Libia - sospeso
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Libia - sospeso
Stregati dalla duna di M.Malinverni Ritorno in Libia dopo la fine dell’embargo. Nel suo cuore più segreto, il Fezzan, il deserto delle meraviglie nel sudovest, tra montagne di sabbia, oasi d’acqua azzurra e fiumi di pietra, è nascosta la più bella galleria d’arte del mondo. Una notte nera, compatta come velluto scivola sotto le ali dell'aereo in volo da Tripoli a Sebha, nel cuore del Fezzan, nel cuore del Sahara libico. Sulla soglia del portellone, l'alito caldo del deserto è una carezza morbida. Lunghe ombre scure si muovono indaffarate sulla strada: i tuareg avvolti nei loro taguelmust blu danno un ultimo controllo alle jeep già schierate in ordine di partenza. Lentamente la carovana moderna percorre lo stretto nastro d'asfalto che ripete una delle innumerevoli piste che da sempre gli uomini del deserto con i loro dromedari seguivano per portare dall'Africa Nera agli empori sulla costa mediterranea rarità esotiche, schiavi e animali selvaggi, avorio, ebano, oro. II deserto è tutt'attorno. Buio, misterioso, prepotente al punto di tentare di riappropriarsi di quel poco di spazio che la strada gli ha rubato "lanciando" all'improvviso nel mezzo della carreggiata le pericolosissime barkhane, le strette mezzelune di sabbia che in un attimo possono far ribaltare un'auto. I giovani autisti tuareg le conoscono, sanno perfettamente dove aspettarsele, come affrontarle o evitarle. Hanno il deserto nel Dna. Se lo sono fatto raccontare dai loro anziani nelle notti davanti ai falò e dagli ultimi nomadi rimasti a inseguire le stagioni, l'acqua delle ghelte - le pozze formate dalle piogge nelle cavità alla base delle montagne - i pascoli per le loro magre bestie, e in questo oceano minerale, ostile all'uomo, si muovono sicuri, precisi più di un Gps - che comunque ormai quasi tutti hanno, anche se sempre spento, sulle loro Toyota curate come un bambino (o un dromedario?). Ognuno è specializzato in un tipo di terreno. C'è Barkha che è il maestro delle pietraie dell'hammada, c'è Muhammad che conosce tutti i segreti della sabbia dura del reg e c'è Alì che sa esattamente dove si trovano gli insidiosissimi fetch-fetch, le sabbie molli terrore di ogni autista, in ogni punto di quest'angolo di Sahara nell'estremo sud-ovest della Libia; quando il deserto lo comanda, si mettono in testa alla carovana, premono un paio di volte sull'acceleratore, e al grido "yyyeeeehhh!!" (i tuareg gridano sempre se c'è un attimo di silenzio) partono sicuri seguiti, sempre ululando, da tutti gli altri. Gli 80mila chilometri quadrati di dune gialle e arancio dell'edeyen di Ubari sono il regno di Wazhargan. Sgonfia i pneumatici, per aver maggior attrito sul terreno, calcolando "a orecchio" la quantità d'aria uscita, si rimette al volante, inserisce le ridotte e fa salire il motore di qualche migliaio di giri. La 4x4 slitta sulla sabbia, ondeggia, s'impenna sulla cresta dell'altissima duna, rimane come sospesa in cima per un attimo che pare un'eternità, poi scende come volando sull'altro versante. Miraggio, fata morgana, allucinazione? Uno specchio d'acqua blu zaffiro perfettamente ellittico circondato da palme cariche di datteri rossi e giunchi. Un'oasi silenziosa, deserta, sta proprio lì davanti, ai piedi della duna. Gabraoun e Oum al-Ma, un serpente verde che si snoda in un mare ocra, sono i più belli dei quattro laghi rimasti (erano una ventina secondo gli esploratori sahariani degli anni '30) nella Ramla dei dawada. La regione ancora oggi è difficile da raggiungere ma, fino a non molto tempo fa, era abitata. I dawada, un'etnia probabilmente indigena del Fezzan, bassa e di pelle scura, nel 1987 per volere del colonnello Gheddafi sono tutti stati trasferiti "verso una vita migliore" nei palazzi popolari del vicino oued al-Hayah (il fiume della Vita), il vallone centrale del Fezzan che collega Sebha all'oasi di Ghat, al confine con l'Algeria. Malgrado I"'urbanizzazione" restano comunque un mistero, a cominciare dal nome: non si sa come loro stessi si definissero, l'appellativo dawada, mangiatori di vermi, glielo diedero gli arabi perché si nutrivano di datteri e di un particolare tipo di crostaceo, l'Artemia salina, che vive nelle acque dell'oasi. Tutt'ora non è raro vedere al mattino qualche anziano dawada venuto dai nuovi villaggi aggirarsi tra il fango delle rive armato di retino per pescare queste prelibatezze tradizionali. Le zeriba, le loro capanne di frasche abbandonate, servono invece ai pochi turisti giunti fin qui come "spogliatoio" per infilarsi il costume e vivere un'esperienza surreale: un bagno completamente circondati dalle curve arancioni delle dune del Sahara in un'acqua pulitissima e tanto salata da consentire di galleggiare come se si fosse nel Mar Morto. "L'oasi è fatta per il corpo, il deserto per l'anima, dice un nostro proverbio". La voce improvvisa di Djaba, il tuareg algerino a capo della spedizione, in un italiano perfetto appena addolcito dall'accento francese, dà la risposta alla domanda silenziosa dell'occidentale spaesato davanti al tramonto rosso, fucsia e oro sulle dune esterne dell'edeyen di Murzuk, un labirinto impenetrabile di 100mi1a chilometri quadrati di colline di sabbia alte fino a 400 metri. Al campo è tutta un'attività: i cuochi accendono il fuoco con legna e sterpi per cuocere il cous-cous, qualcuno si avventura lontano dal falò per montare la tenda con un po' di privacy (e lontano, soprattutto, dal vicino della notte precedente che russa senza pietà), altri scalano un'altra duna in cerca dell'anima del deserto (o della propria?), un gruppetto, seduto al tavolo di assi di legno e cavalletti, si fa un aperitivo d'acqua fresca di ghelta (niente alcol nella Jamaihrya libica) e formaggio di capra. Poco più in là, i tuareg sdraiati su un fianco su una cresta ancora calda di sole chiacchierano e giocano su un'effimera dama disegnata nella sabbia. Barkha con la sua bella tunica azzurra ricamata d'argento e bianco si riposa sotto la jeep, come sempre quando c'è da cucinare, montare o smontare il campo: «Sai lui è nobile, e da noi i nobili non fanno lavori manuali. Suo padre ha ancora tanti dromedari: la ricchezza tradizionale», sussurra Ibrahim dietro al velo verde dello chech. Il marabutto nelle impronte delle mani sulla sabbia legge fortune future e improvvisi amori sahariani (la "sindrome di Kitty", la protagonista di Il Tè nel deserto di Paul Bowles che decide di rimanere nel Sahara con un tuareg, è ben nota agli affascinanti, e consapevoli, uomini blu). Nel cielo le stelle ci sono ormai tutte, e sembrano vicinissime. Nella luce limpida dell'alba il profilo cupo dell'Amsak (o Messak) Settafèt, l'altopiano Nero, e la sua continuazione verso sud-ovest l'Amsak Mellèt, l'altopiano Bianco, chiudono l'orizzonte in un panorama marziano di pietre d'arenaria sgretolate dal vento e dalla sabbia. Ma nel mezzo di questa sterile hammada bucapneumatici che pare senza uscite, si apre un dedalo di oued, di letti di fiumi scomparsi, che raccontano la storia di un altro Sahara, verdissimo, fertile e abitato, travolto dal deserto "solamente" 4000 anni fa. Sui fianchi delle ripide falesie che costeggiano oggi i loro corsi pietrificati, come su gigantesche tavolozze di arenaria, gli uomini della preistoria hanno scolpito i loro riti magici, la loro idea di Dio e la loro vita quotidiana di cacciatori paleolitici e, successivamente, di pastori nomadi neolitici, in una savana lussureggiante, piena d'acqua e di animali. Oltre 50 mila graffiti in circa 500 grotte stazioni e ripari compongono un safari d'arte tra elefanti dalle grandi orecchie alla Dumbo (In Galguein), mandrie di bufali dalle corna ricurve, cacciatori con la testa di sciacallo che catturano un antilope, misteriose figure maschili con il sesso smisurato (Al-Aurer), struzzi, gazzelle, rinoceronti, ippopotami e branchi di giraffe in fuga (In-Abater). La sequenza più impressionante è quella di Mathendusc: uno zoo di pietra lungo 300 metri con alcuni capolavori assoluti come il coccodrillo che protegge il suo piccolo sotto la pancia, la giraffa catturata dalla trappola a raggiera (i tuareg a caccia usano ancora oggi lo stesso sistema) e i"gatti mammoni", le silhouette di due felini danzanti incise come in uno stemma araldico su un masso nel punto più alto del oued. Le pitture rupestri invece, insieme con altre centinaia di incisioni, bassorilievi e graffiti, si nascondono nelle spaccature della roccia tra gli uidan del Tadrart Akakus, il massiccio di arenaria dichiarato nel 1985 dall'Unesco World Cultural and Natural Heritage. Dopo le piste sconnesse e i panorami desolati degli Amsak e l'ottovolante di dune dell'erg di Uan Kasa, l'area protetta lunga 150 chilometri e profonda circa 45, naturale continuazione del massiccio del Tassili algerino, sembra un immenso giardino zen posato da un gigante su mare di polvere d'oro. Nel corso dei millenni, lo smeriglio dei granelli di sabbia portati dalle folate di ghibli, l'acqua, le piogge e la forte escursione termica dal giorno alla notte hanno inventato atolli di pietra rossa, faraglioni a picco, archi grandiosi, funghi colossali, profili di esseri mostruosi, muraglioni, torri e facciate di palazzi inesistenti che ricordano le tombe rupestri di Petra. Gli artisti preistorici hanno lavorato dappertutto, con una precisione del tratto e una sensibilità naturalistica di altissimo livello. Per migliaia di anni - dal 10.000 a.C al III d.C - hanno pestato nei mortai di pietra l'ocra rossa e la fuliggine nera per disegnare i contorni e colorare con le penne degli uccelli le loro opere "che fissavano poi con collanti fatti con albume di uova di struzzo, sangue, urina e, successivamente, caseina del latte" ha rilevato Fabrizio Mori, il paletnologo italiano che ha scoperto nel 1955 questo straordinario museo a cielo aperto, e da allora fino a qualche anno fa ha diretto tutte le missioni dell'università La Sapienza di Roma in collaborazione con gli archeologi libici, nel oued Teshuinat, nel Senaddar e in decine di altri uidian. E ancora le pietre parlano di un paradiso perduto: fiumi in cui arrivavano gli animali selvaggi ad abbeverarsi, cacce grosse, mandrie al pascolo tra i palmeti, storie di dèi e di eroi guerrieri, le corse del leggendario popolo dei Garamanti raccontato da Erodoto con i loro carri trainati da quattro cavalli che sembrano volare sulle praterie. Poi arriva il deserto, sulle rocce dell'Akakus gli ultimi pittori disegnano con pochi tratti schematici la nuova realtà: un nulla color ocra su cui si aggirano dromedari isolati, gli unici animali a poter ormai attraversare questa terra diventata un inferno. È invece un piccolo eden il campo tendato fisso di Dar Auis, l'unico in tutto il Sahara, con veri letti e vera doccia. In una scenografia da 2001 Odissea nello spazio: una valle circondata da un anfiteatro di strambe formazioni rocciose. "Sahara, vento, sabbia, solitudine" diceva Saint Exupéry. Sarà stato l'impatto forte della storia umana e climatica dipinta a Mathendusc, sarà che è l'ultima sera nel deserto, comunque lo spettacolo del tramonto non è il solito rito collettivo. Ognuno se ne va per conto suo, si nasconde dietro un pinnacolo della valle della Luna, dietro al campo, e se ne sta solo coi suoi pensieri. «I tuareg dicono che il tramonto è una finestra sull'anima». Una voce vicina. Un francese un po' strascicato. Due occhi neri e ironici dietro un velo blu. La luna è ormai spuntata. La cena è pronta. Poi tutti in tenda. I tuareg cantano attorno al falò. Nel cassetto del comodino qualcuno ha dimenticato una copia de Il Tè nel deserto.