Proiezioni postumane dall`orlo della Trascendenza

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Proiezioni postumane dall`orlo della Trascendenza
Proiezioni postumane dall’orlo della Trascendenza
Autore: Giovanni De Matteo
Affrontare il tema del Postumanesimo in ambito cinematografico impone una riflessione sulla
natura filosofica del cinema di fantascienza più maturo. È infatti impossibile parlarne
prescindendo da opere seminali come 2001: Odissea nello Spazio o Blade Runner , la cui
importanza trascende i confini del genere in seno al quale hanno visto la luce. Unanimemente
considerati dalla critica delle pietre miliari della settima arte, queste due pellicole sono state non
di rado decontestualizzate dal background fantascientifico anche in virtù della loro inerzia di
penetrazione nell'immaginario popolare del Novecento.
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Tanto il capolavoro di Stanley Kubrick quanto quello di Ridley Scott hanno impresso a fuoco un
sigillo sulla visione del futuro, sia dall'angolazione dell'uomo comune come pure del più
smaliziato degli appassionati di fantascienza. Stiamo parlando di due opere uniche nel loro
genere, capaci di condizionare ininterrottamente le generazioni a venire dei cineasti e degli
spettatori, legittimando in questo modo la rispettiva affermazione/imposizione di una norma
estetica e stilistica che nessuno ha più potuto permettersi il lusso di ignorare.
In questi film il superamento dell'umanità viene prospettato da due punti di vista diversi, quasi
antitetici. Pur con gli opportuni distinguo, potremmo considerare queste pellicole emblematiche
di due opposte concezioni della fantascienza: il lavoro di Kubrick a rappresentare il futuro come
poteva essere visto prima del crollo delle certezze e della fiducia neopositivistica alimentata
dalla propaganda in tempo di Guerra Fredda; la risposta di Scott a esprimere il disagio degli
anni Ottanta, il senso di precarietà montante, lo schianto sulla superficie dopo il volo
stratosferico ad assaggiare lo spazio, assaporarne sì la conquista, ma solo per la durata di un
morso. Una contrapposizione in cui va tenuto tuttavia conto dell'unicità, e quindi della scarsa
rappresentatività (almeno intenzionale), dei due lungometraggi assunti a campione. Perché se il
loro impatto sulle coscienze e l'inconscio della nostra società di massa è fuori discussione, è
anche vero che 2001: Odissea nello spazio si rivela capace di realizzare una singolare sintesi tra
le istanze della space opera e una sensibilità prettamente new waver, tra l'outer space della
frontiera cosmica e l'inner space delle indagini ballardiane, una fusione che probabilmente
riesce totalmente grazie all'ambizione del suo regista e alla vocazione filosofica sottesa
all'inconfondibile stampo «metafisico» del suo co-autore, il grande Arthur C. Clarke.
In misura analoga, le potenzialità precognitive e anticipatrici di Blade Runner hanno potuto
retro-illuminare il lavoro di Scott anche grazie alla progressiva, inesorabile affermazione di un
gusto estetico e di una sensibilità postmoderna (il cyberpunk) che ebbe in questo film la sua
chiave di volta, in un meccanismo paradossale che gli anglofoni definirebbero di self-fulfilling
prophecy , letteralmente "la profezia che si autoavvera". Difficile definire dove termini la capacità
anticipatrice e dove cominci la sua influenza. Come elegantemente sentenziò nel 1928 il
sociologo americano William Thomas nell'enunciato che sarebbe poi rimasto associato al suo
nome," "se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro
conseguenze"".
In 2001 protagonisti sono i manufatti di due civiltà tecnologicamente avanzate, ma ancora
separate da un profondo divario di conoscenze: HAL 9000, l'intelligenza artificiale a cui sono
affidate le funzioni di controllo della Discovery, l'astronave lanciata alla volta di Giove per la
prima missione terrestre al di là della cintura asteroidale; e il monolito nero, lastra opaca come
il mare della notte siderale, il cui contatto sembrerebbe riuscire a innescare veri e propri salti
cognitivi e, di conseguenza, un'accelerazione nel ritmo del progresso. Mentre il cervello
elettronico della Discovery viene destabilizzato dal sospetto della fallibilità della propria natura,
un limite non contemplato dai suoi stessi artefici e per questo sufficiente a precipitarlo in uno
stato di paranoia e delirio, il monolito assolverà fino all'ultimo alla sua missione aliena: guidare
l'evoluzione delle specie provviste dell'opportuno potenziale dalle radici primordiali verso
frontiere di civiltà sempre più avanzate, fino al definitivo approdo dell'Uomo Nuovo sulla scena
interplanetaria della Galassia.
Ancora manufatti dell'uomo sono i protagonisti di Blade Runner , gli androidi umanoidi che hanno
da: Divenire 2, Futurologia (2009)
imposto nel nostro immaginario la figura del replicante, la copia identica all'originale in grado di
superare in ambizioni e umanità i suoi stessi creatori. Questi simulacri rappresentano
l'avanguardia di una nuova umanità, potenzialmente libera dai vincoli della natura umana, da
quei difetti di programmazione che possono rendere difficile il nostro cammino lungo il sentiero
della vita, ma per questa ragione vengono limitati artificialmente dai loro artefici in ragione di un
protocollo di sicurezza che in realtà ambisce solo a preservare nelle mani dell'uomo il pieno
controllo della vita. I replicanti sono resi sterili e le loro vite vengono limitate alla durata standard
di 4 anni. È così per tutti i modelli della serie Nexus-6 della Tyrell Corporation, fatta eccezione
per Rachel/Sean Young, il replicante "speciale" di cui si innamora Deckard/Harrison Ford (il
cacciatore di androidi, nonché "Distruttore delle Forme" nell'efficace ritratto che ne fa Philip K.
Dick nel romanzo ispiratore del film), che forse reca codificato nei suoi geni alterati il segreto
dell'immortalità o, se non altro, di una vita "umana".
Sempre in tema di manipolazioni biotech, in Gattaca. La porta dell'universo (1997), noir
futuristico scritto e diretto da Andrew Niccol, veniamo trasportati in un futuro da incubo, retto
dalla programmazione genetica della popolazione. Chiunque non sia stato geneticamente
condizionato all'atto del concepimento viene sistematicamente tagliato fuori da determinati
impieghi. Il sistema avrebbe condannato Vincent Freeman (Ethan Hawke) a un destino di
mediocrità, se non fosse che lui si è messo in testa di intraprendere la carriera di astronauta e
partecipare a una missione su Titano. Esposto in egual misura alla debolezza della miopia
come all'impeto delle emozioni, non valido in un mondo congegnato a regola d'arte e preciso
come un meccanismo a orologeria, Freeman sfida l'obbedienza dogmatica di una società futura
levigata fino all'astrazione e ben resa nelle scenografie alienanti, gelide e monumentali di Jan
Roelfs. Infiltratosi a GATTACA, zaibatsu il cui nome evoca una stringa di DNA, diventerà un
hacker genetico pronto a tutto pur di varcare la porta delle stelle. Uma Thurman, altera e
diafana, e Jude Law, essere geneticamente perfetto (come suggerisce il nome del suo
personaggio, Jerome Eugene Morrow) ma condannato all'autodistruzione, lo aiuteranno a
compiere il suo sogno.
Il tema centrale di questa piccola perla di Niccol è il conflitto tra predestinazione e forza di
volontà. Dove si ferma l'effetto dell'intervento umano e dove comincia, invece, il campo d'azione
della volontà? Il nostro futuro è davvero scritto tutto in una sequenza di informazioni di base? E
in cosa consiste essere umani ? A questi interrogativi cerca di fornire una risposta plausibile e
non retorica la pellicola prodotta da Danny De Vito, ammirevole tanto sotto il punto di vista della
realizzazione estetica che per il rigore dell'indagine critica, all'altezza della migliore fantascienza
di stampo sociologico.
Metamorfosi dei corpi, della mente e dei mondi
Andrew Niccol tornerà a battere la pista postumanista nel 2001 con S1m0ne, intelligente
commedia degli equivoci incentrata su una diva creata al computer per soddisfare i gusti estetici
del maggior numero di potenziali spettatori, nonché del suo creatore. Viktor Taransky (sua
maestà Al Pacino) è un regista sull'orlo del fallimento, licenziato dalla ex moglie produttrice e
braccato dai creditori, finché un giorno dal cielo gli piove un'eredità che gli cambia la vita. Deus
ex machina in forma di codici binari, si tratta del Simulation One: un software in grado di
assemblare un attore virtuale a piacimento del regista. Digitalizzare una stella non è un
problema. Basta impostare i parametri del software e il gioco è fatto. Bella, versatile,
economica. Fin troppo comodo. Nella parabola di Taransky, alla generazione segue il trionfo, la
consacrazione da parte dello star-system con tutte le isterie e le cerimonie di rito: pedinamenti
dei paparazzi, foto satellitari, inseguimenti nei deserti. Una Simone-mania su scala planetaria,
paradossalmente culminata con un mega-concerto sulle note del classico di Carole King: "…
you make me feel like a natural woman…". Poco importa che a cantare sia un impalpabile
prodotto virtuale. Le folle impazziscono, e la finzione si impone sulla realtà. D'altronde, come
spiega il disincantato Taransky: "è più facile far credere qualcosa a 100.000 persone che a una
sola". Altra parabola e altra riflessione. Su un mondo governato dall'immagine, dove a definire i
parametri del credibile è la demiurgica attività dei media. "L'intrattenimento è illusione in sé, ma
il pericolo nasce nel momento in cui gli stessi meccanismi operano in ambiti come il giornalismo
o la politica" rivela Niccol. Simone con la sua scelta di entrare in politica fornisce una amara e
degna conclusione alla parabola dei nostri miti odierni.
Sulla scia metaforica delle manipolazioni del corpo e della mente, qui espletate attraverso il
potere di penetrazione dell'immagine e la deriva memetica della violenza, si muove tutta l'opera
della prima fase di uno dei registi contemporanei più visionari e controversi, di recente
convertitosi alla disciplina formale del noir: David Cronenberg. Quando i suoi lavori si nutrivano
prevalentemente di suggestioni horror e fantascientifiche, l'autore canadese riusciva a regalarci
angoscianti escursioni negli inferi dei nostri tempi postmoderni. Videodrome risale al 1983 ed è
un'opera meritatamente assurta al rango di piccolo cult, al pari di altre produzioni firmate dal
maestro canadese. In questo suo ennesimo tour de force nei territori onirici della speculazione
organica e metacinematografica, Cronenberg ci conduce nella proiezione delle più contorte tra
le sue fantasie da incubo. A darsi battaglia sul campo dei mass media sono due ideologie
contrapposte, facenti riferimento rispettivamente al modello Videodrome , filosofia della violenza
estrema volta a penetrare le barriere psichiche dello spettatore fino al punto di condizionarne la
sfera cosciente, e al fronte della Nuova Carne , che cerca di opporsi all'imminente ordine nuovo
del rivale. James Woods interpreta un produttore di un network di secondo piano, scelto suo
malgrado come pedina nello scontro tra i due sistemi: sperimenterà sulla sua stessa pelle le
alterazioni percettive indotte dall'iperstimolazione visiva e si troverà infine a dover scegliere
l'apocalisse migliore come esito evolutivo di una umanità irrimediabilmente involuta su se
stessa.
Fortemente debitore verso le visioni allucinate di Cronenberg è il giapponese Shinya
Tsukamoto, autore nel 1988 del violentissimo Tetsuo, The Iron Man . Film davvero unico nel suo
genere, atipico per forma e struttura: la lunghezza scopertamente anti-commerciale, poco più di
un'ora, lo colloca a metà strada tra un corto e un lungo-metraggio, la suggestiva fotografia in
bianco e nero ne esalta la valenza intimistica, mentre l'assenza di una linearità narrativa lo
avvicina a una dimensione psichedelica. La trama è quasi impossibile da districare: ciò che si
può tentare è appena una estrapolazione di immagini e ossessioni. Un uomo pratica
dolorosissimi e cruenti innesti di metallo sul proprio corpo, forse al fine di testarne le capacità di
resistenza e adattabilità o forse semplicemente per accrescere le proprie potenzialità fisiche.
Mentre scorazza a folle velocità lungo le strade periferiche della metropoli, un'auto con a bordo
una coppia lo investe, causandone la morte. Eccitati dalla situazione, i due rinunciano a
qualsiasi tentativo di soccorso e preferiscono consumare nell'amplesso – ballardianamente – la
tensione accumulata nell'incidente. Per loro sarà l'inizio di un incubo spaventoso e terribile, che
avrà il suo epilogo in una Apocalisse di Fuoco e Metallo.
Mentre vediamo il tecno-cancro risucchiare nella sua spirale di dolore e disperazione il
protagonista, non possiamo non pensare ai temi nodali dell'analisi esistenziale contemporanea:
la città immensa e spersonalizzata come nido di solitudini e omologazioni, l'incomunicabilità tra i
sessi, il fascino perverso della violenza e della morte, la contaminazione graduale dell'organico
e della mente da parte del sintetico. Ossessioni profondamente radicate nell'animo di uno dei
più sensibili cineasti in azione nel panorama del Sol Levante, che per via di un fattore storico
fortemente influente ancora oggi non può avere dimenticato l'orrore della maledizione nucleare.
Lontano anni-luce dal cinema di impostazione occidentale, europea o americana che sia,
Tetsuo è un film unico nel suo genere: crudo, spiazzante, ipnotico, evocativo. E contro ogni
aspettativa, all'uscita ottenne un tale riscontro di critica e di pubblico, almeno nell'ambito della
ristretta cerchia dei cultori, da indurre il suo autore a girarne nel 1992 un seguito che è quasi un
remake: Tetsuo II – Body Hammer . Più che di un prosieguo, infatti, si tratta di una evoluzione
delle tematiche del prototipo: facendo affidamento su una disponibilità di risorse visibilmente più
ampia, Tsukamoto riesce a ricrearne l'atmosfera onirica da incubo e a ricontestualizzarne
immagini e ossessioni. Un'opera forse ancora più incisiva, perché questa volta vengono svelati i
misteriosi retroscena della metamorfosi cibernetica.
Il finale apocalittico ci ricorda che non tutte le alternative del futuro contemplano la
sopravvivenza del genere umano. Almeno non come noi lo conosciamo. Una morale molto
vicina alla saga di James Cameron dedicata allo scontro di civiltà tra l'uomo e Skynet: a partire
dal prototipo del 1984, passando per l'efficace Terminator 2 . Il giorno del giudizio (1991) e il
meno felice Terminator 3 . Le macchine ribelli (2003) diretto da Jonathan Mostow, per arrivare
fino all'annunciato Terminator Salvation di McG (2009) e alla serie televisiva Terminator: The
Sarah Connor Cronichles di Josh Friedman, Terminator dimostra come il confronto tra
intelligenze artificiali e vecchia umanità organica potrebbe essere anche estremamente
conflittuale, al punto da sfociare in una guerra catastrofica estesa su un fronte temporale senza
limiti. La Singolarità ante-litteram di James Cameron si manifesta come presa di coscienza da
parte di un supercomputer della Cyberdyne System, che subito scatena un olocausto nucleare
per spazzare via dalla Terra la specie umana e dominare il pianeta con le sue armate robotiche.
Skynet non ha però fatto i conti con la Resistenza e con John Connor, la sua nemesi. Per
sbarazzarsi del problema dalle radici, prova in tutti i modi di eliminarlo nel passato, prima della
sua nascita, ancora adolescente o quasi adulto, inviando androidi da guerra sempre più
sofisticati che tuttavia ad ogni tentativo. E ogni fallimento è una riscrittura della storia, con
conseguente procrastinazione della Singolarità.
Da uno spunto molto simile parte anche l'acclamata trilogia di Andy e Larry Wachowski,
dedicata all'ultimo sforzo di riscattare l'umanità dalla gabbia elettronica della prigionia sotto le
macchine. Matrix (1999) si è ormai imposto come fenomeno di culto del nuovo millennio, forse
l'ultimo merchandising di successo prodotto in seno alla fantascienza. Attingendo a piene mani
alle suggestioni cyber-punk e post-cyberpunk, i Wachowski Bros hanno confezionato un
prodotto ambizioso che strizza l'occhio ai più giovani con concessioni – non sempre necessarie
– alla moda, che puntano sul look più spesso che sull'estetica. Un'opera dilaniata tra gli alti di
Matrix Reloaded (2003) e i bassi di Matrix Revolutions (2003), con buchi logici che sarebbe
stato lecito vedere risolti in fase di sviluppo e che invece persistono fino alla fine, che rinuncia a
qualsiasi discorso filosofico o cinematografico fosse stato in precedenza anticipato per
dedicarsi esclusivamente a un accumulo parossistico di scene d'azione.
Difficile tuttavia resistere alla carica simbolica della storia di Neo, interpretato dall'icona
cyberpunk Keanu Reeves, l'uomo che si risveglia dalla Matrice per scoprire che il suo mondo è
solo una simulazione, tenuta in vita da macchine che hanno ridotto l'umanità in schiavitù. Gli
unici ad essere scampati alla connessione forzata sono i cittadini dell'utopica comunità di Zion,
in lotta contro le armate robotiche di Matrix per difendere la propria libertà e, nella realtà
virtuale, contro i suoi spietati agenti immunitari per affrancare i prigionieri dalle loro vite
simulate. Nell'affastellamento generale di suggestioni, duelli e battaglie, viene lanciata anche
l'ipotesi di una sorta di singolarità annidata, una Singolarità (l'Agente Smith) nella Singolarità
(Matrix), capace di soppiantare quest'ultima e condurre a un collasso della realtà dai toni molto
dickiani.
Oltre l'orizzonte
Il Giappone è forse la cultura al mondo che con maggiore pervicacia ha recepito le folgorazioni
del cyberpunk. Non sorprende quindi che proprio dal Sol Levante sia arrivata forse l'opera di
maggiore impatto degli ultimi tempi, oggetto di un vero e proprio culto, al punto da richiamare
l'attenzione dei selezionatori del prestigioso e raffinato Festival del Cinema di Cannes.
Ghost in the Shell è un prodotto che mescola poliziesco e fantascienza con un forte background
filosofico. Nato nel 1991 come manga, creato, scritto e disegnato da Masamune Shirow, negli
anni Ghost in the Shell si è imposto come un fenomeno di costume, portato sul grande schermo
dal veterano Mamoru Oshii con due titoli prodotti dalla IG ( Ghost in the Shell e Ghost in the
Shell: Innocence) il secondo dei quali in associazione con lo Studio Ghibli di Miyazaki, a cui
hanno fatto seguito le due serie animate Ghost in the Shell: Stand Alone Complex e il
lungometraggio Ghost in the Shell: Stand Alone Complex Solid State Society , diretti da Kenji
Kamiyama, e addirittura quattro romanzi (senza contare le novelization …).
Siamo di fronte a un'opera complessa, che sembra nascere proprio con il proposito di
sintetizzare le istanze dei due manifesti del cyberpunk: il capostipite cinematografico
rappresentato da Blade Runner e il capolavoro letterario di William Gibson, Neuromante . Il
lavoro di Shirow completa questo ideale trittico andando a colmare quella lacuna che restava tra
i due media e che è idealmente data dalla sovrapposizione del fumetto con l'animazione.
Ci troviamo a NewPort City, una non meglio specificata megalopoli dell'Estremo Oriente, a
cavallo tra i prossimi anni Venti e Trenta: la Rete Globale ha subito uno sviluppo vorticoso,
arrivando a giocare un ruolo di primo piano nella vita delle persone. In molti si dotano di innesti
hardware per sfruttarne appieno le potenzialità connettendosi direttamente ad essa, ma così
facendo finiscono per esporsi alle minacce di terroristi e cyber-criminali. Con questo vertiginoso
progresso, si sono infatti moltiplicati anche i fenomeni delinquenziali legati alle ultime
tecnologie. La Sezione 9 è il reparto speciale dei servizi di sicurezza istituita dal Governo per
combattere la nuova frontiera del crimine. Di questa unità fanno parte il Maggiore Kusanagi e
Batou, due cyborg la cui amicizia sembrerebbe prossima a sconfinare in un sentimento più
profondo.
Kusanagi, che ha ormai raggiunto un livello di meccanizzazione tale che solo poche cellule del
suo cervello originario restano a testimoniarne la natura organica, vive con profondo disagio la
sua condizione sospesa tra passato e futuro: si interroga su una nuova definizione dell'umanità
che possa contemplare la sua esistenza nell'ordine delle cose, ma allo stesso tempo aspira a
un superamento dell'ultima barriera fisica che la tiene ancorata al mondo degli uomini. Il suo
corpo, il suo guscio, il suo Shell.
Ghost in the Shell richiama nel titolo il lavoro Ghost in the Machine di Arthur Koestler, scrittore di
origini ungheresi che nel suo saggio strutturalista aveva ripreso la vecchia scuola di pensiero
avversa al dualismo cartesiano, convinta sostenitrice della preminenza della condizione fisica
del cervello come base nei fenomeni emergenti del pensiero e quindi della coscienza. Il Ghost
(mente, intelletto, anima, essenza) sembrerebbe distinguere gli uomini dai robot, il cui istinto è
inevitabilmente codificato in algoritmi e quindi mediato da calcoli. Ma tra i due estremi, un
cyborg come il Maggiore dove si colloca?
È questo interrogativo a ossessionare Kusanagi fino al suo incontro con il Signore dei Pupazzi,
un'entità capace di impossessarsi dei robot e di chiunque sia connesso alla Rete e di disporne a
piacimento, come marionette, avvalendosene per commettere reati in modo da rendere
pressoché impossibile risalire al mandante. Sebbene il ghost hacking rappresenti l'ultima
frontiera dell'hackeraggio – irrompendo attraverso gli impianti neurali dei cyborg nel ghost della
vittima fino ad assumerne il pieno controllo – nel caso che si trovano ad affrontare Kusanagi e
Batou sembra essere coinvolto qualcosa di più di un cyberterrorista.
Se in fondo già in Neuromante avevamo Invernomuto, l'Intelligenza Artificiale che si prendeva
gioco degli umani arrivando nell'epilogo a fondersi con la sua gemella eponima, qui sarà il
Maggiore Kusanagi ad accettare un patto di mutua integrazione con il Puppet Master,
risolvendo con il suo sacrificio l'equazione "anima = software" e spostando ancora più in là il
confine tra umano e artificiale.
Ma tra cyborg, robot domestici, animoidi e ginoidi da compagnia, Ghost in the Shell diventa il
fulcro di un discorso sintetico che racchiude un po' tutta la storia della fantascienza del
Novecento e la incastra alla perfezione con il pensiero dell'uomo, senza circoscriverlo
all'epistemologia. Da Villiers de l'Isle-Adam (la sua Eve Future , 1886, viene richiamata
nell'epigrafe di Ghost in the Shell: Innocence, "Se i nostri dei e le nostre speranze non sono altro
che fenomeni scientifici, allora dovremmo ammettere che anche l'amore è scientifico") a William
Gibson. Da Platone a Cartesio, fino a Richard Dawkins ("Quello che un individuo crea è
un'espressione dell'individuo, proprio come un individuo è un'espressione dei propri geni", Il
gene egoista ). Muovendosi all'interno di ben precise coordinate simboliche: le bambole
(giocattoli, bambini, oggetti), l'informazione strutturata in eliche di luce che richiamano la
conformazione del DNA, il reticolo stradale della città immersa nella notte.
Nel secondo capitolo cinematografico della serie, alle prese con delle replicanti-kamikaze,
tocca proprio a Batou, rimasto "orfano" di Kusanagi, constatare la superiorità delle ginoidi
rispetto agli umani: "la non onnisciente natura della percezione umana causa l'incompletezza
della realtà", sentenzia un testimone. E nel finale a Batou non resta che compiangere le
macchine, frustrato dall'insensibilità dimostrata dagli uomini che, pur subendone la
fascinazione, si ostinano a non vederne l'essenza e seguitano a trattarle come oggetti
sacrificabili ai propri capricci.
E in questo modo si chiude un cortocircuito con la figura del robot/androide/replicante, dalle sue
origini come servitore dell'uomo a protagonista proattivo nel processo di crescita dell'umanità e
nel suo progredire dal preludio della Trascendenza (il dubbio che attanaglia il Maggiore
Kusanagi) verso un orizzonte che è già postumano (l'integrazione di Kusanagi nel più vasto
sistema informatico globa-le). Una valenza paradigmatica di questa leggerezza giunge ad
assumerla la promessa della "donna che era stata il Maggiore Kusanagi" a Batou, prima del
loro commiato: "Ogni volta che ti connetterai alla Rete, io sarò lì con te".
Ghost in the Shell riscrive le regole: parallelamente alla meccanizzazione (non sempre
corrispondente alla disumanizzazione) dell'uomo, scorre l'umanizzazione della macchina
attraverso il risveglio (o l'ispirazione) del ghost. Anche Batou arriva a farsene una ragione,
prendendo infine coscienza dell'eterna geometria di Dio e del mondo.
"Il dubbio ci attanaglia: se una creatura sembra viva, è viva davvero?" lo provoca un hacker
deciso a ripercorrere le orme di Kusanagi. "O, al contrario, un oggetto senza vita può vivere? È
per questo che i robot ci fanno paura. Sono modellati sugli umani, ma in realtà essi sono
umani. Ci mettono di fronte all'orrore di essere un mero meccanismo, semplice materia. In altre
parole: ci danno la consapevolezza che noi umani siamo anche noi parte del mondo. […] E la
scienza, cercando di svelare il segreto della vita, ha innescato un altro timore: se tutto in natura
è calcolabile, allora anche gli esseri umani sono riducibili a parti elementari, meccaniche, della
natura stessa."
Come ripetono le parole che si accompagnano alla musica portante di GiTS: Innocence, in una
litania straziante:
Anche se la luna non si accende ogni giorno,
ogni notte la gru canta con dolore.
Anche se guardo indietro, il fiore perde i petali.
Come la mente che svanisce, scompare.
Antichi Dei si riuniscono nella Nuova Era.
Il giorno nasce e la gru canta.
Gli eventi fanno il loro corso. Guardarsi indietro serve a conservare le coordinate spaziali e
temporali della propria identità mentre si corre verso il futuro: senza timori, ma disposti ad
abbracciarne l'essenza, lo spirito. E a risolvere nello Zeitgeist il proprio ghost come frammenti di
codice alla deriva.
Note
1
Questo articolo è già apparso in forma digitale su Delos Science Fiction Magazine . Nr. 108, il
7 settembre 2008.
Autore: Giovanni De Matteo
Articolo originale: http://www.divenire.org/articolo.asp?id=17