Storia dell`INPS

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Storia dell`INPS
BREVE STORIA DEL SISTEMA PENSIONISTICO
L’Inps, tra i più grandi enti previdenziali d'Europa, gestisce la quasi totalità della previdenza
italiana. Sono infatti assicurati con l’Inps la maggior parte dei lavoratori dipendenti del settore
pubblico, privato e dei lavoratori autonomi.
Nasce nel 1898 (Cassa nazionale di previdenza) al fine di garantire la previdenza per l'invalidità e
la vecchiaia degli operai su base volontaria. Nel 1919, dopo circa un ventennio di attività, la Cassa
ha in attivo poco più di 700.000 iscritti e 20.000 pensionati. In quell'anno l'assicurazione per
l'invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori. È il primo passo
verso un sistema di protezione sociale del lavoratore da tutti gli eventi che possono intaccare il
reddito individuale e familiare.
Nel 1933 la Cassa assume la denominazione di Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, ente
di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e gestione autonoma.
Nel 1939 sono istituite le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e gli assegni
familiari. Il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia viene ridotto a 60 anni per
gli uomini e a 55 per le donne; viene istituita la pensione di reversibilità a favore dei superstiti
dell'assicurato e del pensionato.
Nel 1952 nasce il trattamento minimo di pensione. Si eroga ai pensionati con ridotta anzianità
contributiva una pensione minima per garantire un’esistenza dignitosa.
Nel periodo 1957-1966 vengono costituite tre distinte Casse: una per i coltivatori diretti, mezzadri e
coloni, una per gli artigiani e una per i commercianti.
Nel 1969 viene varata la legge n. 153 (detta riforma Brodolini), in base alla quale si adotta
la formula retributiva per il calcolo della pensione in forma generalizzata, svincolando il calcolo
della pensione dai contributi effettivamente versati e legando la prestazione alla retribuzione
percepita negli ultimi anni di lavoro: s’introduce così il concetto secondo cui la pensione è un
“reddito di sostituzione” del reddito da lavoro. Viene introdotta la pensione sociale (per i cittadini
ultra 65enni sprovvisti di assicurazione e senza reddito) e la pensione di anzianità (per i cittadini
con 35 anni di contribuzione). Si introduce il concetto di perequazione delle pensioni, che consiste
nella rivalutazione automatica delle pensioni in base all’indice dei prezzi al consumo. Solo dal
1975, e fino alla riforma Amato del 1992, la perequazione delle pensioni è agganciata, oltre che ai
prezzi, anche ai salari, consentendo così una tutela effettiva del valore reale delle pensioni, ma
anche un aggravio sui conti pubblici dato sia dalla mancata correlazione tra contributi versati e
prestazioni, sia dalle età estremamente basse di pensionamento (negli anni ’70 e ‘80 influiscono
sull’espansione della spesa pensionistica le c.d. pensioni “baby” previste nella riforma del 1973 del
Governo Rumor.
Nel dicembre del 1973 il governo Rumor stabilì che, nel pubblico impiego, potessero lasciare il
lavoro le donne che avevano lavorato per 14 anni, sei mesi e un giorno, ma soltanto se sposate e
con figli. Per gli altri lavoratori sono previsti 20 anni di lavoro se statali, 25 per i dipendenti degli
enti locali.
Ad abolire questo privilegio fu il governo Amato nel 1992 con il decreto legislativo 503 del
30/12/1992 non a caso denominato “Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei
lavoratori privati e pubblici”.
Nel 1981, la I Commissione Castellino, dal nome del Ministro del Tesoro, evidenziò i punti più
controversi del sistema pensionistico: età pensionabile, collegamento percentuale alla retribuzione,
retribuzione pensionabile, cumulabilità tra pensione ed altri redditi e formula di indicizzazione. Nel
decennio successivo, furono proposti vari disegni di riforma dell’intero sistema, destinati al
fallimento.
Nel 1983, il Governo Craxi tentò di affrontare il problema, ma il progetto approntato dal ministro del
lavoro De Michelis venne respinto già in sede di presentazione in Consiglio dei Ministri nel luglio
del 1984. Contemporaneamente, alla Camera dei deputati venne insediata la Commissione
Cristofori incaricata di predisporre un testo di riforma che però si protrasse senza esiti fino al 1987.
L’unico intervento specifico di grande rilevanza, realizzato in questo periodo, fu la riforma delle
pensioni di invalidità, attuata con la legge n. 222 del giugno 1984, che abolì qualsiasi riferimento ai
fattori socio economici e stabilì che ai fini della concessione della prestazione era rilevante solo la
situazione sanitaria legata alla incapacità lavorativa del richiedente. Il testo venne esaminato in
Aula nel febbraio 1987; questa attribuì alla Commissione in sede redigente il compito di elaborare il
testo definitivo, ma lo scioglimento anticipato della legislatura nella primavera del 1987 pose
termine ad ogni ulteriore discussione.
Nel 1989 entra in vigore la legge di ristrutturazione dell’Inps, un momento di particolare importanza
nel processo di trasformazione dell’ente in una moderna azienda di servizi.
Nel 1990 viene attuata la riforma del sistema pensionistico dei lavoratori autonomi. La nuova
normativa, che ricalca per vari aspetti quella in vigore per i lavoratori dipendenti, lega il calcolo
della prestazione al reddito annuo di impresa.
Nel 1992 si avviò una riforma complessiva del sistema previdenziale. In particolare, si
distinguono tre fasi di grande importanza riformatrice negli anni Novanta:
- riforma Amato del 1992: il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n.503 si pone lo scopo di stabilizzare il
rapporto tra la spesa previdenziale e il prodotto interno lordo (PIL), di introdurre forme di
previdenza complementare e integrativa, mantenere e garantire un adeguato trattamento
pensionistico obbligatorio per tutti. L’età pensionabile è elevata da 60 a 65 anni per gli
uomini e da 55 a 60 anni per le donne. La contribuzione minima per la pensione di
anzianità è elevata da 15 a 20 anni di contributi. L’indicizzazione delle pensioni è slegata
dalla scala mobile salariale e agganciata all’indice dei prezzi al consumo (inflazione) fornito
dall’Istat;
- nel 1993 viene introdotta in Italia la previdenza complementare, che si configura come un
sistema volto ad affiancare la tutela pubblica con forme di assicurazione a capitalizzazione
di tipo privatistico;
- nel 1995 viene emanata la legge di riforma del sistema pensionistico (legge Dini) che si
basa
su
due
principi:
- il pensionamento flessibile in un’età compresa tra i 57 e 65 anni (uomini e donne);
- il sistema di calcolo previdenziale passa dal criterio retributivo (media delle retribuzioni
negli ultimi 10 anni di lavoro) al sistema contributivo, quest’ultimo basato sull’effettivo
ammontare di contributi versati dal lavoratore durante la propria vita lavorativa.
Nel 1996 diviene operativa la gestione separata per i lavoratori parasubordinati (collaboratori
coordinati e continuativi, professionisti e venditori porta a porta) che fino a quella data non avevano
alcuna copertura previdenziale.
Nel 1997 fu varata la Riforma Prodi. La legge n. 449 del 27 dicembre 1997 modifica l’impianto
della riforma Amato del 1992, adeguandolo con gli accordi stabiliti tra governo e sindacati e con
l’esigenza di riordinare i conti pubblici, al fine di garantire l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea.
La riforma Prodi si caratterizza per l’inasprimento dei requisiti d’età per l’ottenimento della
pensione di anzianità, per l’incremento dell’onere contributivo dei lavoratori autonomi, per
l’equiparazione delle aliquote contributive dei fondi speciali di previdenza e l’eliminazione di alcune
condizioni riconosciute ai lavoratori durante il periodo di transizione al sistema contributivo.
Nel 2003 l’Inpdai (Istituto Nazionale Previdenza per i Dirigenti di Aziende Industriali) confluisce
nell’Inps con il conseguente trasferimento all’Istituto di tutte le sue funzioni.
Nel 2004 è stata approvata la legge delega sulla riforma delle pensioni (riforma Maroni). La
maggior parte delle novità introdotte dalla riforma saranno operative dal 2008, mentre è entrato
subito in vigore il provvedimento relativo all'incentivo per il posticipo della pensione. Dunque la
riforma Maroni del 2004 si è posta in questa ottica, elevando l’età anagrafica per il pensionamento
di anzianità: in particolare, l’età necessaria per accedere a questa forma di pensionamento sale
a 60 anni per tutti a partire dal 2008, fermo restando il requisito contributivo di 35 anni. Nel 2010 il
requisito di età sale a 61 anni e nel 2014 a 62. Requisito alternativo, a partire dal 2008, come già
fissato dalla legge n. 335 del 1995, per l’accesso al pensionamento sono i 40 anni di contribuzione,
a prescindere dall’età anagrafica. Per i lavoratori autonomi i requisiti anagrafici sono superiori di un
anno a quelli fissati alle varie scadenze per i lavoratori dipendenti. La legge n. 243 prevede, inoltre,
la riduzione da 4 a 2 delle finestre di uscita per chi matura i requisiti del pensionamento di
anzianità, con il conseguente ulteriore innalzamento dell’età pensionabile. L’innalzamento dei limiti
di età non riguarda solo il sistema retributivo o misto, ma anche quello contributivo. Per i lavoratori
la cui pensione è liquidata esclusivamente con questo sistema, il requisito anagrafico minimo
previsto è elevato a 60 anni per le donne e a 65 per gli uomini. Gli uomini potranno, inoltre,
accedere al pensionamento se in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 35 anni a 60, 61
o 62 anni di età rispettivamente nel 2008, 2010 e 2014. L’accesso al pensionamento resterà
possibile a prescindere dal requisito anagrafico, in presenza di un requisito di anzianità contributiva
pari a 40 anni.
A fine 2007 viene adottata la legge 24 dicembre 2007, n. 247 che ha modificato le disposizioni
contenute nella legge n. 243/2004 che sarebbero dovute entrare in vigore a partire dal 1° gennaio
2008 e che avrebbero comportato l’immediato innalzamento da 57 a 60 dell’età anagrafica (si parlò
infatti di “abolizione dello scalone”). La legge n. 247/2007 ha, comunque, previsto una modifica dei
requisiti per il diritto alla pensione di anzianità, ma in maniera più graduale, ed ha introdotto, a
partire dal 1° luglio 2009, il “sistema delle quote”. In particolare, per quanto riguarda i lavoratori
dipendenti i requisiti per poter accedere alla pensione di anzianità sono i seguenti: dal 1° gennaio
2008 al 30 giugno 2009 sono richiesti almeno 58 anni di età e 35 anni di contribuzione; dal 1°
luglio 2009 al 31 dicembre 2010, la quota da raggiungere è 95 con un’età anagrafica minima di 59
anni ed una contribuzione minima di 35 anni; dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2012 la quota da
raggiungere è 96 con un’età anagrafica minima di 60 anni ed una contribuzione minima di 35 anni;
a decorrere dal 1° gennaio 2013 la quota da raggiungere è 97 con un’età anagrafica minima di 61
anni ed una contribuzione minima di 35 anni. Nello stesso tempo, si conferma che al
raggiungimento dei 40 anni di anzianità lavorativa si può accedere ai requisiti a prescindere
dall’età anagrafica.
Con il nuovo governo di centrodestra, la manovra finanziaria 2010 stabilisce, a partire dal 1°
gennaio 2015, l’innalzamento dei requisiti per le pensioni di vecchiaia e di anzianità, mentre per le
dipendenti del pubblico impiego conferma il requisito di 65 anni per la pensione di vecchiaia dal
2012. Rispetto alla riforma del 2009, il ritmo degli adeguamenti dell’età pensionabile all’aumento
medio della vita non è più ogni 5 anni, ma ogni 3, tranne che per il primo scaglione (4 anni). Inoltre,
compare la “finestra mobile” che si apre dopo 12 mesi per i dipendenti e dopo 18 mesi per i
lavoratori autonomi: si noti il danno dato dal fatto che la contribuzione eccedente i 40 anni è
infruttifera per il calcolo della pensione con il sistema retributivo e, al massimo, si può ottenere un
modesto incremento dell’assegno se negli ultimi mesi si riceve un forte aumento di stipendio che fa
salire la base pensionabile. Ancora, a partire dal 2010 c’è la diminuzione dell’aliquota sul calcolo
della pensione (ogni tre anni). Dal 1° gennaio 2010 sono entrati in vigore i nuovi coefficienti di
trasformazione del montante contributivo in rendita come previsto dalla legge n. 247 del 2007,
attuativa dell’Accordo Welfare del 23 luglio 2007. La normativa ha istituito anche una nuova
tempistica e una diversa procedura per la revisione periodica dei coefficienti: la revisione da
decennale è diventata triennale e da procedimento politico-amministrativo è stata mutata in
procedimento esclusivamente amministrativo.
Infine, con il Decreto Legge n. 201/2011 (il famoso decreto salva Italia, che contiene la riforma
Fornero), da un lato si passa al sistema contributivo pro-rata per tutti dal 1 gennaio 2012;
dall’altro, si innalza ulteriormente il livello minimo di età pensionabile: l’età minima di
pensionamento passa da 60 a 62 anni per le lavoratrici dipendenti (che diventeranno 64 nel
2014, 65 nel 2016 e 66 nel 2018; le lavoratrici autonome dovranno lavorare un anno in più), e 66
anni per gli uomini. È introdotta una fascia flessibile di pensionamento, differenziata tra donne (6370 anni) e uomini (66-70 anni): il lavoratore che sceglierà di restare a lavoro più tempo, otterrà un
aumento di pensione. Infine, il requisito di anzianità è innalzato a 42 anni e 1 mese per gli uomini,
e 41 anni e 1 mese per le donne; dal 2012, chi avrà maturato tale requisito ma non il numero
minimo di anni richiesti dai requisiti si vecchiaia subirà una penalizzazione del 2% per ogni anno in
meno di lavoro
Nel 2011 vengono soppressi Inpdap (Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti
dell'amministrazione pubblica) ed Enpals (Ente Nazionale di Previdenza e di Assistenza per i
Lavoratori dello Spettacolo) e viene disposto, al 31 marzo 2012, il trasferimento all’Inps di tutte le
competenze dei due Enti al fine di rendere più efficiente ed efficace il servizio pubblico,
assicurando cosi ai cittadini un unico soggetto interlocutore per i servizi di assistenza e previdenza.
L’Inps gestisce anche le prestazioni assistenziali - interventi propri dello "stato sociale" - volte a
tutelare i lavoratori che si trovano in particolari momenti di difficoltà della loro vita lavorativa e
provvede al pagamento di somme destinate a coloro che hanno redditi modesti e famiglie
numerose. Per alcune di queste prestazioni l’Inps è coinvolto solo nella fase di erogazione; per
altre
svolge
tutto
il
procedimento
di
assegnazione.
Gestisce anche la banca dati relativa al calcolo dell’ISE (indicatore della situazione economica)
utilizzato dai Comuni per concedere gli assegni per il nucleo familiare e per la maternità, e
dell’ISEE (indicatore della situazione economica equivalente), che permette di usufruire di alcune
prestazioni sociali agevolate.
Fonte: www.inps.it