Peccati di lingua - L`Italiano espresso online
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Peccati di lingua - L`Italiano espresso online
R. Solarino, Sbagliando s'impara, “Peccati di lingua”, Italiano e Oltre, 2/98, pagg.116-117 Tra le convenzioni ortografiche che più disorientano i bambini che imparano a scrivere ci sono certamente quelle legate alle grafie alternative per sequenze sonore simili, soprattutto quando queste implicano il riconoscimento di entità diverse. E’ il caso per esempio dei monosillabi omofoni che vengono distinti introducendo l’accento (è/e, né/ne, sé/se, sì/si e simili) o, in ha-/a, utilizzando un residuo etimologico come la lettera h. Come la punteggiatura, anche questo tipo di convenzioni si possono infatti considerare non alfabetiche in senso stretto, perché non riguardano il sistema di corrispondenze tra suoni e segni grafici, ma introducono differenziazioni legate a differenze di significato. Si tratta in questo caso di differenze sostanziali, che cambiano profondamente la natura del messaggio. In quanto tali, esse sono probabilmente ben chiare al parlante, anche se in una prima fase dell’apprendimento della scrittura possono essere trascurate da chi si preoccupa soprattutto di entrare nel sistema di corrispondenze tra suoni e segni e si affida per la comprensione al contesto, come spesso avviene sia nel parlato che nello scritto. Se, per ipotesi, la differenza tra è ed e non fosse stata codificata da regole ortografiche (come è stato fatto nel XVII secolo dal Buonmattei: prima era largamente diffusa l’abitudine di accentare tutti i monosillabi atoni), la mancanza di distinzione tra le due forme non produrrebbe nessun equivoco: ben altri ostacoli alla comprensione sono abituati a superare parlanti che devono interpretare nell’ascolto sequenze sonore spesso distorte da ogni sorta di ‘rumori’o, nella lettura, frasi perfettamente equivoche. A parte la famosa (e improbabile) la vecchia porta la sbarra, chi mai interpreterebbe quell’ esca viva offerta a pescatori dilettanti da tanti negozi sportivi come un minaccioso invito a una fanciulla imprudente? Tant’è, le regole ci sono e bisogna rispettarle, anche se se ne potrebbe tranquillamente fare a meno. Quello che però non sempre è chiaro è che il sistema inventato dal Buonmattei, nato per favorire la comprensione della lingua scritta, rischia di produrre dei risultati paradossali, sui quali vale la pena di riflettere. Ci è infatti capitato di osservare che una parte non trascurabile di insegnanti di scuola elementare -significativamente estesa a tutta l’Italia, dal Friuli alla Puglia alla Calabria- se richiesti di assegnare a categorie diverse gli errori dei loro allievi di quinta, assegnano con grande sicurezza errori del tipo e/è, a/ha e simili (in qualche caso, e con una certa coerenza, perfino l’accento di un/un’) alla categoria dell’errore morfologico e non a quella dell’errore ortografico. Come mai? Richiesti di argomentare le loro decisioni, alcuni hanno affermato, categorici: “Fino alla terza elementare questi errori sono di ortografia, ma dopo questa classe i bambini conoscono la categoria. del verbo, della congiunzione ecc. e non hanno più giustificazione: gli errori diventano di morfologia.”. Colpisce in questa argomentazione l’applicazione all’errore di lingua della teoria del peccato originale, con la grammatica nella parte del serpente: la conoscenza che distrugge l’innocenza, verrebbe da dire. Di fronte a una condanna così inappellabile si pensa quasi con affetto al prof. Aristogitone di radiofonica memoria e a quelle ‘bestie’ dei suoi studenti, che almeno, in quanto tali, si salvavano dalla dannazione eterna... A parte gli scherzi, è possibile davvero sostenere che gli errori di ortografia cambiano di categoria a seconda dell’età di chi li commette e che le conoscenze grammaticali da un lato autorizzano la loro ‘transcategorizzazione’, dall’altro possono aiutare ad evitarli? Posto in questi termini, il problema tocca da un lato la realtà psicologica delle categorie grammaticali (il loro innatismo, se vogliamo), dall’altro il complesso rapporto tra consapevolezza e correttezza, problemi sui quali ci guardiamo bene dal fare affermazioni definitive. Qui si vuole proporre solo qualche riflessione a proposito delle contraddizioni in cui rischia di precipitare una posizione come quella assunta dagli insegnanti di cui sopra e avanzare qualche timido dubbio. Che i bambini ‘conoscano’ le categorie grammaticali e quindi in qualche modo anche il significato fondamentale e la funzione del verbo, della preposizione ecc. ben prima che l’insegnante gliele spieghi in terza elementare è un fatto: altrimenti non si vede come farebbero a capire e produrre frasi corrette nella loro lingua, che prevede di districarsi continuamente tra forme lessicali ambigue, il cui uso implica queste conoscenze. Si tratta però evidentemente di una conoscenza implicita, simile a quella del millepiedi tante volte citato a questo proposito, che camminava benissimo finché qualcuno non gli ha chiesto di spiegare come facesse... Altra cosa è una conoscenza esplicita, condotta con metodi e categorie probabilmente ancora in gran parte estranee al modo di pensare di bambini di quella età e soprattutto non si è affatto sicuri che quella conoscenza influisca positivamente sulla competenza ortografica. Uno che se ne intende, come Wittwer ( Psicopedagogia dell’analisi grammaticale, Roma, Armando, 1969 p.126) dice che “L’analisi grammaticale richiede operazioni mentali che oltrepassano largamente le abitudini linguistiche proprie di ciò che si può chiamare la materiale correttezza di una lingua: ed ecco perché l’analisi grammaticale non può cominciare ad essere svolta sistematicamente prima dei 12 anni. Prima di questa età, essa non ha praticamente nulla a che vedere con l’ortografia; dopo questa età, potrà, in qualche caso, confermare questa o quella grafia.” Ma, restando ai fatti, è indubbio che la confusione tra a/ha e e/è, non è intrinsecamente differente da quella tra sì/si o né/ne: anche in questo caso si tratta di monosillabi appartenenti a diverse categorie grammaticali (con diverso significato, potremmo anche dire) che vengono differenziati per la presenza o assenza dell’accento. Questi errori, però, nessun insegnante si sognerebbe di considerarli errori di morfologia, come non si sognerebbe di considerare tale la ‘distrazione’ tra sole e solo, che guardando alla forma, è invece sicuramente un errore di confusione tra nome e avverbio e quindi errore morfologico... E poi: come mai si ha la netta impressione, condivisa da molti insegnanti, che la confusione tra le due forme (soprattutto tra sì e si, che sono più frequenti di né e ne) sia molto meno diffusa della prima? Il nostro sospetto è che a fare la differenza, e ad indurre più spesso in errore, siano il grammaticalismo inveterato della nostra scuola e l’atteggiamento dell’insegnante, che non solo ha una fiducia cieca nell’utilità dell’insegnamento grammaticale, ma annette più importanza al primo tipo di confusione perché coinvolge una categoria fondamentale come il verbo, che il bambino deve assolutamente imparare a conoscere presto (magari con tutta la teoria della transitività e intransitività e annessi attivi e passivi). Sull’avverbio e sulla particella impersonale-riflessiva, si sa, non è il caso di insistere tanto nella scuola elementare, ma sul verbo, oibò! Ed ecco che i ragazzini distinguono perfettamente nella grafia queste ultime due forme e continuano a confondere è e e. E allora? Se vogliamo, per comodità di classificazione (ma anche di valutazione) continuare a distinguere categorie diverse di errore, la posizione più saggia è quella di limitarsi a registrarli a seconda del livello della lingua a cui appartengono, senza risalire alle loro più o meno probabili cause. Altrimenti rischiamo di moltiplicare senza alcuna utilità pratica le classi di errore, compresa quella del “peccato di conoscenza grammaticale”: si pecca anche con il pensiero, infatti, come insegna la pubblicità di un caffé, ma difficilmente si riesce a dimostrarlo.