foglio pisa - Il Foglio Letterario

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foglio pisa - Il Foglio Letterario
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Il Foglio Letterario
FIERE DEL LIBRO DI PISA E VENTURINA 2013
Il Foglio Letterario dal 1999 - Editore in Piombino dal 2003
Anno 14 - Numero 3 - INVERNO 2013
Catalogo aggiornato libri
www.ilfoglioletterario.it
Mail per contatti: [email protected]
Una piccola Casa Editrice che ha partecipato
4 volte al PREMIO STREGA e ha lanciato scrittori per
GUANDA, RIZZOLI, NEWTON & COMPTON, ANORDEST,
STAMPA ALTERNATIVA, MINIMUM FAX...
I fumetti pubblicati in questo numero sono di Agata Matteucci,
Garrincha ed Hernan Henriquez.
Non posso restare fedele a un ideale perduto, ma
posso esserlo a una città perduta (G. C. Infante)
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AGATA MATTEUCCI STRIPS
LE TERRIBILI LEGGENDE METROPOLITANE
IL FOGLIO LETTERARIO
Rivista fondata nel 1999
Numero 3 - Anno 14
Testata Registrata al Tribunale di Livorno
Direttore Responsabile. Fabio Zanello
Direttore Editoriale: Gordiano Lupi
Redazione: Via Boccioni, 28
57025 Piombino (LI) - CP 66
Sito Internet: www.ilfoglioletterario.it
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Telefono 056545098
La collaborazione è gratuita e per invito.
Manoscritti e materiale inviato (non richiesto) non
verrà restituito. Il Foglio Letterario è il bollettino
aperiodico della omonima casa editrice, pubblica
opere di autori inseriti nella struttura e materiale
selezionato dai direttori di collana, ritenuto in sintonia con il programma editoriale.
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L'amore è
energia umana,
energia maschile,
La raccolta di poesie "Dichiarazione" di Roberto Malini energia femminile,
(Edizioni Il Foglio) uscirà a giorni anche in versione e-book, energia omosessuale,
con due inediti all'interno: "L'amore secondo don Gallo" e energia transessuale.
"Siamo l'arcobaleno". Ecco, in anteprima, "L'amore secondo
don Gallo".
Siamo uguali uguali uguali
fatti di carne e anima,
con un cuore piantato nel petto
L'amore secondo don Gallo
e abbiamo ricevuto
Dolce brivido dolce brivido
da un cielo generoso
amabilmente ruvido,
gli stessi doni:
l'ortica delle tue gote
intelligenza,
sul mio viso
creatività,
rasato di fresco.
Spiritualità
e passione.
Petali d'anima petali d'anima,
pioggia di silenziosi sì
Così diceva don Gallo
i tuoi baci di ragazza
a coloro che soffrivano
sulle mie labbra di donna.
perché si sentivano diversi
e respinti dal mondo.
Perché dobbiamo osare amarci
cuori nascosti come topi in un covo L'amore
quando l'amore sorge
secondo lui
chiaro orgoglioso libero,
era un transito
simile all'alba che fa cantare le valli?
dalla solitudine
a Dio.
Perché le nostre membra tremano
come candele in una cattedrale
No, di più ancora:
al mostrarsi fugace di un'ombra
l'amore secondo don Gallo
sul diaframma di carta
era Dio.
che ci separa dal mondo?
Dio è amore a perdere,
Perché ci abbracciamo trattenendo il fiato
una corda di fuoco,
se in un solo respiro
un dono e un enigma.
nascono sinfonie e poemi,
Come si fa a capirlo fino in fondo?
si generano galassie
e iniziano ere di fuoco e di ghiaccio?
Basta che ci sia amore,
amore a perdere.
Si alzi da terra l'amore reietto,
esca dai sotterranei del mondo
L'amore
e cammini orgoglioso di sé
secondo don Gallo
cantando le sue mille canzoni!
è Dio.
Esce in e-book "Dichiarazione di Roberto Malini. In anteprima uno degli inediti
Don Gallo ripeteva le parole di Gesù:
Adesso voi che siete affranti
venite a me venite a me!
L'amore
secondo don Gallo
è Dio.
Adesso voi che siete oppressi
venite a me venite a me!
L'amore
secondo don Gallo
è Dio!
E veniva la gente della suburra,
accorrevano accorrevano
gli emarginati e i perseguitati
con i loro cuori amareggiati,
con i loro cuori spaventati,
con i loro cuori smarriti.
Allora il prete di strada
li invitava a levare gli occhi
in alto verso il sole e diceva loro:
Guardate senza farvi abbagliare,
ma guardate: tutto quello che cercate
è amore e l'amore è luce.
Ho scritto questa poesia nella dolorosa circostanza della
morte di don Andrea Gallo, un caro amico, un sacerdote che
ha portato nella Chiesa un nuovo spirito di solidarietà, un
difensore dei diritti umani che ha lasciato un vuoto incolmabile. L'ho letta per la prima volta durante il mio reading al
Festival Internazionale di Poesia di Genova 2013, dedicato
al "prete di strada". (Roberto Malini).
Il silenzio dei violini di Paul Polansky e Roberto Malini - Euro
14 – Pag. 200 - Paul Polansky e Roberto Malini sono ben conosciuti per il loro attivismo a tutela del nostro popolo Rom. In questo
commovente volume i nostri cuori e le nostre menti sono toccati dal
loro eccezionale talento poetico ed è giusto che abbiano utilizzato
l’arte letteraria per il loro obiettivo. Due ristampe.
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La goccia di latte
di Luca Nardini
È successo per l’ennesima volta. Eppure mi ero riproposto di scandirle bene le parole…
“Un caffè macchiato freddo”. Ovviamente il tonto non ha capito: “Come dice signor Goretti?”.
“Macchiato grazie”. “Subito…”. Subito un accidente! rièccotelo qui il caffè in vetro. E per giunta
affogato nella schiuma calda del latte! Il bicchierino al posto della maiolica mi fa schifo. È disgustoso. Però non protesto, ingurgito velocemente il tutto, sorrido e pago.
“Allora arrivederci”. “Arrivederci e buona giornata”. “Buona giornata anche a lei”.
Sono un cliente fisso, io dovrei entrare e fare appena un cenno con il capo. Il tonto dovrebbe preparare il mio caffè – in tazza – porgermelo sul banco e avvicinarmi anche quel piccolo bricco con il latte
freddo. ‘Freddo’: è così semplice, non bollito e ribollito, freddo. Allora prenderei il bricco per il manico e plik! appena una goccia di latte, purissima. Invece no. Tutto si complica, tutto si rovina irrimediabilmente… Dev’essere per colpa dell’assonanza: frEDDO/in vETRO. Oppure per un mio difetto
di pronuncia. Forse, più semplicemente, si tratta soltanto dell’incapacità professionale del tonto. Domani gli parlo, glielo dico: “Senta, facciamo così: non appena entro, la mattina, lei mi prepara un caffè, un caffè espresso, in tazza. Magari soltanto un tantino più basso, se possibile… Poi non ho bisogno d’altro, nemmeno dello zucchero, è sufficiente una goccia, una gocciolina di latte freddo. Plik!
Fatto. Pago, la saluto e me ne vado. Non c’è bisogno nemmeno di una parola. Non mi faccia domande inutili, del tipo: ‘In tazza grande? Alto? O che so, all’americana?’ Sarebbe assolutamente superfluo. Io ho bisogno di quello che le chiedo, capito? Soltanto di quello. Si chiede per avere, per sapere
invece si domanda. E qui non c’è nulla da sapere. Ho bisogno di una sola goccia di latte. ‘Freddo’.
Perché lei, vede, tutti i giorni - tranne la domenica quando il suo bar è chiuso - tutti i giorni lei mi
augura una buona giornata. Ma con questo schifo di caffè la mia giornata invece me la rovina! E io
allora che cosa posso farci! Sarò libero o no di frequentare il suo bar? Avrò almeno diritto ad una
sacrosanta goccia di latte? Sente? Dico ‘freddo’, freddo e non ‘in-vetro’! Non si distragga per favore,
mi ascolti. Io sono un suo cliente, ha capito? Non le chiedo certo di stendermi un tappeto rosso… mi
tratti soltanto come tutti gli altri, magari semplicemente con un po’ più di riguardo… se non altro per
rispetto della mia fedeltà,o della mia caparbia. La schiuma ribollita mi fa vomitare, per me è peggio
di un insulto. E poi nel bicchierino ci bevono tutti i vecchietti catarrosi di questo bar, vuol mica che
mi becchi una malattia mortale? Così il giorno seguente il signor Goretti Mario si alzò come ogni
giorno di buon ora, si lavò, si vestì, indossò gli occhiali e scese le scale di casa sua. Dopo cinquanta
metri si fermò per un attimo. Ripassò mentalmente il discorso che si era preparato e si avviò verso il
bar. Entrò deciso. Si rivolse al barista con un cenno del capo, il barista capì e avvicinò l’orecchio alle
labbra del signor Goretti, per ascoltare meglio quello che il suo cliente aveva da ordinargli – anche se
lo sapeva, avrebbe preso il solito caffè in vetro macchiato caldo, con la schiuma. Il discorso invece fu
lunghissimo, il signor Goretti gli parlò di quel suo figlio morto in giovane età in un incidente stradale; di come questa sciagura avesse rovinato il rapporto con Rosa, la sua ex-moglie; di quanto sia difficile vivere per quindici anni da solo; della sua passione per i bengalini e della cifra che spendeva
alla settimana per il loro mantenimento. Aveva anche un gatto che si chiamava… pensa un po’, Alfredo. Alfredo dava pochi problemi, in casa, essendo castrato. Il barista non capiva bene il perché di
quella lunghissima confessione, ma stette ad ascoltare tutto, per filo e per segno - in fondo si trattava
dei problemi personali di un cliente… Finché al signor Goretti non scese una lacrima, una sola, densa
e appiccicosa, quasi come una goccia di latte. “Non se la prenda su… signor Mario… sono cose che
capitano… cose che fanno parte della vita… E invece bisogna pur viverla la vita! Adesso sa che cosa
facciamo? Le preparo il suo solito caffè, macchiato come lo vuole lei, con una bella schiuma di latte
nel bicchierino di vetro…”.
Il mio supereroe preferito di Luca Nardini - Euro 16 – Pag. 200
Marilena lo guardava sbalordita, ma non disse una parola, si limitò a fare un movimento impercettibile con le
labbra, come un brivido. Lui attraversò la cucina, prese il cappotto dall'appendiabiti dell'ingresso, e dopo aver
controllato se le chiavi di casa fossero in una delle tasche - sì, c’erano - con un movimento energico aprì la
porta e uscì. Senza dire altro. Perché l'unica cosa da dire a sua moglie, in quel momento, sarebbe stata: “Ma tu
lo sai chi sono io, bimbetta mia? Io sono l’uomo lucciola”. Luca Nardini è nato a Empoli (1962) dove vive. Ha
già pubblicato La carrozza affogata (2007), A far tempo da(2009) e Dolls (2010).
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Estratto da Piombinorama
di David Marsili
Fumava, come se nulla fosse e senza neanche chiedermi il permesso. Poi ha tirato fuori dei fogli dalla borsa ed
ha preso a bruciarli. Li accendeva da un angolo, con un accendino rosso, poi li gettava a terra. Mi sono alzato
ad aprire un po' la finestra. Ho sentito l'aria fresca e salmastra entrare nella camera e sostituire un po' quella
miscela indefinibile di fumo, fragranze da marciapiede e vizi dei precedenti ospiti. Ho sentito fuori una macchina sfrecciare e poi inchiodare improvvisamente, con un gran fischio di freni. Ho avuto un sospetto e ho richiuso
la finestra. Poi ho sentito una specie di allarme in lontananza.
“Se tornassero a cercarti?” le ho detto.
“Non torneranno, boy.”
“Sì, ma se tornassero?”.
In quel momento ho sentito bussare alla porta.
Mi si è ghiacciato il sangue nelle vene. Le ho fatto cenno di stare zitta. Ho spento la luce e ho preso il telaio di
un abat-jour di ferro battuto. La prima cosa che ho individuato come arma di difesa. Le ho detto di spengere la
televisione. Quei figli di puttana ci avevano trovato e sicuramente non era gente che faceva sconti.
Il cuore mi batteva a mille e avevo la vista annebbiata. Alla porta bussavano forte. La sirena fuori suonava sempre più distorta. Lei ha sbagliato pulsante e invece di spengere la televisione, ha rimesso l'audio.
A quel punto ho visto la porta aprirsi di colpo. Nella semi oscurità ho visto la sagoma nera dell'uomo che correva nella stanza con qualcosa di grosso in mano.
Ho chiuso gli occhi e colpito duro. L'ho sentito cadere a terra, e insieme al tonfo di un corpo, c'é stato anche un
clangore metallico.
Poi ho sentito l'urlo di lei. Ho aperto gli occhi e ho visto tutto.
Ecco perché sono qui. Ormai non so più neanche da quante ore sto rinchiuso nel mio mostro di metallo. Ma
questo non è un fumetto manga. È la storia di come ho ucciso quel povero portiere notturno della pensione. Il
tutto per la sigaretta di Kelly e dei suoi stupidi fogli carbonizzati. Aveva fatto partire i rilevatori di fumo. L'uomo si era spaventato ed era venuto a bussare. Siccome noi non rispondevamo, ha temuto il peggio ed è entrato
con un estintore. E io ho fatto il resto.
Kelly se ne è andata. È stata lei a dirmi di non chiamare la polizia. Nella pensione eravamo soli. Ha cancellato
a mano le registrazioni dei nostri nomi alla reception e mi ha chiesto di accompagnarla fino al porto di Piombino. Sulla banchina, il vento le scarmigliava quei riccioli rossi, sbatteva quella sua gonna vistosa come una bandiera, la risacca del mare creava echi sinistri, mentre un traghetto della Moby tentava di sdrammatizzare con le
gigantografie di fumetti sulla sua fiancata. Poi lei mi ha chiesto scusa e mi ha detto di scordarmi di lei. Io me la
sarei cavata. Io sono un bravo ragazzo. Smalltown boy. Un ragazzo di provincia.
Questa provincia che è tutta qui, qui ai miei piedi. Credo che non scenderò più da questa gru a torre. Se mi concentro bene, nelle luci dei lampioni, nelle loro geometrie, riconosco tutto. Piazza Bovio e il suo faro, il piccolo
centro e tutte le vie intorno. Il porto, con le navi e la gente ammassata sui ponti a fumare e a salutare i parenti,
con la testa già nelle isole che visiteranno. Vedo anche le luci nelle case dell'Isola d'Elba. Sento nel vento tutto
l'odore di questo nostro mare.
Penso ancora per un attimo a lei. Inizio a dubitare di tutto. Non so chi sia, chi erano gli altri, da cosa l’ho salvata. Sicuramente non è neanche una puttana. Forse non si chiama neanche Kelly.
Poi non penso più a niente. Mi allungo sul sedile, inizio a vedere tutto sempre più opaco. Sempre più indefinito
e rarefatto.
La città finisce in una striscia di carbone e poi si perde in mare. Un diorama incompiuto che si diluisce nella
provincia intorno.
David Marsili (Livorno, 1973). Con Il Foglio Letterario ha pubblicato i romanzi “Viscere – L'indifferenza della
notte” (2008) e “Uomo di Tungsteno” (2011). Nel 2013, il racconto “I am the resurrection” è stato pubblicato
nel primo numero della nuova collana Demian de IlFoglioLetterario. Il terzo romanzo è in lavorazione. Il brano
che vi presentiamo è tratto da Raccontare Piombino.
Raccontare Piombino di AA.VV. - Pagine 150 – Euro 14 - Undici autori per raccontare una città, anzi dodici, perché gli splendidi scatti di Andrea Frediani immortalano Piombino in tutta la sua bellezza. Umberto Bartoli, Valentina Della Lena, Paolo Ferrari, Alessandro Fulcheris, Emilio Guardavilla, Federico Guerri, Gordiano
Lupi, David Marsili, Marco Miele, Simone Pazzaglia e Paolo Silvestri. La città è la vera protagonista, in un
libro che non vuol essere celebrativo, né agiografico. L’azione degli undici racconti si svolge nei luoghi simbolo della città: Porto, Marina, Salivoli, Pinetina, Città Vecchia, Populonia, Baratti, Centro Storico. Un biglietto
da visita per un luogo dell’anima in rapido divenire, dalla monocultura dell’acciaio alla diversificazione turistica. (Gordiano Lupi)
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Una poesia di Patrizia Garofalo
Al di là dei muri
di Emilio Guardavilla
E venni a patti con il dolore
Disorientato ospite
Lo ebbi più volte a cena
Lo abbracciai
Tra i baffi di un medico
Morte rapida di una bambola
Occhi impossibili al pianto nell’addio ad un
cane
Avrei attraversato secoli
Smagrita dal cercare
Appassionata fotografa di vita
Mi firmai sempre
“angelo sbagliato con ali di terra”
Tutto desiderai
Tranne la dimenticanza
Garrincha è un fumettista cubano che
vive a Miami, ma conosce bene vizi e
virtù di casa nostra. In questo numero
del Foglio Letterario vi faremo leggere
alcune vignette divertenti.
[…] Al di là di quei muri passano
gran parte del loro tempo ancora circa tremila persone provenienti da tutto il comprensorio e da altre parti del mondo. A vari livelli
di competenza lavorano dalle otto alle sedici
ore per un totale di circa duecentotrenta giornate lavorative annue, giornata più giornata
meno. Il tempo trascorso dentro dipende dalle loro necessità, ambizioni e aspettative ma
è comunque regolamentato da terzi in base
alla congiuntura economica del momento.
Una certa flessibilità, ad oggi, è sempre stata
garantita. Gli affetti che li attendono, in ogni
caso, hanno adeguato tempi e ritmi delle proprie vite alle turnazioni settimanali programmate. Molto spesso la gita fuori porta non
viene fatta di domenica e il pasto, pranzo o
cena che sia, viene consumato molto prima
del telegiornale. La loro giornata inizia con
un riconoscimento digitale della loro presenza; il primo saluto che ricevono è il bip di un
tornello infallibile che legge una banda magnetica stracolma di dati ma che non è in
grado di apprezzare lo stato d’animo a cui è
abbinato. Quello lo si può riconoscere solo
dalle mimiche facciali di ogni matricola, parametro che nessun sistema elettronico di
vigilanza è ancora in grado qualificare o
quantificare. In questo frangente, chi ha già
versato una quota cospicua dei contributi alla
Previdenza Sociale, difficilmente tradisce
qualche sentimento dall’espressione del viso:
neutra, indifferente, distante da quella contingenza che è diventata il quotidiano dalla
fine degli studi. I più eloquenti ed espansivi
in termini ottimistici sono i più giovani e i
non italiani. I primi per l’incoscienza che
grazie al cielo li contraddistingue, i secondi
per il senso di appartenenza a quest’america
che si fa sempre più sicuro come il loro italiano orale. […]
Raccontare Piombino di AA.VV. -Pagine 150
– Euro 14 - Undici autori per raccontare una
città, anzi dodici, perché gli splendidi scatti di
Andrea Frediani immortalano Piombino in tutta
la sua bellezza. (a cura di Emilio Guardavilla)
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Bad Luck
di Paolo Merenda
L'asso di quadri rappresenta una notizia. Felice o triste, dipende, questo dicono le cartomanti. Dopotutto dovevo immaginarmelo. Quella partita non poteva finire tranquillamente. Non
è che il poker fosse mai stato il mio forte, ma quella notte di Capodanno stavamo giocando a
strip – poker, io e altri tre amici. Niente di omosessuale, semplicemente eravamo ubriachi.
Fuori c'era mezzo metro di neve. Eravamo tutti e quattro in mutande e gli alcolici erano finiti
da un po'. Al prossimo perdente toccava levarsi le mutande, davanti a tre maschi e quattro
donne. Eravamo amici da una vita, ma non avevamo mai giocato insieme a pallone o roba
del genere. Non eravamo abituati a gestire la nostra nudità davanti agli altri. Pensai che le
donne si sarebbero girate dall'altra parte, o almeno avrebbero fatto finta. Avevo in mano tre
assi, rilanciai alla grande. Cambiai due carte e mi arrivò anche il quarto, quello di quadri. La
posta era quella che era, cazzo mi fregava. Figurarsi se qualcuno poteva tirar fuori una scala
reale. Era già tanto che in quelle condizioni sapevamo ancora riconoscerla da una normale.
Lanciai le mie carte al centro della tavola rotonda e mandai tutti affanculo. Cazzi vostri, contate le fiches e calate le mutande. Il coglione che perse si vergognava. Dopo una discussione
infinita gli effetti dell'alcol svanirono e la menata andò avanti per un'altra mezz'ora. Dopodiché la sua donna disse che si voleva spogliare al posto suo. Lui la squadrò, spalancò la bocca
e avvampò. Lei non fece una piega e iniziò a levarsi il maglione. Sotto quella specie di coperta da hippy indossava una maglietta di Bob Dylan. Si levò anche l'altra e svelò un reggiseno bianco con stampato la carta che mi portò fortuna, l'asso di quadri. Per la cartomanzia
rappresenta una notizia felice o triste. Quella volta parve parecchio felice. La tipa era una
gran figa. Si levò le scarpe, i jeans a zampa e restò in mutande. Quella hippy sembrava aver
lì sotto un gran bello zerbino, oppure due labbra molto protuberanti, perché le mutande erano
un po' gonfie. Se le sfilò, ma prima si girò di culo, mostrandoci due chiappe palestrate. Et
voilà, les juex son fait. Rien ne va plus. Intervenne il suo ragazzo oscurandoci la vista della
tipa nuda. Noi protestammo. E che cazzo, i patti erano quelli, lui non s'era voluto spogliare.
Ora ti levi dalla minchia. La tipa si voltò, ma a nessuno riuscì a vedere lo zerbino alla Gloria
Guida che nascondeva sotto le mutande. Lei lo spintonò e si mostrò finalmente nella sua nudità. In mezzo alle gambe non aveva un tappeto di pelo nero, ma un bel pisello. A saperlo si
faceva a gara a chi ce l'aveva più lungo, invece che lo strip - poker. Nella stanza calò l'imbarazzo totale. Le altre tipe si voltarono alla vista dell'arnese. Noi tre maschi rimanemmo ipnotizzati dal pendolo. Mi alzai e buttai nello stereo un cd a caso. Capitarono i Social Distorsion
e Bad Luck sembrava stata scritta apposta per quella situazione. I cartomanti mi son sempre
stati sul cazzo, ma c'azzeccano. L'asso di quadri mi fece vincere la mano, poi quella si spogliò mostrandoci un completino intimo a quadri. Mi resi conto solo in quel momento che uno
dei miei migliori amici stava con un trans. Avevamo ancora davanti qualche giorno di vacanza. Dovevamo divertirci e non pensare all'episodio. In fondo eravamo sbronzi e fummo
stronzi nell'accettare di far spogliare la tipa. La povera vittima della penitenza si rivestì.
Guardammo altrove. Feci finta di studiare la scaletta di Somewhere between heaven and hell.
Il perdente recuperò il portafoglio e sganciò la grana per pagare il conto degli alcolici. Continuava a nevicare, mentre albeggiava. Un altro anno se n'è andato e siamo tutti più vecchi.
Sparai la mia ovvietà, tanto per rompere il ghiaccio in quel silenzio assurdo. Mike Ness continuava a gracchiare dallo stereo con quella sua voce nasale.
Frutta fresca per verdure marce di Paolo Merenda - Pag. 130 - Euro 12 – Frutta fresca per verdure marce è un poliziottesco dallo stile energico e rapido. Il
commissario Masciopiscio, uno sbirro metallaro e alcolizzato, ha a che fare con spacciatori insospettabili che solo la realtà della provincia sa partorire: pensionati, imprenditori, barboni e guardoni sono alcune pedine di questo traffico che pare infinito. Mascio trova per strada anche amicizia e amore. Il contadino, il
negro e Culo-di-marmo diventeranno parte della sua vita e insieme i quattro metteranno in piedi una band con la quale andare in tour per mezza Europa. Culodi-marmo sarà la redentrice del commissario che, dopo aver lasciato la polizia, diventerà investigatore privato e salutista. Paolo Merenda vive in una città
quieta, avvolta nella nebbia, ed è nato nell’anno della frutta fresca per verdure marce. È un artigiano e suona hardcore-punk dal 1997. Attualmente canta nei
Deep Throat. Ha pubblicato i romanzi brevi Le occasioni perdute (Genesi, 2010) e L’angelopunk (Senzapatria, 2012).
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Povero stronzo
di Vincenzo Trama
- Piacere.
- Piacere mio. Vincenzo. VincenzoTrama.
- Povero Stronzo.
- Simpatico come una merda.
- No, è il mio nome.
- Ah, scusa allora. Piuttosto insolito.
- Sì, è che è in funzione della storia che soggiace a questa narrazione.
- Perché questa sarebbe una narrazione?
- Un dialogo, piuttosto.
- Difatti. Comunque suppongo che dovrei chiederti come mai ti chiami “Povero Stronzo”, a questo punto.
- Esatto.
- Facciamola breve che sennò Gordiano non ce la fa a farci stare sulla rivista. Come se ti avessi fatto la domanda,
dunque.
- Ti sei reso conto che con questo giro di parole hai occupato molto più spazio rispetto al farmi solo la domanda del
perché mi chiamo così?
- E tu ti sei reso conto di quanto la stiamo tirando per le lunghe? Fai prima a rispondermi, non trovi?
- Hai ragione.
- E dì.
- Mi chiamo così perché, la vedi la fiera? Piena come un uovo?
- Eh.
- È piena di gente come me.
- Sti cazzi. Cioè?
- Gente che non legge, che viene qui con un manoscritto sottobraccio e all’editore propone il suo testo, opera immancabile nella vasta galassia della letteratura nostrana.
- Maremma quanto sei cinico.
- No, solo un Povero Stronzo. Il bello è che se l’editore fosse serio ti manderebbe a cagare senza tanti problemi, non
appena fiutato l’odore narcisistico ed egomaniaco del pennivendolo che non ama leggere gli altri.
- E invece?
- E invece succede come a me, Povero Stronzo, che ti trovi circondato di stampatori che ti assicurano una distribuzione nazionale versando un modico contributo per le prime copie, diciamo mille euro, finendo poi invece sommerso a
casa tua di libri invenduti perché altrimenti vanno al macero. E dell’editore, o presunto tale, più nessuna traccia.
- Ma puoi anche dire di no, eh. Nessuno ti obbliga a pubblicare a pagamento.
- Vabbè, pagamento. Che parolone. È un contributo.
- Sempre pagamento è.
- Perché tu mi vuoi dire che per pubblicare non hai pagato?
- Dove hai detto che lo vuoi, il pugno?
- Te sei violento.
- Con gli ignoranti e gli arroganti sì.
- Comunque non potevo dire di no. Vuoi mettere la soddisfazione di vedere finalmente il mio nome sulla copertina di
un libro?
- È simile a quella del verginello finalmente uomo dopo aver pagato la troia. Dignitoso.
- Minchia che moralista. Sei proprio un comunista, sappilo.
- Vero in ambedue i casi.
- Comunque se ti sto tanto sulle balle perché mi parli, scusa?
- Guarda che sei tu che mi hai salutato per prima, eh.
- Ah, già. E com’è che sto qui a perdere tempo con te, quindi?
- Che ne so, sei tu il Povero Stronzo. Smettila di leggermi, per esempio. Faccio volentieri a meno della gente come te.
- Lo faccio subito.
- Bravo. Gira per gli stand, vedrai che ne trovi di belle persone come te. Vai, esplora pure. Vai. Vai.
Oh, non ti faccio più parlare, ho detto. Vai pure, il racconto è finito. Ciao.
N.B.: Sì, questo racconto è dedicato a tutti voi, Poveri Stronzi. Ma, essendo tali per natura, non credo nemmeno
abbiate letto più di due righe di questo breve testo; anzi, probabilmente avete già cestinato la rivista. Nel raro caso
invece voi non foste dei Poveri Stronzi, allora complimenti: siete razza rara e meritate un abbraccio. Finito di leggere potete pure tornare allo stand del Foglio di Gordiano che lo faccio per davvero. E se oggi non abbraccio nessuno
vuol dire che siamo immersi da una marea di Poveri Stronzi, Poveri Noi.
Vincenzo Trama ha scritto il più bel libro in circolazione sul Black Metal e un sacco di racconti divertenti come questo. Accatateveli! Ovvio che li abbiamo pubblicati noi...
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La chiamano adolescenza
di Alessandra Altamura
Sono tossicodipendente da quando ho iniziato a fare un uso vagamente autonomo della ragione, non saprei dire quale giorno, quale anno è iniziata la tortura: no, non fumo, non bevo,
non mi inietto eroina e non sniffo cocaina, non sono ninfomane né schiavo di un’ottusa scatola televisiva e nemmeno di un’intelligente Personal Cassa informatica. Non gioco d’azzardo e nemmeno mi azzardo a bestemmiare un Dio o un uomo qualunque. Però, se ogni giorno
non ho la mia dose, muoio di desolazione, di panico, di proibizione. Non importa se la mano
che me la procura è quella di un degradato spacciatore o di un raffinato trasgressore, se a rimandare indietro il virus di autodistruzione del mio sistema è un esperto conoscitore degli
uomini, o un filantropo generoso, o un rozzo zotico che per sbaglio una volta ha detto e fatto
la cosa giusta; se un bambino con la sua tenerezza inconsapevole mi ha salvato dalla una
morbosa, tediosa assenza di vita, oppure un adulto, meglio se con un’accoglienza veramente
affettuosa, ma, in mancanza di materiale autentico, anche con una convenevole faccia cordiale, con un diplomatico senso del tatto… Tutto ciò che conta è che con quella dose andrò
avanti un altro po’: un giorno, forse due, forse anche un mese. Le crisi di astinenza sono al di
là di ogni sopportazione: mi si impasta la lingua e non riesco nemmeno a sbiascicare qualche
parola, mi si incolla il pensiero e mi ritrovo allergico ai sogni, ai sentimenti, ai valori. Ed è
solo l’inizio: dopo poco divento restio alla gente e tutto mi puzza di sudore, di piscio, di frutta marcia. Non posso proprio, non ho resistenza e nemmeno istinto di sopravvivenza senza la
mia dose, magari meritata, magari comprata, trovata per terra, persino rubata, dall’inafferrabile mercato internazionale della fiducia altrui. Non so se questa dipendenza inalienabile sia
ciò che chiamano adolescenza… o ciò che chiamano vita, forse. Mi faccio d’amore o di
qualche sua imitazione ogni giorno che il mondo mi schiaffa addosso e di quella sostanza
allucinogena vivo.
Rettangolo di scatole - Quattro scatole della frutta piazzate ai quattro angoli di un posto
macchina raccontano una storia di uggia pomeridiana e antica solitudine. A due a due sono
tenute ferme da un bastone della scopa, lungo i lati corti, un accorgimento contro il vento
serale. Quattro occhi e un ricciolo di capelli bianchi spuntano da una fessura della porta appena socchiusa, di fronte al parcheggio. Non so dire cosa aspettino e da quanto: un figlio, un
nipote, un parente, un’amica… Certamente è un’attesa densa di anni, nascosti tra quattro
mura, in compagnia del silenzio, sbadato testimone.
Music Club Toscana – Storie a tempo di musica di Alessandra Altamura - Pag. 200 - Euro 15,00
Questo libro è un viaggio in Toscana attraverso ventidue locali di musica dal vivo, scelti all’interno del vasto panorama
della regione, non solo per la qualità della musica che ospitano, ma anche per altri motivi del tutto soggettivi: la conoscenza
dovuta ad una personale frequentazione, l’originalità di un’esperienza che in quel posto ha avuto luogo, il fascino di un
edificio che ha antiche storie da raccontare… e cosi via. Non c’e dunque nessuna pretesa di poter esaurire tutta la complessa
realtà della musica live in Toscana. In ognuno dei ventidue racconti che compongono il libro, un personaggio parla di sé in
prima persona e, nel libero fluire dei suoi pensieri, descrive qualcosa che lo riguarda e che in qualche maniera è legato a
quel particolare ambiente: passioni, emozioni, ricordi, aneddoti, veri o verosimili e soprattutto il disagio e le difficoltà in cui
ciascuno a suo modo si trova a barcamenarsi nella società attuale. (In Italiano e in Inglese).
Questa sono io di Federico Guerri - Pag. 215 – Euro 14 – ISBN 9788876063992 - Benvenuti nello studio televisivo
dentro la mia testa. Qua il buio è assoluto e si estende in ogni direzione. Laura Prete - ex reginetta di bellezza, ex soubrette,
ex inquilina della più famosa Villa della televisione, attuale fidanzata d’Italia e direttrice di una Scuola per lo Spettacolo - ha
sparato in testa, in diretta televisiva, al più rispettato showman della nazione. Il pubblico, incollato al teleschermo, si sta
chiedendo: perché? E Laura, in questo romanzo, ci dà le sue risposte. Purtroppo, però, conoscerete tre Laure e ognuna, a
turno, vi consegnerà la sua verità. A chi sceglierete di credere: alla bambina in rosso, alla ragazza in visone o alla donna in
ombra? Chi ha letto in anteprima questo romanzo ha sostenuto: “È la roba più nera che mi sia capitata tra le mani ultimamente”. L’autore ha risposto: “Ogni volta che lo rileggo mi rendo conto, invece, che è una meravigliosa commedia”. Federico
Guerri è drammaturgo, insegnante di teatro e scrittura creativa, regista, improvvisatore e Sindaco di Mondo di Nerd. Questo
è il suo primo romanzo.
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Perché scrivo e pubblico autori
Piccola storia semiseria del Foglio Letterario
Scrivo, perché da quando ho l’età della ragione la mie passioni sono sempre state
lettura e cinema. Da bambino divoravo libri, fumetti, pellicole di genere, commedie
scanzonate, film d’avventura e storie fantastiche. Un bel giorno ho cominciato a inventare qualche storia, imitando Salgari, Stan Lee, Walt Disney, De Amicis, Mario
Bava e Verne. L’elenco è incompleto, serve solo da esempio. Scrivo perché è un
modo come un altro per sentirsi vivi in un mondo che fa di tutto per mandarti a
fondo e che - lo confesso - mi piace sempre meno, ma ne faccio parte, quindi cerco
di affrontarlo nel modo migliore possibile. Scrivo per essere sincero con me stesso,
almeno davanti al computer, visto che carta e penna sono desueti. Scrivo per dare
libero sfogo alle passioni e solo di argomenti che mi entusiasmano, non è colpa mia
se sono molti, non credo sia un peccato avere interessi, invece di passare le serate
a rimbambire davanti a un teleschermo. Scrivo la storia del vecchio cinema italiano
e racconto Cuba, due amori della mia vita, il primo di vecchia data, l’altro più recente, ma entrambi amori, spero non destinati a finire. Scrivo racconti horror e del
mistero perché da bambino ho amato Lovecraft, Poe, Le Fanu, Polidori, ma persino
Stephen King, al punto di riscrivere un sacco di loro storie ambientate in tempi moderni. Traduco gli scrittori cubani che amo, perché sono più bravi di me a raccontare una terra fantastica e mi fanno sentire parte del loro mondo. Scrivo tanto, persino troppo, ma non posso farne a meno. Ho solo il rimpianto che non riuscirò mai a
scrivere un capolavoro, anche se come tutti gli scrittori mediocri penso di averlo
sulla punta della penna (scusate… della tastiera) il libro della mia vita. Ma tanto lo
so che non verrà mai fuori. Da un po’ di tempo a questa parte - dal 1999 con la rivista Il Foglio Letterario e dal 2003 con la Casa Editrice omonima - non scrivo e basta, pubblico pure giovani autori che penso abbiano qualcosa da dire. Tutto è relativo, certo, ma insieme ad altri scrittori ho messo su un’azienda che non è un’azienda, ma vorrebbe produrre cultura, senza badare al profitto. Utopia, certo, ma è bello sognare, altrimenti si lavora in banca e festa finita, ché quello è il mio lavoro vero. Il Foglio Letterario l’ho inventato insieme a Maurizio Maggioni - ancora compagno di viaggio e autore di libi esoterici - e ad Andrea Panerini - che dopo un po’ di
tempo ha preso altre strade. La vita è pure questo: alti e bassi, dissidi, litigi, cose
che vanno bene e altre peggio. In ogni caso la creatura va avanti, incurante dei difetti degli uomini, ché facciamo cose diverse dai grandi editori, altrimenti sarebbe
inutile esistere. Diamo voce a chi non la possiede, siano giovani scrittori italiani come autori cubani della diaspora che in patria non possono pubblicare. Fabio Zanello
dirige una collana di cinema che è il nostro fiore all’occhiello, si occupa di horror,
pellicole d’autore, film asiatici, lavori italiani del passato. Patrizia Garofalo dà voce
a un genere che non è per niente commerciale come la poesia, ma noi non pubblichiamo per denaro e non possiamo dimenticare che la letteratura nasce proprio con
la lirica. E poi ci sono i generi, soprattutto l’horror e il fantastico, da sempre vicini
alla nostra linea editoriale, racchiusi nella collana ideata da Vincenzo Spasaro. Questo è Il Foglio Letterario, un coacervo di passioni che va dalla letteratura al fumetto
e che si avvale dell’arte grafica di Sacha Naspini, ideatore di copertine moderne e
accattivanti. Inutile dire che nel corso degli anni abbiamo partecipato allo Strega
per ben due volte, lo sapete tutti, non è un gran merito. Meglio dire che abbiamo
lanciato parecchi giovani che adesso pubblicano con grandi editori e riscuotono successo. Lorenza Ghinelli rappresenta il modello di autrice che vorremmo sempre scoprire. Lorenza ha scritto Il divoratore, è passata a Newton & Compton, ha venduto
un sacco di copie ma non si è dimenticata di noi.
(Gordiano Lupi)
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Lontano dal Monte Athos
di Roberto Mosi
Il viaggio al Monte Athos gli apparve subito il modo giusto per superare il distacco da Diana, che era partita, d’improvviso, per Lisbona. Preparò i bagagli e prese l’aereo per Atene.
All’ufficio di Kiriès, all’ingresso nella repubblica monastica, fu autorizzato a rimanere per
tre giorni. La prima meta fu il Monastero di Vatopedi all’estremità nord orientale della penisola. Impiegò quattro ore per arrivarci sul sentiero sprofondato nella macchia piena di profumi, invasa dal rumore assordante delle cicale. Il complesso monastico apparve d’improvviso.
Omero rimase a bocca aperta a guardare le alte mura disposte a triangolo, coronate in alto da
terrazze, loggiati, balconi. Superò il portone di bronzo ed entrò nel cortile delimitato da edifici dipinti di rosso, al centro la grande chiesa a croce greca. Era l’incontro con un mondo
dai tratti raffinati e, allo stesso tempo, con i segni di un’inarrestabile decadenza: le finestre
delle celle erano occhi neri, sgomenti, abitate una volta da centinaia di monaci, ridotti oggi
solo a una decina di confratelli. Dopo un bel po’ di tempo apparve il portàris, il monaco addetto ad accogliere gli ospiti, che lo accompagnò alla foresteria. Omero visitò in piena libertà il convento. Scese il sentiero verso il piccolo porto e salì più tardi alla chiesa, dove era
iniziata la funzione religiosa. Fu invitato con modi bruschi a non muoversi per la chiesa. Si
fermò vicino a una delle pareti affrescate. Dalla cupola centrale pendeva un lampadario a
forma di corona regale, splendente d’oro e di pietre preziose. Il canto invadeva la chiesa, a
più voci, fluiva ininterrotto. La suggestione che provò Omero non fu minore quando visitò la
vicina biblioteca - guidato dal monaco bibliotecario, il viviofylax - con seicento manoscritti,
gran parte su pergamena, antichi libri decorati, reliquie conservate in scrigni d’oro e d’argento tempestati di zaffiri e rubini. Davanti a quelle meraviglie perse il senso del tempo e
raggiunse il refettorio che la cena era già iniziata. Intorno alla tavola vi erano tre greci e due
italiani davanti a fumanti scodelle. Fece appena in tempo ad assaporare un cucchiaio di zuppa, che suonò la campana: la cena era terminata e gli ospiti, secondo la regola, si alzarono e
si avviarono alla sala comune della foresteria. Fra gli ospiti vi era un giovane restauratore di
Atene, Diomedos, che aveva studiato a Firenze. Rompendo l’incanto del luogo, prese a parlare dei locali che frequentava, della bellezza delle ragazze, della la squadra di calcio. Omero non sopportava questi discorsi. Raggiunse presto il silenzio della sua cella. Si era appena
addormentato che fu svegliato da un rumore di motori che arrivava dalla finestra aperta sulla
scogliera. Vide in basso due grossi motoscafi e un gruppo di uomini che stavano passando
delle casse da un mezzo all’altro. Che cosa stava succedendo? Qualcosa di losco?
Si svegliò presto il mattino, nel momento in cui erano terminati i riti della notte e i monaci
stavano rientrando nelle celle. Decise di partire subito. La meta era il monastero di Stavronikita sulla costa orientale. Il sentiero era a mezza costa, in continuo saliscendi. Arrivò che
erano appena le dieci. Prima di arrivare aveva incontrato campi coltivati, recinti per gli animali, edifici per gli attrezzi della campagna. Il monaco portinaio portò direttamente Omero
nel refettorio, dove da qualche tempo era iniziato il pranzo. I monaci, almeno una ventina,
erano seduti intorno a una grande tavola, con vesti consunte, da lavoro; in basso un gruppo
di ospiti. Gli fu fatto posto e mangiò un ottimo polpo al sugo accompagnato da un vino rosso
niente male. L’atmosfera appariva cordiale, gli ospiti parlavano, in lingua latina, dei loro
viaggi. Terminato il pranzo, scoppiò una furibonda discussione fra il monaco portinaio e l’addetto alla foresteria. I due cominciarono a spingersi, a urtarsi fra urla sempre più alte. Omero rimase sorpreso. Fu questa scena - o qualcosa che già coltivava dentro di sé - che lo
spinse a correre fuori dal monastero e a saltare su un carro trainato da un trattore. Ritornò al
porto di Dafne. Dovette aspettare un’ora in attesa del battello per Ouranopolis. Entrò nella
caffetteria. A una delle pareti troneggiava un apparecchio telefonico antidiluviano. Gli balenò improvvisa l’idea di chiamare Diana, a Lisbona. Detto, fatto.
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Particolare di scarsa consistenza
di Marisa Cecchetti
Prima di uscire la mattina
l’ultimo gesto è cercare una moneta nella borsa
ed infilarla nella tascona, lesta,
dell’incerata gialla della pioggia
o nelle tasche leggere dell’estate.
Alexandra è rumena
di mezz’età ma difficile è il calcolo
lisci e tirati i capelli in una crocchia
la pelle di sole dei gitani
un po’ lunga la veste sempre scura.
Sta alla porta del bar, poco di lato
oppure dall’altro lato della strada
alla panetteria e s’industria talvolta
con la scopa e raccoglie una cartaccia
o innaffia un fiore. Ma soprattutto attende
le persone le stesse all’ora stabilita.
-Vai al lavoro signora? Oggi stanca?
Vero Alexandra e non posso parlarti
dei miei pensieri fondi, le parole
dell’Italiano che conosci
forse non sono sufficienti. Allora affondo
la mano nella tasca.
-Domani vai via- mi dici. Ed io stupisco.
-In Romania. Io malata - Ora capisco. Sorrido
a lei e alla grammatica italiana.
Il suo sguardo ora tocca
veloce la sua mano che s’è aperta
pesa il valore di ciò che vi è caduto
con pudore poi dice
buona giornata e si allontana.
Intorno ha una rete di volti Alexandra
che la contiene la riconosce
che ha qualche minuto
e le parole poche per lei sono
come un vocabolario pieno e i volti
-stesse persone all’ora stabilitason tanti volti che connotano un suolo
non più estraneo. La sua mano
che si sporge appena
particolare di scarsa consistenza.
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Vino e stinchi
di Adriana Pedicini
Luca era un ragazzo docile e sensibile. Suo padre aveva un podere in campagna dove soleva
trascorrere la maggior parte del tempo libero lavorando con cura i campi, dedicandosi alla
coltivazione delle viti e di alberi secolari di ulivo, che erano un po’ la testimonianza della
tradizione di famiglia. Non c’era occasione agricola che non si festeggiasse anche con riti di
sicura provenienza pagana, come quando, prima di celebrare messa sull’aia, le donne di casa
ripulivano tutto lo spazio con fronde fresche legate a dei lunghi bastoni di legno e non si lasciavano pascolare gli animali da cortile per non compromettere la pulizia con improvvisi
escrementi. Soprattutto erano benedetti il raccolto del grano e la trebbiatura. Si faceva gran
festa fino a notte inoltrata con canti, balli, generose bevute di vino e paste farcite, pizze e
pizzette ripiene, peperoni imbottiti e infine taralli e biscotti di ogni tipo. Sempre era lì, a
portata di mano, il vino, nel fiasco di vetro impagliato. Il profumo che emanava era di fragole, altre volte di rosa, il colore rubino talvolta tendeva al prugna altre volte in trasparenza
somigliava al colore delle gote delle nonne infuocate dalla fiamma del forno. Una lunga tavola, allestita con assi di legno formava il desco. Su di essa teli bianchi di lino o di canapa
rendevano il tutto maestoso. Piatti e zuppiere di ceramica decorate a mano troneggiavano
lungo l’asse centrale della tavolata. Ciascuno si serviva a suo piacimento e con la soddisfazione di godere ancora una volta delle riunioni agricole familiari. Ma il colmo dell’allegria
era a fine di settembre, durante la vendemmia. Grandi e piccoli accorrevano alla vigna larga
e abbondante e ciascuno dava il suo contributo nella raccolta di grappoli sempre tronfi, data
la particolare ubicazione delle viti su colline solatie. Era regola condivisa che in tali serate di
fine estate ognuno potesse invitare i suoi amici, i figli, i padri, i nonni..per una cena o solo
per una bevuta. Non di rado si giocava a tressette e chi perdeva doveva pagare da bere a tutti,
che poi era tutto a carico della casa ospitante, fino all’ubriacatura. Quella sera Luca non era
molto in vena. Aveva da poco lasciato la ragazza con cui era stato più di tre anni e decise
così di rimanere in compagnia del nonno e dei suoi vecchi amici. Il nonno era molto malato
e questo anche rendeva il ragazzo smanioso e con un groppo in gola difficile da mandare
giù. Mentre guardava le mani raggrinzite del nonno che a mala pena reggevano le carte da
gioco, concepì un’idea. Pensò che al nonno poteva far piacere trattenere a cena i suoi quattro
amici, anche se questi aveva escluso in precedenza tale ipotesi per non affaticare il suo corpo
stanco. Corse dal fornaio e si fece preparare delle focacce impastate col mosto che ancora
ribolliva nei tini. Passò dal macellaio a comprare stinchi di maiale e carni di cinghiale particolarmente a buon mercato, data l’enorme caccia che si dava a una popolazione di animali
selvatici che infestavano i raccolti. Preparò un buon fuoco per ricavarne cenere e tizzoni incandescenti per arrostire le carni. Apparecchiò alla meglio e dispose sul tavolo capaci boccali di vino novello. L’ora imbruniva, un sottile filo di fumo si spandeva nell’aria denso di profumo di carni. Il nonno e i compagni di vita e di amicizia avevano riposto le carte pronti ad
agguantare i bicchieri di rito dopo il tressette. Luca vestito con una tunica bianca, in realtà la
camicia da notte della nonna, a piedi nudi e con in testa una corona di pampini, mimando
una danza bacchica invitò i vecchi ad accomodarsi sulle panche che aveva sistemato in giardino. Non ricordò di aver visto altre volte scintillare di gioia gli occhi del nonno, come quella sera. S’improvvisò coppiere, mescé il vino agli ospiti e tutti ad una sola voce, alzando i
calici gridarono: Prosit! Fu appena l’inizio. Le carni ebbero bisogno di altro vino per essere
trangugiate e l’atmosfera di altri canti per essere mantenuta allegra. Di quella incredibile serata è rimasta a Luca una necessità, da rispettare come un rito per onorare la memoria del
nonno: ogni anno, dopo la vendemmia, sedere a tavola con amici e gustare stinchi di maiale
e carni di cinghiale con l’accompagnamento di un bel vino rosso, del vitigno delle sue terre
appenniniche.
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Estratto dal Demian di Alessio Santacroce - Quando nevica all’inferno
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Fuori l’aria è gelida, il manto di neve è candido e compatto. La tormenta non accenna a diminuire e la tramontana taglia il viso come una lama. Avanzano per circa venti metri a capo
chino per proteggere gli occhi dalle piccole frecce di cristallo. Avrebbero già dovuto trovare
la Nissan color rosso papavero, ma niente, si vede solo tanto, troppo bianco.
Alberto fa un cenno a Damiano. E’ il momento di rincasare. Il ragazzino tenta di tornare sui
suoi passi, ma sprofonda in quel soffice candore, rimanendo senza fiato. E’ un freddo mortale, che non perdona. Cerca invano di muoversi, ma continua a sparire nel bianco. Gridare
non serve, il vento gli spinge in gola i fiocchi di neve che lo fanno strozzare.
Un’ombra appare dietro di lui. Non la nota subito, la tramontana gli impedisce di tenere gli
occhi aperti, ma poi la vede, lì, in piedi in mezzo all’inferno. E' ancora Lei. Fortunatamente,
Alberto ha con sé la pala e quando si accorge che Damiano è in difficoltà torna indietro per
soccorrerlo. Lo afferra per un braccio e lo trascina fuori dalla buca. Entrambi restano in piedi
a fissarla. Anche Lei li sta guardando, un’immagine che avrebbe sempre voluto vedere. Ma
la vita è stata ingiusta. Damiano piange. Alberto lo porta via con la forza e riesce a bussare
alla finestra. Lei non li segue, non è lì per quello. Sirio si sporge fuori dalla finestra e afferra
un lembo del giaccone di Damiano che sta congelando. Poi con la poca forza che gli è rimasta, aiuta anche Alberto a salire sul davanzale. È fradicio e non si sente più le mani.
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I nastri di Larrie
di Luigi Musolino
Villa Perla era un ottimo posto per annegare nell’oblio. Delfino Actis osservò lo sfarzoso edificio immerso nel
verde, affacciato su una piccola insenatura del versante meridionale del lago di Como. Le acque torbide riflettevano la costruzione in un tremolante gioco di specchi, trasformando porte e finestre in bocche spalancate da
eterni sbadigli, le statue di ninfe seminude in creature muffose. Villa Perla. La casa che aveva acquistato un
mese prima per isolarsi dal mondo. La casa che avrebbe dovuto condividere con lei. I ricordi lo travolsero come un’onda di pece, ottenebrandogli i sensi. Le voci dei traslocatori che trascinavano su per le scale i suoi averi
– le poche cose che aveva deciso di portare con sé da Torino, il computer che non avrebbe usato e una ventina
di casse di alcolici – erano un borbottio confuso. Fermo davanti al cancello, estrasse dalla tasca la fiaschetta e
la svuotò del whisky con una mezza dozzina di avidi sorsi. Erano le nove e trenta di mattina. Un rigurgito acidulo, un capogiro, ma i ricordi non se ne andarono. E perché mai avrebbero dovuto? Si sentiva in colpa. Perché
cercava di dimenticare. Di nascondere sotto un velo alcolico ciò che era stato e ciò che era accaduto, per quanto
si rendesse conto dell’inutilità del gesto. Non che gliene fregasse più di tanto, ormai. Lo stile di vita adottato
negli ultimi mesi l’avrebbe presto portato a mangiare l’insalata dalla parte delle radici, come diceva sempre
sua nonna. Se lo augurava. Erano passati due anni. Due fottutissimi anni. Un groppo di lacrime gli risalì in gola, facendolo tossire. Le lacrime. Non credeva che un uomo potesse versarne tante. «Mi manchi. Quanto cazzo
mi manchi», biascicò. Oltrepassò il cancello barcollando e la tempesta dei ricordi lo flagellò ancora una volta,
l’ennesima, e dovette sedersi sulla poderosa scalinata di Villa Perla. La sua nuova casa. Presumibilmente, l’ultima. «Guarda là! Guarda là che gran figata!», aveva urlato Maria col solito entusiasmo sporgendosi dal finestrino, puntando un dito verso la sponda meridionale del lago. I suoi capelli, capelli di tenebra, stridevano con l’azzurro del cielo.Si stavano allontanando dal lago di Como sull’Opel Corsa sgangherata che sferragliava come
una locomotiva. Il weekend era finito. Aveva poca importanza. La vacanza volgeva al termine, stavano tornando a casa, sì, ma insieme. Delfino non ricordava di essere mai stato tanto felice. Si frequentavano da un anno
dopo essersi conosciuti a un concerto, convivevano da sei mesi. Erano anime affini. Semplice. Perfetto. Raro.Si
erano goduti ogni secondo della vacanza, un weekend senza troppe pretese: lunghe passeggiate, buon cibo,
vino, sesso e discussioni interminabili su musica, libri, cinema, arte. Non c’è bisogno di fare chissà che, quando si sta bene insieme. Contano le piccole cose. Le minchiate. Lei lo ripeteva sempre. Come se avesse capito
qualcosa. Poi rideva. E la perfezione della sua dentatura, e gli occhi scuri e luminosi come specchi d’acqua
illuminati dal plenilunio lo sconvolgevano sempre. «Deviamo per quella sterrata e andiamo a vedere», aveva
proposto Delfino. Villa Perla. L’avevano scoperta così, per caso. Abbracciati, erano rimasti a contemplare la
meravigliosa abitazione per alcuni minuti, mentre calava la sera. «Chissà chi ci abita», aveva sussurrato Maria
con voce divertita, per poi aggiungere: «Sarebbe bello venire a viverci, un giorno». «Seee, contaci», l’aveva
canzonata lui, rollandosi una sigaretta. «Riusciamo a malapena a pagarci la birra». «Finirai il romanzo, avrai
successo. Ci sposiamo. E poi potremmo venire a stare qui. Tu scrivi, io finisco gli studi di cinese, mi trovo un
lavoro. E vissero per sempre felici e contenti. Ne sono sicura». Delfino l’aveva guardata con un sorriso ebete.
«Ti amo». «Io no», aveva ribattuto lei, scoppiando a ridere. Dio, avrebbe fatto qualunque cosa per sentire ancora una volta quella risata. «Dài, ti amo anch’io, non fare quella faccia. Offrimi una birra, va’». C’era stato il
tempo per una birra. E per fare l’amore in auto, sotto costellazioni luminose come ciò che provavano, mentre la
radio suonava Jeff Buckley. Delfino si alzò e si trascinò all’interno della villa. Quasi non notò il tripudio di
marmi e ottoni del salone d’ingresso, né i traslocatori che se ne andavano, le schiene piegate dalla fatica. Si
lasciò cadere su un divano, un sorriso triste a deturpargli il volto emaciato. Maria ci aveva visto giusto, in fondo. Due mesi dopo il weekend romantico Delfino aveva concluso il suo primo romanzo, I giorni della Stazione
Vecchia, e aveva spedito il manoscritto a una ventina di case editrici, senza farsi troppe illusioni. Il thriller non
tirava più, in Italia. Poi una sera era arrivata la telefonata. Una proposta di pubblicazione, la tiratura limitata
esaurita in un paio di settimane, recensioni entusiastiche, la scalata alle classifiche dei best-sellers, bum, il secondo romanzo, i soldi, tanti, il successo. La loro vita aveva subito uno stravolgimento repentino nell’arco di
pochi mesi. Mesi di gloria. Felicità. Tenerezza. I mesi migliori. Finché una notte – era il 15 agosto, e non l’avrebbe mai scordato – Maria si era tirata a sedere nel letto e l’aveva chiamato. «Devo vomitare», aveva bisbigliato, ridendo, sempre con quel sorriso, e poi aveva inondato le lenzuola di liquido verde scuro. Il vomito si
era ripresentato il giorno seguente. E quello dopo ancora. E ancora. E ancora. Dopo una settimana erano arrivati i dolori alle gambe, al collo. I mesi successivi, nella mente di Delfino, erano una serie di immagini sgranate
proiettate da un caleidoscopio impazzito. Gli ospedali. Le TAC. Le risonanze. Qualcosa che non andava nella
testa, nel cervello di Maria, quel cervello che l’aveva fatto innamorare più di qualunque altra cosa. I dottori che
scuotevano il capo, perplessi. Mentre lei rideva e parlava e cucinava e cantava e ballava e lo amava e viveva,
come se nulla fosse. «Non è niente, vedrai», sussurrava, accendendosi una sigaretta dietro l’altra. Dimagrendo.
Ci era voluta una biopsia cerebrale per capire l’origine dei disturbi, sempre più violenti, debilitanti. La dottoressa Durà, una cordiale sessantenne specializzata in patologie cerebrali, li aveva convocati una mattina di settem16
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bre all’ospedale Molinette di Torino per discutere degli esiti dell’esame. Quel giorno Maria, sebbene molto
smunta, era bellissima. Lo sguardo fiero, i capelli raccolti, la gonna decorata da greche rosso fuoco, la scollatura impreziosita da una collana d’argento. Profumava di mandorle e cose buone. Delfino aveva capito subito,
non appena erano entrati nella saletta della Durà e l’aveva guardata in faccia, che sarebbero stati cazzi amari.
Si erano seduti. Maria era seria. Non sorrideva, e capitava di rado. La donna aveva spiegato, con uno sguardo
triste. Nella miriade di paroloni sciorinati dalla Durà, Delfino aveva colto solo una frase. «La gliomatosi meningea è un raro tumore delle meningi. Cominceremo con la chemio, poi, se sarà il caso, passeremo alla radioterapia, che però è più invasiva e dolorosa». Aveva ascoltato la dottoressa tenendosi aggrappato al bordo della
scrivania per non cadere. Non riusciva a parlare. A muoversi. Sembrava che qualcuno gli avesse fracassato le
rotule con una mazzetta da muratore. Sudava, in quel maledetto martedì mattina torinese, sudava e cercava di
non svenire. Aveva guardato Maria, dritta come il tronco di un albero secolare. Non avrebbe mai dimenticato il
suo sguardo. Il viso di una guerriera che ride in faccia al nemico. Un nemico imbattibile. «E allora bombardiamolo di chemio, ’sto maledetto bastardo!» aveva tagliato corto, stupendo lui e la Durà, senza indagare oltre.
Non aveva chiesto quante fossero le possibilità di sopravvivenza, il decorso della malattia. Si era semplicemente voltata verso di lui, sorridendo e alzandosi, facendo l’occhiolino alla dottoressa. «Oh, ce lo facciamo un kebab? Sto morendo di fame». Erano andati a mangiare in una rosticceria araba e nel pomeriggio avevano visitato
il Museo del Cinema, situato all’interno della Mole Antonelliana. Erano saliti in cima al monumento con l’ascensore, e lassù si erano limitati a guardare i tetti di Torino, il cielo limpido, tenendosi per mano. Senza dire
nulla. Le parole, in quel momento, erano un accessorio superfluo. Tenersi per mano bastava. Si erano goduti
ancora due mesi di relativa tranquillità. Poi il Maledetto Bastardo – avevano iniziato a chiamarlo così, da quel
giorno – aveva sfoggiato tutto il suo arsenale di torture e devastazione. E dopo sei mesi aveva vinto. Maria si
era spenta una notte di febbraio. L’aveva guardato, sprofondata nel materasso antidecubito, il viso gonfio di
dolore e cortisone, e aveva sorriso. Un sorriso diverso da tutti gli altri. Aveva sospirato. Un lungo, interminabile sospiro di liberazione… Poi più niente. Fuori, nella notte gelida e scura e insensibile, erano caduti i primi
fiocchi di neve, mentre lui se ne stava lì scioccato a tenerle la mano e a piangere e a fregarle il petto perché il
cuore ricominciasse a battere, a carezzare la sua chioma di tenebra, maledicendo il caso e Dio e il Maledetto
Bastardo e se stesso e l’abisso che gli si spalancava dentro. Avevano dovuto portarlo via, e coccolarlo, e rimboccargli le coperte come a un bambino impaurito, mentre la neve cadeva, cadeva, cadeva…
Trascorse le prime due settimane di permanenza a Villa Perla in una realtà alternativa, avvolto da un manto di
stordimento dal quale si risvegliava sdraiato sul pavimento, o con la testa infilata nella tazza del cesso. Una
mattina provò a lavorare al suo ultimo libro, Fauci, ma abbandonò il computer dopo mezz’ora per andare a
recuperare il whisky. Una sera, doveva essere trascorso un mese dal suo arrivo, trovò le VHS. Erano in cantina
– un dedalo scuro e umido di pilastri e ragnatele che si allungava nel sottosuolo – e le scoprì per caso, durante
una delle quotidiane peregrinazioni etiliche nella villa. Erano riposte ordinatamente in degli scatoloni e chiuse
in un armadio a muro ricavato all’interno di un’enorme colonna portante. Erano migliaia. Seppur ubriaco, non
poté fare a meno di notare la quantità impressionante di videocassette, e, particolare ancora più bizzarro, come
fossero state sistemate negli scatoloni in ordine cronologico. Una piccola etichetta su ogni nastro, con una data.
Continuando a ingollare whisky, tirò gli scatoloni fuori dall’armadio. Su un ripiano inferiore trovò un vecchio
proiettore a muro per VHS, un mostruoso Panasonic anni ottanta con la vernice scrostata. I nastri coprivano un
periodo che andava dal 29 giugno 1986 all’11 febbraio 2012. Circa ventisei anni, una VHS al giorno. Un totale
di 9.000 videocassette, suppergiù, nastri da mezz’ora. S’interrogò su quella curiosa eredità. I filmati di famiglia
dimenticati lì dai precedenti inquilini? No, la cadenza giornaliera pareva escluderlo. E soprattutto, chi erano i
precedenti inquilini? Lui aveva trattato l’acquisto di Villa Perla con l’agenzia immobiliare. Delfino provò a far
funzionare il proiettore – la curiosità lo rodeva – ma dopo alcuni minuti rinunciò. L’alcool e il passato lo tiravano verso il basso. Le mani gli tremavano. Immaginò Maria, lì con lui, e pensò a come avrebbe reagito di fronte
alla strana scoperta. Col solito entusiasmo, contagioso, illimitato. Si mise a sedere e pianse, la schiena poggiata
a un pilastro. Poi crollò addormentato tra i misteriosi nastri di Villa Perla. Fuori, nella sera immobile, il lago di
Como era un lastrone d’oro macchiato di smeraldo dal tramonto.
La mattina, al risveglio, impiegò alcuni secondi a ricordare gli avvenimenti della notte precedente. Si tirò in
piedi a fatica e dovette correre in bagno a vomitare. Dormì ancora un poco sul divano, poi preparò il caffè e si
concesse il piacere di una doccia bollente. Dalla porta-finestra della cucina poteva vedere la piccola insenatura,
il lago che lambiva la spiaggetta privata di Villa Perla. Smaltita la sbornia, tornò in cantina. Armeggiò alcuni
minuti col proiettore per capire come funzionasse, poi infilò la prima cassetta nel dispositivo – quella datata 29
giugno 1986 – e diresse il fascio di luce verso una parete. Alcuni secondi d’immagini sgranate, poi la messa a
fuoco. La telecamera riprendeva il piccolo lembo di lago di Villa Perla. Era notte, ma pareva esserci un piccolo
faro puntato verso la striscia d’acqua. Delfino osservò le immagini perplesso, poi un uomo entrò nel raggio
d’azione della videocamera. Poteva avere una cinquantina d’anni, baffetti a spazzola, occhiali rotondi, pochi
capelli. Gli altoparlanti del proiettore diffusero nella cantina la voce dell’uomo, una voce delicata, simpatica.
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«Mi chiamo Enzo Niccoli. Ho acquistato Villa Perla tre anni fa. Un anno fa ho scoperto… una cosa, qui al lago. La cosa più meravigliosa e stupefacente che mi sia mai capitata. E… ho deciso di riprenderla, non so perché. Per ricordare, forse, se un giorno tutto questo dovesse finire. Lei arriva tutte le sere. Spero che non dia
forfait alla prima». Poi Niccoli si allontanava dall’obiettivo per portarsi sulla sponda dell’insenatura; si toglieva le scarpe e avanzava di alcuni passi nello spicchio d’acqua. Per alcuni minuti non accadde nulla. Delfino
schiacciò il tasto PAUSE e andò di sopra a prendere una bottiglia. Tornò in cantina, fece ripartire il nastro. Quello che vide proiettato dopo pochi secondi lo fece trasalire. Ecco, il delirium tremens, ci siamo, pensò. Nel lago
si muoveva qualcosa. Era impossibile descriverlo. Le immagini, seppur sgranate e amatoriali, parevano sublimate, tridimensionali, vive, sconcertanti. Era una creatura, senza dubbio, ma sfidava qualsiasi legge anatomica
e fisica conosciuta. Poliedri cangianti, simili a cristalli, eppure viventi, che s’intersecavano e incastonavano a
formare una sagoma vagamente rettiloide, ma allo stesso tempo umana, antica, animale. Una forma che pareva
mutare in continuazione, smontandosi e riassemblandosi in un processo alieno atto a raffigurare piccole porzioni del tutto. Non avrebbe saputo come altro spiegarlo. Piante, animali, minerali, costellazioni, steppe, volatili,
forme geometriche, calcoli numerici, assiomi, isole. Niccoli rideva, allungando le braccia verso il lago, verso la
cosa. Poi un urlo: «Larrie! Larrie, sei qui!» Larrie. Delfino aveva sentito parlare di quella storia, ne aveva persino scherzato con Maria durante il loro fortuito arrivo – il primo e l’unico – a Villa Perla. Larrie, il Nessie
italico del lago di Como. Una creatura mitica, una leggenda urbana, così come quella più conosciuta di Loch
Ness. Tornò a piantare gli occhi sulle immagini, rabbrividendo. Dalle acque emerse prima la testa – una deviazione della materia in cui brillavano due occhi enormi, stupendi, terribili. Poi un collo affusolato – crocevia di
ellissi e strutture botaniche in perenne germoglio. Infine il corpo, gigantesco e al tempo stesso minuscolo, un
Big-Bang in divenire di speculazioni trigonometriche e amebe, strutture cellulari, gas interstellari e cemento ed
erba e montagne. La bestia uscì dall’acqua, mutando, e si adagiò sul bagnasciuga ai piedi di Niccoli. Era evidente l’estasi, la gioia, nella postura dell’uomo. Che infine allungò un braccio e toccò Larrie, la fantasmagorica
creatura del lago di Como. Ci fu una sorta di fusione tra i due, una serie di movimenti schizoidi che esprimevano una gioia e un dinamismo e una compenetrazione difficilmente spiegabile a parole, poi una sorta di esplosione, e la videocamera traballò, la scena cancellata da una luce rossastra. Dopo alcuni minuti, in cui Delfino
rimase a fissare la proiezione esterrefatto, le immagini ricomparvero, e Niccoli si parò dinanzi all’obiettivo. Il
volto di chi ha trovato tutto ciò di cui ha bisogno. «Ecco. Ecco la cosa migliore che mi sia mai capitata». Poi
spense la telecamera. Delfino spense il proiettore. Afferrò la bottiglia e ne scolò metà senza battere ciglio. Delirium tremens, senza dubbio. Bestemmiò. Niccoli. Quell’ometto buffo, il suo sorriso, il volto di chi ha trovato
il paradiso in Terra. Lo odiò con tutto se stesso, prima di attaccarsi nuovamente alla bottiglia e inserire nel
proiettore la seconda VHS.
Rimase barricato nella villa per giorni, senza mangiare, infilando VHS nel proiettore e alcool nello stomaco. Di
tanto in tanto emergeva dalla cantina per contemplare il lago, domandandosi se Larrie fosse ancora lì, nascosta
(o nascosto?) nella sua tana subacquea. Chiedendosi che fine avesse fatto Niccoli.
Le riprese video, giorno dopo giorno, erano sostanzialmente identiche. L'uomo sulla spiaggia, la bestia cangiante, la fusione. Ma il loro fascino non diminuiva. C'era qualcosa di commovente nello strano rapporto tra
l'uomo e Larrie. Amore? Amicizia? Difficile dirlo. Ma il volto di Niccoli, dopo gli incontri con la creatura,
esprimeva una gioia incomparabile. Delfino pensò che anche lui, tempo prima, quando Maria stava bene, doveva aver avuto un'espressione simile. Ogni volta che posava gli occhi sulla scena dell'insenatura, sulla fusione e
sull’appagamento assoluto di Niccoli, la mente correva in automatico al suo amore perduto. I pensieri annaspavano, i ragionamenti s'ingarbugliavano, incapaci di metabolizzare la tragedia. E la rabbia gli mangiava le viscere. Poi, una sera, Delfino inserì nel proiettore la videocassetta datata 29 ottobre 2002. Circa dieci anni prima. Larrie, quella volta, non arrivò. Il lago rimase immobile. Le immagini continuarono con Niccoli in riva al
lago di Como, le spalle curvate dalla tristezza, finché il nastro fini. Le videocassette seguenti mostravano la
stessa scena. La bestia se n'era andata. O forse era morta. Niccoli era solo, abbandonato, perduto. Delfino provò una fitta al petto. VHS dopo VHS, l’uomo dimagriva, si consumava, vagando sulla spiaggia come un automa. Di tanto in tanto levava le braccia al cielo e urlava: «Dove sei, Larrie? Mi manchi, dove sei?» Provò pena
per Niccoli, per se stesso, per il mondo. La vita era un continuo perdere pezzi. Una veloce discesa lungo uno
scivolo punteggiato di rasoi e sporgenze, che tagliavano e squarciavano e portavano via amori, affetti, emozioni. Uno scivolo affacciato sull’Abisso. Lui lo sapeva bene. Cristo, se lo sapeva. Eppure, nonostante la disperazione, nonostante l’assenza, Niccoli tornava sulla spiaggia ogni sera, e piazzava la sua telecamera per riprendere il lago, la notte squarciata dal faretto. E aspettava, in quel luogo isolato, con l'unica compagnia dei ricordi.
Aspettava qualcosa. Delfino guardò tutte le VHS, bevendo come non aveva mai bevuto prima. Dieci anni. Niccoli aveva aspettato dieci anni la creatura aliena davanti all'insenatura appartata, tutte le notti, solo e inconsolabile. Larrie. La cosa più stupefacente e meravigliosa che fosse mai capitata a quell'ometto.
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Estrasse l'ultima VHS dallo scatolone con mano tremante. Si domandò cosa avrebbe visto. L'ultimo nastro di
una serie interminabile, datato 11 febbraio 2012. All'incirca un anno prima. Delfino tornò in soggiorno e recuperò una bottiglia. Lanciò un'occhiata fuori dalle finestre di Villa Perla. Era arrivato l'inverno. Ombroso, famelico. Il lago era invisibile, ammantato d'oscurità. Tornò in cantina e si sedette sul pavimento umido, aprì la bottiglia e pigiò il tasto PLAY del proiettore. L'insenatura, il lago, quel frammento di una realtà assurda e di un
passato impresso su pellicola che era ormai diventato familiare. Niccoli in piedi sul bagnasciuga, in attesa. Ancora lì, ad aspettare, dopo dieci anni. Invecchiato, stanco, ma ancora lì. Trascorse un quarto d'ora. Di attesa,
tristezza. Poi, in lontananza, la superficie del lago vibrò. «Larrie!» urlò Niccoli. Inebriato. Qualcosa spuntò
dall’acqua, distante. Una pinna, una mano? Era poco chiaro, ma il movimento di quell’appendice esprimeva
più delle immagini in sé. Un arrivederci. Un saluto. Delfino ripensò al sospiro di Maria. L’ultimo. Il vecchio
Niccoli crollò in ginocchio sulla sabbia. Rimase lì alcuni secondi, poi sollevò la mano, come a ricambiare il
gesto. Quando tornò verso la telecamera, il suo viso sembrava aver perso la cupezza, la tristezza degli ultimi
anni. Era sereno. Si parò davanti all’obiettivo e disse: «Qualcosa rimane. Rimane sempre». Un sorriso, luminoso, poi spense la telecamera. La cantina piombò nell’oscurità, rischiarata solo dal fascio biancastro del proiettore. Delfino rimase seduto per terra, scagliò la bottiglia di whisky lontano, in un angolo buio. Si domandò che
fine avesse fatto quell’uomo col suo mistero. Si disse che svelare i misteri non aveva poi così importanza. L’unica cosa che contava, come aveva detto Niccoli, era che qualcosa rimaneva. Rimaneva sempre. Tornò al piano
superiore e accese il computer. Doveva scrivere una nuova storia. Per se stesso. Per Maria. Soprattutto per Maria. Rivide l’attimo in cui si erano tenuti per mano in cima alla Mole Antonelliana. Il suo ultimo sorriso, diverso da tutti gli altri, che ora gli pareva una promessa. Si piegò sulla tastiera e digitò:
I nastri di Larrie
Poi si allontanò dal computer, aprì la porta-finestra e si diresse alla spiaggia. Rimase a contemplare le acque
immote, mentre i pensieri, così confusi negli ultimi mesi, sembravano prendere un ordine preciso. Si sedette,
un vento freddo soffiò sulle rive del lago di Como, un vento che portava con sé un vago sentore di mandorle e
cose buone. Credette di scorgere qualcosa, in lontananza, che guizzava sul pelo dell’acqua. Qualcosa di nero,
tenebra nella tenebra, eppure splendente come una supernova. Delfino si alzò e sollevò lo sguardo al cielo. Nella notte gelida e scura e insensibile cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve.
Luigi Musolino è nato nel 1982 in provincia di Torino, dove vive e lavora. Affascinato dall’universo fantastico
e horror sin da bambino, comincia a scrivere durante il liceo. Collabora da alcuni anni con la rivista Studi Lovecraftiani, pubblicata dalla Dagon Press. Sempre per questa casa editrice ha tradotto e curato due antologie di
racconti di Carl Jacobi (“Rivelazioni in Nero”, 2009; “Ritratti al Chiaro di Luna”, 2010). Per Edizioni XII ha
tradotto il romanzo horror-apocalittico “I Vermi Conquistatori” di Brian Keene, nelle librerie dal 2011. Suoi
racconti sono stati premiati in molti concorsi letterari. In particolare, ha vinto il Trofeo RiLL nel 2010, con il
“O Mammone”, e nel 2012, con “Il Carnevale dell’Uomo Cervo”.
Ho conosciuto e apprezzato Luigi Musolino nella mia qualità di giurato del Trofeo Rill e ho pensato di pubblicarlo sul Foglio Letterario.
L’UMORISMO DI GARRINCHA
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Solo un figlio
di Davide Schito
«Ciao mamma».
Entro nella stanza e mia madre è lì, seduta sulla sua carrozzina, col viso rivolto verso la finestra. Una striscia di
sole le illumina la fronte, sfiorandole gli occhi, mentre guarda fuori. Non c’è un gran panorama, siamo al primo
piano e la finestra si affaccia sulla strada. Mi sporgo anch’io e vedo quello che vede lei: qualche auto, non molte, un signore che sta portando a spasso il cane, tre ragazzini che corrono sul marciapiede e alcune persone che,
in piedi alla fermata, scrutano la strada per vedere se l’autobus che aspettano da troppo tempo stia finalmente
per arrivare. Scene comuni di tutti i giorni, persino noiose. Ma forse tutte queste cose che a me sembrano insignificanti, per lei rappresentano qualcosa di diverso: una libertà che non ha più, e della quale comunque non
saprebbe che fare. Oppure, chissà, forse attraverso quella finestra, in quelle scene di vita ordinaria lei vede solo
la sua città. Non quella di oggi, nella quale vivo io, ma quella del passato, nella quale camminava quando era
ancora in grado di farlo e nella quale pensava, lavorava, parlava, amava. Quella città che ormai non esiste più,
se non nei suoi ricordi sempre più confusi. Ricordi che, a poco a poco, stanno scivolando via, senza che ci sia la
minima possibilità di recuperarli. Forse è per questo motivo che passa tanto tempo a quella finestra: per fissare
nella mente delle immagini che riempiano quei vuoti sempre più grandi. Per dare ancora un significato alle
parole, prima che siano solo un insieme di lettere accostate le une alle altre, senza senso. È un anno ormai che
mia madre è ricoverata qui. Non sarà un posto di lusso ma ho la sensazione che la trattino bene. Con dignità,
perlomeno. E non è poco, di questi tempi. Come lei ce ne sono altri. Alcuni più vecchi, altri più giovani. Alcuni
tranquilli, altri potenzialmente pericolosi, confinati nei piani superiori. Della loro esistenza, al piano di mia
madre non c’è traccia, se non per qualche urlo che ogni tanto filtra, quando gli inservienti aprono o chiudono le
porte. «Ciao mamma» ripeto, appoggiandole una mano sulla spalla e chinandomi per darle un bacio sulla fronte. Lei gira la testa verso di me e all’inizio penso che non mi riconosca. Finirà così, prima o poi, i medici me
l’hanno detto appena l’ho portata qui. Mi hanno avvertito di prepararmi, che sarà l’inevitabile decorso della
malattia, ma io non ce la faccio ad abituarmi al fatto che la donna che mi ha messo al mondo un giorno non
saprà più chi sono. Mi pare impossibile. Forse i suoi occhi e il suo cervello non mi riconosceranno più, ma il
cuore? No. Credo che lei, in qualche modo, nel profondo saprà sempre. «Oggi quattro uccellini hanno fatto il
nido qui» mi dice, alzando l’indice della mano destra verso un punto imprecisato tra il soffitto e il cassone della
tapparella. «Bene, mamma, bene» le rispondo distratto, mentre giro la carrozzina e inizio a spingerla. Ormai
poco di quello che dice ha realmente senso. Chissà se è poi davvero quello che vorrebbe dire, oppure pensa
cose che poi escono dalla bocca con tutt’altre parole. «Dove stiamo andando?» «In giardino» le rispondo. «Ti
va di andare un po’ in giardino, all’aria aperta?» «Sì, ma non molto, che tra poco viene buio. E lo sai che quando viene buio bisogna rientrare, che poi fa freddo» mi dice allora con quel tono tra il severo e il preoccupato
che conosco fin troppo bene.
«Certo mamma, lo so» la tranquillizzo, e penso che mi mancano tanto quei giorni in cui questa frase aveva davvero un significato. Quando arriviamo in giardino cerco una sedia e mi siedo davanti a lei. La guardo: è ancora
bella, nonostante tutto. Per me lo sarà sempre. Non si dice forse che la mamma è il primo amore di ogni uomo?
Forse è l’unico davvero incondizionato. Anche lei mi guarda, e mi sembra che solo ora mi abbia davvero riconosciuto. «Dov’è Marta?» mi domanda preoccupata, guardandosi attorno. «Marta purtroppo non è potuta venire. Doveva accompagnare Luca alla partita di calcio. È bravo, sai? L’altra settimana ha fatto un provino con
l’Inter, l’hanno messo subito in squadra con quelli più grandi. Sono un po’ preoccupato a dire il vero, perché ho
idea che gli allenamenti saranno molto più intensi adesso, ma lui è felicissimo, dovresti vederlo. Anzi, mi ha
detto di salutarti tanto e che presto verrà a trovarti».
Il viso di mia madre si apre in un sorriso bellissimo. Poi però il cielo azzurro dei suoi occhi si rannuvola un po’.
«Ma voi state bene? Vi volete ancora bene, vero? Mi raccomando, non litigate» si preoccupa. Allora le prendo
la mano e la rassicuro. «Ma no, che dici? Io e Marta stiamo benissimo. La settimana prossima verrà anche lei,
promesso». «E il lavoro? Come va il lavoro?» mi incalza. «Il lavoro va benissimo, mamma. Giusto ieri abbiamo vinto una causa importantissima. Credo che mi daranno un aumento, e forse mi faranno diventare socio
dello studio. Sei contenta? Era quello che tu e papà sognavate: un avvocato in famiglia. E ce l’ho fatta, grazie a
voi e a tutti i sacrifici che avete fatto per me». Allungo una mano per carezzarle la guancia. In fondo mi basta
poco, quando vengo qui, per essere un po’ più felice, nonostante tutto. Mi basta vedere mia madre sorridere.
Ormai non le rimane molto per cui vivere. I suoi giorni sono tutti uguali, per lei non esiste quasi più il concetto
di tempo, di ieri, di domani. Di passato e futuro. L’unico appiglio con la realtà sono io. E nonostante anche
quello stia lentamente scivolando via, lo vedo che cerca con tutte le sue forze di aggrapparvisi. E io non posso
deluderla. Per questo ogni volta che vengo qui mi invento una storia nuova. Oggi sono un avvocato con una
bella moglie e un figlio con un futuro da calciatore. La settimana scorsa ero un ingegnere che aveva appena
terminato di progettare un ponte in Malesia. Quella ancora prima, un chirurgo specializzato in operazioni a
cuore aperto.
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L’unica costante di tutto è Marta. Ogni volta lei mi chiede di Marta. Io, però, Marta non so chi sia. Forse è la
moglie che lei ha sempre immaginato per me. Non nascondo che a volte, mentre racconto particolari, esperienze, resoconti di vita mai vissuta, una parte di me desideri che tutto ciò sia avvenuto davvero. In quest’ultimo
anno ho inventato tante storie, tutte ogni volta diverse. Su di me, su quello che sono, su quello che faccio, sulla
famiglia che in realtà non ho mai avuto. L’ho fatto per due motivi. Per mia madre, certo, perché vedere il suo
viso illuminato da un sorriso è l’unica cosa che riesce ancora a scaldarmi il cuore. E poi per me stesso. Per fuggire, anche solo per pochi minuti alla settimana, dalla mia vera vita. Molte volte ho pensato di raccontarle la
verità. Tanto, dopo pochi minuti se ne sarebbe dimenticata e avrebbe ripreso a chiedermi di Marta, del lavoro,
dei bambini. Ma non ce l’ho mai fatta. Non ce l’ho fatta a dirle che suo figlio è diventato un killer professionista che per vivere uccide le persone. Che gli piace farlo, in fondo, perché si guadagnano tanti soldi. Che è con
quei soldi, sporchi del sangue di perfetti sconosciuti, che pago il suo soggiorno in questo ospedale, dove possono prendersi cura di lei come io non avrei mai potuto fare. Qui, almeno qui, posso dimenticarmi per un attimo
di essere un mostro. E tornare a essere solo un figlio.
Davide Schito nasce nel 1983 a Milano, città nella quale ha sempre vissuto e alla quale è molto legato. Si considera un ingegnere scrittore, anche se fa per lavoro quello che vorrebbe fare per hobby, e viceversa. Scrive
racconti di qualsiasi genere letterario, senza porsi limiti di temi e forma. Ha pubblicato il racconto “L’uomo
spaventato” con la casa editrice digitale MilanoNeraEbook, oltre a diversi altri inseriti in antologie cartacee e
digitali. Ho conosciuto Davide Schito nella mia qualità di giurato del Premio Crawford. Lo pubblico volentieri
Leo & Lou di Agata Matteucci
Euro 12 - pag. 85 - ISBN 9788876062414
Lou e una ragazza dolce e naif, curiosa e determinata a non lasciarsi deprimere dalle nere prospettive che il XXI secolo le propone. Come la maggior parte degli adolescenti, è piena di interrogativi sul futuro e su quale sarà il ruolo che ricoprirà nella società. Tutte domande che rivolge
speranzosa al suo fidanzato Leo, chiedendogli di illuminarla sui passi da percorrere. Leo è un ventenne arrabbiato. Con il sistema, con il governo, con i politici, con la sua generazione, con la generazione passata, con il futuro. Cinico e disilluso, non pensa a cercare una soluzione a questa
sua insofferenza generalizzata, dato che probabilmente si trova davvero bene nella sua condizione
di ragazzo cupo e depresso. E poi ha Lou, la prova vivente che tutte le sue paure hanno una conferma, ma anche l’unica donna alla quale poi riesce ad addormentarsi accanto. Leo & Lou: una
coppia logorroica di giovani frustrati che nei momenti di più completa intimità si lascia andare alle
proprie nevrosi. L’un l’altra si interrogano, psicanalizzano, incoraggiano e distruggono, volontariamente o involontariamente, ma senza comunque riuscire a cavare un ragno dal buco. In questo
numero ci presenta alcune vignette tratte dalla serie LEGGENDE METROPOLITANE.
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Il Taccuino del Dottor Watson
di Alessandro Napolitano
Antefatto - Un amico ama ripetermi che il collezionista deve tener duro dove gli altri si arrendono. La mia passione è rivolta agli autori padri della
letteratura fantastica e vi confesso che spesso mi ritrovo a spulciare tra le bancarelle dei mercatini, alla ricerca del pezzo da collezione. Una ricerca
minuziosa che nell'aprile del 1999 ha prodotto i suoi frutti: un taccuino dalla copertina di cuoio rosso, vergato con inchiostro nero e firmato John H.
Watson. Il taccuino, acquistato per poche lire, è stato studiato da D. Estleman e N. Meyer, esperti Holmsiani. I due letterati non hanno avuto dubbi:
quanto da me acquistato è stato giudicato autentico. Il taccuino contiene semplici note del Dottor Watson, pensieri sparsi, alcune poesie, disegni e il
resoconto che vi propongo (denominato "Rivelazione"), scritto centoquattordici anni fa e da me tradotto in italiano. Lo scritto narra dell'incontro tra
il medico-scrittore e il professore James Moriarty, da tutti riconosciuto come il responsabile della morte di Sherlock Holmes. Oggi, per mio volere, il
taccuino del Dottor Watson è tornato in Inghilterra ed è esposto alla National Gallery di Londra. "Il collezionista deve tener duro." dice un mio
amico. Nulla di più vero!
Rivelazione - di J. H. Watson
Mi sono deciso a trascrivere queste righe, sperando che la loro rilettura possa alleviare il peso che porto nel cuore. Solo l'onnipotente può sapere
quanto ne ho bisogno! Giuro davanti alla mia anima che mai queste parole troveranno la benché minima pubblicazione. Il contenuto di quanto segue
non è frutto di fantasia, nessuna delle informazioni che seguiranno sul conto del mio amico Holmes potrà mai essere verificata. E la cosa grave, è
che penso sia meglio così. Il dubbio è un animale invisibile, lavora con perizia nell'animo umano, sconvolge le certezze assolute e infine piega la
ragione. Per questo sto scrivendo, per cacciare quell'animale dalla mia testa, per soffocare il costante bisbigliare che tormenta le mie orecchie. Un
mese fa, Sherlock Holmes ha trovato la morte tra le Alpi svizzere, precipitando dalle cascate del Reichenbach, avvinghiato al più pericoloso criminale dell'ultimo secolo: James Moriarty. Una morte orrenda, "necessaria" aggiungerebbe Holmes, visto che l'avrebbe condivisa con il suo acerrimo
nemico. Poi, dieci giorni fa, mentre ancora piangevo la fine di quel genio che ho avuto l'onore di chiamare amico, mi è stato fatto recapitare un
biglietto anonimo in cui venivo invitato a recarmi alla clinica Gaster Fell, alle porte di Londra. C'era un pacco di cartone a seguito della missiva,
conteneva ciò che mai avrei sperato di ricevere: il copricapo di Sherlock Holmes. Ho pensato, e confesso, urlato al miracolo. Che il mio amico ce
l'avesse fatta? Che fosse riuscito a scampare alle acque gelide della cascata? Dio sarebbe stato così glorioso da restituirmi Holmes? Quel berretto
eccentrico che stringevo tra le mani, sprigionava una forza indescrivibile: il genio aveva battuto la morte ed era tornato tra noi. Alle dodici e trenta
dello stesso giorno entrai nella clinica Gaster Fell e le speranze di riabbracciare Holmes si infransero. Nella camera 110, ad aspettarmi sdraiato sopra
una lettiga d'ospedale, c'era un uomo magro, circa cinquanta anni, denutrito, calvo, pallido come la cera, ma con occhi vivi, neri corvino, attenti a
ogni mio movimento.
— Sapete chi sono? — furono le parole di quell'uomo.
— No, Signore.
Solo ora mi rendo conto di quanto sia stata stupida la risposta. Avevo tra le mani il cappello di Sherlock Holmes e solo un'altra persona sarebbe stata
in grado di recapitarmelo.
— Voi siete il professore Moriarty. — esclamai stupefatto.
Devo aver sussultato e gridato tutta la rabbia che ebbi in corpo, mi sono avventato sopra quel criminale con la forza di un toro e con l'intenzione di
ucciderlo. A fermare la mia furia incontrollata fu lo sguardo magnetico di Moriarty. Avvertii una forza indicibile sprigionarsi dai suoi occhi, capace
di esaurire in un colpo solo tutta l’azione di cui ero stato capace.
— Non volete conoscere il motivo per cui vi ho convocato qui, Dottore?
Tenevo stretti i polsi del criminale, incapace di proferire una sola parola.
— Non volete sapere il motivo per cui io, il mostro, ho sempre dato la caccia a Sherlock Holmes e mai è avvenuto il contrario?
La voce di Moriarty, terribilmente sensuale, sarebbe stata capace di ipnotizzare qualsiasi platea.
— So bene, — continuò — che Holmes vi ha inviato una lettera poco prima che ci scontrassimo a Reichenbach. Gli ho concesso la possibilità di
spiegarsi, di raccontare il motivo per cui lo braccavo e di lavarsi la coscienza. Mi disse che avrebbe confessato il suo terribile segreto. Ma a quanto
pare non l'ha fatto, non ha avuto il coraggio di rivelarsi per ciò che era.
Allentai la presa e i suoi polsi sgusciarono lontani; cercai un filo logico nelle parole di Moriarty, una spiegazione razionale alle parole che stavo
udendo.
— Holmes mi ha scritto, mi ha raccontato che razza di furfante siete, questa è l'unica…
— Certo, — m'interruppe — ci sono persone che lavorano per me alle poste centrali, non è stato difficile leggere il contenuto di quella missiva. Vi
assicuro dottor Watson: Sherlock Holmes non ha fatto il minimo accenno alla scomoda verità che lo riguarda.
— Ma di cosa parlate?
— Parlo che il grande eroe, l'investigatore celebrato nei suoi racconti e acclamato in tutta Europa, altro non è che un codardo e un assassino.
— Come osate?
Non ricordo altro episodio in cui mi vidi costretto a colpire un uomo evidentemente malato. La mia mano scattò rapida e terminò la corsa sul volto
di Moriarty. Anche in questo caso, il professore non ebbe la benché minima reazione. Continuò a raccontare.
— Conobbi Holmes dieci anni fa, per via di mia sorella Pamela. Lei aveva compiuto vent'anni, era una ragazza malata, soffriva di dolori alla testa,
sveniva frequentemente, sfioriva ogni giorno che passava. Solo Sherlock Holmes, con le sue storie al limite del paradossale, sembrava capace di
distrarla. Nostro padre non vedeva di buon grado l'amicizia tra i due, e neanche io a dire il vero. Ma la felicità di Pamela era il mio unico interesse.
Una sera acconsentii a farla uscire di nascosto, sapendo che si sarebbe incontrata con Holmes alla spiaggia di Exeter. Mio padre non si lasciò ingannare; accompagnato da quattro amici li sorprese alla spiaggia. Io arrivai pochi minuti dopo, spaventato per quanto sarebbe potuto accadere. Gli occhi
di Moriarty s'inumidirono, un lieve porpore macchiò il volto pallido. Fece una pausa, e quando ebbe ritrovata la concentrazione, proseguì: — Holmes, vedendosi in trappola, prese mia sorella e salì sopra una barca di legno abbandonata sulla riva. Il mare era mosso, remò per qualche minuto
mentre gli uomini cercarono di raggiungerli a nuoto. Un'onda ha sorpreso Pamela; vedo ancora il suo corpo esile oscillare sulla barca e perdere
l'equilibrio. È caduta in acqua, non l'ho più rivista viva.
La sento ancora urlare il nome "Sherlock Holmes", il vostro grande eroe. Lo supplicava di andarle in soccorso e salvarla, finché non ha più avuto la
forza di restare a galla. Sherlock Holmes è rimasto sulla barca, al sicuro, condannandola a morte. La corrente del mare e le onde hanno favorito la
fuga di quel codardo. Il professore non piangeva più. Per la prima volta da quando ero entrato nella stanza spostò lo sguardo lontano dai miei occhi.
— E io ho annegato lui.
— Non può essere vero, Holmes non si sarebbe mai tirato indietro. — balbettai.
— Dottor Watson, si è mai chiesto il motivo per cui Holmes non si avvicinava mai a una donna? E quel disperato bisogno di eroina, secondo lei,
quali tormanti deve placare? E quando il vostro grande eroe…
Non riuscii ad ascoltare altro, scappai di corsa dalla stanza. Denunciai alla polizia la presenza di Moriarty alla clinica Gaster Fell. Le forza dell’ordine accorsero sul posto, ma del criminale non c'era più traccia.
Ho fatto l'unica ricerca possibile: James Moriarty aveva effettivamente una sorella, Pamela, morta nel 1884, annegata davanti a Exeter. Troppo poco
per sospettare di Sherlock Holmes, abbastanza per tormentare tra le mani il suo cappello.
John H. Watson
Londra, 11 Settembre 1894
Alessandro Napolitano è tra i fondatori della Electric Sheep Comics - Collection. - Le Edizioni Il Foglio pubblicano le loro graphic novel.
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Piombino dal mare
di Gordiano Lupi
In barca alla volta di Cerboli, un pomeriggio di mezza estate, quando il cavaliere d’Italia vola nella palude lungo la costa e i gabbiani corsi sfoggiano la macchia rossa sul becco volando
davanti ai tuoi occhi estasiati. Non sapevi che Piombino fosse così bella sino al giorno in cui
l’hai vista dal mare, lontano da fumi e acciaio, distante da ciminiere annerite che scacciano
nuvole bianche. Le rondini di mare seguono zaccarene che pescano sardine e acciughe, contendono prede ai gabbiani, diffidano delle paranze che trattengono il pescato, non lasciano
niente ai famelici abitanti del mare. Cerboli si apre davanti ai tuoi occhi, isola dei gabbiani,
antico scoglio depredato dalle rocce, estratte e caricate sui barconi, materiale per costruire
paratie dimenticate da ergastolani e uomini di fatica. Rocce rosse, bianche, scure, vegetazione mediterranea, bassa, verdeggiante tra scogliere, marmo bianco scavato e una casa diroccata, torre d’avvistamento del passato che emerge tra spunzoni di roccia calcarea. Cerboli alla
fine si allontana, abbandona il tuo sguardo senza avvisare.
Torna il panorama consueto, l’archeologia industriale della centrale Enel, quel che resta della vecchia Pontedoro, mito del tempo che scorre e non lo puoi fermare, ricordo inossidabile
di vecchi piombinesi alla ricerca delle loro radici. La fumata bianca dell’acciaieria non è un
segnale di pace da un villaggio indiano, come pensavi da bambino dopo aver visto l’ultimo
western con Giuliano Gemma, ma solo la cockeria che si spegne, coltivando illusioni di operai, sogni di famiglie nei quartieri del centro, che vivono tra spolverino e scirocco. Il porto
che si apre nel mare, accoglie navi veloci e traghetti diretti all’Isola d’Elba, piccolo mondo
antico orfano del suo Napoleone, golfi innaturali che si protendono verso piccole spiagge di
città. Il cimitero, Sotto Bernardini - un tempo fonderia adesso soltanto ricordo -, Sotto Macelli - pure questi perduti - , la Buca Rossa, lo sperone di roccia di Piazza Bovio, il Castello,
Cittadella, Sotto Frati. E sullo sfondo la fiamma antica dell’altoforno, una fiamma che vuol
dire vita, una fiamma che potrebbe spegnersi.
Scorrono come un flashback della memoria i tuoi sogni a occhi aperti mentre lasci la città
vecchia, rimessa a nuovo dopo tanto degrado, intuisci la spiaggia del Canaletto e il Golfo di
Salivoli, intravedi la Chiesa dell’Immacolata e le case sulle scogliere, come case di doganieri
in una poesia di Montale. Rocce calcaree, condomini popolari e ville, senza soluzione di
continuità, lasciano il posto a bianche farfalle che sorvolano le onde dirette verso l’orizzonte.
Sogni di bambini che fanno muovere il mondo, sogni del passato sotto forma di ricordi, farfalle che abbandonano le pietre del promontorio, raggiungono Punta Falcone, l’osservatorio
astronomico, Calamoresca, la spiaggia di sassi della Centralina, la macchia mediterranea lasciata alla sua sera. Fosso alle Canne, tra Punta Galera e Rio Fanale, a un passo da Buca delle Fate, è l’ultimo approdo, alle spalle un lenzuolo di roccia chiara, la buca del bove marino leggenda narrata da vecchi pescatori - e le cento scalinate della principessa che uccideva gli
amanti dopo notti di sesso.
Sconvolto da tanta bellezza, senza telefoni che suonano, senza computer, immerso nei pensieri, cullato dalle onde che frangono ricordi e speranze. Piombino vista dal mare è uno spettacolo di travolgente bellezza. Viviamo anni senza rendercene conto, come se fosse tutto dovuto, un fatto scontato. E invece dovremmo celebrare l’incanto, lasciandoci ammaliare dalle
onde del nostro mare, immagini di vita in perenne divenire, sempre capaci di stupire.
Agosto 2013
(da Piombino a Cerboli, per mare)
Il brano inedito ricalca il tono de Alla ricerca della Piombino perduta (Il Foglio, 2012).
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Concerto per il golfo di Baratti
La fonte di San Cerbone
di Roberto Mosi
Chi non beve alla fonte di San Cerbone
è un ladro o un birbone!
Detto popolare della Maremma
La fonte fluisce perenne
l’onda del mare l’attende
moto sinuoso fluente
assorbe, la espelle
il parto di un nascituro.
Borbotta la fonte:
“Sgorga l’acqua
copre Cerbonio
alla vista dei Barbari
dopo il trasporto dall’Elba.”
Il rivolo invade
i forni fusori emersi
i ricordi della fusione
i fuochi sempre accesi
di un popolo nero di fumo.
Barbari sulla spiaggia
biondi capelli sciolti
sulle groppe dei cavalli
la campana di Populonia ,
la furia degli invasori.
Brillano d’argento
gli antichi cumuli
dense nubi di fumo
fino ai resti del porto
per le navi dall’Elba.
Belve nella fossa,
la condanna di Totila.
“L’orso l’assale
si ferma cade ai piedi,
agnello mansueto.”
Rivoli di folla a frotte
giungono da Piombino
incoronata di fiamme
scendono sulla spiaggia
borse di frigo in spalla.
Bambini, castelli
di ciottoli neri
da abbattere uno a uno,
racconti dei padri
arrivati dal nord.
Un branco di cinghiali
scende dal bosco
le setole d’argento
grufola si crogiola
nell’acqua di fonte.
Barbari nel bunker
mani alla mitragliatrice,
s’illumina il mare
cantano cicale assetate
borbotta la fonte.
Roberto Mosi - Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone – Storie francesi da Piombino a Parigi - di Roberto Mosi - Pag.
130 – Euro 12 - Il libro, che proponiamo come un’agile guida di viaggio, illustra i percorsi che seguono le tracce lasciate da
questi racconti e, in alcune parti, richiama il contesto che fa da sfondo alle storie dei nostri personaggi. Sono illustrati i cambiamenti sia della vita quotidiana sotto l’influenza francese, con Parigi al centro delle novità, sia della cultura, della tecnologia e dell’ingegneria, aspetti di indubbio interesse per cogliere l’affermarsi della Toscana nell’Europa moderna.
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TUTTE LE NOVITA’ DELLA COLLANA CINEMA
Il Neo Noir di Cristian Caira - Euro 15 - Pag. 180 - ISBN 9788876064470
Affidatosi a uno stile assai personale e ispiratosi a un generoso progetto di comunicazione, Caira libera il campo dai
tanto caratteristici quanto superflui revivalismi cinefili e si concentra, piuttosto, nell’individuare i codici che hanno
giocato il ruolo decisivo nell’evoluzione/trasformazione intertestuale del noir [...] Ci sembra, inoltre, importante l’intuizione della qualità “disorientante” del Neo-Noir, evidenziata dalla scomparsa degli antitetici topoi impostati dai
classici alla Hammett e Chandler (vittime vs. carnefici, guardie vs. ladri, ragione vs. follia, ordine vs. trasgressione)
nonché dal riconoscimento di nuovi, cruciali elementi drammaturgici come la frammentazione delle identità, l’adattamento della psiche umana alla standardizzazione seriale, la messa in abisso dei tradizionali “punti di vista” morali
[...] Ma la qualità migliore del libro è quella di riprendere le fila dell’immaginario collettivo unificando in un unico,
possente flashback lo sfarfallio di centinaia di titoli, di date e di nomi. (dalla prefazione di Valerio Caprara).
Storia del cinema horror italiano - da Mario Bava a Stefano Simone - Volume 4 – Horror Anni Ottanta - di
Gordiano Lupi - Euro 16 – Pag. 340 – ISBN 9788876064555
In questo volume: Lamberto Bava, Alberto De Martino, Sergio Martino, Luigi Cozzi, Corrado Farina, Michele Soavi, Enzo G. Castellari. Interviste inedite a cura di Emanuele Mattana: Luigi Cozzi, Sergio Martino e Riccardo Serventi Longhi. Quarta della Storia del Cinema Horror Italiano. Si va dallo splatter metropolitano al fantahorror, passando per fantapolitica e streghe da fumetto, senza dimenticare postatomico e cinema avventuroso. Gli anni Ottanta
non sono il miglior periodo del cinema italiano, questo libro si prefigge il compito di consigliare quel che va salvato.
Nonostante l’avanzare del fenomeno Home Video e delle televisioni private, gli autori italiani producono opere dignitose e piccoli gioielli: La chiesa e La setta di Michele Soavi, Hanno cambiato faccia di Corrado Farina e il ciclo
Dèmoni di Lamberto Bava sono alcuni esempi significativi.
Bruno Mattei - L’ultimo artigiano - di Gordiano Lupi e Ivan Gazzarrini - contributi di Fabio Marangoni e
Matteo Mancini - Pag. 170 – Euro 14 - ISBN 9788876064609
Bruno Mattei è stato per anni l’ultimo artigiano, un sopravvissuto, un regista che è andato oltre la crisi del cinema di
genere. Mattei non si cura della scomparsa delle sale di terza visione, supera la fine delle salette a luci rosse, evita la
televisione e continua a fare il cinema di genere che ama. Usa il digitale e i nuovi ritrovati della tecnica, produce film
d’azione, cannibalici, horror, tonaca movie, women in prison. Merita di essere ricordato, pure se molti dei suoi film
non sono capolavori: spesso tirati via, sceneggiati con disinvoltura, montati con lentezza, girati in pochi giorni e con
mezzi insufficienti. È insopportabile che un regista come Mattei non venga nominato in nessuna enciclopedia cinematografica e che i più importanti dizionari (Mereghetti, Morandini e Farinotti) non prestino alcuna attenzione ai
suoi film, omettendoli sistematicamente. Bruno Mattei è molto attivo nei generi nazi erotico (Casa privata per SS
– 1977, K.Z 9 lager di sterminio – 1977), mondo movie (Le notti porno nel mondo – 1977), erotico (Emanuelle e
le porno notti – 1978, Cuginetta… amore mio! – 1976, Cicciolina, amore mio! – 1979, Sexual aberration - 1979), tonaca movie (La vera storia della monaca di Monza – 1980), women in prison (Violenza in un carcere femminile – 1982, Anime perse - 2006), peplum (I sette magnifici gladiatori – 1983) e avventuroso d’imitazione
(Strike Commando – 1987, Terminator II - 1990). Non poteva mancare l’horror, che Mattei frequenta sin dal 1980, soprattutto nel sottogenere zombi e cannibale. Mattei collabora a lungo con Claudio Fragasso, sia come sceneggiatore che come regista, e insieme portano a termine Zombi 3 di Lucio Fulci. Il regista resta inattivo per un certo periodo, a causa della progressiva scomparsa del cinema di genere italiano, ma nel 2001 riprende di buona lena e con
grande entusiasmo a girare film a basso costo, dedicandosi al suo vecchio amore, producendo erotici patinati, avventurosi, thriller e horror-splatter. Molti di questi film vengono girati nelle Filippine e sono prodotti da Gianni Paolucci
(La Perla Nera). Tutti i suoi film girati per destinazione non cinematografica, ma diretti al mercato home video
(direct to video) sono pubblicati in dvd, tranne Anime perse, L’isola dei morti viventi e Zombi: la creazione, al
momento inediti in Italia. Anime perse è reperibile in versione inglese con sottotitoli in spagnolo, ed è proprio quella
l’edizione analizzata per questa trattazione. Bruno Mattei muore nel 2007, all’età di 76 anni. Pochi mesi prima aveva
diretto il suo ultimo film di zombi, sceneggiato dall’amico Antonio Tentori.
Il Cinema di Kim Jee-Woon - a cura di Fabio Zanello
Euro 12 – Pag. 100- 9788876064463
Nella vasta area parzialmente esplorata dai festival e dalla cinefilia ansiosa di novità l’audiovisivo della Corea in
fiamme, tanto per parafrasare un classico di Samuel Fuller, cambia, esplora,osserva,innova,possiede spirito d'avanguardia e rifiuta ogni logica tradizionale. Il suo orizzonte creativo costeggia i generi, più spesso li manipola, talvolta
li sublima. L'investimento estetico è molto forte in controtendenza con la stasi temporanea delle ambizioni del cinema di Hong Kong e di quello giapponese. Di questo cinema Kim Jee-Woon, beatificato nel nostro paese dal Far East
Film di Udine, è uno dei registi più significativi anche durante la sua trasferta hollywoodiana.
The Quiet Family, The Foul King, Two Sisters, Bittersweet Life, Il buono, il matto, il cattivo, I Saw the Devil e The
Last Stand stanno lì a dimostrarlo. Un dialogo aperto con il cinema narrativo, che guarda a fronte alta anche un genere classico come il western e man mano che si slitta verso l’horror e il thriller, tende ad affacciarsi sulla sperimentazione più astratta. Il volume contiene saggi di Alessandro Baratti, Beniamino Biondi, Donato Guida, Michelangelo
Pasini, Adelina Preziosi, Mariangela Sansone e Fabio Zanello.
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Dal Blog http://www.contaminazioni.info/piombino-non-deve-chiudere-cronaca-di-giorni-difficili/
Sono giorni difficili per la mia città. Dopo il presidio al Rivellino di operai e studenti, assieme al sindaco Gianni Anselmi,
ieri, al Ministero dello Sviluppo Economico è stato consumato l’ennesimo strappo, in un tesissimo incontro che ha visto
come protagonisti il sottosegretario Claudio De Vincenti, i rappresentanti sindacali, lo stesso sindaco e il governatore Enrico Rossi. Ieri sera ero assieme agli operai e a tanti altri cittadini al nostro Rivellino, in attesa di conoscere il risultato dell’incontro al ministero. Quando sono arrivati i sindacalisti (e dopo poco il sindaco), sul piazzale è sceso un silenzio pesante,
carico di ansia e preoccupazione. Le notizie non sono state buone. A parte un generico impegno per una riconversione in
tempi lunghi dell’impianto sulla base di tecnologie più efficaci e meno impattanti, non è stata data alcuna garanzia per il
mantenimento dell’altoforno, destinato probabilmente a chiudere entro gennaio: con la prospettiva di tre anni almeno di
cassa integrazione per i lavoratori e, in definitiva, dello strangolamento dell’economia della Val di Cornia e di ogni possibile strategia di rinascita. Ricordo che Piombino è il secondo polo siderurgico italiano. La dismissione dei suoi impianti è
uno dei segnali più drammatici della desertificazione del sistema produttivo italiano, un processo che, se non invertito in
tempo, condannerà questa nazione ad un inesorabile declino: forse è già troppo tardi. Un gioco delle tre carte sulla pelle
delle persone, sempre più arrabbiate, deluse, spaventate. Claudio De Vincenti è un economista e un professore: dovrebbe
forse abbandonare i suoi libri e le sue teorie, per scendere in mezzo alla gente e prendere atto davvero della situazione. Perché la tragedia vera è questa: un approccio miope, esclusivamente ragionieristico, che non tiene conto di nient’altro se
non di utili e profitti nell’immediato, senza una visione “alta” del futuro, senza la minima considerazione del valore
del lavoro, della dignità di uomini e donne veri (non meri numeri in qualche sterile report statistico), della loro vita
reale, dello loro speranze e paure. Senza il minimo interesse per la storia di una comunità che ha contribuito moltissimo
all’economia di questo Paese, con grande sacrificio, fatica e non poche vittime. E nascondendo tutto questo con scontate
rassicurazioni di comodo, come se le persone, oggi, potessero essere imbambolate da qualche roboante promessa e da un
pugno di frasette retoriche a buon mercato. Siamo al grado zero della politica. Il lavoro, celebrato dall’Articolo 1 della
nostra Costituzione come il fondamento più saldo dell’inclusione democratica, non è più un diritto ma una gentile concessione del cosiddetto “mercato”, che vive di dinamiche proprie, troppo simili all’antico e cinico sfruttamento di ottocentesca memoria. Anche per questo motivo, ieri al Rivellino è stata ventilata con forza l’idea di far partire proprio da
Piombino la richiesta di dimissioni del ministro Zanonato che, pur avendo giurato su quella stessa Costituzione che pone
il lavoro a fondamento della nostra democrazia, ha dimenticato il significato profondo di questo impegno. Piombino è
una metafora potente di questo dramma, di quella “lotta di classe dopo la lotta di classe” di cui parla Luciano Gallino.
Ieri sera orgoglio, frustrazione, timore si mescolavano in un modo che sarà difficile dimenticare per chi era presente.
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