrispondente a quella che in diritto interno segna il discrimen tra garanzia propria ed impropria. Entrambi i regolamenti tacciono, sia sulla definizione di «garanzia» (57), sia sulla ripartizione per categorie. Il che, se da
un lato, lascia libero l’interprete nel leggere le disposizioni alla luce del
modo di operare della normativa in ogni Stato membro, da un altro crea
problemi di coordinamento tra ordinamenti, proprio intorno al senso da
attribuire alla «garanzia» processualmente rilevante (58).
Il silenzio della disciplina transnazionale sull’alternanza tra garanzia
propria ed impropria sollecita l’abbandono del medesimo criterio pure
nel panorama nazionale (59), se non altro nella prospettiva dell’armonizzazione tra i sistemi giurisdizionali. In assenza di dato normativo (e con
l’avallo della dottrina maggioritaria (60)), la stessa Corte di giustizia CE
non ha mancato di lanciare un monito nel senso di auspicare l’abbandono
della distinzione, foriera di ingiustificabili distanze tra i Paesi dell’Unione.
Monito che la Suprema Corte ha recepito sminuendo l’utilità del criterio
classificatorio (61), secondo una linea già da tempo condivisa dalle Sezioni
Unite (62) ed oggi da esse confermata (63).
(57) Lo nota – con riferimento al Reg. n. 44/2001 – D’Alessandro, La connessione tra
controversie transnazionali. Profili sistematici, Torino 2009, 84.
(58) In questo senso D’Alessandro, La connessione, cit., 84.
(59) Gambineri, Garanzia e processo, cit., vol. II, 413.
(60) Gambineri, op. loc. cit.; Balena, I nuovo limiti della giurisdizione italiana (secondo
la legge 31 maggio 1995, n. 218), in Foro it. 1996, V, 210 ss., spec. 222; D’Alessandro, op.
cit., 87; Martino, La giurisdizione italiana nelle controversie civili transnazionali, Padova
2000, 283; De Cristofaro, Perpetuatio jurisdictionis e competenza giurisdizionale per connessione, in Corriere giur. 2001, 921.
(61) In questo senso già Cass., sez. un., 12 marzo 2009, n. 5965; Cass., sez. un., 2 aprile
2009, n. 7991. La giurisprudenza anteriore era in effetti orientata sul versante opposto,
protesa ad applicare – mutatis mutandis – i limiti interpretativi dell’art. 32 c.p.c. anche
all’art. 6.2. Conv. Bruxelles (Cass. 7 agosto 2001, n. 10891, in Int’lis 2003, 135, con nota
critica di Gambineri; Cass. 28 ottobre 2005, n. 20998, ivi 2007, 59; Cass., sez. un., 15 marzo
2007, n. 5978; Cass. 15 marzo 2007, n. 59, in Riv. dir. int. priv. proc. 2008, 173, seppure con
una prima apertura verso la soluzione opposta).
(62) Cass., sez. un., 28 maggio 2012, n. 8404.
(63) È su Cass., sez. un., 28 maggio 2012, n. 8404, cit. che l’ordinanza di rimessione alle
Sezioni Unite n. n. 16780/14 giustifica il dubbio intorno alla natura della garanzia dell’assicurazione contro la responsabilità civile: l’opportunità di rinviare la questione alle Sezioni
Unite, infatti, sta nel fatto che non può spettare ad una sezione ordinaria stabilire se siffatta
distinzione continui a rilevare «ove si tratti di rapporto sorto e concluso all’interno del
territorio nazionale, e dunque spettante alla giurisdizione nazionale». Dubbio poi confermato dalla decisione in epigrafe.
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Che la distinzione non valga per limitare l’ambito dell’art. 6.2. cit. – è
stato opportunamente osservato (64) – trova conferma nell’interpretazione
seguita per la Convenzione di Bruxelles. La relazione Jenard alla Convenzione, per esemplificare la portata dell’art. 6.2. conv., evocava proprio
l’esempio della chiamata in garanzia a seguito di vendite a catena, ipotesi
di garanzia impropria nel diritto interno; ciò «all’evidente scopo di consentire la regolamentazione unitaria dell’intera vicenda storica complessa
all’interno di un unico ordinamento, i.e. senza necessità di agire in più
battute e, per giunta, in differenti sedi processuali. In questo modo, si evita
senz’altro il rischio di incorrere in sentenze pronunciate in diversi ordinamenti e tra di loro con motivazioni contrastanti» (65).
8. – Che il criterio discretivo tra garanzia propria ed impropria sia
fondato su basi tutt’altro che solide è confermato proprio dall’esperienza
venuta formandosi intorno all’assicurazione contro la responsabilità civile
(di cui le Sezioni Unite si occupano nel caso specifico) (66).
Il problema è risolto in apicibus dalla sentenza in epigrafe, in quanto,
una volta negato il noto distinguo a fini processuali, cade di riflesso l’esigenza di catalogare la fattispecie concreta. Tuttavia, la vicenda (ormai)
storica conferma la conclusione già altrove avallata.
A fronte di un orientamento che qualificava la fattispecie in termini di
garanzia «impropria» (67), se ne poneva un altro (68) (piuttosto diffuso),
che, pur riconducendo l’assicurazione contro la responsabilità civile nella
garanzia impropria, ammetteva l’applicazione delle regole processuali riservate alla garanzia propria ed (indebitamente) escluse per quella propria
(artt. 32, 106, 108, 331, 332, 334 c.p.c.) (69). Argomento a favore di questa
(64) D’Alessandro, La connessione, cit., 86.
(65) D’Alessandro, La connessione, cit., 86.
(66) La questione si pone in tutti i casi diversi dalla responsabilità civile per sinistri
derivanti dalla circolazione di veicoli a motore e natanti, per i quali l’art. 144 l. n. 209/2005
riconosce l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore, nonché una ipotesi di litisconsorzio necessario tra danneggiante, danneggiato ed assicuratore.
(67) Cass. 27 giugno 2006, n. 14813; Cass. 16 marzo 2005, n. 5671; Cass. 13 settembre
1997, n. 9136.
(68) Cass. 4 maggio 2004, n. 8458; Cass. 17 aprile 1990, n. 3182; Cass. 6 febbraio 1990,
n. 797; Cass. 6 febbraio 1985 n. 895; Cass. 26 gennaio 1984, n. 620.
(69) Alla medesima conclusione sul piano processuale giungeva, sia la dottrina contraria
al discrimen tra garanzia propria ed impropria (Gambineri, op. loc. cit.; Id, Notizie buone,
cattive e pessime in tema di chiamata in garanzia, in Foro it. 2005, I, 2358), sia quella ad essa
favorevole (La China, voce Garanzia, cit. 475; Id., La chiamata in garanzia, cit., 192; Franchi,
Delle modificazioni della competenza per ragioni di connessione, cit., 301). Concorde sulla
qualificazione come garanzia propria, Tarzia, Sulla nozione di garanzia impropria, cit., 326;
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soluzione era il rinvio all’art. 1917 comma 4 c.p.c., il quale, consentendo
all’assicurato di chiamare in causa l’assicuratore, offriva un addentellato
testuale per ricondurre la fattispecie alla previsione normativa (70).
È dovuto ad un passato intervento delle Sezioni Unite (71) l’affermarsi
della qualificazione in termini di garanzia propria dell’assicurazione contro
la responsabilità civile (pur nel ribadire la differenza formale e processuale
tra i due modelli) (72). Tuttavia, nonostante quest’ultima scelta, i dubbi
sono rimasti aperti (non tanto in relazione alla distinzione tra le forme di
manleva, quanto ex latere della qualificazione dell’assicurazione per la
responsabilità civile) per la presenza di una certa linea giurisprudenziale
persistente nel qualificare quel fenomeno contrattuale in termini di garanzia impropria (73).
Le incertezze sono confluite nella rimessione alle Sezioni Unite. Su ciò
che ne è venuto dopo ci si è già abbondantemente soffermati. L’esperienza
giurisprudenziale appena descritta resta tuttavia degna di considerazione a
dimostrazione dei dubbi applicativi generati dal distinguo, ed a conferma
perciò degli artifici che lo hanno sempre accompagnato.
In altre parole, il caso della assicurazione contro la responsabilità civile
conferma l’illogicità di una distinzione troppo solida sul piano teorico e
troppo oscillante nei risultati concreti. Di qui ancora una volta l’opportunità (e condivisibilità), non solo della maggiore ampiezza dell’intervento
uniformatore delle Sezioni Unite – allo scopo di abbattere il discrimen una
volta per tutte – ma anche della relativa decisione sul tema specifico. Per il
futuro si può ben sperare.
ROBERTA TISCINI
Professore ordinario nell’Università di Roma “La Sapienza”
Consolo, Spiegazioni, cit., 80. Nel senso invece che si tratti di garanzia impropria, Calamandrei, La chiamata, cit., 23. Per una ricostruzione del fenomeno sotto i diversi profili, La
China, voce Garanzia, cit., 473.
(70) L’argomento era ritenuto pretestuoso, dal momento che, cosı̀ facendo, si finiva per
assegnare all’art. 1917 comma 4 c.c. una ratio diversa da quella sua propria (Gambineri,
Garanzia, cit., 169-170).
(71) Cass., sez. un., 26 luglio 2004, n. 13968, cit.
(72) Cass., sez. un., 26 luglio 2004, n. 13968, cit.
(73) Cass. 18 maggio 2011, n. 10919; Cass. 14 marzo 2008, n. 6896; Cass. 27 giugno
2006, n. 14813, cit.; Cass. 16 marzo 2005, n. 5671.
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CORTE DI CASSAZIONE, sez. VI civ., ordinanza 24 giugno 2015, n. 15619
Pres. Curzio – Rel. Arienzo
Assicurazioni Generali SPA c. P.
La distribuzione delle controversie tra il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, e la sezione specializzata in materia di impresa dà sempre luogo ad una questione di competenza, anche
quando entrambi gli organi siano istituiti presso il medesimo ufficio giudiziario, essendo conseguentemente sempre ammissibile il regolamento di competenza (massima non ufficiale).
(Omissis). – Il Tribunale di Trieste, in funzione di giudice del lavoro, con sentenza del
23.12.2014, per quel che rileva nel presente procedimento, dichiarava l’incompetenza per
materia del giudice del lavoro, in favore della sezione specializzata delle imprese, con riguardo all’azione risarcitoria proposta, ai sensi dell’art. 2396 c.c., dalla società Generali Assicurazioni p.a. nei confronti di P.G., nella sua qualità di Direttore generale della società, in
relazione al periodo antecedente all’aprile del 2001, – epoca in cui il predetto era diventato
amministratore delegato – per i danni derivati dall’errato investimento di titoli della società,
per un importo pari a 41,2 milioni dell’epoca, posto in essere quale dirigente.
Il giudizio era stato instaurato dalla società, in primo luogo, per l’impugnativa di un accordo transattivo concluso con il P. in data 20.7.2012, che ne aveva disciplinato l’uscita dal
gruppo Generali, prevedendo la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con revoca
del licenziamento preventivamente intimato e la rinuncia, da parte del dirigente, a tutte le cariche sociali in essere, la corresponsione di un incentivo all’esodo e la rinuncia a qualsiasi domanda azione o pretesa comunque connessa all’esecuzione e cessazione dei rapporti intercorsi
tra le parti, nonché un patto di non concorrenza della durata di un anno e mezzo.
Il Tribunale adito rigettava le domande tutte di parte ricorrente inerenti al verbale di
conciliazione in data 20.7.2012, ritenendo che la transazione conclusa, con effetti novativi,
non poteva essere annullata per errore, non essendo quest’ultimo connotato dal carattere
dell’essenzialità, né per dolo, e che non potesse accedersi all’ulteriore domanda di risoluzione del contratto di transazione per «presupposizione», ovvero per mancato avveramento
della situazione di fatto o di diritto tenuta in considerazione dalle parti nella formazione
del consenso, come presupposto condizionante la validità ed efficacia del contratto.
Quanto alla domanda di risarcimento del danno azionata nei confronti del P. per gli
inadempimenti posti in essere da quest’ultimo come dipendente (dirigente) nel periodo antecedente l’aprile 2001, il Tribunale rilevava che la diligenza era una modalità del comportamento dell’amministratore, che doveva agire con le dovute cautele, verifiche ed informazioni preventive che gli consentissero di gestire ragionevolmente l’incarico nelle operazioni
di maggior rilievo, e che tali oneri incombevano anche ai direttori generali dell’alta dirigenza con compiti di sovrintendenza gestionale, sicché, in particolare per le società assicurative, per le quali vi era una specifica regolamentazione in tema di controlli interni, l’eccesso
di potere, quale quello che aveva caratterizzato l’agire del P., e la mancata informativa delle
operazioni che andava a compiere concretizzavano una violazione assolutamente consapevole ed intenzionale degli obblighi caratterizzanti la sua duplice attività ed il suo duplice
ruolo di dipendente e direttore generale.
Nella specie, l’art. 2396 c.c., nella riserva delle «azioni esercitabili in base al rapporto
di lavoro con la società», attribuiva un’azione concorrente di risarcimento del danno derivante dalla violazione degli obblighi di diligenza, fedeltà e lealtà richiamati, incombenti sul
direttore generale, ciò nonostante che lo stesso potesse essere adito in giudizio anche con
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azione di responsabilità sociale, essendo un soggetto nominato per previsione statutaria
(art. 2396 c.c., prima parte).
Trattandosi di due azioni concorrenti, soggette alla cognizione di giudici diversi (Tribunale ordinario nella sezione specializzata per l’azione di responsabilità, giudice del lavoro, ex art. 2396 c.c.) proponibili da soggetti diversi e disciplinate da norme processuali differenti, la competenza doveva essere valutata dal giudice in ragione del petitum e della causa petendi dedotti dall’attore, sı̀ che le controdeduzioni del convenuto rilevavano soltanto
quando fossero volte a dimostrare che le domande erano state proposte innanzi al giudice
adito in modo artificioso al fine di sottrarle al giudice naturale. Nel caso all’esame, era ritenuto dal Tribunale strumentale e capzioso sostenere che il direttore generale – soggetto comunque ad azione di responsabilità ex art. 2396 c.c. – per violazione della diligenza richiesta nell’adempimento dei suoi doveri di amministratore e gerente della società, potesse, nello stesso tempo, per gli stessi fatti, essere convenuto in giudizio per i danni derivati dalla
violazione dei doveri di diligenza propri del suo essere anche lavoratore subordinato. Osservava il Giudice adito che la strumentalità dell’azione proposta innanzi al giudice del lavoro era evidente in ragione della mancanza degli estremi di gravità per un’azione di cui all’art. 2392 c.c. e segg., come desumibile dal contenuto dei documenti dimessi da parte resistente, nonché dal verbale prodotto dalla stessa.
In particolare, era stato ritenuto da quest’ultima che la quantificazione e prova degli effettivi e prevedibili danni causalmente derivati dagli inadempimenti del P. e di altro dirigente
erano aleatori e non attendibili e che anche per gli investimenti indiretti era da escludere che
dagli stessi fosse derivato un pregiudizio per la società, ovvero che esistessero condotte illecite
o viziate da conflitto di interesse ascrivibili al predetto, tanto da concludere per l’esistenza di
un quadro indiziario di inadempimento e danno difficilmente sostenibile in giudizio.
Peraltro, prima di azionare una domanda risarcitoria nei confronti del P., nella sua
qualità di dipendente e lavoratore subordinato, sarebbe stata necessaria – secondo il Tribunale – una previa contestazione degli addebiti, trattandosi di carenze e violazioni aventi natura e valenza disciplinare. La mancanza di una previa contestazione rendeva di per sé pretestuosa anche l’eventuale azione risarcitoria, ritenuto che la condotta della società, che aveva tollerato condotte assai gravi, quali gli eccessi di delega e le omesse comunicazioni al
consiglio, era stata idonea ad ingenerare nel dipendente l’affidamento nella irrilevanza delle
condotte allo stesso ricondotte, con riguardo al principio generale di immediatezza della
contestazione ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. Infine, doveva aversi riguardo, agli stessi fini, alla circostanza che un procedimento rapido quale quello del lavoro avrebbe consentito di bloccare l’adempimento dell’accordo concluso con altro dipendente, che, all’epoca,
non era stato ancora eseguito dalla società. Secondo il Tribunale anche l’impossibilità, alla
luce delle prospettazioni attoree e delle contestazioni del resistente, di individuare un ambito distinto tra i doveri del lavoratore subordinato – mai contestati nel corso del rapporto di
lavoro – e i doveri del P. quale Direttore generale, rendeva evidente l’incompetenza del giudice adito, come previsto dalle norme di cui all’art. 144 ter disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 50 bis c.p.c., che riguardavano propriamente le azioni di responsabilità ex art.
2396 c.c.
Avverso il capo della decisione che dichiara l’incompetenza del giudice del lavoro in
ordine all’azione risarcitoria, ricorre, per regolamento di competenza, la società Assicurazioni Generali p.a., rilevando che, se pure l’art. 2396 c.c., estende al Direttore generale nominato dall’assemblea o per statuto le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori, ciò comporta solo che la legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 2393 c.c. e
segg., competa anche ad altri soggetti e non anche la sottrazione del direttore alla normale
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giurisprudenza
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responsabilità che ogni dipendente ha nei confronti del datore di lavoro, né è idonea a mutarne i contenuti che l’art. 2392 c.c. (richiamato dall’art. 2396 c.c.) ribadisce in termini
pressoché identici a quelli di cui all’art. 2104 c.c.
Osserva la società che la norma di cui all’art. 2396 c.c., incide solo nel senso di rendere applicabili anche al Direttore generale le regole della responsabilità degli amministratori
in caso di violazione dei doveri allo stesso incombenti, pur non essendo il predetto assimilabile, quanto a competenze, all’amministratore, e non si traduce nel dare ingresso a un regime di responsabilità sostitutivo nei confronti del predetto, il quale resta pur sempre un lavoratore subordinato e continua ad essere sottoposto al regime di responsabilità proprio di
tale categoria di lavoratori.
Sotto il profilo processuale, rilevano le Generali Ass.ni che la sentenza non ha fatto
corretta applicazione dei principi in tema di tutele e rimedi risarcitori riconosciuti dall’ordinamento a fronte dell’inadempimento del Direttore generale ai propri doveri (violazione
degli artt. 409 e 413 c.p.c., degli artt. 2393 e 2396 c.c., del D.L. n. 17 del 2012, art. 3, comma 2˚, convertito dalla L. n. 27 del 2012, dell’art. 50 bis c.p.c. e dell’art. 144 ter disp. att.
c.p.c.), osservando che, diversamente da quanto sostenuto dalla sentenza, vi era lo spazio
per consentire una duplicità di azioni e ciò in dipendenza di quanto previsto dall’art. 2396
c.c., che, dopo avere esteso ai direttori generali nominati dall’assemblea o per statuto le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori, fa testualmente salve nei confronti dei medesimi direttori le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società. Rileva che la prima di esse è azionabile ad iniziativa dell’assemblea e dagli altri soggetti
di cui all’art. 2393 c.c., a differenza dell’altra, proponibile dal consiglio di amministrazione,
e che le tutele riguardano non solo responsabilità disciplinari, ma anche risarcitorie.
Evidenzia, infine, la ricorrente che è il consiglio di amministrazione ad avere il potere
direttivo, gerarchico e disciplinare verso il direttore generale ed è deputato a valutarne l’operato e che, quindi, sarebbe incoerente che lo stesso organo non possa, a fronte di fatti disciplinarmente rilevanti, agire se non in relazione a condotte diverse da quelle gestorie, difficilmente immaginabili, senza considerare che l’azione deliberata dall’organo assembleare è
discrezionale, a differenza di quella dell’organo amministrativo.
Conclude rilevando che la società ha esercitato l’azione giuslavoristica che, come tale,
rientra nella competenza del giudice adito che, invece, si è dichiarato incompetente al riguardo.
Il P. ha resistito con memoria ai sensi dell’art. 47 c.p.c., comma 5˚.
Il Pubblico Ministero, nella persona del Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso per regolamento di competenza.
Entrambe le parti hanno depositato memorie, ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., comma 2˚.
Il d. lgs. n. 51 del 1998, art. 14, comma 1˚, in materia di istituzione del giudice unico
di primo grado, ha previsto che il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 48 è sostituito dal seguente: «Art. 48. (Composizione dell’organo giudicante). - In materia civile e penale il tribunale giudica in composizione monocratica e, nei casi previsti dalla legge, in composizione
collegiale.
Il d. lgs. n. 5 del 2003, art. 1, comma 1˚, sul rito societario - poi abrogato dalla l. n. 69
del 2009 - ha stabilito che «Si osservano le disposizioni del presente decreto legislativo in
tutte le controversie, incluse quelle connesse a norma degli artt. 31, 32, 33, 34, 35 e 36
c.p.c., relative a:
a) rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti le società di fatto, l’accertamento,
la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di respon-
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sabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i liquidatori e
i direttori generali delle società, delle mutue assicuratrici e delle società cooperative...».
Infine, il d. lgs. 27 giugno 2003, n. 168, art. 1, come sostituito dal d.l. 24 gennaio
2012, n. 1 art. 2, convertito, con modificazioni, nella L. 24 marzo 2012, n. 27 – vigente al
momento dell’instaurazione del presente giudizio – ha istituito le «sezioni specializzate in
materia di impresa» e, con riguardo al diritto delle società, ha stabilito all’art. 2 che “Le sezioni specializzate sono altresı̀ competenti, relativamente alle società di cui al Libro 5^, Titolo 5^, Capi 5^, 6^ e 7^, e Titolo 6^, del codice civile, alle società di cui al regolamento
(CE) n. 2157/2001 del Consiglio, dell’8 ottobre 2001, e di cui al regolamento (CE) n.
1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003, nonché alle stabili organizzazioni nel territorio
dello Stato delle società costituite all’estero, ovvero alle società che rispetto alle stesse esercitano o sono sottoposte a direzione e coordinamento, per le cause e i procedimenti:
a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, le azioni di responsabilità
da chiunque promosse contro i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore, il direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti
contabili societari, nonché contro il soggetto incaricato della revisione contabile per i danni
derivanti da propri inadempimenti o da fatti illeciti commessi nei confronti della società
che ha conferito l’incarico e nei confronti dei terzi danneggiati...».
Come si evince dal contenuto di tali disposizioni, la normativa ha inciso dapprima sulla natura collegiale dell’organo giudicante, quindi sul rito (normativa, questa, successivamente abrogata) ed, infine, sulla competenza delle sezioni specializzate, in materia di impresa, a giudicare, tra le altre, sulle azioni di responsabilità da chiunque promosse, tra gli altri,
anche contro il direttore generale.
L’art. 2396 c.c., prevede che le disposizioni che regolano la responsabilità degli amministratori si applicano anche ai direttori generali nominati dall’assemblea o per disposizione
dello Statuto, in relazione ai compiti loro affidati, salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società.
La questione che si pone preliminarmente è quella della ammissibilità del regolamento
di competenza avverso la declaratoria di incompetenza del giudice del lavoro in favore della
sezione specializzata del Tribunale delle imprese.
Questa Corte ha, in un primo tempo, ravvisato una questione di competenza in relazione alla ripartizione delle controversie tra Tribunale ordinario e Sezioni specializzate in
materia di tutela della proprietà industriale ed intellettuale, antecedentemente all’avvenuto
assorbimento di queste ultime da parte del Tribunale delle imprese (cfr. Cass. 23.9.2013
21762, Cass. 18.5.2010 n. 12153, Cass. 14.6.2010 n. 14251, Cass. 20690/2009, Cass.
19.6.2008 n. 16744, in tema di competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi del d. lgs. 27 giugno 2003, n. 168, art. 3, differenziandosi l’ipotesi in cui si profilasse una questione di concorrenza sleale «pura», esulante dalla
competenza delle sezioni specializzate).
In particolare, con richiamo a Cass. 15151/2001 e Cass. 736/2001, si ragionava sulla
falsariga di quanto argomentato in relazione alle sezioni specializzate agrarie, con riguardo
alla considerazione che il legislatore aveva avuto della particolare qualificazione tecnica attribuita ai componenti non togati delle dette sezioni, per le quali era pacifica la ricomprensione delle questioni relative all’attribuzione degli affari alle stesse, ovvero al giudice ordinario, nell’ambito di quelle di competenza (tra le tante, sulla specifica questione, v. Cass.
13.3.2007 n. 5829, Cass. 26.7.2010 n. 17502, Cass. 16.7.2008 n. 19512).
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Il descritto orientamento giurisprudenziale è stato, tuttavia, superato, essendosi la giurisprudenza successiva attestata sulla diversa configurazione della questione come relativa
alla ripartizione di funzioni tra sezioni ordinarie e specializzate di uno stesso tribunale, che
non implica l’insorgenza di una questione di competenza, per attenere alla distribuzione degli affari giurisdizionali all’interno del medesimo ufficio, con conseguente inammissibilità
del regolamento di competenza eventualmente proposto (cfr. Cass. 22.11.2011 n. 24656,
Cass. 20.9.2013 n. 21668 e, da ultimo, Cass. 23.5.2014 n. 11448).
Tanto premesso, questo Collegio ritiene che, a fronte di tali orientamenti contrastanti,
vi siano valide e fondate ragioni per aderire al primo di essi.
Ed invero, in primo luogo deve considerarsi che il legislatore, nel delineare i compiti
assegnati alle sezioni specializzate espressamente si riferisce a quelli attribuiti sotto il profilo
della competenza, diversamente da quanto stabilito, in ambito terminologico, con riferimento al giudice del lavoro, al quale è riconosciuta un’autonoma funzione nell’ambito della
competenza del tribunale (art. 413 c.p.c.: competenza del Tribunale, in funzione di giudice
del lavoro), in seguito all’istituzione del giudice unico di primo grado.
Per altro verso, la circostanza che le sezioni specializzate non sono dislocate presso
ogni distretto, ma solo presso alcuni di essi, rende palese che il rapporto fra le sezioni specializzate e le altre non è configurabile come rilevante – in quanto regolante le modalità di
ripartizione di affari – all’interno del medesimo ufficio. Sotto tale aspetto, potrebbe, invero,
determinarsi, con inammissibile asimmetria del sistema, che la natura del rimedio muterebbe a seconda che la pronuncia di declinatoria di competenza sia emessa dal giudice del lavoro, o da altro giudice ordinario, a favore della sezione specializzata in materia di impresa,
nell’ambito di un Tribunale presso il cui distretto non è dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero in un Tribunale nel cui distretto tale sezione sia invece istituita, con la conseguenza che, in tale secondo caso, si verterebbe in un’ipotesi di ripartizione di affari all’interno di un unico ufficio e nell’altro di questione proponibile con il rimedio del regolamento di competenza.
Ciò condurrebbe a privare le parti ed il giudice degli strumenti di cui all’art. 42 c.p.c.
e segg., soltanto in alcuni casi e non in altri sostanzialmente equiparabili, con palese violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost.
Infine, deve osservarsi anche che lo stesso legislatore qualifica come «specializzate» le
sezioni che compongono il Tribunale delle imprese, con un aggettivo che è, significativamente, quello utilizzato dall’art. 102 Cost., comma 2˚, e che connota anche le sezioni cui sono affidate le controversie agrarie, le cui attribuzioni nel senso di competenza per materia
in senso proprio sono pacifiche. Il richiamato art. 102 Cost., comma 2˚, d’altro canto, prevede, poi, espressamente che le «sezioni specializzate» che possono essere istituite presso
gli organi ordinari possano essere composte «anche» con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura e non certo «solo» con tale partecipazione, il che vale ad
escludere che le sezioni specializzate in materia di impresa possano essere differenziate da
quelle agrarie solo perché composte solo da giudici togati.
Ed invero, si tratta in entrambi i casi di sezioni costituite per legge, per far fronte alla
complessità e difficoltà di determinate materie e per soddisfare l’esigenza di una spedita
trattazione dei procedimenti affidati a tali sezioni. Proprio in ragione di ciò, tali sezioni devono essere composte da «magistrati dotati di specifiche competenze» (d. lgs. n. 168 del
2003, art. 2, comma 1˚).
Alla luce di tali considerazioni deve ritenersi che la questione sollevata configuri una
questione di competenza in senso proprio, come tale proponibile con il regolamento di
competenza.
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Superato il profilo di dedotta inammissibilità del rimedio proposto, occorre avere riguardo alla norma dell’art. 2396 c.c., che fa salve le azioni esercitabili in base al rapporto di
lavoro con la società, e valutare se, a prescindere dalla natura concorrente o alternativa dell’azione di responsabilità in senso proprio e di quella a carattere giuslavoristico, l’azione
proposta nel presente giudizio sia stata validamente incardinata presso il giudice del lavoro.
Al riguardo è sufficiente richiamare, per la parte rilevante indirettamente ai fini di causa, i principi affermati da questa Corte in tema di attribuzione della competenza al giudice
del lavoro, secondo cui «la determinazione della competenza deve essere fatta in base al
contenuto della domanda giudiziale, salvo che nei casi in cui la prospettazione ivi contenuta
appaia «prima facie» artificiosa e finalizzata soltanto a sottrarre la cognizione della causa al
giudice predeterminato per legge. Detto principio, valevole anche per la competenza per
territorio, non può essere derogato dalle contestazioni del convenuto circa la sussistenza
del rapporto, né dalla domanda riconvenzionale, che, a norma dell’art. 36 c.p.c., è conosciuta dal giudice competente per la causa principale, purché non ecceda la sua competenza per materia o valore. Anche nell’ipotesi di connessione di cause ai sensi dell’art. 40, la
proposizione di domanda riconvenzionale non può determinare lo spostamento di tutta la
causa ad altro giudice per ragioni di competenza territoriale, in quanto la norma prevede
soltanto che nei casi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36, le cause cumulativamente proposte
o successivamente riunite, siano trattate e decise con rito ordinario, salva l’applicazione del
solo rito speciale quando una di esse rientri tra quelle indicate negli artt. 409 e 442 c.c.»
(cfr. Cass. 17.5.2007 n. 11415).
Nel caso esaminato, va premesso che non vi sono i presupposti per l’applicabilità dell’art.
40 c.p.c., in quanto non ricorrono le ragioni modificative della competenza per ragioni di connessione (cause accessorie, di garanzia, cumulo soggettivo, accertamento incidentale, eccezione
di compensazione, domanda riconvenzionale), sicché la competenza deve essere determinata alla stregua dei criteri sopra menzionati, con riferimento al petitum ed alla causa petendi.
E proprio con riguardo a tali criteri, deve ritenersi che il Tribunale abbia proceduto indebitamente a valutazioni riferite alla mancata contestazione di addebiti al P., ovvero alla ritenuta possibilità di esito sfavorevole dell’azione di responsabilità sociale nei confronti del predetto, secondo prognosi già effettuata in seno alla società sulla base di pareri forniti da consulenti incaricati, laddove l’esame della questione pregiudiziale doveva fermarsi alla valutazione
dell’astratta possibilità di proposizione della controversia, peraltro intentata dal consiglio di
amministrazione e non deliberata dall’organo assembleare, dinanzi al giudice del lavoro.
Secondo tale impostazione, non sussiste dubbio alcuno sul fatto che l’azione era proponibile senz’altro dinanzi al giudice del lavoro, in base alla salvezza contenuta nell’art.
2396 c.c., senza che possa ritenersi che la relativa prospettazione sia strumentalmente ed artificiosamente volta a sottrarre la stessa al giudice predeterminato per legge, che nella specie ben poteva essere, per quanto detto, proprio il giudice del lavoro.
Si tratterà evidentemente, una volta ritenuto validamente radicato il giudizio de quo in
base ai criteri sulla competenza richiamati, di valutare se sussistano nel merito gli elementi
fondanti il tipo di responsabilità dedotta a carico del Direttore generale, nonché, preliminarmente, il profilo attinente alla legittimazione attiva della parte ricorrente, sub specie di
individuazione dell’organo societario deliberante.
In conclusione, deve dichiararsi, quanto all’azione di responsabilità del Direttore Generale per le condotte allo stesso ascritte in relazione al periodo precedente al 2001, la competenza del Tribunale di Trieste in funzione di giudice del lavoro, davanti al quale la causa
deve essere riassunta a termini di legge. (Omissis).
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giurisprudenza
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Sezioni specializzate per l’impresa e competenza per materia
1. – Con l’ordinanza in epigrafe, la Cassazione torna ad occuparsi del
problema della distribuzione delle controversie tra sezioni specializzate in
materia di impresa e giudice ordinario, che risolve trattandolo come una
questione di riparto di competenza per materia.
La pronuncia di legittimità originava da una lite promossa davanti al
giudice del lavoro, presso il tribunale di Trieste, da una società che, inter
alia, proponeva domanda di condanna al risarcimento dei danni contro il
proprio direttore generale, convenuto in veste di dipendente.
Nel merito, la scelta di invocare il rapporto di lavoro quale causa
petendi risultava pienamente ammissibile, posto che l’art. 2396 c.c. – nel
prevedere che contro il direttore generale di una s.p.a. possano svolgersi
le stesse azioni esperibili contro gli amministratori in virtù del rapporto
societario – fa comunque salva la proposizione delle domande basate sul
rapporto di lavoro (1). Nel caso di specie, però, l’azione veniva rigettata
in rito per difetto di incompetenza, poiché il giudice riteneva che la
domanda, per come era stata formulata, trovasse titolo nel rapporto
societario e, perciò, dovesse essere conosciuta e decisa dalla sezione
specializzata per l’impresa, che aveva comunque sede presso lo stesso
Ufficio giudiziario.
Adita con regolamento di competenza, la Cassazione ha ritenuto ammissibile l’impugnazione ed ha avallato cosı̀ l’idea (nient’affatto pacifica)
che la distribuzione delle controversie tra sezioni specializzate in materia di
impresa e tribunale ordinario (anche in veste di giudice del lavoro) dia
luogo ad una questione di competenza per materia, con tutti i corollari
applicativi che da questo presupposto derivano: il regime dell’eventuale
eccezione e dei suoi tempi di proposizione; i rimedi contro il provvedi-
(1) La diversità delle due azioni, oggi proponibili anche in via cumulata, non emerge
solo in punto di causa petendi, ma attiene anche ad altri profili processuali: quello della
legittimazione attiva, che spetta all’assemblea dei soci qualora si invochi il rapporto societario ovvero agli amministratori, quando la domanda si fonda sul rapporto di lavoro; quello
del termine di prescrizione delle due azioni che, per la prima delle due, è quinquennale con
decorrenza dalla cessazione della carica di direttori; un tempo anche il rito applicabile (che
in un caso coincideva con quello societario, di cui al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, poi
abrogato con la legge 18 giugno 2009, n. 69); da ultimo, l’aspetto della competenza che,
nella decisione in commento, viene affrontato ex professo. In arg. cfr. F. Bonelli, Gli amministratori di S.p.a. dopo la riforma delle società, Milano 2004, 231; C. Malberti, Sub art. 2396
c.c., in F. Ghezzi (a cura di), Direttori generali, Milano 2005, 674 ss., spec. 678.
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mento con cui il giudice si spoglia della causa rimettendo le parti davanti
ad altri; la disciplina applicabile in caso di cumulo di domande.
2. – Dal punto di vista processuale, l’ordinanza non affronta certo un
problema nuovo. La stessa Cassazione rammenta che la questione se le
sezioni specializzate debbano considerarsi o no organi giudiziari autonomi
si era già posta fin dalla loro istituzione. Il d. lgs. 27 giugno 2003, n. 168,
nell’assegnare (allora soltanto) le cause in materia di proprietà industriale
ed intellettuale alle neo-designate sezioni specializzate, aveva originariamente collocato questi organi presso gli uffici giudiziari di quasi tutti i
capoluoghi di regione, senza però qualificare in quale rapporto essi si
ponessero con il tribunale o la corte d’appello ove erano stati istituiti.
Quel silenzio normativo, già con riferimento alla circoscritta tipologia
delle controversie sopra richiamate, aveva dato luogo ad un vero e proprio
contrasto di opinioni in giurisprudenza, non essendo chiaro se si trattasse
di uffici giudiziari autonomi rispetto alle altre articolazioni ordinarie del
tribunale o della corte d’appello. Precisamente, era (ed è ancora) diffusa la
convinzione che l’actio finium regundorum tra sezioni specializzate in materia di IP e tribunale ordinario, se territorialmente coincidenti, non si
fonda su un criterio di competenza in senso tecnico, quanto piuttosto su
una questione di ripartizione degli affari presso il medesimo tribunale (2).
Al riguardo, la stessa dottrina non ha assunto una posizione univoca (3).
(2) Per una siffatta conclusione, Trib. Milano, 13 aprile 2010, in Dir. ind. 2011, 231,
con nota critica di G. Ciccone, Sezioni specializzate e sezioni ordinarie: questione di competenza o di ripartizione interna?; Trib. Torino, 24 aprile 2008, in Foro it. 2009, I, c. 1285;
Trib. Milano, 13 luglio 2006, in Dir. ind. 2006, 589, con nota critica di I. M. Prado, Sezioni
specializzate e assegnazione della causa e, da ultimo, Trib. Firenze, 16 luglio 2015, in Foro it.
2016, I, 721. In senso contrario, Trib. Venezia, 30 aprile 2008, ivi, 2008, 1734, con commento critico di G. Casaburi; Trib. Bologna 22 giugno 2010, in Dir. ind. 2011, 229; App.
Napoli, 20 febbraio 2014, in Le società, 2015, 63 ss. con nota di G. Vettori, Il tribunale delle
imprese tra questioni di competenza e di «specializzazione». Nemmeno nella giurisprudenza
di legittimità si registra un orientamento uniforme: se in un primo momento la Cassazione
ha inquadrato la questione nei termini del riparto di competenza per materia tra giudici
(cosı̀ Cass., 25 settembre 2009, n. 20690, in Dir. ind. 2010, 60 ss., con nota critica di G.
Casaburi, Sezioni specializzate, sezioni ordinarie e devoluzione delle controversie industrialistiche; Cass. (ord.), 14 giugno 2010, n. 14251, ivi, 2011, 230 ss., con nota critica di G.
Ciccone, Sezioni specializzate e sezioni ordinarie: questione di competenza o di ripartizione
interna?), di recente si è assistito all’affermazione dell’opposto orientamento incline a ravvisare nelle sezioni specializzate per l’impresa mere ripartizioni organizzative (Cass., ord. 22
novembre 2011, n. 24656, in Foro it. 2012, I, 95; Cass. 20 settembre 2013, n. 21668, in
Dejure; Cass., 15 giugno 2015, n. 12326, in Dir. ind. 2015, 502, con commento critico di I.
M. Prado, Ancora su competenza/distribuzione interna. Due decisioni di segno opposto.
(3) Nel senso che si tratterebbe di una questione di competenza per materia, v. C.
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L’incertezza dovuta alla mancanza di un’espressa presa di posizione
del legislatore ha finito per accentuarsi dopo la legge 24 marzo 2012, n. 27
che, convertendo il d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, ha esteso la cognizione delle
sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale a numerose controversie di diritto societario (tanto da mutare il nome di quegli organi,
oggi definiti sezioni specializzate in materia di impresa). Nemmeno in
quella circostanza il legislatore, che ha oltretutto ampliato il numero di
sezioni specializzate, ha definito i loro rapporti con le sezioni “ordinarie”
del tribunale.
Alla luce di questo reiterato silenzio normativo, la questione con cui si
misura l’ordinanza in epigrafe non solo conserva la propria attualità ma è
destinata a prospettarsi con crescente frequenza, in tutti quei casi in cui vi
sia piena coincidenza territoriale tra sezione specializzata per l’impresa e
sezione ordinaria del tribunale e la domanda sia stata proposta davanti ad
un giudice che (a torto o a ragione) abbia deciso di spogliarsi della lite.
La Suprema Corte, nel caso di specie, opta per la soluzione più rigorosa e qualifica la sezione specializzata per l’impresa come organo giudiziario autonomo, distinto dalle sezioni ordinarie del medesimo tribunale.
V’è da credere, però, che la condivisibile conclusione cui perviene il provvedimento che si annota non porrà fine al dibattito: l’oscillazione interpretativa trova, del resto, conferma in una decisione della Cassazione, di
poco anteriore a quella che qui si annota, che si è mostrata di avviso
opposto (4). Da questo punto di vista, allora, solo un intervento nomofilattico delle Sezioni Unite saprà essere davvero risolutore.
Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino 2015, 404; A. Graziosi, Dall’arbitrato societario al tribunale delle imprese, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2012, 103 ss.; G. Balena,
Il tribunale delle imprese, in Giusto proc. civ. 2012, 340; L. C. Ubertazzi, Ancora sulla
competenza delle sezioni IP, in Dir. ind. 2011, 422; M. Tavassi, Dalle sezioni specializzate
della proprietà industriale e intellettuale alle sezioni specializzate dell’impresa, in Corriere giur.
2012, 1115; in senso opposto, E. Merlin, Le nuove «sezioni delle imprese» tra corsie preferenziali e sviluppo del mercato, in Sistema società, Bancadati Lex 24; A. Giussani, L’attribuzione delle controversie industrialistiche alle sezioni per l’impresa, in (a cura di A. Giussani), Il
processo industriale, Torino 2012, 5 ss.; G. Casaburi, Sezioni specializzate, sezioni ordinarie,
cit., 57 ss.; F. Santagada, La competenza per connessione delle sezioni specializzate in materia
di imprese, in questa Rivista 2014, 1361 ss.; G. Ciccone, Sezioni specializzate e sezioni
ordinarie, cit., 233 ss.; M. Pilloni, Dalle «vecchie» sezioni specializzate in materia di proprietà
industriale e intellettuale al “nuovo” tribunale delle imprese per la competitività del processo
civile, in Studium Juris 2012, 1229 ss. In arg. cfr. anche P. Comoglio, Il giudice specializzato
in materia di impresa, Torino 2014, 131 ss. Il pensiero di ciascun A. sarà richiamato nelle
note che seguono.
(4) Cass., 15 giugno 2015, n. 12326.
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3. – Gli argomenti che l’ordinanza in epigrafe invoca a sostegno della
propria opinione non sono del tutto nuovi: non lo è quello storico-teleologico, che fa leva sulla volontà del legislatore di istituire un giudice ad hoc
cui devolvere controversie di particolare complessità, quali quelle industrialistiche e oggi di natura societaria (5).
Non è nuova nemmeno l’osservazione che valorizza il tenore letterale
dell’art. 3 d. lgs. n. 168/2003 (anche nella versione successiva alle modifiche apportate dalla legge n. 27/2012), nella parte in cui la norma impiega
il termine “competenza” per descrivere le materie devolute alle sezioni
specializzate (6). Da questo punto di vista, la Cassazione scorge una diversità tra sezioni specializzate per l’impresa, da un lato, e giudice del
lavoro e fallimentare, dall’altro. È vero che, nel descrivere le funzioni
assegnate a questi ultimi, il legislatore si esprime comunque in termini
di competenza, ma è altrettanto vero che l’assegnazione delle controversie
a costoro avviene richiamandosi genericamente al Tribunale; diversamente, l’attribuzione delle controversie alle sezioni specializzate in materia di
impresa è effettuata menzionando espressamente quest’ultime. In ciò, anche secondo i giudici di legittimità, il legislatore avrebbe manifestato l’intenzione di farne organi giudiziari autonomi (7).
Già nel 2009, poi, la stessa Cassazione – nell’affermare la tesi dell’autentico riparto di competenza tra le sezioni specializzate in materia di IP e
il tribunale ordinario – aveva correttamente messo in luce l’analogia corrente tra le prime e le sezioni specializzate in materia agraria, la cui autonomia rispetto ad altre sezioni dello stesso ufficio giudiziario è considerata
dato acquisito in giurisprudenza (8). L’accostamento alle sezioni agrarie è
stato confermato anche da una successiva pronuncia della Suprema Corte,
secondo la quale in entrambi i casi la voluntas legis sarebbe stata quella di
istituire magistrati dotati di specifica competenza per la risoluzione di
controversie caratterizzate da un certo tecnicismo (9). Certamente, tra i
due giudici specializzati sussiste un profilo di diversità giacché, a differenza di ciò che accade per le sezioni specializzate in materia agraria, i componenti delle sezioni per l’impresa sono tutti togati. Tuttavia, come ram-
(5) Cosı̀ si era già espressa Cass., ord. 29 settembre 2009, n. 20690 cit.
(6) Ancora, Cass., ord. 29 settembre 2009, n. 20690 cit.
(7) A. Graziosi, Dall’arbitrato societario al tribunale delle imprese, cit., 105 s.
(8) Sull’inquadramento dei rapporti tra sezioni agrarie e sezioni ordinarie in termini di
riparto di competenza, v. da ultimo Cass., 21 maggio 2015, n. 10508, in Dejure; Cass., 26
luglio 2010, n. 17502, ivi; Cass. Sez. Un., 16 luglio 2008, n. 19512, ivi; Cass., 13 marzo 2007,
n. 5829, ivi; Cass., 14 luglio 2005, n. 14933, ivi.
(9) Il richiamo è qui a Cass., 14 giugno 2010, n. 14251.
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giurisprudenza
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menta la stessa ordinanza che si annota, non è questo un argomento
dirimente poiché l’art. 102, comma 2˚, Cost. – nel legittimare l’istituzione
di sezioni specializzate – qualifica la presenza di giudici laici nel collegio
come facoltà, e non come obbligo (10).
Dall’attribuzione di una piena autonomia di questi organi derivano i
seguenti corollari: l’erronea individuazione del giudice adito costituirà
sempre oggetto di un’eccezione rilevabile anche d’ufficio, ex art. 38, comma 3˚, c.p.c. Quest’ultima, se ritenuta fondata, darà luogo ad un’ordinanza
declinatoria di competenza, che conterrà l’ordine di riassunzione del giudizio davanti al giudice indicato come competente; rimarrà ferma in capo a
costui (o alla parte soccombente) la facoltà di proporre regolamento di
competenza, che allora determinerà l’automatica sospensione del processo
di merito.
4. – Tutte queste conseguenze troveranno attuazione non solo quando
la sezione specializzata abbia sede territoriale diversa da quella della sezione ordinaria del tribunale, che in thesi avrebbe dovuto essere (o sia stata
erroneamente) adita, ma anche quando entrambi gli organi siano istituiti
presso lo stesso Ufficio giudiziario. Proprio questa ultima ipotesi è spesso
presa in considerazione da una parte della dottrina e della giurisprudenza
per concludere in senso opposto e ravvisare cosı̀, in questo caso, un mero
riparto di attribuzioni all’interno dello stesso tribunale, non già la sussistenza di una competenza per materia in capo alle sezioni specializzate.
Gli argomenti, a tal fine invocati, sono di diverso ordine.
Anzitutto, si esclude che le sezioni specializzate in materia di impresa
possano essere accostate a quelle previste in materia agraria, sia perché le
prime sarebbero costituite da soli magistrati togati (11), sia perché non
sussisterebbe, in capo a costoro, quella specializzazione tanto enfatizzata
dal legislatore; quanto a quest’ultimo profilo, si osserva come l’individuazione dei componenti delle sezioni specializzate per l’impresa abbia luogo
con concorsi interni, senza l’intervento del CSM (12), e in forza dei medesimi criteri con i quali il Presidente del Tribunale (o della Corte d’appello) assegna un magistrato alla sezione lavoro, a quella fallimentare, ossia
l’esperienza giudiziaria che l’aspirante abbia maturato e che non viene
(10) A. Graziosi, Dall’arbitrato societario al tribunale delle imprese, cit., 105-106.
(11) Cfr. M. Pilloni, Dalle “vecchie” sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale, cit., 1239 che discorre di incongruo parallellismo con le sezioni agrarie, ritenendo
decisiva l’assenza di componenti laici nelle specializzate in materia di impresa.
(12) L. Tenaglia, L’istituzione del Tribunale delle imprese, in Corriere giur. 2012, 79.
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parametrata o vagliata in altro modo (13). A ciò si aggiungono l’ampliamento delle controversie assegnate alla cognizione e alla decisione delle
sezioni per l’impresa, nel 2012, e l’alto tasso di tecnicismo che accomuna
quelle materie: fattori, questi, che non assicurano un’effettiva specializzazione del magistrato (14). Questa specializzazione, oltretutto, rischia di
essere svilita dalla possibilità, prevista ex positivo iure, che costoro si vedano attribuite anche controversie di tipo ordinario (15). Un’eventualità,
questa ultima, che diviene concreta in tutti quei tribunali istituiti presso
capoluoghi di regione, nei quali l’assenza di personale costringe i magistrati in servizio ad assumere contemporaneamente le vesti di giudice
ordinario e di quello specializzato (16).
Queste circostanze, unite al venir meno di un rito ad hoc per le controversie societarie oggi decise secondo quello ordinario, inducono a dubitare dell’opportunità di discorrere di autentico riparto di competenza
per materia tra sezioni specializzate per l’impresa e quelle ordinarie.
Tuttavia, al di là dei rilievi appena formulati, sembra siano i corollari
applicativi, determinati dall’accoglimento dell’opposta tesi, ad apparire
eccessivi a chi ragiona invece nei termini di mera distribuzione delle controversie all’interno del tribunale. Ciò che preoccupa sono soprattutto le
ricadute che l’idea che assegna un’attribuzione di una competenza per
materia alle sezioni specializzate per l’impresa determina sul piano della
durata del processo: i tempi si dilateranno vuoi quando sia accolta l’eventuale eccezione di incompetenza, sollevata dalla parte (dovendosi allora
provvedere alla formale riassunzione della lite), vuoi (e soprattutto) quando quell’eccezione venga rigettata: in questa ipotesi, infatti, il provvedi-
(13) G. Casaburi, Sezioni specializzate, cit., 57; G. Ciccone, Sezioni specializzate e sezioni
ordinarie, cit., 237; L. Tenaglia, L’istituzione del Tribunale, cit., 80.
(14) L. Tenaglia, ult. op. cit., 80.
(15) A tal riguardo, va peraltro precisato come questa circostanza, se certamente può
annacquare la specializzazione del giudice non appaia affatto dirimente a negare l’autonomia
delle sezioni per l’impresa rispetto a quelle ordinarie che sono istituite presso lo stesso
tribunale. Non a caso, anche organi giudiziari autonomi dagli Uffici giudiziari presso cui
sono incardinati (come il tribunale delle acque o quello dei minorenni) possono vedersi
assegnare controversie che spettano a sezioni ordinarie. In questo senso, condivisibilmente,
F. Santagada, La competenza per connessione, cit., 1376, che si richiama in nt. 66 alla
Circolare 28 luglio 2003 n. P-15620/2003 – Deliberazione 23 luglio 2003 del C.S.M.
(16) Un’osservazione, quella riportata nel testo, che ha formulato G. Verde, Il giudice
fra specializzazione e “diritto tabellare”, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2013, 142, secondo il quale
proprio la pluralità delle competenze assegnate finisce per svilire la specializzazione del
magistrato. Nello stesso senso, poi, F. Carpi, La specializzazione del giudice come fattore
di efficienza della giustizia civile, ivi, 2013, 1018. In giurisprudenza, cfr. Cass., 22 novembre
2011, n. 24656.
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giurisprudenza
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mento declinatorio di competenza potrebbe essere impugnato con il relativo regolamento (come nel caso che ci occupa) e comportare l’automatica
sospensione del processo di merito. E ciò, quand’anche la sede giudiziaria
fosse stata correttamente individuata, sotto il profilo della sua collocazione
territoriale.
Di qui, la convinzione che la ripartizione di funzioni tra le sezioni
specializzate di impresa e quelle ordinarie, istituite presso il medesimo
ufficio giudiziario, dia luogo semplicemente ad una distribuzione degli
affari giurisdizionali all’interno del medesimo ufficio.
Muovendo da queste premesse, e proprio con riguardo a questo specifico caso, si nega allora la proponibilità del regolamento di competenza
avverso l’ordinanza con la quale un giudice si spoglia della controversia a
favore di uno diverso, che abbia sede presso lo stesso Ufficio giudiziario (17). Ciò significa, però, che il Presidente del tribunale (o quello della
Sezione specializzata in thesi adita), in virtù del proprio potere organizzativo, possa assegnare la controversia al giudice che egli ritenga competente,
senza che, a rigore, rilevi l’individuazione concreta operata dalla parte
nell’atto introduttivo. Il che vale, per assurdo, ad ammettere che l’attore
potrebbe addirittura disinteressarsi di individuare nel concreto l’organo da
adire, lasciando che la scelta sia compiuta dal Presidente dell’Ufficio giudiziario territorialmente individuato (18). Infine, una volta radicata la lite,
l’eventuale eccezione di incompetenza (interna) sollevata dalla parte, se
ritenuta fondata dal giudice adito, dovrebbe provocare un mero provvedimento ordinatorio di riassegnazione ad altro giudice e la fissazione di
una nuova udienza, senza bisogno di procedere a formali riassunzioni della
lite e, soprattutto, senza la facoltà per le parti di impugnare quel provvedimento con regolamento di competenza.
È questa una conclusione che trova concorde una parte della dottrina, la quale – aderendo al risultato cui perviene di recente la giurisprudenza, quando la sezione specializzata in materia di impresa e quella
ordinaria siano istituite presso il medesimo ufficio giudiziario – osserva
come a siffatti giudici specializzati non spetti mai una vera e propria
competenza per materia, dovendosi piuttosto discorrere di competenza
(17) Trib. Milano, 13 aprile 2010, cit.; Trib. Torino, 24 aprile 2008, cit.; Trib. Milano,
13 luglio 2006, cit.; Trib. Firenze, 16 luglio 2015, cit.; Cass., ord. 22 novembre 2011, n.
24656, cit.; Cass., 20 settembre 2013, n. 21668, cit.; Cass., 15 giugno 2015, n. 12326, cit.
(18) A. Giussani, L’attribuzione delle controversie industrialistiche, cit., 5 cui adde F.
Santagada, La competenza per connessione, cit., 1373.
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territoriale esclusiva quando la localizzazione dell’uno e dell’altro non
coincidano (19).
Il che significa, sul piano pratico, negare il rilievo d’ufficio dell’eccezione di incompetenza sollevata avanti ad un tribunale sprovvisto di una
sezione per l’impresa ovvero dinnanzi a quest’ultima (quand’essa abbia
sede presso un ufficio giudiziario diverso da quello in cui si trova il giudice
ordinario, territorialmente competente) ed escludere l’ammissibilità del
regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c.
5. – Certamente, e nel complesso, la soluzione appena descritta ha il
pregio di valorizzare massimamente le esigenze di celerità del processo.
Eppure, a mio avviso, la tesi, dalla quale la Cassazione nell’ordinanza
in epigrafe prende condivisibilmente le distanze, non merita di essere
coltivata.
Le ragioni sono più d’una: da un lato, come è stato condivisibilmente
osservato, le garanzie processuali delle parti, soprattutto quando attengono
alla costituzione del giudice, non possono essere posposte ad esigenze
organizzative e di distribuzione del lavoro, che sono comunque interne
agli uffici giudiziari. La previsione legislativa di un corpo di giudici speciali
per la risoluzione di controversie complesse, come quelle industrialistiche
o societarie – per quanto mal attuata dal legislatore – crea nelle parti un
vero e proprio diritto soggettivo processuale a che la decisione sia affidata
a quei giudici e non da altri organi giudiziari (20).
Dall’altro lato, appare decisivo l’ultimo argomento (questo sı̀ nuovo)
invocato dalla Suprema Corte a fondamento della soluzione secondo cui il
riparto di controversie tra sezioni specializzate in materia di impresa ed
altre sezioni “ordinarie” dia luogo ad una questione di competenza per
materia. Nella motivazione del provvedimento annotato, si legge che l’opposta conclusione di segno contrario provocherebbe una vera e propria
asimmetria del sistema. Ed infatti, la natura del rimedio avverso il provvedimento, con il quale il giudice si spoglia della causa, muterebbe secondo che il giudice ad quem, individuato come competente, abbia sede o no,
presso lo stesso Ufficio giudiziario in cui si trova il giudice adito. Solo nel
secondo caso, infatti, sarebbe possibile promuovere regolamento di competenza (che è pur sempre ammissibile, ancorché rimesso soltanto all’istanza di parte); nella prima ipotesi, invece, il giudice originariamente
(19) A. Giussani, L’attribuzione delle controversie industrialistiche, cit., 6.
(20) Cosı̀, quasi letteralmente, A. Graziosi, Dall’arbitrato societario, cit., 105.
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giurisprudenza
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adı̀to potrebbe limitarsi a rimettere la questione al Presidente del tribunale, senza che le parti abbiano modo di contraddire sulla decisione provocandone un autonomo riesame.
Certo, nessuno può negare che la soluzione favorevole al riparto di
competenza per materia finisca per appesantire i tempi del processo, non
solo e non tanto perché impone alle parti un onere di riassunzione della
causa, ma soprattutto perché contempla l’eventualità della proposizione
del regolamento di competenza. A ben vedere, però, la ragionevole durata
del processo (il cui perseguimento, in ogni caso, non dovrebbe comprimere né il diritto di difesa (21) né quello al giudice naturale) non sembra
essere pregiudicata dalla possibilità in sé di ricorrere a questo mezzo di
impugnazione, la cui esperibilità – a prescindere da come si ricostruiscano
i rapporti tra le sezioni specializzate e quelle ordinarie del Tribunale - non
può escludersi in ogni caso quando l’uno e l’altro organo giudiziario siano
collocati in sedi differenti. Semmai, ciò che condiziona i tempi del processo è la sospensione ex lege del giudizio di merito che consegue alla
pendenza di un regolamento di competenza e che, talvolta, può prestarsi a
facili strumentalizzazioni ad opera delle parti, proprio in ragione dell’assenza di una univoca posizione giurisprudenziale.
Da questo punto di vista (sia pur in una prospettiva de iure condendo)
proprio questa conseguenza meriterebbe di essere ripensata, traendo
spunto dalla modifica che, nel 1990, ha interessato l’art. 367 c.p.c. dove
la sospensione del giudizio di primo grado, quando sia proposto regolamento di giurisdizione, è subordinata al vaglio della verisimile fondatezza
ed ammissibilità del ricorso ex art. 41 c.p.c. (22). Tutto ciò, ovviamente,
(21) Diversamente da come deciso, invece, da Cass. Sez. Un., 23 febbraio 2010, n.
4309, in questa Rivista 2010, 973, con nota contraria di E.F. Ricci, Nooo! (La tristissima
sorte della ragionevole durata del processo nella giurisprudenza della Cassazione: da garanzia in
cerca di attuazione a killer di garanzie). In quella circostanza, che riguardava un caso di
solidarietà risarcitoria, la Suprema Corte ha affermato che la fissazione di una nuova udienza
– necessaria alla costituzione del terzo chiamato in garanzia dal convenuto con tempestiva
comparsa risposta – costituisce l’esercizio di un provvedimento discrezionale del giudice e
potrebbe essere negata per ragioni di economia processuale, volte a garantire una durata
ragionevole del processo, posponendo a questa esigenza il diritto costituzionalmente garantito alla parte di difendersi.
(22) La conclusione formulata nel testo ricalca un auspicio già da tempo formulato in
dottrina: la formulazione dell’art. 48 c.p.c. dovrebbe essere modificata nel senso di attribuire
al giudice ad quem il potere di vagliare la necessità o meno di sospendere il giudizio (cosı̀ F.
Cipriani, Il regolamento facoltativo di competenza, in questa Rivista 1976, 552 ss.; A. Proto
Pisani, Problemi e prospettive in tema (di regolamenti) di giurisdizione e di competenza, in
Foro it. 1984, V, 89 ss.; nel senso di assegnare questo compito alla Corte di Cassazione, C.
Vocino, Ma la colpa è di Voltaire, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1976, 671; favorevole al
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sul presupposto che, come condivisibilmente ha concluso l’ordinanza in
epigrafe, l’assegnazione delle controversie alle sezioni specializzate per
l’impresa dia luogo ad una vera e propria questione di competenza.
LAURA BACCAGLINI
Professore associato nell’Università di Trento
mantenimento dell’art. 48 c.p.c. cfr., invece, M. Acone, La “ragionevole durata” del regolamento di competenza, in Corriere giur. 2005, 1593 ss.). Viceversa, in caso di proposizione del
regolamento di competenza, contestuale all’appello, l’istanza di sospensione dovrebbe essere
proposta al (e decisa dal) giudice di secondo grado, con conseguente modifica, allora, anche
dell’art. 43, comma 3˚, c.p.c.
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CORTE
DI
CASSAZIONE, sez. III civ., sentenza 9 aprile 2015, n. 7090
Pres. Carleo – Rel. Vincenti
C. ed altro c. D. ed altri
Ove si formi il giudicato sulla condanna al pagamento di una provvisionale, ex art. 278 c.p.c.,
nei confronti dell’erede per un credito ereditario, in assenza, nel medesimo giudizio, di deduzione (o, comunque, di rilievo officioso) che l’eredità è stata accettata con beneficio di inventario, nel successivo giudizio per la liquidazione del residuo quantum debeatur sarà precluso all’erede debitore di avvalersi della predetta accettazione beneficiata (massima non ufficiale).
L’esistenza del danno conseguente alla condotta contra legem addebitata costituisce già oggetto del giudizio volto alla condanna generica, ancorché detta parte del giudizio possa svolgersi
con modalità sommaria e con valutazione probabilistica (massima non ufficiale).
(Omissis). – La condanna al pagamento di una provvisionale, ai sensi dello stesso art.
278 c.p.c., comma 2˚, rappresenta un provvedimento di condanna vero e proprio, che presuppone la valutazione positiva del giudice di merito circa il raggiungimento della prova su
una certa quantità del danno, nei cui limiti essa costituisce titolo esecutivo, nonché titolo
per iscrivere ipoteca giudiziale. (Omissis).
Si tratta, dunque, di sentenza irrevocabile da parte del medesimo giudice che l’ha emanata e suscettibile di passare in giudicato, in caso di conferma all’esito dell’esperimento dei
normali mezzi di impugnazione, senza che il quantum della emessa condanna possa più essere posto in discussione. L’istituto della provvisionale non dà luogo, pertanto, né ad un
provvedimento sommario, né ad una pronuncia cautelare, presupponendo non già una valutazione di mero fumus, bensı̀ un accertamento pieno e positivo del giudice di merito circa
il raggiungimento della prova in ordine all’ammontare del danno nei limiti corrispondenti
al quantum della provvisionale stessa. (Omissis).
(Omissis). – Il giudicato che viene a formarsi sulla sentenza di condanna generica al
pagamento di una provvisionale, ex art. 278 c.c., comma 2˚, investe e copre anche la questione dei limiti della responsabilità patrimoniale del debitore inadempiente. (Omissis).
(Omissis). – Il giudicato sulla condanna al pagamento di una provvisionale nummo
uno non consentirà più, ove non dedotta nella medesima fase processuale, di avvalersi della
qualità di erede con beneficio di inventario nella prosecuzione del giudizio sulla determinazione definitiva del quantum debeatur. (Omissis).
Dunque, seppure la pronuncia di condanna generica non consente la formazione del
titolo esecutivo (come, invece, nella già esaminata ipotesi di condanna al pagamento di
provvisionale ai sensi dell’art. 278 c.p.c., comma 2˚), è da escludere, tuttavia, che essa possa
omologarsi ad un mero accertamento (della violazione) del diritto di credito, palesando (come visto) caratteri della condanna vera e propria e, soprattutto, per quanto più importa in
questa sede, in cui assume rilievo una fattispecie di obbligazione risarcitoria extracontrattuale, quello dell’inclusione, nell’oggetto del giudizio che la presuppone, dell’esistenza del
danno, sebbene con accertamento sommario e a carattere probabilistico.
Ma ciò equivale ad affermare che la responsabilità civile del debitore, in termini di accertato inadempimento contrattuale ovvero di attribuzione del fatto illecito extracontrattuale, già sussiste, mentre rimane devoluto al giudizio sulla liquidazione del quantum solo l’accertamento definitivo sulla effettiva sussistenza delle relative conseguenze dannose derivanti
Rivista di diritto processuale 3/2016
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dall’inadempimento o dalla lesione del diritto/interesse tutelato dall’ordinamento, solo
astrattamente ritenute.
(Omissis). – L’oggetto della condanna generica deve essere portato non solo sul diritto
originario assertivamente leso, sulla lesione avvenuta, ma anche sulla sussistenza del danno
(e quindi del diritto al risarcimento), ancorché quest’ultima valutazione possa essere fatta
con apprezzamento sommario e, in relazione alla prova, su base di probabilità (non di semplice potenzialità o di possibilità).
(Omissis). – L’esistenza del danno conseguente alla condotta contra legem addebitata
(e del diritto risarcitorio, a parte l’ulteriore quantificazione) costituisce già oggetto del giudizio volto alla condanna generica, ancorché detta parte del giudizio possa svolgersi con
modalità sommaria e con valutazione probabilistica. (Omissis).
Condanna generica, liquidazione del danno e beneficio di inventario
1. – La decisione in epigrafe interviene su un caso riguardante la
portata decisoria della condanna generica con provvisionale, per poi
dilungarsi sulla condanna generica tout court. Lo scopo è quello di dare
una ricostruzione omogenea di un istituto da sempre interpretato variamente.
Com’è noto, l’introduzione nel codice di rito del ‘40 della condanna
generica recepiva una prassi giudiziaria assai diffusa (1), dalla quale è stata
tratta persino la stessa locuzione che la indica (2).
Il forte radicamento nella cultura processuale italiana di questo mezzo
avrà avuto una pluralità di cause. Una di esse, che sembra piuttosto determinante, è stata ravvisata nel codice di rito penale del 1865, che permetteva al giudice di condannare al risarcimento del danno il reo a favore
del danneggiato, benché quest’ultimo non fosse costituito.
Le esigenze alle quali tale decisione faceva fronte erano piuttosto varie.
Tra esse anzitutto si annovera l’eccessiva durata del processo conseguente
alla difficoltà di quantificazione del danno, a fronte del quale l’attore
poteva preferire una somma certa nell’immediato. Sapere se il fatto dannoso fosse riconosciuto come tale dal giudice, prima di attivarsi nella
produzione di prove dirette alla quantificazione del danno, che, in caso
negativo, si sarebbero rivelate inutili, sicuramente era un altro valido motivo. Cosı̀ ottenere un provvedimento a cautela del riconoscendo diritto di
(1) Nel progetto Solmi, era prevista all’art. 181, rubricato sentenze definitive e parziali
all’ultimo comma, dopo l’art. 180 che recava pronunzia mediante sentenza.
(2) Cosı̀ V. Rognoni, Condanna generica e provvisionale ai danni, Milano 1961, 7.
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giurisprudenza
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credito aveva una notevole importanza. Peraltro una condanna generica
poteva facilitare la transazione sull’ammontare del danno (3).
La scissione dell’accertamento del danno in due fasi è stata avvalorata
da certa dottrina, che teorizzava la possibilità di accertare separatamente il
fatto dannoso rispetto al danno come distinti nella realtà, dal momento
che la responsabilità nasce dall’illecito, di cui il danno non sarebbe elemento essenziale (4).
La Terza sezione sembra voler definitivamente superare l’idea diffusa
che la sentenza siffatta non stabilisce su un diritto, o almeno non stabilisce
sul diritto al risarcimento del danno, perché all’esito della fase quantificatoria il risultato potrebbe essere pari a zero.
Da quando il legislatore ha previsto la condanna generica, la dottrina
ha cominciato a speculare sulla sua natura e sulla sua portata, senza mai
addivenire a conclusioni univoche, probabilmente segno che essa non si
confà fino in fondo al sistema processuale in cui è stata inserita (5).
Ad ogni modo, l’art. 278, comma 1˚, c.p.c. permette al giudice civile di
congelare la decisione ad un certo punto, senza pregiudizio per l’attore (al
quale viene riconosciuta la possibilità di iscrivere ipoteca giudiziale sui
beni del preteso debitore) e senza violazione del divieto di non liquet.
Da qui l’idea che si tratti di una sentenza non definitiva, perché il giudice,
che ha già deciso sull’an, continua l’istruttoria davanti a sé, onde pervenire
alla decisione anche sul quantum (6).
Bisogna precisare che ove il giudice abbia separato le cause, decidendo
la domanda (ad es. di risoluzione del contratto o di inibitoria) o le domande impellenti, oltre che la generica, e rinviando per il risarcimento del
danno, ci troveremmo in presenza di una decisione parziale, ma definitiva
(3) Per tutte queste considerazioni, Si veda P. Calamandrei, La condanna generica ai
danni, in Riv. dir. proc. civ. 1933, I, 357, 358.
(4) Il rilievo – ripreso da V. Rognoni, Condanna generica e provvisionale ai danni, cit.,
12 ss. – proviene anzitutto da P. Calamandrei, op. loc. cit., che si riferisce alle tesi di G.
Chironi, La colpa nel diritto civile odierno, Colpa extra-contrattuale, Torino 1903, passim, e di
altri ivi citati, cui contrastavano altrettanti posizioni, come quella di G. Cesareo Consolo,
Trattato sul risarcimento del danno in materia di delitti e quasi delitti, Torino 1908, 125 o di
F. Carnelutti, Il danno e il reato, Padova 1926, passim.
(5) Per la verità, la natura di questo provvedimento aveva già impegnato gli studiosi che
collaborarono alla formazione del codice, come ricorda S. Satta, La condanna generica, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, 1402 ss., 1403.
(6) Nonostante l’autonoma previsione normativa, la dottrina, come si diceva, non esita
a far rientrare la condanna generica tra le sentenze non definitive. Cfr. in tal senso, per tutti,
C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele, Torino 2015, 85. Di contrario avviso S. Satta, La condanna generica, cit., 1410, secondo cui si tratterebbe di sentenza
definitiva, mentre la provvisionale costituirebbe un provvedimento cautelare.
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rispetto a quella domanda, e di una non definitiva di condanna generica,
impugnabili rispettivamente come tali (7).
Ove la decisione si fermi alla condanna generica, perché questa è la
richiesta originaria dell’attore, accettata dal convenuto, dovremo ammettere di trovarci di fronte a una definitiva. A questo proposito va puntualizzato che l’ammissibilità di una domanda siffatta, benché normalmente
affermata, non è affatto pacifica. Secondo una certa impostazione, essa
non si adegua alla struttura della domanda e potrebbe essere ammissibile
esclusivamente a condizione che la domanda originaria dell’attore sia comunque diretta all’accertamento del tutto, con riserva nel prosieguo del
medesimo giudizio della determinazione del danno che non sia ancora
quantificabile (8).
Dal canto suo, la giurisprudenza ha precisato da alcuni lustri che le
sentenze parziali di merito, emesse in corso di causa sottoposte al regime
impugnatorio delle non definitive, sono quelle che, pur avendo deciso su
una o più domande, non abbiano formalmente separato le cause (9).
Diversamente dalle sentenze non definitive su domande, che producono giudicato a tutti gli effetti, normalmente una sentenza non definitiva
su questioni rigetta un’eccezione di merito (o di rito) e dà le istruzioni per
il prosieguo (10); è destinata a produrre giudicato, sicuramente interno, ma
(7) Si ritiene comunemente (per tutti A. Cerino Canova, Sul contenuto delle sentenze
non definitive di merito, in Riv. dir. proc. 1971, 396, 425 ss.) che l’art. 279, comma 2, n. 4,
c.p.c. si riferisca e conferisca un’appropriata veste formale all’art. 277 c.p.c., per cui non ci
sarebbe spazio per le questioni di merito a carattere non preliminare, come invece ritiene L.
Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, Bari 1981, 161 ss.
(8) In tal senso G. Scarselli, Considerazioni sulla condanna generica (nella evoluzione
giurisprudenziale e dopo la riforma), in Corriere giur. 1998, 712, avallando espressamente la
tesi di V. Rognoni, Condanna generica e provvisionale ai danni, cit., 255 e A. Gualandi,
Domanda di condanna generica e richiesta del convenuto di accertamento contestuale dell’an e
del quantum, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, 1142, 1142. Di contrario avviso S. Satta, La
condanna generica, cit., 1410.
(9) Cass., sez. un., 1˚ marzo 1990, n. 1577, in Foro it. 1990, I, 836. Successivamente
nello stesso senso Cass., sez. un., 8 ottobre 1999, nn. 711 e 712, in Corriere giur. 2000, 642,
con nota di M. Montanari, Cumulo di domande e sentenza non definitiva e postilla di C.
Consolo, Postilla su un dibattito seducente, ma ormai maturo, se non estenuante quanto alle
non definitive su domande e Cass., sez. un., 28 aprile 2011, n. 9441. Le Sezioni unite hanno
a
quindi avallato la tesi formalista sostenuta da C. Mandrioli, Diritto processuale civile, 22a ed.
agg. da A. Carratta, II, Torino 2012, 330 e da G. Verde, Diritto processuale civile, 3 ed.,
Bologna 2012, 146. La tesi sostanzialista risulta invece perorata da V. Andrioli, Commento al
codice di procedura civile, Napoli 1956, II, 247, da A. Proto Pisani, Litisconsorzio e separazione di cause, in Riv. dir. proc. 1968,
136, in particolare 145 ss. e da G. Monteleone,
a
Manuale di diritto processuale civile, 4 ed., Padova 2007, 560.
(10) La decisione non definitiva su questioni denota un errore di valutazione da parte
del giudice, che ha rimesso la causa in decisione, sull’errata convinzione che fosse matura
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giurisprudenza
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non altrettanto sicuramente al di fuori del giudizio in cui sia stata resa (11).
Peraltro, secondo una parte della dottrina, il concetto di sentenza non
definitiva sarebbe cosı̀ ampio da permettere al giudice di decidere interinalmente anche su un capo di domanda (12), o su una questione incidentale, che non sia stata oggetto di domanda (13).
Anche la decisione emessa ex art. 278, comma 2˚, c.p.c. viene inquadrata tra le non definitive, nonostante si ritenga unanimemente che l’accertamento sulle somme già liquidate rimanga intangibile nel prosieguo del
giudizio sul restante quantum (14).
2. – La condanna generica tout court, a dispetto del suo nome, non
contiene nessuna condanna, perciò non è titolo esecutivo. Normalmente
viene infatti annoverata tra le sentenze di mero accertamento, benché con
essa non si contesti l’esistenza di un diritto, ma la sua violazione (15). La
condanna generica con provvisionale viene invece descritta come condanna speciale (16).
In generale, perché la tutela di mero accertamento possa essere concessa, si richiede che l’attore vi abbia interesse, non già un interesse generico, ma un interesse giuridico oggettivamente apprezzabile, consistente
nel voler far fronte ad un vanto o ad una pretesa da parte altrui o ancora
per emettere una decisione
definitiva. In tal senso, A. Proto Pisani, Lezioni di diritto
a
a
processuale civile, 5 ed., Napoli 2012, 117; F.P. Luiso, Diritto processuale civile, II, 7 ed.,
Milano 2013, 187.
(11) I contrasti dottrinali, secondo una certa impostazione, sarebbero stati definitivamente sedati dal comma 3 dell’art. 133 disp. att. c.p.c., introdotto dalla l. 40/2006. In tal
senso A. Carratta, in Le recenti riforme del processo civile, dir. S. Chiarloni, Bologna 2007,
337, 352; G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari 2012, 230; D. Dalfino,
Questioni di diritto e giudicato. Contributo allo studio dell’accertamento delle “fattispecie
preliminari”, Torino 2008, 176. Tuttavia, una parte della dottrina ritiene che la norma citata
non abbia mutato i termini della questione e che, quindi, le sentenze non definitive di merito
produrrebbero effetti solo all’interno del processo in cui sono rese. In tal senso R. Oriani, Il
ricorso per cassazione avverso sentenza non definitiva pronunciata nel procedimento di appello
estinto (sul nuovo testo dell’art. 133 disp. att. c.p.c.), in Riv. dir. proc. 2007, 1109, spec. 1115
e S. Turatto, sub art. 310 c.p.c., in Commentario al codice di procedura civile dir. F.P.
Comoglio, C. Consolo, B. Sassani, R. Vaccarella, III, 2, Torino 2012, 885 ss.
(12) L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 161 ss.
(13) E. Marinucci, sub art. 277, in Commentario al codice di procedura civile dir. F.P.
Comoglio, C. Consolo, B. Sassani e R. Vaccarella, III, 2, Torino 2012, 37.
(14) A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, cit., 168.
(15) E. Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del
«quantum» in separato giudizio, in Riv. dir. proc. 1986, 207 ss., 217.
(16) C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, cit., 86 s. Secondo S. Satta,
La condanna generica, cit., 1402 ss. si tratterebbe di sentenza di condanna per niente diversa
dalle altre. Cosı̀ anche la decisione in commento.
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ad un’apparenza (17). Nella condanna generica tale interesse ad agire
sembrerebbe perdere di consistenza, dal momento che, stante alla lettera
della legge, il giudice può risolversi a concedere una condanna generica a
semplice richiesta di parte (18).
Dunque la constatazione che tale decisione non contenga l’accertamento di tutti gli elementi dell’illecito, non solo fa escludere alla dottrina
che si tratti di una sentenza di condanna, ma porta la stessa a definire
come mera declaratoria iuris di un fatto potenzialmente dannoso (19),
limitata all’an debeatur. Secondo una giurisprudenza più rigorosa, la valutazione del danno, benché con apprezzamento sommario, deve avvenire su
base di probabilità (20).
Nel fatto che alla semplice declaratoria iuris si accompagni l’utilizzabilità della sentenza per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ex art. 2818 c.c.
(21), potrebbe consistere l’interesse ad ottenere una condanna generica. Vi
è anche una certa unanimità nel ritenere che la sentenza siffatta passata in
giudicato avrebbe l’effetto che l’art. 2953 c.c. attribuisce al giudicato di
condanna, per cui ogni prescrizione inferiore diverrebbe decennale (22).
(17) C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, cit., 573 ss.
(18) Richiesta, che almeno nella domanda di condanna generica ab initio, non potrebbe
essere contrastata dall’opposizione del convenuto: E. Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del quantum in separato giudizio, cit., 207; L. Montesano, Condanna senza liquidazione e condanna generica, impugnazione della condanna generica durante il giudizio liquidativo e sospensione del processo civile, in Giur. it. 1986, I, 1, 771;
A. Gili, Domanda limitata all’ an debeatur e posizione del convenuto: le sezioni unite cambiano idea, in Danno e resp. 1996, 477. La posizione della giurisprudenza numericamente
dominante sembra ormai avallare la tesi che ove con la domanda iniziale sia stata richiesta
una condanna specifica, il giudice possa operare una scissione del giudizio sull’an da quello
sul quantum, allorché essa avvenga all’interno dello stesso processo, mentre non sarebbe
possibile ove dia luogo a due diversi processi, per effetto di una decisione ex art. 277, co. 2,
c.p.c. In quest’ultimo caso, infatti, sarebbe richiesta l’istanza dell’attore ed il consenso del
convenuto. Nella prima ipotesi, invece, il consenso non è ritenuto necessario (Cass. 27 luglio
2005, n. 15686). Questa separazione non comporterebbe violazione di principi di ordine
pubblico, né la realizzazione delle finalità essenziali del processo e nemmeno il diritto di
difesa (Cass. 22 ottobre 1987 n. 7806), per il fatto che la decisione sı̀ presa potrebbe essere
impugnata (Cass. 14 marzo 2000, n. 2904, in Resp. civ. prev. 2000, 968, con nota critica di L.
Prendini, Osservazioni in tema di condanna generica e poteri del giudice).
(19) Per tutte Cass. 2 maggio 2002, n. 6257.
(20) Cass., sez. un., 23 novembre 1995, n. 12103, in Foro it. 1996, I, 1765; e, tra le altre
più recenti, Cass. 17 dicembre 2010, n. 25638.
(21) In tal senso la dottrina unanime; cfr. per tutti L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 185. Secondo la giurisprudenza l’utilità si realizza anche attraverso la
eventuale pubblicazione della sentenza, ex art. 2600 c.c.: Cass., sez. un., 23 novembre 1995,
n. 12103, cit.
(22) Satta, La condanna generica, cit., 1409, rileva che l’art. 2953 c.c. non dice, né
potrebbe dire, che i diritti contemplati dalla norma debbano essere determinati in una certa
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giurisprudenza
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Ciò sarebbe dato dalla sua natura di vera e propria statuizione autoritativa
con obbligo di adempiere ad una prestazione, anche ove la determinazione
di tale adempimento sia rimandata (23).
La decisione in commento ha invece ritenuto che anche la generica
tout court configuri una sentenza di condanna, dato che all’accertamento
in essa racchiuso si giunge in maniera piena e definitiva (24).
3. – La decisione sull’an debeatur, che non accerti la sussistenza del
diritto al risarcimento, ma la illiceità del comportamento tenuto dal responsabile-debitore, costituisce l’oggetto autonomo di una sentenza, ma
non anche l’oggetto di una sentenza autonoma. La sentenza, quantomeno
di fatto, è suscettibile di essere travolta dalla successiva pronuncia sulla
liquidazione, che accerti l’inesistenza della parte residua della fattispecie
produttiva del diritto al risarcimento (25). La sentenza di condanna gene-
somma. Sul punto la dottrina è spaccata in due, mentre la giurisprudenza si presenta
monoblocco a favore dell’applicabilità della norma anche al giudicato di condanna generica:
oltre alla sentenza in commento, cfr. tra le ultime, Cass. 7 aprile 2015, n. 6901, a proposito
della decisione emessa dal giudice penale, ma anche Cass. 7 ottobre 2005, n. 19636 e Cass.
19 febbraio 2009, n. 4054, in Foro it. 2009, I, 1741.
(23) G. Scarselli, Considerazioni sulla condanna generica, cit., 712, precisa che ove
l’oggetto della decisione sia esteso all’intero diritto controverso, l’autorità del giudicato della
sentenza risulta identica ad ogni altra relativa all’accoglimento o al rigetto di un’azione di
condanna; diversamente accade ove le parti abbiano richiesto al giudice di decidere solo
sulla fondatezza dell’azione di condanna generica, perché in questo caso la sentenza non
potrà mai possedere l’autorità della cosa giudicata sostanziale, non essendo ad essa ricollegabile alcuna attribuzione di bene della vita; ad ogni modo avrà effetti preclusivi con
riferimento al successivo processo per la quantificazione del danno. Cfr. anche C. Cavallini,
L’oggetto della sentenza di condanna generica, in Riv. dir. proc. 2002, 523; A. Carratta, voce
Condanna generica, in Enc. giur., vol. VII, Roma 1997, 16 s.; A. Gili, Domanda limitata all’an
debeatur e posizione del convenuto: le Sezioni Unite cambiano idea, cit., 477; A. Proto Pisani,
In tema di condanna generica e di precisazione delle conclusioni, in Foro it., 1986, I, 1533; Id.,
voce Sentenza di condanna, in Digesto disc. priv., sez. civ., vol. XVIII, Torino 1998, 295 ss.;
E. Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del quantum in
separato giudizio, cit., 207; L. Montesano, Condanna senza liquidazione e condanna generica,
impugnazione della condanna generica durante il giudizio liquidativo e sospensione del processo civile, cit., 771.
(24) Vedi anche, tra le più recenti, anche Cass. 9 luglio 2014, n. 15595.
(25) Cosı̀ S. Menchini, Il giudicato civile, Torino 1988, 277 s., accoglie sostanzialmente
la tesi di F. Carnelutti, Condanna generica al risarcimento del danno, in Riv. dir. proc. 1952,
325 ss.; Id., Cosa giudicata parziale, in Riv. dir. proc. 1956, II, 178, secondo cui la condanna
generica è una condanna parziale che trova nella liquidazione la sua integrazione. P. Calamandrei, La condanna generica ai danni, cit., 374 ss., recepisce l’idea che la condanna
generica sia un provvedimento cautelare (quando l’Autore scriveva non era ancora previsto
il sequestro conservativo). F. Vassalli, La sentenza condizionale, Roma 1918, 103, fa della
sentenza di condanna generica una condanna condizionale. V. Rognoni, Condanna generica
e provvisionale ai danni, cit., par. 4 ss., la definisce una condanna a cognizione incompleta.
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rica impedisce di rimettere in discussione le questioni che hanno costituito
l’oggetto del processo sull’an debeatur, all’interno del giudizio relativo alla
determinazione del quantum. Cosı̀, nei limiti del giudicato, lascia impregiudicata ogni questione relativa agli elementi della fattispecie che siano
rimasti esclusi dalla trattazione del procedimento di condanna generica:
anzitutto l’effettiva sussistenza del danno (26).
La mancata attribuzione del bene della vita rende molto complicato il
riconoscimento di autorità di cosa giudicata sostanziale alla condanna generica (27). Ciononostante si afferma che la sentenza sull’accertamento definitivo si sostituisce alla sentenza di condanna generica (28) e, allo stesso tempo,
si ritiene che in forza del combinato disposto degli artt. 310, secondo comma, c.p.c. e 129, terzo comma, disp. att. c.p.c., la condanna generica conservi
la propria efficacia nonostante l’estinzione del processo sul quantum (29).
Secondo la dottrina che attribuisce alla sentenza di condanna generica
la stessa rilevanza di una sentenza di condanna (30) – perché esprime un
giudizio né provvisorio, né superficiale, né sommario, bensı̀ a cognizione
piena, con accertamento di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito – l’accertamento non si ferma al fatto dannoso e alla colpa, ma richiede la prova
che un danno vi sia stato, anche se non oggetto di quantificazione (31). A
(26) Nel successivo giudizio sul quantum resta preclusa l’esperibilità del regolamento
preventivo di giurisdizione, per effetto della precedente pronuncia di merito in ordine all’an
debeatur. Sul punto ci permettiamo di rinviare a G. Gioia, La decisione sulla questione di
giurisdizione, Torino 2009, 243 ss.
(27) In tal senso: V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, cit., vol. II, 250
ss.; A. Segni, Sub art. 2909, Della tutela giurisdizionale dei diritti, in Commentario ScialojaBranca, Bologna- Roma 1959, 332 s.; F. Carnelutti, Condanna generica al risarcimento del
danno, cit., 327; Id., Cosa giudicata parziale, cit., 178; V. Denti, I giudicati sulla fattispecie, in
Riv. trim. dir. e proc. civ. 1957, 1384; G. Pugliese, voce Giudicato civile, (dir. vig.), in Enc.
dir., XVIII, Milano, 1969, 836; G. Tomei, La sommarietà delle condanne parziali, in Riv. dir.
proc. 1996, 350 ss., 370 ss.
(28) S. Menchini, Il giudicato civile, cit., 278 s.
(29) V. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., vol. I, 991; E.T. Liebman, Manuale di
diritto processuale civile, IV ed., II, Milano 1981, 239; A. Proto Pisani, Lezioni di diritto
processuale civile, cit., 167; M. Montanari, L’efficacia delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, in Riv. dir. proc. 1987, 324 ss., I, 471 s.
(30) S. Satta, voce Condanna generica, in Enc. dir., vol. VIII, Milano 1961, 720 ss.
(31) Ciò a partire da Cass. 7 marzo 1924, in Giur. it. 1924, I, 1, 388. Cfr. anche Cass. 16
gennaio 1933, n. 147, in Nuova Riv. app. 1933, 188; Cass., sez. un., 11 marzo 1932, n. 878,
in Settimana cass. 1932, 585; Cass., 3 dicembre 1930, n. 3482, in Riv. dir. comm. 1931, 353,
che introducono l’idea della prova generica del danno, la quale è sufficiente alla declaratoria
del diritto al risarcimento del danno, a meno che il danno non sia in re ipsa; Cass. 30 marzo
1932, n. 1097, in Giur. corti reg. 1932, 284. P.G. Monateri, La responsabilità civile, in
Trattato Sacco, Torino 1998, 309 s., sottolinea che i danni risarcibili vanno distinti in danni
generici e danni specifici. I primi conseguono sulla base dell’id quod plerumque accidit, sono
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giurisprudenza
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questa impostazione sembra aver attinto la decisione in commento. Con
essa si pone l’accento sul fatto che l’iter per addivenire alla sentenza è a
cognizione piena. Conseguentemente l’accertamento in essa contenuto
rimane e può essere utilizzato in un eventuale giudizio successivo, diretto
a far accertare effetti diversi, provenienti dal fatto accertato, rispetto a
quelli già negati (32).
Il contenuto dell’accertamento riguarda l’illiceità della condotta o l’inadempimento e non viene mai meno, anche se una successiva sentenza
sul quantum dovesse accertare che non c’è stato alcun danno o non è
dovuta alcuna prestazione pecuniaria (33). In altre parole, il giudice, che
venga adito a valle di una sentenza di condanna generica già emessa, può
ritenere che non ci sia danno, ma laddove riscontri che un danno ci sia,
non può mettere in dubbio l’elemento psicologico, che rimane accertato
con la prima sentenza. La sentenza di condanna definitiva sarà peraltro
emessa all’esito dell’accertato nesso causale giuridico.
Secondo la giurisprudenza, la sentenza di condanna generica pronunciata nel corso di un giudizio di risarcimento del danno aquiliano, di
norma, presuppone il positivo accertamento del nesso di causalità materiale (ex art. 40 c.p.) tra la condotta e l’evento produttivo di danno, sicché
nel successivo giudizio sul quantum resta da accertare soltanto il nesso di
causalità cosiddetta giuridica (ex art. 1223 c.c.) tra l’evento di danno ed i
pregiudizi che ne siano derivati (34).
La sentenza in commento ha avallato quella giurisprudenza che fa
entrare nelle questioni necessariamente deducibili nel giudizio sull’an anche il concorso di colpa del danneggiato nell’illecito, ex art. 1227, comma
1˚, c.c. Nel successivo giudizio sul quantum, perciò, l’accertamento della
sua esistenza, nonché la graduazione dell’efficienza causale, saranno preclusi (35). In tal modo ha escluso che gli effetti dell’accettazione con
beneficio di inventario fossero ancora accertabili nella seconda fase.
cioè i danni normali che derivano dal comportamento colposo e che il giudice può presumere anche sulla base dell’art. 1226 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c., che si configurano se
quel fatto è idoneo a produrre un danno, salvo prova contraria, fornita la quale il danneggiato dovrà dimostrare di aver ricevuto il danno specifico, cioè quello concreto.
(32) È la tesi di L. Montesano, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 184 e 229.
(33) Oltre S. Satta, voce Condanna generica, cit., 720 ss., si trovano su queste posizioni:
F. Vassalli, La sentenza condizionale, cit., 103; V. Rognoni, Condanna generica e provvisionale ai danni, cit.; F.D. Busnelli, sub art. 2909, Della tutela dei diritti, in Commentario Utet,
libro VI, t. IV, Torino 1980, 248; Id., Considerazioni sul significato e sulla natura della cosa
giudicata, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1961, 1341 ss.
(34) Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357.
(35) Si veda anche Cass. 9 gennaio 2001, n. 240; Cass. 6 giugno 2007, n. 13242.
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Per quanto riguarda la condanna alla provvisionale, nonostante autorevole dottrina abbia sostenuto che la valutazione del giudice in questo
caso sarebbe limitata al fumus boni iuris (36), si ritiene comunemente che
la cognizione sia piena e la decisione irretrattabile (37).
La Corte si è premurata di precisare che l’accertamento del danno
contenuto nella provvisionale si estende a tutte le sue componenti e che la
condanna, benché parziale, non contravviene al principio della infrazionabilità del credito in giudizio (38).
Da questo ragionamento, perfettamente condivisibile, emerge che non
solo la provvisionale sottende un accertamento pieno, anche se incompleto, ma anche la semplice generica. Ciò presuppone che il giudice possa
emettere condanna generica unicamente nell’ipotesi in cui sia certo che un
danno – ancorché non quantificabile, ma quanto meno nummo uno – vi sia
stato. In fase di liquidazione, perciò, la possibilità che la quantificazione sia
pari a zero diventa estremamente remota. La probabilità nella produzione
del danno, accertata al fine di concedere la generica, afferma l’idea che il
giudice non solo accerta un nesso causale tra la condotta e l’evento, ma
stabilisce anche la dannosità di quest’ultimo.
4. – L’art. 278 c.p.c. sembra esercitare grande fascino sui giudici. Non
bisognerebbe tuttavia dimenticare che esso racchiude una norma pressoché speciale. La previsione di due decisioni, la prima limitata all’an debeatur e l’altra concernente la liquidazione del quantum dovuto, a titolo di
risarcimento, deroga al precedente (in ordine sintattico) principio di concentrazione processuale di cui al primo comma dell’art. 277 c.p.c., ove
dispone che il giudice è tenuto a decidere su tutte le domande e le eccezioni, definendo il giudizio. Deroga anche al secondo comma del medesi-
(36) Cosı̀ S. Satta, voce Condanna generica, cit., 720 ss.
(37) In tal senso E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, IV ed., II, Milano
1981, 30; V. Andrioli, Commento al codice di procedura civile, vol. II, cit., 253; V. Rognoni,
Condanna generica e provvisionale ai danni, cit., 183 s.; A. Carratta, voce Condanna generica,
cit., 13. Si veda invece la diversa ricostruzione fatta sulla base dell’art. 489 del vecchio c.p.p.,
per cui la natura al pagamento della provvisionale aveva natura provvisoria e cautelare (V.
Rognoni, Condanna generica e provvisionale ai danni, cit., 206). Benché la nuova formulazione normativa contenuta nell’art. 539, comma 2˚, c.p.p., si discute ancora se a seguito di
condanna alla provvisionale in sede penale, al fine di conservarne l’efficacia, debba necessariamente promuoversi il giudizio civile per la liquidazione dei restanti danni. Si veda E.
Palmieri, Le “sanzioni civili” del reato nel processo penale. Risarcimento del danno. Condanna generica e provvisionale, Milano 2002, 212 ss.
(38) Cass., sez. un., 15 novembre 2007, n. 23726, in Foro it. 2008, I, 1515, con nota di
R. Caponi, Divieto di frazionamento giudiziale del credito: applicazione del principio di proporzionalità nella giustizia civile?
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giurisprudenza
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mo articolo, che a sua volta fa riferimento alla possibilità di decidere
alcune domande. Entrambi i principi vanno poi osservati attraverso la lente
dell’art. 111 Cost. e, quindi, della ragionevole durata del processo, che
innegabilmente li fortifica ancor di più.
A questo proposito, bisogna brevemente richiamare la querelle sulle
sentenze non definitive e sul rapporto tra l’art. 277, comma 2˚, e l’art. 279
n. 4 c.p.c. Secondo una certa impostazione, il secondo sarebbe un’estrinsecazione del primo, nel senso che una sentenza non definitiva di merito,
oltre ad una questione preliminare di merito, potrebbe avere ad oggetto
solo una o più domande, che quindi richiedono l’espressa istanza di parte (39). L’art. 278 c.p.c. sarebbe, perciò, norma speciale. L’altra impostazione, che invece rivendica la possibilità per il giudice di emettere sentenze
non definitive anche su semplici questioni, o, se si vuole, su capi di domanda (40), pone l’art. 278 c.p.c. nella regola.
Tuttavia, nell’attuale quadro normativo, la condanna generica risulta a
tratti uno strumento sovrabbondante, anzitutto perché essa era nata nella
prassi quando, prima dell’adozione del Codice di rito del ‘40, non esisteva
il sequestro conservativo. In tempi più recenti, l’introduzione delle ordinanze di condanna, ex art. 423 e artt. 186 bis, ter e quater, c.p.c., teoricamente avrebbe dovuto depotenziare l’utilizzo dell’art. 278 c.p.c. (41) Tuttavia la condanna generica sembra essere costantemente gradita, molto più
che non le ordinanze di condanna.
La lettura che oggi troviamo nella sentenza in commento si confà alla
riformulazione dell’art. 183 c.p.c. La dottrina ha già evidenziato la facoltà
per l’attore di chiedere la condanna generica nell’atto di citazione, quella
del convenuto di opporsi e quella dell’attore di integrare la domanda, ai
sensi dell’art. 183, comma 6˚, c.p.c. Ha cioè ammesso che, solo a valle di
una domanda contenente tutti gli elementi per ottenere la condanna al
risarcimento, sia possibile la richiesta di limitare la decisione alla condanna
generica (42).
In base alla ricostruzione della sentenza in commento – che ci sembra
la più ragionevole – la condanna generica può essere chiesta a condizione
(39) G. Scarselli, Considerazioni sulla condanna generica, cit. 712.
(40) E. Marinucci, sub art. 277, cit., 37 ss.
(41) Esclude che tale sentenza possa far parte delle ordinanze anticipatorie G. Scarselli,
Considerazioni sulla condanna generica, cit., 712.
(42) La dottrina che ha analizzato la condanna generica a ridosso della Riforma del ‘90
ha ravvisato, in parte, una certa illegittimità interpretativa – relativamente alla domanda
originaria di condanna generica – e, nel complesso, una certa inutilità. Cosı̀ G. Scarselli,
Considerazioni sulla condanna generica, cit. 712.
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che la domanda sia esplicitata in maniera tale da contenere le allegazioni
sufficienti per la condanna specifica, tranne per i danni ancora non quantificabili. Possiamo ammettere che l’attore limiti la propria domanda anche
in sede di precisazione delle conclusioni (43) e il convenuto si opponga
persino nella comparsa conclusionale, perché nessuna attività ulteriore è
richiesta per effetto della limitazione (44). Questo a condizione che non si
voglia invece sostenere che il giudice sia tenuto a instaurare il contraddittorio sulla richiesta dell’attore, onde discutere l’interesse ad agire (45).
Probabilmente però lo strumento in discussione, il cui utilizzo obera il
giudice, quanto meno della redazione di due piuttosto che di una sentenza,
impone nel singolo caso una riflessione sull’interesse, che dovrebbe concentrarsi anche sull’utilizzabilità di mezzi meno onerosi dal punto di vista
dell’economia processuale (46).
Ad ogni modo, cosı̀ come è congegnato oggi il processo, dopo un
grado di giudizio – in cui sono state rassegnate le conclusioni e – che ha
avuto come epilogo una sentenza, non sono ammessi fatti della cui esistenza si era a conoscenza preventivamente. Non saranno perciò ammesse
prove già conosciute che avrebbero potuto fondare fatti precedenti. I
nova che l’attore potrà far valere nel prosieguo sono esclusivamente i fatti
e le prove sopravvenute al momento della precisazione delle conclusioni
del giudizio sull’an. La condanna generica sembrerebbe rivelarsi interessante per l’attore solo ove il danno si stia ancora producendo, perché
evidentemente nemmeno un’inibitoria ha potuto farlo cessare. Invece,
come detto, la funzione cautelare rispetto al credito, data dall’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale (47), ben può essere ottenuta con una richiesta di
(43) Come peraltro la giurisprudenza: Cass. 2 febbraio 1996, n. 897.
(44) Invece, laddove si ammetta la possibilità di chiedere la condanna generica in prima
battuta, l’attore – che avesse articolato in maniera completa la sua domanda – a prescindere
dall’opposizione del convenuto, potrebbe modificare la sua domanda da condanna generica
in condanna specifica. Contraria a questa posizione si è rivelata la giurisprudenza. Cfr. Cass.
25 gennaio 2001, n. 1057, secondo cui la proposizione della domanda di liquidazione del
danno, in sostituzione di quella di condanna generica, si traduce in una mutatio libelli, la cui
inammissibilità può essere rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo,
anche laddove il convenuto non si sia opposto espressamente. Cass. 1 ottobre 1998, n. 9760
ha ritenuto la domanda di liquidazione del danno formulata in appello inammissibile domanda nuova; peraltro, nel caso specifico, l’inammissibilità era stata rilevata dalla parte che
vi aveva dato corso.
(45) Vedi supra.
(46) Si vedano anche le considerazioni di E. Merlin, Condanna generica e opposizione
del convenuto alla liquidazione del quantum in separato giudizio, cit., 213 circa il rischio di
inutilità e di dispendio di energie processuali dello strumento di cui si discute.
(47) In tal senso P. Calamandrei, La condanna generica ai danni, cit., 382.
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sequestro conservativo in corso di causa, che però oltre al fumus (di sicura
configurabilità) richiede anche il periculum in mora, ma in cambio offre
senz’altro una tutela più ampia per l’attore e maggiore per il convenuto.
Sulla base della giurisprudenza espressa nella sentenza della Terza
sezione della Cassazione, nel caso in cui il processo si estingua dopo che
la sentenza di condanna generica sia stata emessa, nel nuovo processo
azionato solo per il quantum, lo svolgimento sarà del tutto semplificato,
perché verosimilmente potrà farsi ricorso esclusivamente alla CTU.
5. – La decisione del giudice penale che accerti un reato e riservi la
quantificazione del danno al giudice civile costituisce il paradigma della
condanna generica e trova il suo corrispondente nell’art. 539 c.p.p.
Una volta che la condanna generica sia stata emessa dal giudice penale,
il giudice civile non potrà mettere in discussione che il fatto criminoso
accertato dal primo si sia prodotto. Tutti gli altri elementi della fattispecie
di responsabilità civile, invece, dovranno essere accertati (48).
In realtà, una sentenza sulla responsabilità penale, diventata irrevocabile, sembra avere la medesima efficacia di una condanna generica, ex art.
651 c.p.p.
La giurisprudenza ha chiarito che la riforma del codice di procedura
penale del 1988 ha posto il giudizio civile e quello penale sullo stesso
piano (49), per cui la prevalenza del secondo sul primo (e su tutti gli altri),
riscontrabile negli artt. 651-654 c.p.p. è del tutto eccezionale (50).
Le Sezioni unite civili sono intervenute qualche anno fa sul contrasto
intorno all’interpretazione dell’art. 652 c.p.p. Hanno statuito che la norma
non si applica alle decisioni penali di improcedibilità emesse, per ragioni
anche di merito, prima del dibattimento, o per ragioni di rito, all’esito del
dibattimento (51). La questione più spinosa si poneva rispetto alle sentenze di non doversi procedere emesse a seguito di reato estinto per prescrizione o per amnistia. I giudici hanno cosı̀ chiarito che esse non producono
(48) Sul vincolo, si veda G. Guarneri, Giudizio (rapporto tra il giudizio civile e penale),
in Nuoviss. Dig. it., VII, Torino 1961, 866; L. Montesano, Il “giudicato penale sui fatti” come
vincolo parziale all’assunzione e alla valutazione delle prove civili, in Riv. dir. proc. 1993, 939.
Per la giurisprudenza si veda la recente Cass. pen., Sez. III, 9 settembre 2015, n. 36350, che
ribadisce la posizione in base alla quale ai fini della condanna generica in favore della parte
civile la prova dei danni e del nesso di causalità non è necessaria.
(49) Cass., sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768, in Corriere giur. 2011, 644 ss., con nota
di A. di Majo, Il danno e il reato (tornando a Carnelutti).
(50) Cass. 28 novembre 2004, n. 19387.
(51) Cass., sez. un., 26 gennaio 2011, n. 1768, cit.
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effetti fuori dal processo penale, anche laddove il giudice abbia accertato e
valutato il fatto.
Stante cosı̀ le cose, l’unico mezzo a disposizione del giudice penale
che, pur avendo accertato il fatto criminoso, non possa emettere una
sentenza di condanna, è un provvedimento di condanna generica, che
contiene appunto l’accertamento che il fatto illecito sia stato commesso
dal danneggiante. In questo modo, l’imputato, pur prosciolto dal reato,
non ha più la possibilità di contestare la declaratoria iuris di generica
condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ma soltanto l’esistenza e
l’entità in concreto di un pregiudizio risarcibile (52).
Laddove volessimo estendere alla condanna generica resa dal giudice
penale quanto siamo andati dicendo per quella emessa dal giudice civile,
dovremmo ritenere la parte civile tenuta ad allegare fatti e a dedurre prove
sufficienti all’accertamento in toto del danno. In difetto, anche il giudice
penale dovrebbe rigettare la domanda di risarcimento del danno (53).
Nel caso in cui la condanna generica sia pronunciata dal giudice civile,
la causa continua davanti allo stesso giudice (54) e, tranne che ricorrano le
particolari condizioni già viste, alle parti non è più permessa l’allegazione
di nuove prove. Laddove ad emettere la condanna generica invece sia il
giudice penale, la causa davanti al giudice civile viene iniziata ex novo per
cui non si possono ipotizzare verificate le preclusioni processuali dell’altra
ipotesi. Invero non sono da escludere le preclusioni pro iudicato, per cui
quanto poteva essere dedotto davanti al primo giudice e non lo sia stato
non è più deducibile. Evidentemente in questa direzione il percorso diventa piuttosto tortuoso. Dobbiamo allora ritenere che la condanna generica emessa dal giudice penale e quella emessa da giudice civile siano
provvedimenti di natura diversa?
Un altro aspetto della generica emessa in sede penale merita di essere
sottolineato. Essa infatti, a differenza della sua omologa resa in sede civile,
non dà titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. L’iscrizione segue le
sorti della sentenza penale e, perciò, sarà possibile solo a seguito del
passaggio in giudicato di quest’ultima (55). Accade, infatti, che la parte
(52) Cass. 3-6 novembre 2014, n. 23633; Cass. 29 gennaio 2013, n. 2083; Cass. 21
giugno 2010, n. 14921; Cass. 6 novembre 2002, n. 15557.
(53) Questa tesi, in principio, è adottata dalla giurisprudenza di legittimità penale.
(54) A meno che il processo non si sia estinto prima della condanna specifica e la
sentenza di condanna generica sia fatta valere in un successivo giudizio.
(55) Solo la condanna alla provvisionale è immediatamente esecutiva, ex art. 540,
comma 2˚, c.p.p.
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civile per tutelare le proprie ragioni, nelle more del giudizio, chieda al
giudice penale l’emissione di un sequestro conservativo.
Questa considerazione mette senz’altro in discussione la necessità della
sentenza di condanna generica anche nel processo penale, onde probabilmente una riflessione più generale dell’istituto sarebbe auspicabile.
GINA GIOIA
Ricercatore nell’Università della Tuscia
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CORTE DI CASSAZIONE, sez. un. civ., sentenza 9 dicembre 2015, n. 24822
Pres. Rovelli – Rel. Vivaldi
A.P. ed altri c. Comune di Cassano Magnago, Latere s.r.l. in liquidazione ed altri
La regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario
si estende anche all’effetto sostanziale dell’interruzione della prescrizione del diritto fatto valere con la domanda giudiziale ove possa conseguirsi solo con l’esercizio dell’azione, conseguendone che l’interruzione si verifica in virtù della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.
(Omissis). – 1. La questione posta dall’ordinanza di rimessione.
La questione riguarda i limiti di estensione del principio della diversa decorrenza degli
effetti della notificazione nelle sfere giuridiche, rispettivamente, del notificante e del destinatario. È chiesto un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite sui limiti di operatività
del principio: se debba, cioè, essere riferita ai soli atti processuali, o possa essere ampliata
alla notificazione di atti sostanziali od, eventualmente, di atti processuali che producano effetti anche sostanziali. Il quesito è relativo alla notificazione dell’atto di citazione in revocatoria ed, in particolare, quel che si tratta di individuare è il momento di interruzione della
prescrizione ex art. 2903 c.c. Il problema, quindi, riguarda l’estensione del principio della
differente decorrenza degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario.
La portata della regola – che è stata introdotta nell’ordinamento dalla sentenza di Corte
Cost. n. 477/2002 e che, successivamente, è stata recepita dal legislatore nell’art. 149 c.p.c.,
– è stata circoscritta da numerose decisioni della Corte di cassazione. Secondo la decisione,
il principio della scissione soggettiva della notificazione, trovando la sua giustificazione nella tutela dell’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità, è stato implicitamente
circoscritto dalla stessa Corte Costituzionale ai soli atti processuali. L’estensione della regola fuori da tale ambito sarebbe in contrasto con il principio generale di certezza dei rapporti giuridici che, ai fini dell’efficacia degli atti unilaterali ricettizi, richiede la conoscenza o
conoscibilità dell’atto da parte della persona interessata.
(Omissis). – Secondo l’indirizzo prevalente (pur essendovi decisioni di senso contrario
cui si accennerà in seguito; ma sul punto v. anche Cass. n. 18399/2009; Cass., sez. un., n.
8830/2010) la scissione degli effetti per il mittente e per il destinatario si applica solo alla
notifica degli atti processuali e non a quella degli atti sostanziali, né agli effetti sostanziali
degli atti processuali. Questi ultimi, pertanto, producono i loro effetti soltanto dal momento in cui pervengono all’indirizzo del destinatario, a nulla rilevando il momento in cui siano
stati consegnati dal notificante all’ufficiale giudiziario od all’ufficio postale.
(Omissis). – Il principio trova la sua giustificazione nella necessità di coordinare la garanzia di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario con l’interesse del notificante a
non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente
sottratto ai suoi poteri di impulso. L’ordinanza, poi, si sofferma sulla principale obiezione
mossa all’estensione del principio di scissione degli effetti alla notificazione degli atti sostanziali. Nessuna lesione alla certezza del diritto, infatti, potrebbe provocare l’applicazione di
una regola che presuppone per la sua piena operatività che il procedimento di notificazione
sia portato a regolare compimento, con la piena garanzia di conoscenza (o, quanto meno,
di conoscibilità legale) dell’atto da parte del destinatario.
(Omissis). – L’orientamento contrario all’estensione della regola agli atti sostanziali –
secondo l’ordinanza di rimessione – sarebbe poi immotivato proprio nei casi in cui un effet-
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to sostanziale sia conseguibile soltanto con la notificazione di un atto processuale. Il riferimento, in particolare, è al termine di prescrizione dell’azione revocatoria, che non potrebbe
essere interrotto se non mediante la notificazione dell’atto di citazione. In queste fattispecie,
la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notificazione non è solo un incombente
materiale di per sé significativo della cessazione dello stato di protratta inerzia che giustificherebbe altrimenti l’estinzione del diritto, ma rappresenta l’esercizio di un vero e proprio
diritto potestativo del creditore al quale corrisponde, in capo al debitore, non già un obbligo di prestazione, ma uno stato di mera attesa e soggezione all’altrui iniziativa giudiziale. In
tali evenienze, il creditore deve essere ammesso ad esercitare il suo diritto, usufruendo del
termine prescrizionale per intero e non al «netto» dei giorni di ritardo ipoteticamente ascrivibili all’agente notificatore. Il richiamo al normale carattere recettizio dell’atto unilaterale
ex artt. 1334 e 1335 c.c., pertanto, dovrebbe cedere se messo in relazione, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2943 c.c., alla notificazione di un atto
che soggiace ad un principio generale la cui ratio è quella di tenere indenne il notificante
delle cause di perenzione non ascrivibili alla sua responsabilità.
2. – La portata di Corte Cost. n. 477/2002.
(Omissis). – Va rilevato che nell’impostazione della Corte Costituzionale il parametro
del diritto di difesa appare svolgere una funzione logica complementare e aggiuntiva: il vero
parametro di costituzionalità è il principio di ragionevolezza.
3. – Capacità espansiva dei principi affermati nella sentenza della Corte Costituzionale.
(Omissis). – Il richiamo al diritto di difesa suggerirebbe una limitazione delle potenzialità interpretative del principio costituzionale ai soli atti in cui viene effettivamente in rilievo
il diritto di difesa: atti giudiziari e amministrativi. Ma si è appena visto che la ratio decidendi
della pronuncia costituzionale è – prima ancora che il diritto di difesa – il principio di ragionevolezza. E tale principio ha una potenzialità espansiva – sul piano interpretativo – notevolmente superiore rispetto al principio di difesa.
3.1. – Il principio di ragionevolezza implica un bilanciamento dei beni in conflitto. All’esito del bilanciamento un bene viene sacrificato a vantaggio di un altro bene. La tecnica
del bilanciamento avviene attraverso vari steps: a) primo step: il sacrificio di un bene deve
essere necessario per garantire la tutela di un bene di preminente valore costituzionale (per
esempio, certezza e stabilità delle relazioni giuridiche); b) secondo step: a parità di effetti, si
deve optare per il sacrificio minore; c) terzo step: deve essere tutelata la parte che non versa
in colpa; d) quarto step: se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene
imponendo un onere di diligenza – o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione – alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere.
4. – Non esiste una soluzione generalizzata per tutte le norme e tutti i casi. Con la tecnica del bilanciamento la Corte Costituzionale (ma lo stesso procedimento logico lo adotta
la Corte Edu) costruisce una norma traendola dalla disposizione di legge. Il giudice ordinario per compiere una interpretazione costituzionalmente orientata deve procedere allo stesso modo: esaminare una singola disposizione; individuare i beni in conflitto; compiere un
giudizio di bilanciamento secondo i passaggi logici sopra indicati; infine, estrarre la norma
dalla disposizione. È proprio nella natura della tecnica del bilanciamento che una soluzione
normativa valida per una disposizione non sia valida per un’altra: proprio perché nel giudizio di bilanciamento è ben possibile che in un caso normativo si dia preminente tutela al
notificante e in altro caso normativo (cioè in riferimento ad un’altra disposizione: parliamo
– inutile dirlo – di norme e non di casi pratici specifici) si dia tutela al notificato.
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5. – La scissione soggettiva degli effetti della notificazione: non è un principio valido
per tutte le ipotesi normative. La giurisprudenza solitamente vede con disfavore questa scissione. Le obiezioni ricorrenti sono due: a) la teoria dell’atto ricettizio: nel caso degli atti ricettizi, la fattispecie si perfeziona con la consegna. Pertanto, prima della consegna la fattispecie è incompleta e una fattispecie incompleta non può produrre effetti; b) la teoria della
notificazione: la notificazione è una fattispecie a formazione progressiva, prima che sia perfezionata (con la conoscenza o conoscibilità legale da parte del destinatario), siamo in presenza di una fattispecie imperfetta e la fattispecie imperfetta non produce effetti. Al fondo,
le remore giurisprudenziali e dottrinali verso il principio di scissione sancito dalla Corte costituzionale si riassumono in un timore: il pregiudizio per il superiore principio della certezza delle situazioni giuridiche. Tale timore può essere dominato se si considera che, in realtà,
il principio di scissione comporta una distinzione tra l’an e il quando degli effetti della notifica.
(Omissis). – La scissione soggettiva della notifica non pregiudica minimamente il valore della certezza delle situazioni giuridiche perché: se la notifica non si perfeziona, nessun
effetto si produce e gli effetti provvisori eventualmente prodotti si annullano; se la notifica
si perfeziona, le situazioni giuridiche sono certe perché vengono individuati con certezza i
due momenti in cui gli effetti differenziati si producono: per il notificante al momento della
consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, per il notificato al momento della ricezione legale
dell’atto.
5.1. – Il vero problema è l’incertezza giuridica medio tempore nel periodo di tempo tra
la consegna da parte del notificante dell’atto per la notifica e la ricezione legale dell’atto da
parte del notificato. È questa grigia zona di tempo in cui domina l’incertezza giuridica per
il notificante ed il destinatario che va chiarificata. Ed è qui che opera la tecnica interpretativa del bilanciamento che – come si è detto – non vale in generale, ma soltanto per categorie
di atti. a) gli atti processuali. Il notificante ha un termine a difesa o, comunque, un termine
per svolgere la sua attività processuale. Questo termine gli deve essere riconosciuto per intero.
(Omissis). – Quindi per gli atti processuali tutti, senza distinzione tra diritto di difesa e
altre attività processuali – opera il principio di scissione. In questo caso entrambe le parti
sono incolpevoli, ma il legislatore ha allocato la perdita sul notificante. b) Gli atti negoziali
unilaterali. Per gli atti sostanziali la tecnica del bilanciamento è preclusa da una norma specifica (art. 1334 c.c.): qui il bilanciamento lo ha già fatto il legislatore. Sta di fatto che l’inequivoco testo della norma (qui viene in rilievo il pur discusso brocardo in claris non fit interpretatio) preclude all’interprete ogni diversa interpretazione rispetto a quella fatta palese
dal significato delle parole.
6. – La revocatoria e la decisione di questa Suprema Corte.
La domanda di revocatoria ha un effetto processuale e un effetto sostanziale. La giurisprudenza (Cass. 29 novembre 2013, n. 26804) è incline a ritenere che l’effetto interruttivo
della prescrizione si verifichi al momento della notifica al destinatario dell’atto di citazione.
Tale affermazione fonda le sue radici sul fatto che la decorrenza degli effetti dalla notifica
al destinatario assicura la certezza delle situazioni giuridiche. Agli argomenti addotti è agevole ribattere:
a) la regola dell’art. 1334 c.c. è dettata (come risulta anche dalla sedes in cui è collocata) per gli atti negoziali: l’atto di citazione non è un atto negoziale, ovviamente. b) si tratterebbe allora di estendere l’art. 1334 c.c., agli atti processuali con effetti sostanziali. Ma qui
c’è lo sbarramento del criterio ermeneutico letterale: pertanto, nessuna interpretazione
estensiva consente di applicare una regola nata per regolare atti negoziali unilaterali agli atti
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processuali. c) occorrerebbe allora procedere in via di interpretazione analogica: ma non
c’è nessuna analogia tra atti negoziali e atti processuali. Anziché la eadem ratio, c’è la ratio
contraria: il principio fissato dalla Corte Costituzionale tutela il diritto di agire e – prima ancora – il principio di ragionevolezza. Ora, la giurisprudenza prevalente applica la regola
dell’art. 1334 c.c., per analogia, ma in presenza di presupposti contrari all’analogia, ad un
atto processuale sacrificando il diritto di azione. Ma c’è di più: si è visto che il principio affermato dalla Corte Costituzionale ha una portata espansiva potenzialmente applicabile a
tutti gli atti (processuali e negoziali) in quanto il parametro di costituzionalità utilizzato dalla Corte Costituzionale non è solo il diritto di difesa, ma soprattutto il principio di ragionevolezza. L’espansione in via interpretativa agli atti negoziali è impedita dall’esistenza di una
norma specifica (l’art. 1334 c.c. appunto). Ora, dove tale norma non opera, deve espandersi il principio generale: art. 12 delle preleggi, cioè non l’analogia legis (quindi applicazione
analogica dell’art. 1334 c.c., agli atti processuali ad effetti sostanziali), bensı̀ l’analogia iuris
(cioè applicazione agli atti – ove una norma specifica non disponga diversamente – del
principio generale sancito dalla Corte Costituzionale). d) l’interpretazione prevalente si
espone ad un’ulteriore obiezione: essa afferma che nell’atto di citazione si dovrebbe vedere
anche una costituzione in mora (dunque, un atto recettizio). La giurisprudenza dominante
purtroppo non approfondisce il tema, ma opera una sorta di commistione tra effetti sostanziali e struttura dell’atto.
(Omissis). – In sostanza sovrappone gli effetti dell’atto alla natura dell’atto: che un atto
processuale produca effetti sostanziali non significa che esso cambi natura: o per meglio dire sviluppi una doppia natura, natura formale (atto di citazione) e una natura nascosta ma
baluginante (atto di costituzione in mora). e) da ultimo, l’invocato principio della certezza
dei rapporti giuridici. In questa obiezione c’è un aspetto paradossale: quasi che la certezza
giuridica riguardi solo gli atti sostanziali e non anche gli atti processuali. Anche per gli atti
processuali (il processo ci sta proprio per questo) vale il principio della certezza giuridica.
Ma come si è a suo tempo visto, è apodittico affermare che la certezza giuridica sia tutelata
soltanto dalla regola che gli effetti dell’atto si producono solo dal momento della notifica al
destinatario e non dalla regola che tali effetti possono provvisoriamente prodursi fin dal
momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, salvo il consolidamento definitivo
degli effetti al momento di perfezionamento della fattispecie. L’incertezza giuridica è solo
temporanea (e concerne il periodo tra consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario e sua notifica al destinatario). Ora, questa incertezza temporanea destinata a dissolversi alla fine nella
certezza giuridica è – per cosı̀ dire – una servitus iustitiae, cioè un danno temporaneo che
ben può essere imposto ad una parte incolpevole (il notificando) per evitare un danno ben
più grave e definitivo al notificante, parte ugualmente incolpevole. Più in generale, se il diritto si estingue per prescrizione quando non è esercitato, ciò che vale ad impedire che la
prescrizione maturi è che il diritto sia esercitato. Se il diritto deve o può esserlo dando inizio al giudizio, dare inizio al giudizio è atto di esercizio del diritto e quindi ciò che rileva è
che l’avente diritto abbia compiuto gli atti necessari per iniziarlo, non che nel termine l’obbligato lo venga a sapere; se è stato iniziato ed è stato fatto quanto necessario perché sulla
sua base prosegua, il convenuto sarà posto in grado di difendersi a proposito della tempestività dell’atto di inizio. Ciò vuol dire che, per impedire il maturarsi della prescrizione, è
necessario che il diritto sia stato esercitato nel termine. E questo è un fatto oggettivo, che
non dipende dalla conoscenza che l’obbligato ne abbia; il completamento del procedimento
di notificazione, necessario perché la prescrizione non si perfezioni, mette il convenuto nella condizione di verificare se la prescrizione si è o no maturata. La soluzione accolta, che
applica la tecnica interpretativa del bilanciamento, è del tutto ragionevole. Invero: il notifi-
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cante non ha colpe; il notificato lucra sul ritardo dell’ufficiale giudiziario. Dunque, il notificante subisce un danno senza colpa (quello che doveva fare l’ha fatto nei termini) il notificato gode di un vantaggio senza merito: è il puro caso che gli attribuisce il guadagno. Si
tratta di scegliere se allocare la perdita sulla parte incolpevole e allocare il guadagno sulla
parte immeritevole. La giurisprudenza qui criticata, in sostanza, fa decidere al caso il torto
e la ragione. Ma è proprio applicando la tecnica del bilanciamento che si trova la soluzione.
Non si può allocare sul notificante incolpevole la perdita definitiva del diritto quando basterebbe imporre al notificato il lieve peso di un onere di attesa, dettato dal principio di
precauzione. Entrambe le parti sono incolpevoli. Ma nel bilanciamento tra la perdita definitiva del diritto per una parte e un lucro indebito per l’altra parte, la soluzione più razionale
è quella di salvaguardare il diritto di una parte incolpevole ponendo a carico dell’altra parte
– parimenti incolpevole – un pati, cioè una situazione di attesa che non pregiudica, comunque, la sua sfera giuridica. Da ultimo, si potrebbe obiettare: la tecnica del bilanciamento
porta a soluzioni opposte per gli atti sostanziali e per quelli processuali: nel primo caso il
bilanciamento operato dal legislatore (art. 1334 c.c.) privilegia il notificato, nel secondo caso (bilanciamento operato dalla giurisprudenza mediante interpretazione) si privilegia il notificante. In realtà, si tratta di conflitto apparente: si è premesso e più volte ripetuto che è
proprio nella logica del bilanciamento che non può esservi una soluzione valida per tutti i
casi. Nel nostro caso, gli opposti esiti del bilanciamento derivano dalla opposta natura degli
atti che vengono in rilievo: atti sostanziali e atti processuali. Per gli atti negoziali unilaterali
un diritto non può dirsi esercitato se l’atto non perviene a conoscenza del destinatario. Per
gli atti processuali il diritto (processuale) è esercitato con la consegna dell’atto all’ufficio notificante. La ratio posta a base di queste opposte soluzioni (atti negoziali unilaterali e atti
processuali) implica una fondamentale actio finium regundorum: la soluzione a favore del
notificante vale nel solo caso in cui l’esercizio del diritto può essere fatto valere solo mediante atti processuali. In ogni altro caso – e indipendentemente dalle scelte del soggetto
che intende interrompere la prescrizione (l’ordinamento non può consentire che il pregiudizio per la parte destinataria, incolpevole, derivi dalle scelte arbitrarie e ad libitum della
controparte) – opera la soluzione opposta. In conclusione, quando il diritto non si può far
valere se non con un atto processuale, non si può sfuggire alla conseguenza che la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica. (Omissis).
Capacità espansiva del principio di scissione degli effetti
della notificazione
1. – In tema di notificazione civile, l’ordinamento processuale tutela i
contrapposti interessi di notificante e notificatario non attraverso un loro
bilanciamento nella determinazione del momento in cui essa è compiuta,
bensı̀ tramite l’individuazione di un doppio momento temporale (c.d.
«doppio binario») per il perfezionamento della notifica stessa.
Gli effetti della notificazione di un atto processuale si determinano,
per il destinatario dell’atto, al momento in cui questi ne riceve legale
conoscenza, mentre sono anticipati, a vantaggio del notificante, al conse-
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giurisprudenza
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guimento delle formalità direttamente impostegli dalla legge, ossia la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di
quest’ultimo sottratta al suo controllo ed alla sua sfera di disponibilità.
Il principio trova la genesi nella giurisprudenza in tema di notificazione a mezzo posta di atti destinati all’estero (1), cui sono seguiti i noti
arresti della Corte Costituzionale che, una volta introdotta la regola del
doppio binario nel procedimento notificatorio a mezzo posta (2), hanno,
di poi, conferito alla stessa una valenza generale, legittimandone l’applicazione alle altre modalità di notifica (3); il tutto in ragione di un’interpretazione sistematica delle norme processuali che ritiene irragionevole individuare un diverso momento perfezionativo delle notificazioni a seconda
delle modalità di trasmissione dell’atto. Il percorso è, poi, proseguito negli
anni con l’inserimento di un nuovo terzo comma all’art. 149, comma 3˚,
c.p.c. e con una serie di decisioni della Corte di cassazione (4) e della
(1) Cfr. Corte cost. 2 febbraio 1978, n. 10, in Foro it. 1978, I, 550, con osservazioni di
A. Proto Pisani; in Giur. cost. 1978, I, 54, 787, con nota di V. Andrioli, Intorno agli art. 142
e 143, 3˚ comma, c.p.c.; in Leggi civ. comm. 1978, 889, con nota di F. Carpi; Corte cost. 3
marzo 1994, n. 69, in Foro it. 1994, I, 2336, con nota di richiami cui si rinvia; Corte cost. 22
ottobre 1996, n. 358, in Foro it. 1997, I, 1006, con nota di B. Gambineri; in Giur. it. 1997, I,
448, con nota di M. De Cristofaro, Sui termini per la notifica all’estero nel processo cautelare
e sulla conseguente articolazione del procedimento iniziato inaudita altera parte.
(2) Corte cost. 26 novembre 2002, n. 477 dichiarativa dell’illegittimità costituzionale
degli artt. 149 c.p.c. e art. 4, comma 3˚, l. 20 novembre 1982, n. 890, in Foro it. 2003, I, 13,
con nota di R. Caponi, La notificazione a mezzo posta si perfeziona per il notificante alla data
di consegna all’ufficiale giudiziario: la parte non risponde delle negligenze di terzi; in Corriere
giur. 2003, 23, con nota di R. Conte, Diritto di difesa ed oneri della notifica. L’incostituzionalità degli artt. 149 c.p.c. e 4 comma 3, l. n. 890 del 1982: una ‘rivoluzione copernicana’?; in
Guida dir. 2002, 48, 38, con nota di P. Gentile, Passa il principio di scissione degli effetti tra
attori e destinatari dell’atto giuridico; in Giur. it. 2003, 1549, con nota di E. Dalmotto, La
Corte manipola la norma sul perfezionamento della notifica postale: vecchie alternative e nuovi
problemi.
(3) Corte cost. 23 gennaio 2004, n. 28, in Foro it. 2004, I, 645, con nota di R. Caponi,
Sul perfezionamento della notificazione nel processo civile (e su qualche disattenzione della
Corte costituzionale); in Giur. it. 2004, 939 ss., con nota di C. Delle Donne, Il perfezionamento della notifica per il notificante, tra diritto di difesa e principio del contraddittorio:
riflessioni a margine di un recente intervento interpretativo della Consulta; Corte cost. 12
marzo 2004, n. 97, in Corriere giur. 2004, 1308, con nota di C. Glendi, La notificazione degli
atti dopo l’intervento della Corte costituzionale. In senso conforme, Corte cost. 2 aprile 2004,
n. 107, in Foro it. 2004, I, 1321, con nota di R. CAPONI, Sul perfezionamento della notificazione e l’iscrizione della causa a ruolo.
(4) Cfr. Cass. 4 maggio 2004, n. 8447, in Foro it. 2004, I, 2383, con osservazioni di R.
Caponi; Cass., sez. un., 13 gennaio 2005, n. 458, in questa Rivista 2006, 389, con nota di G.
Basilico, Riflessioni sull’orientamento della giurisprudenza di cassazione successivo alle recenti
decisioni costituzionali in tema di notificazione; in Corriere giur. 2005, 351, con nota di R.
Conte, Revirement delle sezioni unite sulle formalità di notifica ex art. 140 c.p.c.: si sana
un’incongruenza, ma ne resta aperta un’altra; in Foro it. 2005, I, 699, con nota di R. Caponi,
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Corte Costituzionale (5), che hanno ulteriormente delimitato l’ambito di
applicazione della citata regola.
In definitiva, per effetto delle suindicate pronunce giurisprudenziali e
novelle legislative, risulta essere operante nel nostro ordinamento, tra le
norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo cui il
momento in cui la notifica si deve intendere perfezionata per il richiedente
va distinto da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario (6). Alla
luce di ciò, le norme in tema di notificazioni di atti processuali andrebbero
interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice
delle leggi, nel senso (costituzionalmente adeguato) che la notificazione
si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna
dell’atto all’ufficiale giudiziario; e con l’ulteriore corollario che, ove tempestiva, quella consegna evita appunto alla parte la decadenza correlata
alla inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata. E tanto sia pur come effetto provvisorio e anticipato a vantaggio del
notificante, che va a consolidarsi col perfezionamento del procedimento
nei confronti del destinatario; per il quale, a tal fine, rileva la data, invece,
in cui l’atto è da lui ricevuto o perviene nella sua sfera di conoscibilità (7).
2. – Nell’ambito del potere di azione, dove cioè l’impedimento di una
decadenza discende, in via esclusiva, dalla notificazione dell’atto tipico
richiesto dall’ordinamento, la regola della produzione degli effetti dell’atto
al momento della consegna all’ufficiale giudiziario risponde alla ratio secondo cui la collocazione del comportamento impeditivo, in un momento
anteriore a quello del perfezionamento della fattispecie dichiarativa, esonera il soggetto gravato di dare corso al procedimento notificatorio dal
rischio che tale provvedimento si perfezioni successivamente al decorso del
termine decadenziale. A ben vedere, però, tale regola rappresenta solo la
soluzione, in ambito processuale, di uno specifico problema che si pone, in
Svolta delle sezioni unite nella disciplina della notificazione ex art. 140 c.p.c.; in Giust. civ.
2005, I, 938, con nota di G. Saraceni, Notificazioni all’irreperibile: la pronuncia delle Sezioni
unite sulla scissione del perfezionamento del procedimento notificatorio.
(5) Corte cost. 21 gennaio 2010, n. 3, in questa Rivista 2010, 1453, con nota di A.
Frassinetti, Sul perfezionamento del procedimento notificatorio ex art. 140 c.p.c.; in Foro it.
2010, I, 739, con nota di R. Caponi, La Corte costituzionale e le notificazioni nel processo
civile; in Giust. civ. 2011, 1413, con nota di R. Poli, Il momento di perfezionamento della
notificazione a persona irreperibile; in Giusto proc. civ. 2010, 373, con nota di C. Mancuso,
Perfezionamento della notifica all’irreperibile e giurisprudenza costituzionale.
(6) C. Mancuso, Le notificazioni civili: il momento perfezionativo, Torino 2015.
(7) Cass. 12 marzo 2013, n. 6070; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2261; Cass. 11 ottobre
2006, n. 21760; Cass. 19 ottobre 2006, n. 22480.
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giurisprudenza
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via più generale, per la tutela di tutte quelle posizioni giuridiche da far
valere entro un termine di decadenza: la rilevanza di ostacoli «esterni»,
non imputabili al titolare, ai fini della comunicazione di un atto quando
tale comunicazione sia prescritta per l’impedimento di un effetto decadenziale. L’esigenza di tutelare il notificante da un pregiudizio derivante da un
accadimento a lui non imputabile si evidenzia, infatti, in ogni ipotesi in cui
l’impedimento della decadenza è connesso al compimento di un’attività
dichiarativa, a prescindere dalla circostanza che essa sia relativa ad una
posizione sostanziale o processuale.
Una volta preso atto che i numerosi arresti giurisprudenziali che, di
fatto, hanno rivoluzionato il sistema delle notifiche si sono sempre riferiti
ai soli atti processuali, si è reso opportuno verificare la possibilità di
estendere, anche nel campo sostanziale, il principio della dissociazione
degli effetti della notifica.
3. – Generalizzare i principi cardine in tema di notifica degli atti
processuali, rendendoli applicabili «in blocco» anche a quelli stragiudiziali,
significherebbe eliminare qualsiasi tipo di responsabilità per il ritardo della
comunicazione anche per gli atti unilaterali recettizi relativi ai rapporti
giuridici privati, contravvenendo al principio generale della certezza del
diritto, che richiede la conoscenza o la conoscibilità dell’atto di parte
interessata.
In quanto espressione di una volontà negoziale, anche l’atto processuale è tenuto a rispettare, oltre alle regole proprie di efficacia formale, la
disciplina civilistica relativa alla sua esternazione. Ciò esclude che il meccanismo previsto per la notificazione degli atti processuali possa valere, in
via automatica, per ogni ipotesi di decadenza e, in particolare, quando la
produzione di determinati effetti interinali connessi alla dichiarazione sia
incompatibile con la funzione tipica dell’atto in relazione alla singola previsione normativa o negoziale.
In definitiva, qualora l’atto introduttivo di un giudizio sia destinato ad
avere effetti sostanziali, i meccanismi processuali di salvezza dei termini
legati alla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario non possono trovare
aprioristica applicazione, ma devono necessariamente coordinarsi con i
principi sostanziali di conoscenza dell’altrui volontà e di tutela dell’affidamento dei terzi.
La giurisprudenza di legittimità ha provato a risolvere la questione
distinguendo gli effetti sostanziali dell’atto giudiziale da quelli processuali,
in modo da considerare operativa la diversa decorrenza del momento
perfezionativo della notifica solo per questi ultimi. Si pensi alla dichiara-
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zione di volontà di avvalersi della prelazione agraria di cui all’art. 8 l. 26
maggio 1965, n. 590 che, pur essendo normalmente manifestata con una
comunicazione stragiudiziale recettizia, potrebbe anche essere contenuta
nello stesso atto di citazione con cui si esercita il relativo riscatto (8). Di
regola, affinché il diritto possa dirsi tempestivamente esercitato, impedendo l’effetto preclusivo della decadenza, occorre che la manifestazione della
volontà di riscattare da parte dell’avente diritto pervenga a conoscenza
(effettiva o presunta) del destinatario entro il suindicato termine annuale,
previsto dalla normativa de qua. Il medesimo principio si considera applicabile anche nel caso in cui la dichiarazione di volontà sia contenuta
nell’atto di citazione, ritenendo necessario che essa sia conosciuta dal
destinatario nel termine legale di un anno dalla trascrizione del contratto
di compravendita, senza possibilità di considerare determinante la sola
esecuzione delle formalità imposte al notificante (9).
4. – Con la decisione in commento, le sez. un. provano ad individuare i
limiti di operatività del principio di scissione del momento perfezionativo
nel campo della notificazione degli atti sostanziali e di quelli processuali
che producono effetti anche nel diritto sostanziale.
L’incostituzionalità della previgente disciplina che fissava il momento
perfezionativo della notificazione all’atto della conoscenza, o della conoscibilità legale, del destinatario è stata sancita dal giudice delle leggi (10)
«sia sotto il profilo del diritto di difesa (e qui il riferimento è circoscritto
agli atti giudiziari ed amministrativi), sia sotto il profilo di ragionevolezza
(un effetto di decadenza che discende dal ritardo di un’attività non imputabile al notificante, in quanto del tutto estranea alla sua sfera di disponibilità)». Il parametro del diritto di difesa sembra, dunque, svolgere una
funzione logica complementare ed aggiuntiva, mentre il vero parametro di
costituzionalità diventa il «principio di ragionevolezza». Ed è proprio tale
principio di ragionevolezza che fornisce potenzialità espansiva alla regola
del doppio momento perfezionativo, non delimitandola ai soli atti giudiziari ed amministrativi (ove viene effettivamente in rilievo il diritto di
difesa); principio la cui applicazione necessita pur sempre un bilanciamen-
(8) Il diritto di riscatto a favore del coltivatore diretto integra un diritto potestativo
esercitabile con una dichiarazione unilaterale recettizia di carattere negoziale, diretta ad
assicurare al retraente la stessa posizione che avrebbe avuto qualora avesse potuto esercitare
il diritto di prelazione; sul punto cfr. Cass. 8 maggio 2001, n. 6391, in Notariato 2002, 2,
143; Cass. 18 novembre 2002, n. 16221, in Contr. 2003, 351.
(9) Cfr. Cass. 3 gennaio 2014, n. 40 in www.cortedicassazione.it.
(10) Corte cost. 26 novembre 2002, n. 477, cit.
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giurisprudenza
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to dei beni in conflitto, da attuarsi attraverso i passaggi logici – definiti
steps – indicati in motivazione. Per gli atti processuali tutti appare ragionevole, in virtù del bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti,
scindere il momento della notificazione; per gli atti sostanziali, invece, il
bilanciamento è già stato operato, in via preventiva, dal legislatore, dettando la previsione di cui all’art. 1334 c.c. che accolla al notificante l’alea
dei ritardi nella notificazione, cosı̀ esonerando l’interprete dal cercarne le
ragioni (11).
Diverso il discorso per gli atti processuali che, in virtù delle dichiarazioni in esso contenute, abbiano effetti nel diritto sostanziale. In estrema
sintesi, l’iter logico tenuto della Corte è il seguente: poiché gli effetti
sostanziali discendono da atti che comunque hanno natura processuale,
la regola di cui all’art. 1334 c.c., dettata dal legislatore per gli atti di natura
sostanziale, non è applicabile; sembrerebbe quindi da utilizzare, in assenza
di una specifica previsione legislativa, la tecnica interpretativa del bilanciamento dei beni in conflitto, con conseguente operatività del principio della
scissione, che consente di salvaguardare il diritto del notificante senza
alcun apprezzabile pregiudizio del notificato; sarebbe però incoerente
che per gli atti sostanziali operi, ai sensi dell’art. 1334 c.c., il principio
della «recettizietà» e che per gli atti processuali capaci di ottenere i medesimi effetti sostanziali operi invece, in forza del predetto bilanciamento,
l’anticipazione a vantaggio del notificante dei risultati della notificazione;
la regola della scissione degli effetti della notificazione deve, pertanto,
trovare applicazione anche in relazione agli effetti sostanziali degli atti
processuali ma limitatamente a quando essi possano essere realizzati solo
mediante atti processuali, come per l’appunto nella fattispecie esaminata,
dove l’effetto sostanziale dell’interruzione della prescrizione all’esercizio
dell’azione revocatoria può essere provocato esclusivamente notificando
l’atto di citazione.
5. – L’intenzione è quella di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dell’art. 2943 c.c., attraverso l’applicazione della tecnica del bilanciamento tra certezza del diritto e diritto di
(11) A norma dell’art. 1334 c.c. gli effetti della notifica si producono solo dal momento
in cui vengono a conoscenza della parte alla quale sono destinati, a nulla rilevando il
momento della consegna dal notificante all’ufficiale giudiziario od all’ufficio postale. Né
sarebbe possibile superare l’ostacolo posto dalla disposizione con un’interpretazione costituzionalmente orientata, considerato il tenore letterale della norma. V. E. Dalmotto, Scissione della notificazione. Le Sezioni Unite estendono la regola all’azione revocatoria, in www.eclegal.it.
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difesa. La vicenda della tempestività dell’interruzione del termine di prescrizione ex art. 2943 c.c. era stata già affrontata in diverse occasioni dalla
giurisprudenza di legittimità, pur se tutte concernenti la notificazione
dell’atto introduttivo dell’azione revocatoria fallimentare.
La questione, comunque, appare analoga a quella che riguarda la revocatoria ordinaria, non essendovi più alcuna obiezione sulla natura costitutiva
all’azione revocatoria fallimentare: alla stregua del creditore nel caso di
revocatoria ordinaria, infatti, il curatore non esercita un diritto di credito
alla restituzione della somma o dei beni, ma un diritto potestativo alla
proposizione dell’azione che, con l’emissione della sentenza, determina la
modifica della situazione giuridica preesistente nella sfera giuridica dell’acquirente, senza il consenso di quest’ultimo (12). La giurisprudenza chiamata
a pronunciarsi sulla tempestività dell’interruzione della prescrizione dell’azione revocatoria fallimentare aveva generalmente tenuto in considerazione
il momento in cui l’atto introduttivo del corrispondente giudizio giunge alla
conoscenza legale (non necessariamente effettiva) del destinatario e non già
quello, antecedente, in cui è affidato all’ufficiale giudiziario o all’ufficio
postale, ritenendo cosı̀ la regola della differente decorrenza degli effetti della
notificazione applicabile ai soli atti processuali, e non anche a quelli sostanziali, né agli effetti sostanziali dei primi (13).
Le sez. un. rimettono in discussione il richiamato orientamento giurisprudenziale, con una serie di argomentazioni che possono cosı̀ riassumersi.
Il principio del doppio momento perfezionativo della notificazione affermato dalla Corte Costituzionale e poi generalizzato nel nostro ordinamento ha
una portata espansiva, che trova l’unico limite nel disposto dell’art. 1334
c.c.; ove tale norma, riferita ai soli atti negoziali, non operi, deve applicarsi il
principio generale di cui all’art. 12 delle preleggi, cioè non l’analogia legis (quindi non quella conseguente a tale disposizione) ma l’analogia iuris e,
dunque, il principio generale, basato sul parametro della ragionevolezza. In
(12) L’assoggettabilità del bene uscito dal patrimonio del debitore all’azione esecutiva si
realizza con il processo, senza la cooperazione volontaria del terzo acquirente; cosı̀ L.
Giordano, In tema di interruzione della prescrizione dell’azione revocatoria: il recente intervento delle Sezioni Unite, in www.ilcaso.it.
(13) Cosı̀ Cass. 29 novembre 2013, n. 26804. Per l’orientamento che esclude l’applicazione della differente decorrenza degli effetti della notificazione agli atti sostanziali e agli
effetti sostanziali degli atti processuali, Cass. 7 agosto 2013, n. 18759; Cass. 3 dicembre
2012, n. 21595; Cass. 15 luglio 2011, n. 15671; Cass. 24 aprile 2010, n. 9841; Cass. 11
giugno 2009, n. 13588, in Foro it. 2010, I, 3522. In senso contrario, Cass. 19 agosto 2009, n.
18399; Cass. 25 ottobre 2007, n. 22366 in Foro it. 2009, I, 516. In relazione, poi, alla non
configurabilità di un possibile conflitto di un’applicazione restrittiva del principio in esame
con gli articoli 3 e 24 Cost., cfr. Cass. 29 novembre 2013, n. 26804.
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giurisprudenza
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tale contesto, laddove un diritto non si possa far valere se non con un atto
processuale, la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto,
ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. In particolare, si
ritiene tempestivo l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria quando, al
momento della consegna dell’atto introduttivo all’ufficiale giudiziario, ancora non sia scaduto il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2903
c.c. La dottrina incline ad estendere la diversa decorrenza del momento
perfezionativo della notificazione degli atti processuali anche alla notificazione di quelli sostanziali, aveva già escluso che l’art. 1334 c.c. potesse
rappresentare un serio ostacolo. La norma, nonostante la sua formulazione
generale, disciplina i soli atti finalizzati alla formazione a distanza dell’accordo contrattuale (14), che presuppongono necessariamente una conoscenza della controparte, in mancanza della quale vi sarebbe una loro completa
inidoneità a produrre gli effetti voluti dalla legge. Le regole previste dalla
suindicata disposizione vanno, comunque, confrontate con quelle stabilite
dal codice o leggi speciali per altre fattispecie ove sono utilizzate forme di
comunicazione a distanza (15); le quali ultime non necessariamente richiedono, per la produzione degli effetti, la reale conoscenza dell’atto da parte
del soggetto cui esso è destinato. Quanto agli altri atti previsti dalla disciplina sostanziale, invece, valgono le stesse regole di decorrenza degli effetti
per ciascuna di esse fissate dalle singole norme che li prevedono o dalla
disciplina generale (16). La necessità che l’atto sia conosciuto dal destinatario per la produzione dei suoi effetti, oltre a discendere molto spesso da una
semplice scelta di diritto positivo, più che da un’esigenza intrinseca della
fattispecie, può investire direttamente soltanto gli effetti specifici e caratterizzanti la singola dichiarazione. Devono, cioè, distinguersi i casi dove si
richiede necessariamente la conoscenza dell’atto da quelli in cui tale conoscenza non è elemento essenziale della fattispecie, oppure è finalizzata a
realizzare conseguenze diverse. Alla regola della necessaria conoscibilità
dell’atto potrebbero sottrarsi altri effetti meramente legali della dichiarazione stessa (ad esempio l’impedimento di una decadenza) che si accompagnano in modo accessorio ed estrinseco a quella dichiarazione o quantomeno,
(14) Basta riflettere sul suo inserimento proprio nel capo II, sez. I, del libro sulle
obbligazioni ed in relazione alla conclusione del contratto ed all’invio o alla revoca della
proposta di accettazione.
(15) Ad es., al diniego di proroga tacita del contratto di assicurazione o alla disdetta del
contratto nei casi in cui leggi, o specifiche clausole contrattuali, attribuiscano alla comunicazione dell’atto funzione di preavviso.
(16) Sul punto, cfr. C. Mancuso, Le notificazioni, cit., 43.
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rispetto a questi, la regola della «recettizietà» potrebbe operare diversamente e subire più facilmente dei temperamenti (17).
Sotto questo profilo sembra, pertanto, possibile individuare, in una
fase precedente a quella della conoscenza dell’atto, la realizzazione di una
fattispecie parziale che, sebbene priva di piena efficacia, può rivestire
rilevanza giuridica ai fini della anticipazione provvisoria di alcuni effetti.
Dunque, a prescindere da una possibile deroga imposta dal contesto
processuale, la natura recettizia di un atto non può, di per sé, necessariamente costituire un ostacolo all’anticipazione degli effetti della notifica ma
deve sempre rapportarsi alle singole fattispecie concrete. Il carattere ricettizio di un atto non implica che la tempestività dello stesso debba essere
verificata con riferimento al momento della ricezione, potendo a tal fine
rilevare quello, antecedente, della emissione (18). Le conclusioni delle sez.
un. sono in linea con quell’orientamento dottrinale che, in precedenza,
aveva già osservato come il tema del momento di produzione degli effetti
sostanziali della domanda non poteva affrontarsi unitariamente. La necessità di scongiurare una prescrizione o una decadenza non imputabile al
notificante, infatti, aveva indotto a ritenere applicabile il principio della
scissione in relazione ai diritti potestativi a necessario esercizio giudiziale,
individuando, in tale fattispecie, la medesima esigenza di tutela del notificante, derivante dall’art. 24 Cost., che aveva determinato la Corte Costituzionale ad introdurre la regola in esame (19). L’atto di affermazione
del diritto positivo, essendo contenuto nella domanda giudiziale, è ritenuto
(17) G. Giampiccolo, La dichiarazione recettizia, Milano 1959, 180 ss., secondo cui la
dichiarazione è già perfetta con la sua emissione e la sua notificazione costituisce un elemento costitutivo non della dichiarazione, bensı̀ della fattispecie in cui essa si inserisce,
sicché al momento dell’emissione potrebbero dirsi realizzati gli effetti quoad auctorem, ossia
relativi alla sola sfera del dichiarante. Più in generale, per la distinzione fra rilevanza giuridica ed efficacia giuridica, cfr. A. Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico,
Milano 1941, 21 ss.; Id., Efficacia giuridica, in Enc. dir., vol. XIV, Milano 1965, 481.
(18) G. Giampiccolo, op. ult. cit., 32 ss., precisa che l’individuazione del momento
rilevante per il rispetto del termine è questione di interpretazione.
(19) R. Poli, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da C. Comoglio, C.
Consolo, B. Sassani e R. Vaccarella, Torino 2012, sub art. 137, 709 ss.; C. Delle Donne, op.
cit., 940 ss. In senso contrario, esclude che la regola della scissione della decorrenza degli
effetti possa essere applicata al di fuori degli atti processuali per fini diversi dalle decadenze
processuali G. Balena, Comunicazioni, notificazioni e termini processuali, in Le riforme più
recenti del processo civile, a cura di G. Balena e M. Bove, Bari 2006, 41; Id., Istituzioni di
diritto processuale civile, Bari 2014, 276 ss.; E. Dalmotto, Difficoltà interpretative poste dalla
nuova regola sulla scissione del perfezionamento della notifica postale, in www.judicium.it; in
riferimento a causa introdotte con il ricorso, solo la notifica di ricorso e decreto interrompe
la prescrizione: R. Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli
1977, 315 ss.; G. Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano 1999, 89.
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anch’esso assoggettabile alle norme processuali. Ed è proprio la necessità
di salvaguardare le garanzie costituzionali nel processo civile che determina la mancata applicazione, agli atti giudiziali, delle regole civilistiche sul
momento in cui gli atti recettizi producono effetti; «senza peraltro che tale
diversità di disciplina recida il collegamento tra l’interruzione della prescrizione ed il perfezionamento del procedimento di notificazione, poiché
l’effetto interruttivo provvisoriamente anticipato a vantaggio del notificante si consolida definitivamente con tale perfezionamento, cioè con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (o con l’evento considerato dalla
legge come equivalente alla ricezione)» (20).
6. – L’applicazione delle regole processuali anche agli effetti di una
dichiarazione recettizia contenuta in un atto giudiziario pone inevitabilmente la questione relativa alla tenuta dei principi affermati dalle sez. un.
nelle ipotesi di nullità della notifica e di una eventuale riattivazione del
procedimento notificatorio, con relativa efficacia sanante. Ed invero, i
medesimi principi che hanno fondato il concetto di scissione dei momenti
di compimento della notificazione giustificano un’interpretazione costituzionalmente orientata anche nell’ipotesi di incolpevole mancato esito della
procedura notificatoria, con conseguente ammissibilità di una rinnovazione, in un tempo ragionevole, del relativo procedimento, pur in assenza di
preventiva autorizzazione del giudice.
La giurisprudenza ha elaborato il principio in base al quale, in caso di
interruzione del procedimento di notifica per ragioni non imputabili all’istante, quest’ultimo, ove se ne presenti la possibilità, ha la facoltà e l’onere
di richiedere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del
processo – la ripresa dello stesso; la conseguente notificazione, ai fini del
rispetto del termine, avrà effetto fin dalla data dell’iniziale attivazione del
procedimento, sempreché la riapertura del medesimo sia intervenuta entro
un tempo ragionevolmente contenuto, tenuti anche presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito
negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie (21).
(20) R. Caponi, Interruzione della prescrizione con la consegna della citazione all’ufficiale
giudiziario (e retroattività della sanatoria), in Foro it. 2005, I, 1278 ss.; Id., La nuova disciplina del perfezionamento della notificazione nel processo civile (art. 149, 3˚ comma, c.p.c.), in
Foro it. 2006, V, 166.
(21) Cass., sez. un., 4 maggio 2006, n. 10216, in Giur. it. 2007, 4, 942, con nota di F.
Corsini; Cass. 21 novembre 2006, n. 24702, in Il civilista 2008, 4, 33, con nota di I. Cimatti;
Cass. 19 marzo 2006, n. 6360; Cass. 12 marzo 2008, n. 6547. In senso isolato e contrario
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L’interpretazione nel senso che è possibile l’assunzione diretta da parte
dell’interessato dell’iniziativa finalizzata al positivo compimento della notificazione è stata, di poi, ritenuta corrispondente anche all’esigenza di
rispettare la direttiva costituzionale sul giusto processo, atteso che la necessità di una previa costituzione in giudizio per la richiesta di un provvedimento sulla rinnovazione della notificazione comporterebbe un rilevante
allungamento dei tempi del giudizio, oltre che un appesantimento delle
procedure (22). In tale contesto, appare naturale prevedere l’applicabilità
della disciplina pretoria della ripresa del procedimento notificatorio, anche
agli atti di esercizio del diritto sostanziale che devono avere necessariamente una forma giudiziale.
7. – Dal disposto della decisione in esame ed, ancor di più, dalla
ricostruzione logica operata dalla Corte risulta evidente una costante tensione dell’ordinamento giuridico a rendere effettiva la regola della scissione del momento perfezionativo per ogni genere di notificazione.
La giurisprudenza di legittimità ha, di recente, già avuto modo di
estendere il principio anche alla notificazione in proprio compiuta dall’avvocato, con procura ed autorizzazione del consiglio dell’ordine, ai sensi
della l. n. 53/1994 (23), nonché prevedere – in relazione allo specifico
campo delle notifiche telematiche e dal punto di vista del soggetto destinatario – il perfezionamento della notifica al momento della generazione
della ricevuta di avvenuta consegna, indipendentemente dall’effettiva apertura del messaggio nella casella di posta elettronica (24). Ed è proprio in
Cass. 18 febbraio 2009, n. 3818, in Corriere mer. 2009, 752 ss., con nota di G. Travaglino,
Trasferimento del procuratore domiciliatario e oneri di accertamento per il notificante, ha
ritenuto che, essendo la riattivazione della notificazione subordinata al perfezionamento
dell’impugnazione per il notificante, la stessa debba essere promossa mediante istanza del
giudice ad quem di fissazione di un termine perentorio per il completamento della notifica,
da depositare nel termine stabilito per la costituzione della parte nel caso di regolare
instaurazione del contraddittorio. In seguito, hanno dato continuità all’orientamento maggioritario, Cass., sez. un., 24 luglio 2009, n. 17352; Cass. 11 settembre 2013, n. 20830; Cass.
15 settembre 2015, n. 19060.
(22) Giova ricordare che è ammessa l’iniziativa diretta e preventiva della parte per la
rinnovazione di notificazioni affette da nullità, che valga ad anticipare un’iniziativa del
giudice ex art. 291 c.p.c. Cfr., ex multis, Cass. 13 dicembre 2005, n. 27450; Cass. 28 luglio
2003, n. 11623.
(23) Cass. 3 luglio 2014 n. 15234, in www.altalex.it. V. anche Cass. 19 febbraio 2014, n.
3934, in questa Rivista 2015, 255, con nota di A. Perin, Nullità della notificazione del ricorso
per cassazione, per mancata produzione dell’autorizzazione di cui all’art. 1, l. 21 gennaio 1994,
n. 53, e conseguente inammissibilità del ricorso.
(24) App. Bologna 30 maggio 2014, in www.ilcaso.it.
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giurisprudenza
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questo trend interpretativo, che va letta la decisione in commento che, non
solo ha posto un punto fermo in merito all’applicabilità del principio di
dissociazione del perfezionamento della notifica in tema di effetti sostanziali raggiungibili solo con l’azione giudiziale ma, di recente, ha anche
fornito un importante spunto per un ulteriore intervento nomifilattico.
La seconda sezione della Corte di cassazione ha, infatti, rimesso gli atti
al primo presidente, per l’assegnazione alle sez. un. della questione relativa
all’applicabilità del principio di scissione anche nel procedimento di notificazione degli atti unilaterali recettizi non negoziali, ma di chiara natura
procedimentale (25); in particolare si è posto il problema se il principio
operi anche per la contestazione di addebito in un procedimento per
irrogazione di sanzioni da parte della Consob, quale è quello previsto
dall’art. 195 d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF). Va precisato che,
nell’ambito del nostro ordinamento, esistono determinati atti sostanziali
non processuali, neppure inquadrabili nella categoria di quelli negoziali, ai
quali risultano tuttavia applicabili, in tema di notifica, principi e regole
propri del diritto processuale (26). Il riferimento è innanzitutto agli atti
impositivi tributari: la Corte qualifica come tempestiva la spedizione dell’avviso di accertamento tributario effettuata prima dello spirare del termine di decadenza gravante sull’ufficio, a nulla rilevando che la consegna
al destinatario sia avvenuta successivamente a tale scadenza (27); fermo
restando l’onere in capo all’ufficio di fornire prova dell’avvenuta ricezione
dell’atto o dell’avvenuto compimento delle formalità prescritte, in caso di
mancata consegna del piego o di rifiuto di riceverlo (28).
A fondamento di tale tesi si pone l’assunto secondo cui, tra varie
interpretazioni possibili, va preferita quella che esclude dubbi di legittimità
costituzionale; ritenere che il principio secondo cui, in caso di notificazione a mezzo del servizio postale, il notum facere si perfeziona per il notifi-
(25) Cass. 8 febbraio 2016, n. 2448, in www.dirittobancario.it, segnalata nell’OsservaOsservatorio di questa Rivista 2016, di questo fascicolo, a cura di P. Bertollini.
(26) Cass. 5 ottobre 2004, n. 19854.
(27) Cass. 21 ottobre 2014, n. 22320; Cass. 5 ottobre 2014, n. 19854; Cass. 31 gennaio
2011, n. 2722; Cass. 10 giugno 2008, n. 15298.
(28) La cartella esattoriale può essere notificata, ai sensi dell’art. 26 d.p.r. 29 settembre
1973, n. 600, anche direttamente da parte del concessionario mediante raccomandata con
avviso di ricevimento; in tal caso è sufficiente, per il relativo perfezionamento, che la
spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale, se non quello di curare che la persona,
da lui individuata come legittimata alla ricezione, apponga la sua firma sul registro di
consegna della corrispondenza oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente.
Sul punto cfr. Cass. 27 maggio 2011, n. 11708.
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cante al momento della spedizione dell’atto per raccomandata – e non
della ricezione – riguardi solamente le notificazioni eseguite nel quadro
ed in funzione del processo e non, invece, quelle aventi ad oggetto gli
avvisi di accertamento, costituenti atti (non processuali, ma) amministrativi
ed esplicativi della potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria,
contrasterebbe con il canone della ragionevolezza e soprattutto con i
principi di eguaglianza e di buon andamento della pubblica amministrazione sanciti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione. Il relativo aggancio
normativo è dato dal richiamo operato dall’art. 60 d.p.r. 29 settembre
1973, n. 600 che prevede, per gli avvisi di accertamento, l’applicazione
delle norme sulle notificazioni del processo civile (29). Altra fattispecie
regolata in maniera equivalente è quella concernente i verbali di accertamento di violazione delle ordinanze ingiunzione di cui alla l. n. 689/
1981 (30), dove però la fonte normativa è individuata nell’art. 14 di detta
legge, che espressamente richiama l’art. 149 c.p.c., in tema di notificazione
a mezzo del servizio postale. Nell’ambito, invece, del procedimento sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 58/1998 non solo non esiste alcun aggancio
normativo al diritto processuale (31), ma ci si trova in una fattispecie
(addebito nell’ambito di un procedimento amministrativo, per violazione
di disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) che ha ad oggetto
non una notifica vera e propria, ma una comunicazione.
A tal punto la Corte – sul presupposto che, all’esito della decisione in
commento, sembra sussistere il dubbio unicamente in merito alla regolamentazione degli atti unilaterali recettizi non negoziali, ma di chiara natura
procedimentale – ha ritenuto opportuna un’ulteriore meditazione sulla cd.
«capacità espansiva» dei principi affermati nella sentenza n. 477/2002
della Corte Costituzionale (32).
La questione, dunque, resta aperta ed in attesa di ulteriori sviluppi.
CARLO MANCUSO
Ricercatore nell’Università di Salerno
(29) Cosı̀ espressamente Cass. 31 gennaio 2011, n. 2722, cit.
(30) Cass. 10 luglio 2003, n. 10844.
(31) L’unica possibilità sembrerebbe quella di far riferimento, anche per tale procedimento, ai principi sanciti dalla l. 21 novembre 1981, n. 689; cfr., sul punto, Cass. 4 marzo
2015, n. 4363; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19041.
(32) Cosı̀, testualmente, Cass. 8 febbraio 2016, n. 2448.
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PANORAMI
OSSERVATORIO SULLA CORTE COSTITUZIONALE
(PROCESSO CIVILE: 1˚ MARZO – 30 APRILE 2016) (1)
SOMMARIO: 1. Norme investite da ordinanze di rimessione giunte alla Corte. – 2. Questioni
dichiarate inammissibili. – 3. Questioni dichiarate infondate.
1. – Sono giunte alla Corte ordinanze di rimessione aventi ad oggetto
le seguenti norme:
– art. 10 l. fall., nella parte in cui non consente la dichiarazione di
fallimento anche oltre il termine di un anno dalla cancellazione dal registro
delle imprese, in esito alla procedura di concordato preventivo instaurata
durante la pendenza del termine e conclusasi con la dichiarazione di
inammissibilità della domanda o la dichiarazione di revoca dell’ammissione
o la mancata approvazione della proposta o la reiezione all’esito del giudizio di omologa, per contrarietà agli artt. 3 e 24 Cost. (Trib. Verona 9
ottobre 2015, in Gazz. uff. 27 aprile 2016, n. 17).
2. – Con ordinanza del 10 febbraio – 3 marzo 2016 (Gazz. uff. 9 marzo
2016, n. 10) la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni sollevate da Trib. Vicenza con due ordinanze del 13 giugno 2014,
aventi ad oggetto: quanto alla prima ordinanza, gli artt. 1, comma 1˚, e 5,
comma 1˚, l. fall., nella parte in cui tali norme assoggettano a fallimento
l’imprenditore individuale persona fisica e non autonomamente la sola
impresa individuale intesa come attività, ovvero alternativamente nella
parte in cui assoggettano a fallimento l’imprenditore individuale anziché
limitarsi a dichiararne l’insolvenza, o a dichiarare soltanto l’insolvenza
dell’impresa della persona fisica come attività; quanto alla seconda ordinanza, gli artt. 147, comma 1˚, e 5, comma 1˚, l. fall., nella parte in cui tali
norme prevedono il fallimento del socio illimitatamente responsabile di
società fallita anziché limitarsi a dichiararne l’insolvenza, in conseguenza
della dichiarazione di fallimento (o di insolvenza) della società. In entrambi i casi per contrarietà agli artt. 2, 3, 41, comma 2˚, Cost. Le questioni
sono state dichiarate inammissibili per difetto di motivazione.
(1) Questa rubrica tiene conto delle Gazzette Ufficiali pubblicate nel periodo indicato,
salve deroghe eccezionali.
Rivista di diritto processuale 3/2016
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rivista di diritto processuale 2016
3. – Con ordinanza del 9 marzo – 5 aprile 2016 (Gazz. uff. 6 aprile
2016, n. 14) la Corte ha dichiarato manifestamente infondate le questioni
sollevate da Trib. Milano con due ordinanze dell’11 marzo e 28 luglio
2014, aventi ad oggetto gli artt. 51, comma 1˚, n. 4 c.p.c. e 1, comma
51˚, l. 28 giugno 2012 n. 92 (contenente disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui tali
norme non prevedono l’obbligo di astensione del giudice investito del
giudizio di opposizione ex art. 1, comma 51˚, l. 92/12 che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49˚, l. 92/2012, per contrarietà agli artt.
3, 24 e 111 Cost. Le questioni sono state dichiarate infondate perché
identiche ad altre già considerati tali in virtù di decisioni precedenti.
NICCOLÒ NISIVOCCIA
Avvocato in Milano
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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE CIVILE
SOMMARIO: 1. Difetto di giurisdizione e translatio iudicii. – 2. Regolamento di competenza. –
3. Legittimazione processuale. – 4. – Intervento. 5. – Rappresentanza tecnica e procura.
– 6. Spese processuali e responsabilità aggravata. – 7. Notificazioni e comunicazioni. –
8. Domanda giudiziale ed eccezioni. – 9. Mezzi di prova. – 10. Riduzione e semplificazione dei riti. – 11. Impugnazioni – 12. Fallimento. – 13. Arbitrato. – 14. Processo
tributario.
1. – Il tema dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa torna a
interessare la giurisprudenza della Suprema Corte. Cass., sez. un., 1 febbraio 2016, n. 1836, Pres. Rovelli, Rel. Travaglino, sulla scia di precedenti
dicta (come Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23302, Pres. Vittoria, Rel.
Rordorf, segnalata in questa Rivista 2012, 1, 258, nell’Osservatorio a cura
di V. Bertoldi, § 3, e Cass., sez. un., 19 gennaio 2012, n. 736, Pres.
Vittoria, Rel. Ceccherini, segnalata in questa Rivista 2012, 3, 826, nell’Osservatorio a cura di M. Gradi, § 1), conferma che, fra le questioni sindacabili dinanzi al Supremo Collegio, rientra anche la totale mancanza dei
presupposti per il valido esercizio della giurisdizione di merito da parte del
Giudice Amministrativo. Più nello specifico, dopo l’annullamento del primo provvedimento d’assegnazione dei canali televisivi, l’AGCOM aveva
omesso di provvedere in conformità. Su ricorso avverso la sentenza del
Consiglio di Stato, resa in sede di ottemperanza, la Corte afferma che,
considerato il mutamento delle circostanze di fatto (cioè, delle abitudini e
delle preferenze dei consumatori), è impedito «un esame ‘virtuale’ e retrospettivo della situazione da regolamentare» e un esercizio «ora per
allora» del potere, sia per la P.A., sia per il Giudice Amministrativo,
che avrebbe dovuto limitarsi a un nuovo vaglio di legittimità.
Sempre in tema di giurisdizione, Cass., sez. un., 18 novembre 2015, n.
23539, Pres. Rovelli, Rel. Ambrosio (in Corr. giur. 2016, 1, 106 ss., con
nota di F. Godio, Riassunzione post translatio e impugnazione della declinatoria di giurisdizione: un’inammissibile “doppia iniziativa”), si occupa
degli effetti della translatio iudicii, ex art. 59, l. 69/2009. Due i punti di
maggiore rilievo: a) la parte che abbia scelto la prosecuzione del processo
dinanzi al giudice munito di giurisdizione dimostra di preferire una pronuncia nel merito, con conseguente rinuncia al potere (ancora spendibile)
di impugnare la sentenza o implicito abbandono dell’impugnazione già
proposta; b) una volta riassunto il processo, è precluso alle parti rimettere
in discussione la decisione resa, tanto attraverso regolamento preventivo di
giurisdizione (su cui v. Cass., sez. un., 8 febbraio 2010, n. 2716, Pres.
Vittoria, Rel. Segreto, e le osservazioni critiche mosse da C. Consolo,
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Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino 2015, vol. I, 491), quanto
dolendosi del mancato esercizio, ad opera del giudice ad quem, della
facoltà discrezionale di sollevare d’ufficio il conflitto dinanzi alle Sezioni
Unite (senza che rilevino le differenze tra la formulazione dell’art. 11 c.p.a.
e quella dell’art. 59, 3˚ comma, cit.). Le conclusioni raggiunte muovono da
un particolare argomento d’indole letterale, consistente nel «vincolo» all’indicazione resa dal giudice a quo previsto dall’art. 59, 2˚ comma, cit.,
che viene equiparato al giudicato implicito sulla questione di giurisdizione,
cosı̀ da risolvere i non pochi problemi di coordinamento fra i due giudizi
paralleli, che seguono la riassunzione del processo attuata in pendenza del
termine per impugnare o nelle more del giudizio di appello (Cass., sez. un.,
22 novembre 2010, n. 23596, Pres. Vittoria, Rel. Segreto, su cui v. C.
Consolo, Translationes giurisprudenziali sulla “riassunzione” (?) intergiurisdizionale ex art. 59, in Giusto proc. civ. 2011, 791 ss.); nonché da alcune
considerazioni di ordine sistematico, quali il ridimensionamento dell’istituto della giurisdizione, il principio costituzionale della ragionevole durata
del processo e, soprattutto, l’incompatibilità della scelta di riassumere il
giudizio dinanzi al giudice ritenuto (da quello originariamente adito) fornito di giurisdizione con la volontà di impugnare la sentenza declinatoria
di giurisdizione. Proprio quest’ultimo argomento, peraltro, sembra inutilizzabile al fine di dedurne la perdita del potere di impugnazione in capo
alla parte che subisce la riassunzione del processo operata dall’avversario.
2. – Con riferimento alla riassunzione, ex art. 50 c.p.c., Cass., sez. VI, 9
luglio 2015, n. 14369 (ord.), Pres. Finocchiaro, Rel. Frasca, si occupa delle
sorti del termine fissato dal giudice a quo nell’ordinanza declinatoria di
competenza (o stabilito, in difetto, dallo stesso art. 50 c.p.c.), qualora sia
proposto regolamento necessario, ex art. 42 c.p.c. Facendo propri gli
spunti di Cass., sez. I, 9 marzo 2005, n. 5174, Pres. Saggio, Rel. Gilardi
(in Giusto proc. civ. 2006, 3, 221 ss., con nota adesiva di L. Evangelista), e
di Cass., sez. III, 18 dicembre 2008, n. 29577, Pres. Preden, Rel. Frasca, la
Corte conferma che la proposizione del regolamento di competenza non
implica l’automatica sospensione, ex art. 48 c.p.c., del termine per la
riassunzione (che rimarrebbe efficace per la parte già decorsa e riprenderebbe a decorrere, per la restante parte, una volta sopravvenuta la decisione della Corte, confermativa di quella impugnata), ma ha l’effetto di
renderlo irrilevante. Infatti, una volta proposto regolamento, lo svolgimento del processo dipende dalla pronuncia che sarà resa dalla Cassazione,
indipendentemente dal tenore della stessa e anche in caso di mera declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità. Pertanto, il processo dovrà
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essere riassunto dinanzi al giudice ad quem, nel termine stabilito dalla
Corte (o, in mancanza, nel termine di cui all’art. 50 c.p.c.), con decorrenza
dalla comunicazione dell’ordinanza della Cassazione. Segue una lettura
riduttiva dell’art. 48 c.p.c., che, esclusa la sospensione del termine per la
riassunzione, implica: a) che il processo sia rimasto pendente dinanzi al
giudice che ha affermato la propria competenza; oppure b) che sia già
stato riassunto dinanzi a quello indicato nell’ordinanza declinatoria. Infine,
la pronuncia in rassegna precisa che possiede natura decisoria il provvedimento avente ad oggetto la sola questione di competenza, che non sia
stato preceduto dalla precisazione delle conclusioni, qualora il giudice
abbia declinato la propria competenza, consumando la sua potestas iudicandi (conformemente a Cass., sez. VI, 21 luglio 2011, n. 16005, Pres.
Finocchiaro, Rel. Frasca, segnalata in questa Rivista 2011, 5, 1325, Osservatorio a cura di A.D. De Santis, sub § 4, e alla successiva Cass., sez. un.,
29 settembre 2014, n. 20449, Pres. Rovelli, Rel. Cappabianca, segnalata
nell’Osservatorio a cura di C. Mastracchio, sub § 1, in questa Rivista, 2015,
1, 283).
3. – Cass., sez. un., 4 marzo 2016, n. 4248, Pres. Rovelli, Rel. D’Ascola, fa mostra di non condividere le perplessità espresse, in sede di
rimessione, da Cass., sez. II, 28 novembre 2015, n. 25353 (ord.), Pres.
Oddo, Rel. Bucciante, segnalata in questa Rivista 2014, 2, 606, Osservatorio a cura di L. De Propris, § 4, la quale, premessa la facoltà di rilevare il
difetto di legitimatio ad processum in ogni stato e grado del processo, con il
solo limite del giudicato sul punto, dubitava se, a tal fine, fosse necessaria
una espressa decisione della questione, o se bastasse la formazione di un
«giudicato implicito». Premesso che il giudicato implicito è ormai, soprattutto in tema di giurisdizione (su cui, v. Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n.
24883, Pres. Carbone, Rel. Merone, in questa Rivista 2009, 1071 ss., con
nota di E.F. Ricci e di V. Petrella, e la recente Cass., sez. un., 5 gennaio
2016, n. 29, Pres. Rovelli, Rel. Di Palma, segnalato in questa Rivista 2016,
2, nell’Osservatorio a cura di E. Bertillo, sub § 1), un dato acquisito al
diritto vivente e che trova conferma nell’art. 9 c.p.a., le Sezioni Unite
fanno propria la posizione di Cass., sez. un., 30 ottobre 2008, n. 26019,
Pres. Criscuolo, Rel. Morcavallo, secondo cui l’istituto del giudicato implicito non si adatta a quelle nullità, che implicano la carenza assoluta della
potestas iudicandi (esulando dal mero errore nell’individuazione del giudice) o che presuppongono una violazione del contraddittorio, in quanto i
principi del giusto (poiché di durata ragionevole) processo vanno bilanciati
con la necessità di porre l’ordinamento al riparo dalle sentenze inutiliter
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datae e dal pericolo che la vicenda contenziosa si trascini oltre il momento
di formazione del giudicato (per una più approfondita disamina delle
questioni «fondanti» o «vitali», si vedano le riflessioni di C. Consolo,
Travagli “costituzionalmente orientati” delle Sezioni Unite sull’art. 37
c.p.c., in questa Rivista 2009, 1152 ss.). Risolta la questione oggetto del
contrasto, la Corte esamina funditus il regime conseguente al rilievo del
vizio in sede d’impugnazione, riconoscendo la possibilità per le parti di
fornire la prova del proprio potere rappresentativo processuale, in qualunque stato e grado del processo (giudizio di legittimità incluso), senza
che siano d’ostacolo preclusioni istruttorie o altri limiti alla produzione
documentale, come l’art. 372 c.p.c. Inoltre, respingendo l’idea di eventuali
«disarticolazioni nei vari gradi di giudizio fra rilevabilità e sanabilità del
difetto», estende la portata della sanatoria, ex art. 182 c.p.c., all’ipotesi in
cui il vizio sia rilevato nelle fasi di gravame, replicando alle obiezioni
espresse in dottrina, secondo cui, cosı̀ facendo, si permetterebbe al falsamente rappresentato di scegliere quali atti ratificare (C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., vol. I, 360). Ciò nonostante, in
parziale smentita delle premesse poste, la Corte nega un’integrale applicazione della disposizione citata, sub specie della concessione del termine ivi
previsto, qualora il vizio sia rilevato per la prima volta in sede di legittimità
e su iniziativa della controparte, poiché l’interessato è subito chiamato a
contraddire sul punto, senza che vi sia, nel giudizio che si svolge dinanzi
alla Suprema Corte, alcuno spazio per la concessione di un termine.
4. – Cass., sez. I, 19 febbraio 2016, n. 3323 (ord.), Pres. Di Palma, Rel.
Acierno, sollecita l’intervento delle Sezioni Unite in merito alla questione
di massima di particolare importanza, relativa alla ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum di un’associazione esponenziale di interessi di consumatori e risparmiatori nel giudizio individuale. Pur precisando che la
soluzione restrittiva parrebbe più coerente con la giurisprudenza consolidata (ex multis, Cass., sez. II, 26 novembre 2014, n. 25145, Pres. Triola,
Rel. Proto), secondo cui il requisito dell’«interesse», richiesto dall’art. 105,
2˚ comma, c.p.c., implica la titolarità di un diritto o di un rapporto dipendente da quello oggetto del processo (A. Proto Pisani, Lezioni di diritto
processuale civile, Napoli 2014, 370 ss.), discutendosi solo se sia richiesta
altresı̀ un’efficacia riflessa del (futuro) giudicato ai danni del terzo (ma vedi
anche l’opinione di chi, come F.P. Luiso, Diritto processuale civile, Milano
2015, 324, parla di azione surrogatoria applicata al processo, includendo
nel novero dei legittimati anche il creditore di una delle parti), l’ordinanza
suggerisce che l’opinione contraria (su cui, v. Cass., sez. III, 23 luglio 2005,
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n. 15535, Pres. Nicastro, Rel. Sabatini) farebbe da contraltare al principio,
secondo cui, pendente l’azione collettiva o di classe, resta inalterato il
diritto dei consumatori a promuovere azioni individuali, anche aventi il
medesimo contenuto di quella già proposta (ex artt. 140, 9˚ comma, e 140
bis, 14˚ comma, cod. cons.). D’altronde, osserva la Corte, la legittimazione
ad agire delle associazioni consumeristiche è attribuita direttamente dalla
legge, che ha inteso farne il principale punto di riferimento nella tutela
(individuale e collettiva) del consumatore.
5. – In tema di poteri del difensore, bisogna segnalare Cass., sez. un.,
14 marzo 2016, n. 4909, Pres. Salmè, Rel. Scarano, che era chiamata a
pronunciarsi (su sollecitazione di Cass., sez. II, 24 novembre 2014, n.
24959 (ord.), Pres. Triola, Rel. Bucciante, segnalata in questa Rivista
2015, 2, 606, Osservatorio a cura di L. De Propris, § 3), sul contrasto
relativo alla possibilità di considerare sanato il vizio della chiamata in
garanzia impropria, ove non tempestivamente eccepito dalla controparte
costituita. L’ordinanza di rimessione presupponeva la nullità della chiamata in garanzia impropria, avanzata dal difensore, in mancanza di una
specifica procura alle liti (Cass., sez. III, 29 settembre 2009, n. 20825,
Pres. Filadoro, Rel. Amatucci). Ritenuto di dover meglio indirizzare il
proprio intervento, le Sezioni Unite osservano che, dal principio per cui
i poteri del difensore – che può compiere, per conto del proprio assistito,
tutti gli atti non espressamente riservati a quest’ultimo – derivano direttamente dalla legge (Cass., sez. un., 14 settembre, 2010, n. 19510, Pres.
Carbone, Rel. Salmè) e, più in generale, dagli artt. 24 e 111 Cost., si ricava
che la procura, che utilizzi una formulazione ampia ed omnicomprensiva
(si ricordi che, nel caso di specie, l’incarico era stato concesso «con ogni
facoltà»), attribuisce al difensore il potere di chiamare in causa il terzo,
anche nell’ipotesi di garanzia impropria. Complessivamente, il risultato è
conforme a quanto già affermato dalla Corte, con riferimento alla chiamata
in garanzia propria (ex multis, Cass., sez. I, 17 maggio 1986, n. 3274, Pres.
Cusani, Rel. Graziadei) e, in ogni caso, le Sezioni Unite avrebbero potuto
giungere alla medesima conclusione negando persuasività alla distinzione
fra garanzia propria e impropria (sulla scia di Cass., sez. un., 4 dicembre
2015, n. 24707, Pres. Rovelli, Rel. Frasca, segnalata in questa Rivista 2016,
1, 267, Osservatorio a cura di D. Micali, § 11). Tuttavia, il diverso approccio seguito dalla Corte ha il pregio di mettere al riparo il principio
enunciato da un possibile (e, secondo C. Consolo, L. Baccaglini, F. Godio,
Le Sez. Un. e il venir meno della distinzione tra “garanzia propria” e “garanzia impropria”: cosa muta (e cosa no) nella dinamica processuale, in Giur.
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it. 2016, in corso di pubblicazione, auspicabile) ripensamento sulla perdurante necessità di ricorrere alla tradizionale contrapposizione. Comunque,
utilizzando un diverso criterio per distinguere le ipotesi di garanzia propria
da quelle di garanzia impropria – con l’occhio puntato più al tipo di
connessione che lega le domande, che alla possibilità di ricondurre l’intervento del terzo a ipotesi legislativamente previste –, la pronuncia in
rassegna tradisce come la linea di demarcazione tra le due figure sia,
all’atto pratico, assai meno precisa di quanto suggerito da Cass., sez.
un., 4 dicembre 2015, n. 24707.
6. – Cass., sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3438, Pres. Berruti, Rel.
Tatangelo, premesso di dover superare il principio secondo cui l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta non può comportare né la
condanna dell’attore, totalmente vittorioso, alla refusione delle spese, né la
compensazione delle stesse, giustificata solo in presenza di uno scarto
rilevante tra petitum e decisum (Cass., sez. III, 12 maggio 2015, n. 9587,
Pres. Carleo, Rel. De Stefano), estende la nozione di soccombenza reciproca, ex art. 92, 2˚ comma, c.p.c., includendovi: a) il caso in cui siano
accolte solo alcune delle domande cumulate; b) quello dell’accoglimento
parziale dell’unica domanda proposta. A sorreggere tale assunto, la banale
(ma assorbente) ragione che, altrimenti, non sussisterebbe alcun interesse
per l’attore a impugnare la sentenza. Inoltre, aderendo all’impostazione
«chiovendiana», secondo cui l’allocazione degli oneri processuali è regolata dal solo criterio della soccombenza, la Corte individua, nel «principio
di causalità», un parametro sussidiario per stabilire se, posta la presenza
dei requisiti sufficienti per disporre la compensazione delle spese, procedervi o meno, in tutto, in parte. Tuttavia, le due valutazioni non paiono
facilmente scindibili, nell’allocazione delle spese (v., in tal senso, Cass., sez.
III, 21 ottobre 2009, n. 22381, Pres. Preden, Rel. Frasca, che usa il
«principio di causalità» per ritenere la soccombenza di una sola delle parti,
nonostante la situazione di reciproca soccombenza). Infatti, posto che
l’accoglimento parziale dell’unica domanda dell’attore ne determina la
soccombenza, non sempre accade il contrario: sarà, anzi, vittorioso il convenuto, che abbia riconosciuto fondata la pretesa attorea in misura pari a
quanto stabilito dalla sentenza.
È da segnalare poi la peculiare vicenda presa in esame da Cass., sez. I,
26 febbraio 2016, n. 3818, Pres. Salvago, Rel. Genovese. Questo, in sintesi, il caso: l’attrice aveva proposto due distinte domande, aventi il medesimo oggetto, dinanzi allo stesso ufficio giudiziario. Nelle more di uno
dei giudizi, l’attrice aveva prodotto l’altra sentenza (passata in giudicato e a
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lei favorevole), pronunciata all’esito del procedimento parallelo, e sollevato
eccezione di giudicato esterno, al solo fine di ottenere la condanna della
controparte al pagamento delle spese. Su ricorso dell’attrice, condannata
essa stessa alle spese, il dictum in epigrafe precisa che l’accoglimento
dell’eccezione di giudicato esterno, sollevata da chi agisce in giudizio,
non impedisce di ritenerne la soccombenza, giacché una pronuncia di
absolutio ab instantia procura all’attore un risultato deteriore, rispetto a
quanto auspicato. In ogni caso, la condanna alle spese sarebbe giustificata
dalla violazione dei doveri di lealtà e probità, ex art. 88 c.p.c.
In tema di responsabilità processuale, Cass., sez. VI, 9 febbraio 2016,
n. 2584 (ord.), Pres. Finocchiaro, Rel. Rossetti, e Cass., sez. VI, 22 febbraio 2016, n. 3376 (ord.), Pres. Finocchiaro, Rel. Rossetti, si contrappongono all’orientamento secondo cui la mera infondatezza in iure delle censure, sollevate in sede di legittimità, non può integrare gli estremi della
responsabilità aggravata, ex art. 385 c.p.c. (Cass., sez. un., 11 dicembre
2007, n. 25831 (ord.), Pres. Nicastro, Rel. Finocchiaro): poiché ritenuto
inadatto ad ipotesi di totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi e, comunque, da superare alla luce del principio della ragionevole durata del processo, dell’orientamento che ne considera illecito
l’abuso e della (ritrovata) funzione nomofilattica della Suprema Corte. I
dicta in rassegna, espressione di una tendenza già presente in giurisprudenza (Cass., sez. IV, 16 febbraio 1998, n. 1619, Pres. Rapone, Rel. Guglielmucci), sono da apprezzare per lo sforzo ricostruttivo. Infatti, gli
estremi della mala fede e della colpa grave sono ravvisati nell’avere, il
ricorrente, prospettato una tesi giuridica difforme dal diritto vigente o
che si discosti da un orientamento consolidato della Corte di Cassazione
(scientemente o senza la normale diligenza necessaria ad acquisirne la
consapevolezza), senza alcuno sforzo argomentativo e deduttivo per metterne in discussione gli esiti, individuando una curiosa simmetria fra i
presupposti per la condanna ex art. 96, 3˚ comma, c.p.c. e le condizioni
perché il ricorso per cassazione sia dichiarato inammissibile (rectius, manifestamente infondato), ex art. 360 bis, n. 1, c.p.c.
7. – Si torna a parlare, con Cass., sez. II, 8 febbraio 2016, n. 2448
(ord.), Pres. Bucciante, Rel. Orilia (in questa Rivista 2016, con nota di C.
Mancuso), della regola della scissione soggettiva degli effetti della notificazione, elaborata da C. Cost., 12 novembre 2002, n. 447. Prendendo le
mosse da quanto affermato, di recente, da Cass., sez. un., 9 dicembre
2015, n. 24822, Pres. Rovelli, Rel. Vivaldi, segnalata in questa Rivista
2016, 2, nell’Osservatorio a cura di E. Bertillo, sub § 6, circa la generale
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applicazione del principio de quo, con riferimento agli atti processuali
produttivi di effetti sostanziali (a maggior ragione, qualora essi possano
prodursi solo mediante la notificazione), la Seconda Sezione sollecita un
nuovo intervento delle Sezioni Unite sul regime applicabile alla comunicazione di atti non processuali (ma neppure inquadrabili nella categoria di
quelli negoziali), che presentano una chiara vocazione procedimentale, fra
i quali rientra il provvedimento sanzionatorio della CONSOB, da comunicare, a pena di decadenza, entro 180 giorni dall’accertamento, ex art.
195, d.lgs. 58/1998. Premesso che il nostro ordinamento è ormai ricco di
atti procedimentali, per i quali è pacifica l’applicazione della regola della
scissione (soprattutto nel settore tributario o in tema di ordinanze ingiunzione), il Collegio rimettente si mostra consapevole della mancanza di un
preciso aggancio normativo, ma suggerisce la possibilità di estendere i
principi sanciti dalla l. 21 novembre 1981, n. 689, al procedimento sanzionatorio seguito dalla CONSOB (Cass., sez. I, 12 dicembre 2003, n.
19041, Pres. Losavio, Rel. Di Amato). Resta, però, da superare l’ostacolo
prospettato da Cass., sez. III, 16 gennaio 2004, n. 552, Pres. Preden, Rel.
Di Nanni, secondo cui la regola della scissione soggettiva richiede la certezza sul momento esatto in cui l’atto è consegnato a chi dovrà spedirlo,
con ciò implicando il necessario coinvolgimento dell’ufficiale giudiziario.
Cass., sez. I, 28 gennaio 2016, n. 1611 (ord.), Pres. Di Palma, Rel.
Bisogni, chiama le Sezioni Unite a pronunciarsi sulla validità della notificazione dell’atto d’impugnazione eseguita, ex art. 330 c.p.c., al procuratore
della parte costituita, volontariamente cancellatosi dall’albo. Sul punto, il
panorama giurisprudenziale si presenta variegato. Secondo la soluzione
più rigorosa (ricavabile da Cass., sez. un., 26 marzo 1968, n. 935, Pres.
Flore, Rel. Janniti Piromallo, in Giur. it. 1968, I, 1, 1169 ss., con nota di A.
Vitale, e Cass., sez. un., 21 novembre 1996, n. 10284, Pres. Sgroi, Rel.
Genghini, relativi, però, alla notificazione della sentenza di primo grado ai
fini del decorso del termine «breve» per impugnare, ex art. 285 c.p.c.),
posta la tassatività delle cause di ultrattività del mandato, ex artt. 85 e 301
c.p.c., la notifica al difensore cancellato sarebbe inesistente (e l’impugnazione proposta inammissibile). Ad essa si contrappongono un secondo
orientamento, che ne predica la nullità, sanabile retroattivamente, (Cass.,
sez. III, 5 ottobre 2001, 12294, Pres. Calfapietra, Rel. Del Core) e un
terzo, che la reputa valida ed efficace (Cass., sez. III, 21 giugno 2012, n.
10301, Pres. Petti, Rel. Frasca), sul presupposto che la cancellazione volontaria del difensore, riconducibile alle altre ipotesi di perpetuatio dell’ufficio defensionale, non determina l’interruzione del processo (in senso
contrario, v. Cass., sez. I, 19 giugno 2015 n. 12758, Pres. Piccialli, Rel.
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Proto, segnalata in questa Rivista 2015, 4-5, 1332, Osservatorio a cura di
A. Mastantuono, sub § 2). Se le Sezioni Unite aderissero a quest’ultima
impostazione, non resterebbe che augurarsi un ripensamento anche in
merito alla ritenuta inesistenza della notifica dell’impugnazione fatta al
precedente domicilio professionale del difensore, che presuppone, in capo
alla parte notificante, un onere di diligente attivazione per la ricerca del
domicilio «effettivo» della controparte, il cui mutamento andrebbe comunicato solo in caso di svolgimento dell’attività professionale fuori dalla
circoscrizione di assegnazione (Cass., sez. un., 18 febbraio 2009, n.
3818, Pres. Pres. Carbone, Rel. Oddo).
8. – Cass., sez. un., 27 gennaio 2016, n. 1516, Pres. Rovelli, Rel.
Bernabei, interviene a risolvere la questione sollevata da Cass., sez. III,
18 febbraio 2015, n. 3276 (ord.), Pres. Petti, Rel. Rossetti, segnalata in
questa Rivista 2015, 3, 863, Osservatorio a cura di F. Porcelli, sub § 9, con
la quale era stata prospettata la difficoltà a giustificare il fatto che l’interruzione della prescrizione possa prodursi per effetto della domanda proposta per la prima volta in appello (e quindi inammissibile), ma non anche
in caso di nullità della notifica dell’atto di citazione. Le Sezioni Unite
ribadiscono che la domanda inammissibile costituisce comunque una manifestazione di esercizio del diritto, poiché «costringe la controparte a
difendersi», e come tale è idonea ad interrompere la prescrizione, ex art.
2943 c.c. e a provocarne la sospensione, fino al passaggio in giudicato della
sentenza che definisce il giudizio; precisano inoltre che, laddove si volesse
negare alcun valore alla domanda nuova, preclusa in grado di appello, si
arriverebbe al paradosso di assegnarle un valore minore di quello riconosciuto all’atto introduttivo di un processo conclusosi con l’estinzione in
conseguenza di un’inerzia della parte sintomatica del disinteresse alla tutela giurisdizionale. La sentenza non si sofferma sull’ulteriore argomentazione sviluppata nella citata ordinanza di rimessione, fiondata sulla constatazione secondo la quale la domanda proposta solo in appello è port