Akira Kurosawa e la sua epopea feudale

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Akira Kurosawa e la sua epopea feudale
Recensioni cinema e film | Persinsala.it
Silvia Iannello
23 marzo 2010
Cento anni addietro, il 23 marzo del 1910, nasceva a Ōta
in Giappone Akira Kurosawa. Grande regista e produttore,
è considerato uno dei maestri più importanti e acclamati
nel mondo: col suo cinema transculturale e senza tempo
ha influenzato molti registi.
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Attivo sino alla morte (che lo colse a 88 anni il 6 settembre del 1998), nel
1999 uscì postumo – vero e proprio testamento spirituale – il suo ultimo
film “Il compleanno (Madadayo)”, storia crepuscolare del vecchio
professore Uchida, festeggiato dai suoi ex allievi ma «non ancora
(madadayo)» pronto per la morte, che rimanda di anno in anno il suo
appuntamento fatale.
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Kurosawa apparteneva a una nobile famiglia di samurai e fu un uomo colto
e versatile: amò il disegno, la pittura, la letteratura, il teatro (Shakespeare,
in particolare) ma soprattutto il cinema. Dopo essere stato sceneggiatore
e assistente alla regia, nel 1943 esordì con “La leggenda dello judo
(Sugata Sanshiro)” e da allora la sua carriera è stata tutta una lunga
escalation di film superbi, di grandiose epopee e di colossali affreschi che
si ispiravano prevalentemente al periodo feudale dell’impero giapponese
(13°-17° secolo), mescolando mitologia medioevale con immaginario
popolare.
Tra i suoi capolavori è da ricordare soprattutto “Rashōmon” (1950), col
quale vinse il Leone d’oro alla 16ª Mostra di Venezia e un Premio Oscar ad
honorem come miglior film straniero, «film pirandelliano» di un regista
allora praticamente sconosciuto, emblema della relatività di ogni
prospettiva, paradigma dell’impossibilità di ottenere la verità su un evento
in presenza di diversi testimoni; come ha osservato Gianfranco Massetti:
«dramma del moderno relativismo che sfocia nella negazione nichilistica
del valore epistemico della verità». Ha scritto Gianni Canova: «La struttura
narrativa del film si fonda sul contrasto delle versioni opposte dei
personaggi, ognuno dei quali… racconta la propria “verità”, mentre anche
l’anima dell’ucciso viene chiamata a dire la sua. La verità viene a galla, in
una specie di balletto assurdo, grazie a un testimone casuale, e con essa
affiora uno spaccato di menzogne, di cinismo e di bassezza morale…
un’opera di potente suggestione che si traduce rapidamente in un simbolo
incontrastato del cinema nipponico…». “Rashōmon” ha ispirato
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“L’oltraggio” (1964), diretto da Martin Ritt con Paul Newman e Edward G.
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Seguirono altri grandi opere, quali “L’idiota (Hakuchi)” (1951),
rivisitazione del romanzo di Dostoevskij; “I sette samurai (Shichinin no
samurai)” (1954) che vinse il Leone d’argento a Venezia e che ha ispirato
“I magnifici sette” di John Sturges; “Il trono di sangue (Kumonosu-jō)”
(1957) rilettura del “Macbeth”; “Bassifondi (Donzoko)” (1957) tratto da
“L’albergo dei poveri” di Gor’kij; “La fortezza nascosta (Kakushi toride
no san-akunin)” (1958) che ha suggerito il ciclo di “Star Wars” a George
Lucas; e “La sfida del Samurai (Yojimbo)” (1961) che ha improntato così
tanto il film “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone da provocare una
vertenza legale vinta da Kurosawa (disse: «Si tratta di un ottimo film, ma è
il “mio” film»). L’attore-feticcio del regista fu il grande Toshiro Mifune, col
quale realizzò tra il 1948 e il 1965 più di 16 pellicole.
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Dopo aver abbandonato l’epopea storica, si volse con “Dodes’ka-den”
(1970) agli “ultimi della terra”, ai tanti emarginati dalla competitiva e
crudele società giapponese (il pubblico non capì il film, che fu un flop).
Chiamato a Hollywood per girare “Tora! Tora! Tora!“, fu sostituito con
Kinji Fukasaku e arrivò sino a tentare il suicidio. Il successo riprese però
incontrastato col dolente “Il piccolo uomo delle grandi pianure (Dersu
Uzala)” (1975), girato con denaro russo in Unione Sovietica e ambientato
in Siberia (vinse l’Oscar per il miglior film straniero), cui seguirono
“L’ombra del guerriero (Kagemusha)” (1980), storia di un piccolo uomo
riscattato da un grande sogno (prodotto da Francis Ford Coppola e George
Lucas), e “Ran” (1985), film epico e visionario ispirato a “Re Lear”,
considerato il suo capolavoro più maturo. Da ricordare infine – «the last
but not least» – “Sogni (Yume)” (1990), dedicato alla tragedia della
guerra, e “Rapsodia d’agosto (Hachi-gatsu no kyōshikyoku)” (1991),
ispirato dall’orrore nucleare di Nagasaki. Kurosawa è stato insignito di
innumerevoli onorificenze e nel 1990 ha ricevuto l’Oscar alla carriera.
Dotato di uno stile spettacolare ma non retorico, regista classico e
moderno, satirico e tragico, conoscitore delle tecniche del teatro kabuki,
verrà soprannominato «Imperatore (Tenno)» ma i suoi film saranno poco
amati in patria per le «eccessive concessioni al gusto occidentale»,
subendo spesso l’ostracismo dei produttori giapponesi. Ha scritto Gianni
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Canova: «Un grande rapsode… rivela subito una notevole conoscenza del
mezzo e una decisa originalità stilistica… il cinema di Kurosawa… si rivela
anche un cruciale veicolo di comunicazione della storia, del costume e
della cultura del Sol Levante, spianando la strada verso le platee
dell’Occidente ad altri cineasti della stessa generazione…».
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Nel suo articolo “Kurosawa, cent’anni di genio” (La Stampa.it Cinema e
Tv), lo storico del cinema Gianni Rondolino così commenta: «…un grande
artista che seppe coniugare, nel suo cinema per certi aspetti “eclettico”, la
cultura orientale e quella occidentale… Kurosawa, più di altri registi del
suo Paese, seppe dare, non solo del Giappone, ma più in generale
dell’uomo contemporaneo, dei suoi problemi, delle sue ansie e delle sue
illusioni, un ritratto sfaccettato e complesso… il classicismo di Kurosawa…
è in realtà – a saperlo cogliere – una eccezionale chiave di lettura della
nostra natura più profonda.». Nel suo articolo “Il regista venuto dalla
pioggia” (FilmTV), Giona A. Nazzaro ha parlato invece di: «lezione
umanista» da parte di un «tecnico raffinatissimo: robusto come un
contadino, misurato come un samurai».
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