PAOLO ASCAGNI RENAISSANCE 1969

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PAOLO ASCAGNI RENAISSANCE 1969
PAOLO ASCAGNI
RENAISSANCE 1969 - 2006
Quel che segue è un ampio saggio retrospettivo dedicato ad uno dei gruppi più
rappresentativi della straordinaria epoca del «progressive». I Renaissance non sono stati i
più grandi, ma indubbiamente, dal punto di vista della struttura e della forma musicale,
hanno saputo coniugare nel modo migliore (a mio parere con risultati insuperabili) il rock, il
folk e la musica classica, dando vita, negli anni settanta, ad alcuni capolavori imperdibili
per gli amanti dell’Arte delle sette note.
Il saggio è suddiviso in cinque capitoli, che seguono in modo rigorosamente cronologico gli
sviluppi dell’attività del gruppo e delle varie carriere soliste:
1. La prima formazione dei Renaissance (1969-1971)
2. Il gruppo storico e la stagione della grande musica (1972-1980)
3. Il crepuscolo degli dei (1980-1983)
4. I progetti solisti degli ex-Renaissance (1984-1994)
5. Il revival degli anni novanta (1994-1999)
6. Il ritorno di fiamma (1999-2006)
All’interno di ogni capitolo ho riportato tutte le uscite discografiche di mia conoscenza,
indicando sia l’edizione originale su Lp, sia la ristampa su Cd, ovviamente fino a metà anni
ottanta, cioè fino alla scomparsa del 33 giri; dei ‘compact’, peraltro, non sempre ho
segnalato la prima pubblicazione, perché ho preferito indicare quella più facilmente
reperibile sul mercato. Le recensioni, naturalmente del tutto personali, sono ampie ed
articolate (di ogni brano, autori, durata e caratteristiche) solo per quanto riguarda i
Renaissance e gli Illusion, mentre agli albums solisti ho dedicato spazi più succinti,
soffermandomi comunque con maggiore attenzione su quelli più interessanti e significativi.
Come ho già detto, la struttura del saggio è rigorosamente cronologica, per cui lo sviluppo
delle varie carriere soliste non è indicata autore per autore, ma sovrapponendole una
all’altra, in modo da dare conto della loro effettiva contemporaneità. Si tratta di una scelta
che secondo me ha il pregio di presentare la storia del gruppo – e delle sue diramazioni –
passo dopo passo, permettendo quindi di coglierne con maggior immediatezza l’evoluzione
stilistica globale, che ovviamente si esprime non solo nella discografia ufficiale del
complesso, ma anche nelle attività parallele dei singoli componenti, che pertanto devono
essere considerate non fuori contesto, ma nel momento temporalmente specifico.
In questo senso, ho voluto presentare i dischi tenendo conto non del loro anno di
pubblicazione, ma di quello della effettiva incisione; ciò significa, ad esempio, che un ‘live’
uscito nel 1997 ma relativo ad un concerto registrato nel 1977, è stato inserito nel periodo
di riferimento, vale a dire negli anni settanta, tra i due albums in studio del 1975 e del
1978. Comunque, per agevolare la consultazione delle discografie, alla fine del saggio ho
ricapitolato l’elenco dei dischi secondo il metodo ‘tradizionale’, cioè autore per autore, in
una apposita appendice.
Per finire, una doverosa segnalazione bibliografica. Le principali notizie su cui ho costruito
il mio saggio le ho attinte dalla «Enciclopedia della musica rock», volume 2, Giunti (1998);
dalla «Enciclopedia Rock anni settanta», Arcana (1990); da «Progressive», di Cesare Rizzi,
Giunti (1999); da molti articoli tratti da varie riviste musicali; e soprattutto dal magnifico
«The history of Renaissance» di Russell W. Elliot, a cui va la gratissima riconoscenza di tutti
i fans di questo grande complesso.
Non mi resta che augurarvi una buona lettura… ma non prima di avervi ricordato ancora –
è bene sottolinearlo sempre – che se i dati storici sono quelli che sono (e se ci fosse qualche
errore, fatelo sapere), i giudizi di merito sono soggettivi, personali e quindi discutibili. Su
questo, ovviamente, il confronto è aperto; ma sia come sia, viva i Renaissance ed il
Progressive!
1. LA PRIMA FORMAZIONE DEI RENAISSANCE (1969-1971)
La storia dei Renaissance comincia nel 1969, sulle ceneri di un gruppo di tutt’altro orientamento
stilistico, ma di grande valore, i celeberrimi Yardbirds, che videro passare fra le loro fila anche Eric
Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. Due dei componenti storici, il batterista Jim McCarty ed il
chitarrista-cantante Keith Relf, inizialmente decidono di dare vita ai Together, un duo folk
rigorosamente acustico, che pubblica un singolo, Henry’s coming home / Love mum and dad
[Columbia 1968]. Ma in un breve volger di tempo prende corpo l’idea di realizzare un progetto musicale
ben più ambizioso, che spazi dal rock al jazz, dalla musica classica al folk, in sintonia con il
fenomeno emergente del progressive. I due amici chiamano dunque a raccolta il pianista John
Hawken, che con i Nashville Teens ha inciso Tabacco road [London 1964], il bassista Louis Cennamo
(ex Herd), che con i Jody Grind ha inciso l’album One step on [Transatlantic 1969, Repertoire 1995] e la
cantante Jane Relf, sorella di Keith. Il primo album viene pubblicato verso la fine del 1969, ma
essendo composto, come vedremo, da brani piuttosto lunghi o comunque poco commerciali,
successivamente viene affiancato da un singolo, The sea / Island [Island 1969], che per la verità non
ottiene grandi riscontri. Sarà il successo degli anni futuri a favorire le vendite, retrospettivamente,
anche dei primi validi lavori.
“Renaissance” [Island 1969] è prodotto da Paul Samwell Smith, un altro componente degli ex
Yardbirds, e raggiunge il numero 60 delle classifiche inglesi. Chiaramente influenzato dalle radici
colte di Hawken e composto da cinque pezzi quasi tutti firmati dalla coppia Relf-McCarty, si apre
con King and queens (10’59”), un ottimo brano dall’incedere classicheggiante (evidenti i passaggi
‘rubati’, appunto, ad opere classiche), ma innestato su una corposa base rock, con il pianoforte in
grande evidenza. L’unica pecca – a posteriori, però – è la voce maschile, ma solo perchè è destinata,
nel prosieguo dell’album, a non poter reggere il confronto con quella della Relf, come peraltro già si
può intuire dal breve vocalizzo alla fine del pezzo, che sicuramente è uno dei brani migliori dei
Renaissance prima formazione.
Il secondo brano, Innocence (7’10”), inizialmente risulta meno coinvolgente, ma è lo sviluppo
successivo a portarne in alto le quotazioni. Ancora basato sul solido tappeto sonoro del pianoforte,
con interessanti e riusciti cambi di tempo, comprende come variazione tematica il sempre suggestivo
Sogno d’amore di Liszt, inserito in modo esemplare. L’innesto è tanto più gradevole, nella misura in
cui operazioni del genere, com’è noto, non di rado dànno risultati tutt’altro che azzeccati.
Island (6’01”) è la prima versione, quella più lunga, del successivo 45 giri d’esordio. Si tratta di un
brano più convenzionale, ma è la prima volta che si può ascoltare la voce di Jane Relf, ed è subito
vittoria: incantevole, suadente, raffinatissima. Con una vocalist del genere, anche una canzone tutto
sommato normale finisce col somigliare ad un capolavoro, e peraltro la coda finale, uno strumentale
per pianoforte basato sulla riproposizione di alcuni noti brani di musica classica, è davvero brillante.
Discorso analogo per Wanderer (4’06”), l’unico pezzo firmato Hawken-McCarty, che inizia con una
fuga per clavicembalo dai toni epico-cavallereschi, per poi trasformarsi in uno sviluppo
medievaleggiante che si avvale dell’enfatico cantato della Relf. Il risultato è davvero da brividi!
Bullet (11’27”), invece, rappresenta un brusco cambiamento di tono, rispetto a tutto l’album. Brano
dai contenuti difficili, basato più sui suoni che sulle melodie, alterna passaggi jazzistici a momenti di
tipica sperimentazione rock-avanguardistica, con alcune brusche cesure peraltro ben riuscite.
L’intermezzo di armonica, su una base blues, è un vero lampo di genio, ma è verso la metà del pezzo
che comincia la parte più complessa e sperimentalistica, decisamente poco orecchiabile. Si tratta
certamente di una chiusura disomogenea per un album dalle sonorità pulite e classicheggianti; ma
per chi ama spaziare in tutte le latitudini del progressive, il risultato è di un bello sconcertante.
Bullet, insomma, merita di essere riascoltato con molta cura, ed altrettanta pazienza.
Nella versione su Cd [Repertoire 1995] è stato aggiunto il primo singolo del gruppo, The sea (3’05”), una
canzone che ancora una volta si basa soprattutto sulla notevole voce della Relf. Il retro del 45 giri è
la già ascoltata Island (3’37”), che rispetto alla versione del Lp, per ragioni di brevità, è stata tagliata,
ma proprio a discapito della coda strumentale, che tutto sommato, come abbiamo già detto,
probabilmente è la parte migliore del pezzo.
Val la pena di segnalare, infine, un’ulteriore edizione su Cd (con copertina differente), “Innocence”
[Mooncrest 1998], che oltre a riprodurre tutto l’album ed i due lati del singolo, contiene altri quattro
pezzi. Prayer for light (5’27”) è il primo dei due brani composti da Jim McCarty per la colonna
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sonora del film Schism, del 1971. Si tratta di una canzone d’atmosfera, dall’incedere ripetitivo ma
delicato, basato sulla ricerca di sonorità coinvolgenti, su cui espandere la vocalità della cantante; non
è in stile Renaissance, ma è gradevole. Walking away (4’20”) è invece un lento in forma canzone,
piacevolmente convenzionale, adattissimo a chi ama gli arpeggi eterei della chitarra acustica; lo stile,
comunque, ricorda più che altro il passato di McCarty negli Yardbirds.
Anche gli altri due pezzi non c’entrano nulla con i Renaissance, e peraltro sono piuttosto scadenti.
Shining where the sun has been (2’53”), oltretutto registrato in modo assai approssimativo, è una
canzoncina di poche pretese firmata Relf-McCarty, mentre All the falling angels (5’30”), sempre in
stile Yardbirds, sarebbe di altrettanto scarso interesse, se non fosse per il fatto che dovrebbe trattarsi
dell’ultima incisione di Keith Relf, prima della tragica morte, avvenuta nel 1976. Non si tratta,
comunque, di un inedito, poiché esso era già stato inserito in Enchanted caress (1996) degli Illusion,
di cui parleremo più avanti.
Per finire, una piccola curiosità. I cinque brani del Lp d’esordio sono attribuiti quasi tutti a Keith Relf
e Jim McCarty, e così risulta anche dalla prima versione su Cd. In “Innocence”, invece, sono
giustamente segnalati come autori anche Hawken (per tutti e cinque) e Cennamo (eccetto il primo).
Il complesso parte per un lungo tour, e comincia a preparare il materiale per il secondo album, che
verrà pubblicato solo in Germania e in Francia. Betty Thatcher, una poetessa della Cornovaglia
amica di Jane Relf, inizia a scrivere i testi per alcune composizioni, ma proprio mentre il gruppo sta
già cominciando a sfaldarsi; era stata lei, peraltro, ad inviare a McCarty alcune sue poesie, che l’ex
Yardbird, vivamente colpito, era intenzionato a musicare. Lo stesso McCarty, resosi conto della
precarietà della situazione, contatta l’amico Michael Dunford – un chitarrista e compositore che
aveva suonato con Hawken nei Nashville Teens – e decide di defilarsi quel tanto che basta per
potersi concentrare, insieme a Keith Relf, sulla stesura dei nuovi pezzi. Peraltro, secondo un’altra
versione, fu Hawken a presentare Dunford al gruppo; ma in mancanza di verifiche, quel che
importa è che, senza che nessuno dei protagonisti, ovviamente, possa ancora rendersene conto, si
è consumato il momento cruciale della storia dei Renaissance.
Ricorda Dunford in proposito che i due ex Yardbirds erano ormai entrati in una fase di ‘stanca’, “e
volevano fare altre cose”. Ad un certo punto, infatti, diventa evidente che il materiale già pronto è
insufficiente per completare l’album; ci pensa lo stesso Dunford con il brano Mr. Pine, per il quale
chiama al basso Neil Korner (anch’egli ex Nashville Teens), alla batteria Terry Slade (più tardi nella
George Hatcher Band) ed al canto Terry Crowe, mentre Past orbits of dust viene registrato dalla
formazione ufficiale ad eccezione di Hawken, temporaneamente sostituito dal pianista Don Shin,
un valido session-man che aveva suonato insieme a Cennamo nella vecchia band di James Taylor.
La situazione, quanto mai precaria, esplode appena prima della partenza per il tour europeo di
settembre. Cennamo e Keith Relf sono ormai interessati ad un genere più orientato verso l’hard
rock, mentre McCarty si lascia vincere anche dalla sua ben nota avversione ai voli aerei. La nuova
formazione è dunque composta da Jane Relf, Hawken, Dunford, Korner, Slade e Crowe, ma a metà
tour, cioè verso fine ottobre, la Relf viene sostituita da una nuova cantante, l’americana Binky
Cullom.
Hawken non gradisce (e quindi viene ingaggiato un nuovo tastierista, John Tout), ma è anche per
altri problemi che decide di unirsi agli Spooky Tooth, per poi passare ai Vinegar Joe e suonare in
Under open skies [Island 1971] di Luther Grosvenor, in One house left standing [Island 1971, Blueprint 1997]
di Claire Hammill ed in Lifeboat [Island 1972] dei Sutherland Brothers. Successivamente entra nei
Third World War ed incide Second [Track 1972, Repertoire 1995], per poi approdare ai celeberrimi
Strawbs.
Anche Cennamo, per la cronaca, entra in un grande gruppo, cioè i Colosseum, partecipando alla
registrazione di Daughter of time [Caste 1970, 1998], per poi fondare gli Steamhammer, con i quali
realizza Speech [Brain 1971, Repertoire 1992], ed infine i Bogomas. Jane Relf, prima di scomparire per
alcuni anni, tranne sporadiche apparizioni televisive, pubblica il singolo Without a song from you /
Make my time pass by [Decca 1971], mentre McCarty, dal canto suo, pur non avendo partecipato al
tour europeo, continua a tenere i contatti con i Renaissance.
“Illusion” [Island 1971 - Repertoire 1995], prodotto da Keith Relf e nobilitato graficamente dai suggestivi
disegni di Paul Whitehead, è un album più permeato da venature moderne (rock e qualcosa di jazz-
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rock) rispetto ai toni classicheggianti del Lp d’esordio. Love goes on (2’49”) è una canzone di Keith
Relf con tanto di coretti che, anche dopo alcuni ascolti, mantiene sempre il suo incedere un po’ da
filastrocca; si tratta, comunque, di un pezzo di buona fattura, soprattutto grazie ad un azzeccatissimo
stacco intermedio.
Il successivo Golden thread (8’14”), a firma McCarty-Relf, è invece un brano di ben altro spessore,
con un’introduzione di pianoforte come al solito delicata e coinvolgente. Il cambio di ritmo si avvale
in modo eccellente della splendida voce della Relf, il cui approccio da corista apre bene la strada alla
parte cantata da McCarty; molto ben riuscito è il ritorno, nei due minuti finali, del pianoforte a solo,
che stempera il tutto verso uno sfumato lento e sognante.
Love is all (3’38”) è un’altra canzone dallo standard normale, che rischierebbe di apparire monotona
se non fosse per l’ottimo arpeggio del pianoforte di Hawken (tanto per cambiare!); bisogna
sottolineare, però, che si tratta del primo pezzo, musicato da McCarty, i cui testi sono firmati dalla
poetessa Betty Thatcher, destinata a svolgere un ruolo determinante nel grande successo dei
Renaissance del futuro. Mr. Pine (6’58”) è invece un brano atipico, ma per i motivi che abbiamo già
spiegato, cioè per la presenza di una formazione totalmente diversa. Primo brano firmato da
Dunford, nasce come una ballata in stile rinascimentale, che sfuma per passare poi ad un bel gioco di
tastiera, sul quale si innestano gli altri strumenti per una specie di jam-session, a cui, dopo un nuovo
sfumato, segue la ripresa del tema iniziale. I passaggi sono un po’ bruschi e il pezzo dà quindi l’idea
di due cose ‘appiccicate’ assieme; ma tutto sommato anche questa forzatura racchiude un certo
fascino. Mr. Pine, insomma, ci presenta un Dunford ancora acerbo, ma indubbiamente lascia anche
intravedere e presagire la grande classe di un musicista con la m maiuscola.
Face of yesterday (6’04”), firmata da McCarty, è un’altra composizione interamente giocata sul
pianoforte, lenta e trasognata, il cui giudizio (lo ammetto) difficilmente può essere sereno, perché la
voce della Relf è come al solito ammaliante, tale da coprire l’eccessiva dilatazione di un tema che si
ripete senza particolari variazioni. In compenso Past orbits of dust (14’38”), di McCarty-RelfThatcher, è il pezzo più spumeggiante dell’album. L’inizio rockeggiante mette subito in risalto il
tocco più corposo del pianoforte elettrico di Don Shin, che in alcuni passaggi marca i tempi in stile
quasi jazzistico. E’ per questo che, a differenza del pezzo precedente, la sua notevole lunghezza non
procura alcun senso di ripetitività, a patto, ovviamente, di prepararsi all’ascolto con un approccio,
appunto, predisposto alle coordinate stilistiche del jazz. In definitiva, dunque, anche il finale di
questo album, come in quello d’esordio, è affidato a sonorità più introverse rispetto alle
caratteristiche generali del Lp, anche se nel caso di Illusion si è trattato più di una ‘necessità’ che non
di una scelta, conseguenza inevitabile dei continui cambi di formazione e della tormentata stesura
della scaletta dei brani.
Come epitaffio della formazione originale dei Renaissance, è il caso di segnalare l’unico “ricordo”
della dimensione live del gruppo, un compact disk pubblicato oltre trent’anni dopo con il titolo Live
and direct [Spiral 2002]. L’album contiene quattro brani dal vivo, eseguiti il 6 marzo 1970, di cui uno
assolutamente inedito, No name rage, della durata di ben 14 minuti. Gli altri pezzi sono invece
incisioni di studio (1968-1976), in forma canzone e di scarso valore, ma importanti dal punto di
vista collezionistico: Try believing, ad esempio, risale al dicembre 1968, ed è una registrazione di
Keith Relf e Jim McCarty che probabilmente rappresenta il primo stadio del futuro progetto
Renaisance. Esiste per la verità un altro disco analogo, Off shoots [TNT Studio 2002], ma si tratta di un
bootleg introvabile, di cui so solo che è strutturato come il precedente (metà dal vivo, metà in
studio).
2. IL GRUPPO STORICO E LA STAGIONE DELLA GRANDE MUSICA (1972-1980)
Il secondo album è ancora sul mercato, ma il complesso ormai è già a pezzi. Il manager Jon
Michelle cerca quindi di darsi da fare, insieme a Dunford e McCarty, per ingaggiare nuovi musicisti,
anche tramite alcuni annunci sul Melody maker. Tra le varie risposte arriva anche quella di Annie
Haslam, una giovane di Bolton, Lancashire, dotata di una straordinaria estensione vocale (cinque
ottave). “Quando cominciai a cantare – ricorda la Haslam – copiavo Joan Baez, ma volevo trovare
un mio stile personale. Fui incoraggiata da un amico di famiglia a prendere lezioni di canto, e
studiai da una cantante d’opera, Sybil Knight”. Con alle spalle, dunque, rigorosi studi classici, la
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vocalist trova lavoro a Londra come figurinista ed entra in un gruppo di cabaret del West End,
dopo aver frequentato una scuola di arti figurative della Cornovaglia, dove, guardacaso, aveva
conosciuto la solita Betty Thatcher.
All’audizione sono presenti McCarty, Dunford e Keith Relf. “Comprai il primo album – prosegue la
Haslam – e lo imparai tutto. Mi chiesero di cantare ‘Island’ e ritennero che la mia voce fosse
esattamente quel che stavano cercando, per cui il giorno dopo il posto era mio. Ero estasiata: da
quel momento la mia vita cambiò completamente”. Dunford, in particolare, ne rimase folgorato.
“Fu davvero una felice combinazione, una grande fortuna, che io ed Annie ci incontrassimo. C’è un
elemento folk nella sua voce e talvolta anche nella costruzione della musica, ma invece di essere
un duo tutto folk di chitarre o qualunque cosa, noi ci mettavamo un pizzico di rock in più [..] Annie
ha la voce più bella e meravigliosa… Non esiste un’altra voce come la sua, e mai ci sarà, io credo.
Anche ascoltando le cose che fa adesso – è sempre lei!”.
La Haslam ha dunque superato brillantemente l’audizione, ed il nuovo tour la vede subito sul palco
insieme a Michael Dunford (chitarra), Neil Korner (basso), Terry Slade (batteria), Terry Crowe
(voce) e John Tout (tastiere). Quest’ultimo, nel 1971, ha inciso la parte di pianoforte di Crippled
inside, una delle canzoni del celeberrimo album Imagine di John Lennon; per la cronaca, nello
stesso anno ha suonato l’organo nel singolo Throw down the sword dei Wishbone Ash,
successivamente inserito nel 33 giri Argus [Decca 1972 - Mca 1991].
Il ruolo di bassista viene però rilevato da diversi musicisti. In un breve arco di tempo, si alternano
infatti Danny McCullough, Frank Farrell ed il grande John Wetton; la situazione, dunque, è ancora
piuttosto precaria. Tra il 1971 ed il 1972 a fare da managers o agenti sono John Sherry e Ed
Bicknell (futuro produttore dei Dire Straits), ma soprattutto Miles Copeland, che aveva conosciuto
Tout, alcuni anni prima, a Beirut, quando suonava nei Ruperts People; ad un certo punto è proprio
Copeland a prendere in mano la situazione, visto che Keith Relf ormai si sente sempre meno
interessato (nel 1972 produce, canta e suona il basso in The dark side of the moon [Dandelion 1972]
dei Medicine Head), McCarty va a corrente alternata e Dunford vorrebbe dedicarsi soprattutto alla
stesura dei pezzi.
Dopo diverse audizioni, al posto di Korner viene scelto definitivamente il bassista Jonathan Camp,
mentre a rimpiazzare Terry Slade viene chiamato il batterista Terence Sullivan; l’ennesima
formazione si concentra in due settimane di massacranti prove di studio, con alla chitarra Mick
Parsons, che purtroppo perde l’appuntamento con la storia della musica pochi giorni prima di
iniziare le registrazioni, a causa di un tragico incidente d’auto. Il sostituto, necessariamente
provvisorio e recuperato in fretta e furia, è Rob Hendry, una delle ennesime meteore del mondo
dei Renaissance. Nel nuovo disco, ultimato fra giugno e luglio, compaiono ancora due pezzi di
McCarty, che per i testi si è avvalso delle liriche della poetessa Betty Thatcher; stessa cosa decide
di fare Dunford, inviando i provini delle sue composizioni in Cornovaglia. E’ da quel momento che
inizia una delle collaborazioni più prolifiche della storia del rock, che peraltro si svolgerà quasi
sempre per posta, e non di persona.
“Noi stavamo lavorando duro – ricorda Dunford – ma il gruppo cambiava continuamente [..] Io feci
un passo indietro e decisi di concentrarmi di più sulla composizione insieme a Betty Thatcher [..]
Cominciammo a lavorare su ‘Prologue’. Io non vi suonai, ma continuavo ad andare avanti e
indietro per lo studio con la mia chitarra acustica e facevo ascoltare al gruppo le mie canzoni [..] Il
brano d’apertura non aveva un testo, e fu cantato da Annie nello stile noto come vocalese”. Fu una
decisione della Haslam, come lei stessa conferma, perché “il pezzo aveva una tonalità molto alta e
non suonava bene con delle parole”.
I primi Renaissance avevano utilizzato ampiamente la musica classica, ed “è esattamente quello
che noi facemmo in ‘Prologue’ – prosegue Dunford – ma imprimendo il nostro marchio sulla
musica. Sebbene usassimo pezzi classici, noi partivamo dal nostro materiale, invece di limitarci ad
adattare semplicemente le opere dei grandi compositori”. E progressivamente, puntualizza il
chitarrista, “noi aggiungemmo altri elementi: i molti ‘lati’ folk delle cose, il jazz americano e latino,
un sacco di influenze diverse”.
“Era davvero eccitante – ribadisce Annie Haslam – Chiamavo mamma e papà in Cornovaglia per
fargli ascoltare i pezzi. ‘Senti questo, senti quello!’ [..] Arrivò Francis Monkman dei Curved Air ed
eseguì un assolo di sintetizzatore in ‘Rajah Khan’ e noi portammo là un indiano che indossava una
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lunga veste bianca, che si sedette sul pavimento a suonare le tablas; e bruciava l’incenso mentre
suonava. Fu eccezionale, e si trattò davvero di una session memorabile”. Anche in questo pezzo la
cantante decise di utilizzare la tecnica del vocalese. “Fui ispirata a cantare in quello stile ascoltando
Howard Werth degli Audience. Oddio, io amavo la sua voce! Noi facemmo alcuni spettacoli con gli
Audience, e lui aveva una tonalità speciale nella voce”.
“Prologue” [Sovereign/Emi 1972 - Repertorie 1995], prodotto da Miles Copeland e dagli stessi Renaissance,
con la grafica del celeberrimo Studio Hipgnosis, si apre con il brano omonimo (5’35”) di Dunford,
uno strumentale che è sicuramente uno dei capolavori del gruppo. Il primo minuto fotografa
esemplarmente lo stile dei nuovi Renaissance, con un attacco che infatti denota subito il tipico
incedere dello stile pianistico di Tout; ma se Prologue rivela solide basi classiche (evidenti in tutto il
brano i ‘prestiti’ di Bach e Chopin), sottolinea anche una maggiore ritmicità rispetto alle tonalità più
compassate ed eteree di Hawken. E’ però soprattutto la nuova cantante a sbalordire, anche perché
non era facile prevedere una degna sostituta della bravissima Jane Relf; ed invece i vocalizzi di
Annie Haslam sono di una potenza e di una bellezza indescrivibili, capaci come sono di passare da
toni soffusi a vette da brivido, denotando una estensione vocale davvero impressionante ed
inimitabile.
Kiev (7’36”), di McCarty-Thatcher, si avvale anch’esso di partiture pianistiche del repertorio
classico, in questo caso di Rachmaninov; meno coinvolgente del precedente, si segnala comunque
per una serie di passaggi di tempo, e di ritmo, interessanti e ben distribuiti. In Sounds of the sea
(7’06”), il primo pezzo a recare la storica sigla Dunford-Thatcher, l’iniziale sciabordio delle onde del
mare lascia il posto ad una introduzione pianistica che permette a Tout di dimostrare di saperci fare
anche con le atmosfere più lente e rilassate. Peraltro è questo il brano in cui la voce della Haslam può
rimanere in primo piano dall’inizio alla fine, e ciò conferma alla grande l’ottima impressione
suscitata dalle sue doti canore. Il canto è fluido e sognante, ed i pochi acuti rendono ancor più
incantevole l’effetto globale. Se in Prologue l’impatto epidermico era più marcato, in questo pezzo
emerge in modo più rigoroso lo spessore non solo emozionale della sua prepazione musicale.
Spare some love (5’08”), ancora a firma del magico duo Dunford-Thatcher, è una canzone piuttosto
convenzionale, salvata in parte da una bella variazione tematica a metà solco; in Bound for infinity
(4’21”), di McCarty-Thatcher, è invece Tout a deliziarci con un bel lavoro di pianoforte, dai toni
soffusi, su cui la Haslam può innestare la sua splendida voce. In entrambi i casi, però, bisogna
riconoscere che le eccellenti qualità della cantante sono tali da abbellire in modo determinante due
composizioni altrimenti di livello poco più che discreto.
Tutt’altra atmosfera si respira in Rajah Khan (11’31”), uno strumentale firmato dal solo Dunford. Al
sintetizzatore c’è Francis Monkman, in quel periodo componente dei Curved Air. Il pezzo è
strutturalmente il migliore del disco, innanzitutto per la maggiore attenzione alla parte musicale (a
volte con qualche innesto di tipo ‘simil-sperimentale’), ed inoltre per la sua dilatazione temporale,
che permette di esplorare sonorità diverse dalla standard abituale; il pianoforte, ad esempio, è
relegato in un ruolo meno dominante. Ma anche la Haslam continua a convincere, anche se in questo
brano deve tralasciare le predilette atmosfere eteree, a favore di vocalizzi più corposi e vagamente
inquietanti; veramente eccellente, in particolare, è l’impasto musica-voce nelle diverse riprese del
celeberrimo tema conduttore del Bolero di Ravel.
Il singolo promozionale, Prologue / Spare some love [Sovereign 1972], non vende granchè, ma il
gruppo comincia ad essere molto apprezzato nei circuiti del progressive, anche se si rende ancora
necessario un piccolo aggiustamento stilistico. La Haslam non apprezza “quel genere di suono
elettrico” usato, ad esempio, in Spare some love, ritenendolo inadatto allo stile dei Renaissance,
per i quali considera preferibile una ulteriore sterzata verso sonorità più acustiche. “Rob Hendry
era un grande chitarrista – ricorda la cantante – ma io sentivo che non andava bene per noi”. La
formazione storica dei Renaissance sta quindi per raggiungere la sua completezza, ma nel 1973
Jim McCarty è ancora nel giro, anche se con Dave Greene (chitarra e voce), Bill Russell (basso) e
Craig Collinge (batteria, ex Manfred Mann) forma il gruppo degli Shoot, con il quale pubblica On
the frontier [Emi 1973], che peraltro in uno dei pezzi, Old time religion, propone al pianoforte, come
ospite, John Tout.
I Renaissance sono impegnati, per tutto l’anno, a promuovere Prologue, e nel lungo tour di
supporto al posto di Hendry è subentrato il chitarrista Peter Finer. Il materiale per il nuovo Lp è già
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in fase di preparazione, e dopo aver ascoltato il disco degli Shoot, decidono di inserirvi una
versione del brano che dà il titolo all’album, On the frontier, composta da McCarty insieme alla
Thatcher. Il nuovo album rappresenta ormai, senza sbavature, lo stile inconfondibile dei
Renaissance: una riuscita miscela di rock, folk e jazz innestata su composizioni ariose e di chiara
matrice classicheggiante. Anche la formazione si è stabilizzata sul nucleo che ne costituirà la frontline più nota, vale a dire Annie Haslam (voce), John Tout (tastiere), Michael Dunford (chitarra),
Jon Camp (basso) e Terry Sullivan (batteria). Alle registrazioni per il nuovo album partecipa anche
un’orchestra, altro elemento caratterizzante dello stile Renaissance, i cui arrangiamenti si sposano
alla perfezione con la scelta definitiva per le sonorità più acustiche della chitarra, come voleva la
Haslam.
“Noi tutti capimmo – ammette Dunford – che invece di cercare di tenere nella ‘band’ la chitarra
elettrica, sarebbe stato un pochino diverso ed un po’ più eccitante esser capaci di cambiare e
scegliere un timbro percussivo più dolce”. Come ospiti vengono chiamati Richard Hewson, in
qualità di arrangiatore degli archi (“fu grande!”, dice Dunford) ed Andy Powell dei Wishbone Ash,
per le integrazioni di chitarra elettrica in Ashes are burning, il brano scelto per intitolare tutto il
disco, uscito ad ottobre. Il testo, per la cronaca, si ispira ad una esperienza di tipo mistico vissuta
dalla Thatcher durante uno dei cosiddetti casi di ritorno dalla morte, probabilmente durante uno
stato di coma; e visto che ci siamo, val la pena di ricordare come son nate anche le liriche di
Carpet of the sun, secondo le spiegazioni della stessa autrice. “Un bambino che viveva in casa mia
mi domandò se l’erba del giardino fosse un tappeto. ‘Oh si – io dissi – E’ il tappeto del sole’, ed io
scrissi la canzone per quel bambino”.
Infine, un’ultima precisazione: la partecipazione di Dunford a questo album è a pieno titolo, una
particolarità da sottolineare non perché dall’ascolto il suo ruolo non emerga con chiarezza (anzi),
ma in quanto le note di copertina, per errore, lo indicano ancora una volta come esterno al
gruppo.
“Ashes are burning” [Sovereign/Emi 1973 - Repertoire 1995], prodotto da Dick Plant e dai Renaissance, è un
album dai toni epici, che porta alla piena maturità il già elevato standard del disco precedente,
facendo capire agli amanti della musica – nel senso di arte musicale – che è davvero nata una nuova
stella nel firmamento del progressive. L’iniziale Can you understand (9’49”) è uno dei grandi
classici del gruppo, costruito su una splendida apertura di pianoforte, una cavalcata maestosa e
spumeggiante a cui segue una lenta ballata folk, in cui emergono la chitarra acustica di Dunford e,
naturalmente, la voce cristallina della Haslam, che ripete il ritornello con un arcaico e fascinoso
accento, tale da far dimenticare a tutti la pronuncia che ci avevano insegnato a scuola i nostri prof
d’inglese (ricordate quell’inaspettato can iu andarstand?). Ottimi gli interventi orchestrali e la
ripresa finale del pianoforte, che termina il pezzo veramente alla grande. Insomma, un capolavoro.
Let it grow (4’13”) è una tipica canzone alla Haslam, molto romantica, fatta apposta per la sua voce
eterea, con un bel lavoro di supporto del pianoforte, mentre On the frontier (5’54”) è l’unico brano
firmato da McCarty e dalla Thatcher (tutti gli altri sono di Dunford-Thatcher); peraltro sarà l’ultima
volta che il nome dell’ex Yardbird comparirà in un disco dei Renaissance seconda versione. In effetti
On the frontier di McCarty mantiene il marchio inconfondibile, anche se onestamente il pezzo non è
eccezionale; il risultato è però gradevole, soprattutto grazie ad alcune variazioni sul tema ben
eseguite dal solito pianoforte di Tout, che ad un certo momento duetta piacevolmente con la chitarra.
Bella anche la coda.
Carpet of the sun (3’31”) è invece un altro pezzo forte del repertorio dei Renaissance, pur essendo in
forma di breve canzone. Il fatto è che si tratta di un gioiello veramente stupendo, in cui
l’abbinamento fra tema, voce e arrangiamento (più il violino di Richard Hewson) è a dir poco
perfetto. Dovendo usare una definizione sintetica, si può solo dire: indimenticabile.
La successiva At the harbour (6’49”) parte con una introduzione di pianoforte, dalle evidenti
reminiscenze classiche, che sembra annunciare un’atmosfera un po’ greve, mentre in realtà prepara
bene il terreno per l’attacco della voce della Haslam, che immediatamente ci porta ad un canto
malinconicamente dolce, a tratti sofferto, di forte suggestione emotiva. Il finale recupera il tema
dell’ouverture, ma l’innesto vocale conferisce al tutto un geniale sprazzo di poesia, naturale preludio,
peraltro, al ‘pesante’ tocco finale del pianoforte.
Infine, Ashes are burning (11’21”) è un altro un classico dei Renaissance. Il motivo di base è
costruito su un azzeccato equilibrio tra orecchiabilità e raffinatezza, e si snoda in una serie ben
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assemblata di variazioni tematiche, tra le quali spicca l’ennesima fuga classico-rock del pianoforte (e
chi se ne intende scoprirà anche le note della Cathedrale engloutie di Debussy). La ripresa del
cantato, sostenuta dai soli accordi di tastiera, è un capolavoro di bravura, dagli effetti veramente
suggestivi, su cui si innerva il bel assolo di chitarra elettrica di Andy Powell, per un crescendo che
termina sfumando. Un vero coup de theatre da dieci e lode, per un album di altissimo livello.
Negli Stati Uniti il disco rimane in graduatoria per quattro settimane e raggiunge il n. 171 delle
classifiche di vendita. I cinque componenti del gruppo sono entusiasti, soprattutto per l’innesto
degli arrangiamenti orchestrali. “Noi utilizzammo una sezione di archi a ventidue elementi – ricorda
Dunford – [..] Fu davvero una grande emozione, perché noi avevamo sempre desiderato lavorare
con una orchestra [..] Sentivamo che era quella la strada da imboccare per il futuro. Negli anni
successivi noi facemmo diversi concerti dal vivo con l’orchestra. In anni più recenti noi cambiammo
molto, e ci allontanammo da quel ‘sound’, il che fu probabilmente un grosso errore! Ma fu davvero
una ventata di aria fresca quando noi per la prima volta incidemmo con l’orchestra”. Conferma la
Haslam che “la cosa più incredibile di quell’album fu quando venne l’orchestra [..] Io ero vicino a
John Tout ed avevamo le lacrime agli occhi, perché c’era un’orchestra che stava suonando la
nostra musica!”.
L’album, in effetti, regala ai Renaissance una buona fama da gruppo di nicchia, pur non riuscendo
a fare del singolo, Carpet of the sun / Bound for infinity [Sovereign 1973], un successo commerciale,
nonostante che le qualità ci siano tutte. Le cose, comunque, si mettono bene in America, dove il
complesso sbarca per la prima volta nel 1974. “Eravamo sopraffatti dalle reazioni al nostro primo
concerto, in un ‘colllege’ di Brooklyn – prosegue Dunford – Ed eravamo stupiti che la gente
conoscesse le nostre canzoni [..] Ricordo anche uno spettacolo per la Radio City Music Hall di New
York, dove Betty Thatcher venne a vederci suonare davanti a seimila persone. Facemmo tre notti
su un immenso palcoscenico, e ricordo che era Betty a fare le presentazioni”.
Proprio nel 1974 il manager del gruppo, Miles Copeland, fonda una propria etichetta discografica,
la BTM, e mette sotto contratto anche i Renaissance per la realizzazione del nuovo album; il
singolo di supporto è Mother Russia / I think of you [Sire 1974], con il lato-a, ovviamente, in
versione ridotta (poco più di tre minuti).
“Turn of the cards” [Btm 1974 - Repertoire 1994], prodotto da Dick Plant, Richard Gottehrer ed i
Renaissance, si apre con Running hard (9’34”), composto da Dunford e dalla Thatcher, come del
resto tutti i brani dell’album. Che si tratti del capolavoro assoluto dei Renaissance, è un mio giudizio
soggettivo; che rappresenti comunque uno dei capolavori del gruppo, è invece un fatto del tutto
oggettivo. Strutturato come Can you understand, si apre con una cascata di accordi del pianoforte,
dagli evidenti riferimenti classici (le Litanies di Jehan Alain), inanellando una serie di variazioni
tematiche che, dopo lo stacco della batteria, lancia la voce della Haslam in una melodia trascinante,
ben sostenuta da arrangiamenti orchestrali soffusi ma efficacissimi. La ‘rincorsa’ delle voci, a metà
brano, fa da apripista ad un pirotecnico duello fra pianoforte ed orchestra, uno dei massimi vertici del
prog-orchestrale di tutti i tempi. Il finale comincia con la riproposizione rallentata della parte cantata,
a cui segue una coda orchestrale in gran spolvero, che riesegue nuovamente il leit-motiv del brano,
con uno sfumato lento a dir poco emozionante. Non esagero, Running hard è semplicemente
perfetto.
La successiva I think of you (3’05”) è una canzone che serve in modo evidente da stacco; ben
strutturata e piacevole, come al solito si avvale del ‘valore aggiunto’ della voce della Haslam, che
certamente la fa diventare molto più intrigante. Con Things I don’t understand (9’29”) torniamo
invece allo standard del gruppo, con un ritornello che per la verità ricorda qualcosa di già sentito. Il
primo intermezzo è di ottima fattura, con i vocalizzi della Haslam assolutamente determinanti per
dare la giusta sterzata al brano; il suo ruolo dominante, peraltro, si conferma anche più avanti,
quando la cantante ci delizia con un’altra serie di vocalizzi veramente suggestivi, tale da farci
riascoltare la ripresa del cantato come se fosse una cosa totalmente diversa. Nel finale Tout introduce
uno dei temi della Scheherazade di Rimsky-Korsakov; visto quel che sarebbe successo l’anno dopo,
vien proprio voglia di parlare di un presagio. Ma parapsicologia a parte, e rimanendo nell’ambito di
Things I don’t understand, è indubbio che se all’inizio pensavamo di trovarci di fronte a qualcosa di
scontato, alla fine dobbiamo ammettere di esserci sbagliati. Ancora una volta, grandi!
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Black flame (6’25”) è un lento in stile folk, molto coinvolgente, una canzone malinconica che però,
ad intervalli regolari, incorpora in sé come una sorta di scatto di orgoglio, e di epico romanticismo.
La variazione tematica centrale è di alta classe, perfetta nel suo ridare corpo all’arpeggio introduttivo
della chitarra, crepuscolare ed emozionante. Inspiegabilmente non ha avuto, tra i fans, la stessa
fortuna di altri brani, mentre a mio parere si tratta di uno dei vertici assoluti dei Renaissance. Poco da
dire, invece, sul successivo Cold is being (3’01”); l’Adagio di Albinoni è già stupendo di per sé, il
suono suggestivo dell’organo liturgico e la voce ispirata della Haslam fanno il resto.
Comunque, anche se su questa base era facile ottenere un bel risultato, si deve in ogni caso
sottolineare la bravura del complesso, che però risulta davvero superlativo in Mother Russia (9’19”).
Che dire? Sublime, e basta. La drammaticità del tema è sottolineata alla perfezione da un
arrangiamento orchestrale calibratissimo, mentre il contrasto fra le parti cantate e quelle strumentali
è cesellato in modo così nitido da sembrare un tutt’uno. La voce della Haslam si può esprimere in
tutte le sue potenzialità di estensione canora, con risultati probabilmente insuperati. Ma anche la
lunga parte strumentale eseguita dall’orchestra, in cui si alternano tutti i timbri degli strumenti a
fiato, è un capolavoro di bellezza che prelude ad un finale in cui la voce sfuma nell’ultima ripresa del
tema, in modo semplicemente straordinario. Questo pezzo in concerto è diventato uno standard
pressochè obbligato, ed infatti le riproduzioni nei dischi live (assieme a Running hard) ormai non si
contano più. Si tratta, ovviamente, di musica per palati fini; punks not admitted. Ma contenti loro…
Il gruppo è ormai lanciato ai vertici del progressive, e nei tours europei e nord-americani può
persino permettersi il lusso dell’accompagnamento di un’orchestra, peraltro del calibro della New
York Philharmonic o della Royal Philharmonic di Londra, in sale prestigiose come la Carnegie Hall e
la Royal Albert Hall. Turn of the cards rimane in graduatoria per ventuno settimane (il record
assoluto di tutta la carriera del gruppo) e raggiunge il n. 94 delle classifiche di vendita americane;
la Wnew-Fm di New York inserisce i Renaissance fra i primi cinque artisti del 1975, mentre Record
World li mette al primo posto per la “miglior combinazione vocale” dell’anno. Il 1975, del resto, è
l’anno di Scheherazade (n. 46 negli Stati Uniti, con una permanenza di tredici settimane); il
capolavoro assoluto dei Renaissance è giustamente considerato come il più riuscito esempio di
fusione tra la musica classica ed il rock che sia mai stata realizzata, un fiore all’occhiello di tutta la
grande storia del progressive e dell’arte musicale in genere.
“Scheherazade and other stories” [Btm 1975 - Repertoire 1994], prodotto da David Hitchcock e dal gruppo,
già l’inizio, con Trip to the fair (10’51”), dà l’idea di un album decisamente orientato su sonorità
classicheggianti; la lunga introduzione di pianoforte è infatti fra le più ‘classiche’ mai composte dai
Renaissance. L’attacco della parte cantata è supportato da un delicato arpeggio di celesta, sul quale si
innestano via via gli altri strumenti, con un risultato di grande effetto. La successione e la versatilità
dei temi melodici è veramente eccellente, mentre nelle variazioni strumentali a farla da padrone sono
le tastiere di Tout, che miscelano sapientemente diversi timbri sonori, dai più soft ai più corposi. In
definitiva si tratta di uno dei pezzi forti di tutta la produzione dei Renaissance, destinato infatti a
grande fortuna; è la prima volta, peraltro, che in una composizione del gruppo compare la firma di
Tout, insieme a quella del collaudato duo Dunford-Thatcher.
I due brani successivi tornano invece a presentare il tradizionale marchio d’autore. The vultures fly
high (3’04”) è una canzone breve, anch’essa però tra le migliori del complesso; ma se questo pezzo è
un altro gioiello alla Renaissance, cosa possiamo dire di Ocean gypsy (7’05”) se non un lapidario
‘siamo senza parole, questo album è straordinario’? Ci troviamo infatti di fronte all’ennesimo colpo
da maestro: struggente, delicatissimo, emozionante. Qualsiasi cantante ne avrebbe fatto un hit, ma
l’interpretazione della Haslam è veramente insuperabile.
E’ del tutto ovvio, quindi, che possiamo solo ammutolire quando finalmente giunge il turno della
celeberrima Song of Scheherazade (24’37”). E’ a proposito di questa suite, ispirata al celeberrimo
poema sinfonico di Rimsky-Korsakov – di cui riprende alcuni temi – che i puristi del progressive
plaudono, come già detto, al miglior risultato fra i molti tentativi, spesso falliti, di combinare la
musica classica ed il rock. Per essere precisi, si tratta di una partitura composta da DunfordThatcher-Camp-Tout ed orientata più sul versante classico che non su quello rock, con l’orchestra in
primissimo piano e la voce della Haslam ad inseguire stilemi tipici della musica colta. Non a caso nel
dicembre del 1997 il musical “Scheherazade” sarebbe stato rappresentato alla Royal Academy of
Music, un prestigioso e giusto tributo ad una vera e propria opera d’arte, Musica con la m maiuscola.
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Non si può dire altro: c’è solo da ascoltare. Mai come in questo caso le parole di Bob Dylan risultano
appropriate: parlare di musica è come danzare di architettura. I 25 minuti di Scheherazade sono
davvero indescrivibili, ed ogni discorso sarebbe colpevole. Rimettete da principio il disco,
predisponetevi a lasciarvi cullare dalle onde del sentimento della pura musica e prima di tutto, nella
vostra mente, ascoltate la voce di un lontano banditore: Signori, in piedi, entrano i Renaissance…
La popolarità del gruppo è ovviamente alle stelle, mentre gli ex componenti della formazione
originaria stentano a ritrovare la via del successo. Nel corso dell’anno esce il primo ed unico disco
degli Armageddon, la band composta da Keith Relf e Louis Cennamo, insieme al chitarrista Martin
Pugh (già con Rod Stewart e gli Steamhammer) ed al batterista Bobby Caldwell (Johnny Winter e
Captain Beyond). L’album omonimo, Armageddon [A&M 1975, 1993], è lontano anni luce dal
progressive, ed è già il primo brano, Buzzard, ad immergerci in un rock corposo e dalle sonorità
decisamente hard, secondo uno stile molto americano. L’inizio sembra promettente, ma
gradatamente i vari pezzi scivolano via in una monotona ripetizione di standards già consolidati,
forse apprezzabile per gli amanti del genere, ma debole quanto ad originalità e creatività. I seguaci
del prog, ovviamente, non possono trovarci nulla; per i rockers, invece, una citazione se la merita,
oltre al primo pezzo, anche Silver tightrope, l’episodio più soft dell’album, incentrato sulla
sovrapposizione di suoni d’atmosfera piuttosto coinvolgenti. In generale, comunque, sono le parti
di armonica a risultare le migliori; del resto, da questo punto di vista Keith Relf è una garanzia di
mestiere che non ammette discussioni. Il progetto Armageddon, comunque, non supera neppure il
primo esame, e si sfalda senza alcuna prova d’appello.
Se la passa meglio, invece, John Hawken, che come tastierista dei grandi Strawbs ha partecipato a
Hero and heroine [A&M 1974, 1997] e Ghosts [A&M 1975, 1997], mentre Annie Haslam incide la sua voce,
per la prima volta, al di fuori del marchio Renaissance, cimentandosi al controcanto in The rain
came down, uno dei brani di un Lp di Roy Wood, Mustard [United Artists 1975 - Music Scene 1989]. La
cantante replicherà l’anno successivo, ma portandosi con sé anche Camp e Tout, per partecipare
alla realizzazione di un singolo dei Roy Wood’s Wizzard, il 45 giri Indiana rainbow / The thing is
this [Jet/Polydor 1976], il cui retro è firmato Wood-Camp-Tout. Ma come già detto, sono proprio e
soprattutto i Renaissance a mietere un successo dopo l’altro, nel corso dell’ennesimo tour che li
vede quasi sempre in compagnia di un’orchestra. I tempi sono maturi per un live, che infatti viene
lanciato sul mercato scegliendo un ottimo concerto, quello del 20-22 giugno 1975 alla Carnegie
Hall di New York. Il disco rimane in graduatoria per venti settimane, raggiungendo il n. 55 delle
classifiche di vendita americane.
“Live at Carnegie Hall” [Btm 1976 - Repertoire 1994 - doppio] inizia giustamente con Prologue (7’30”), la
cui differenza rispetto all’originale è di un solo minuto (in più); il brano, infatti, è riprodotto in modo
pressoché identico, a parte la leggera dilatazione di una delle parti strumentali. L’accompagnamento
della New York Philharmonic Orchestra, diretta da Tony Cox, è metodicamente puntuale, e denota
subito una notevole intesa con il complesso.
Nel caso di Ocean gypsy (7’13”), invece, l’esecuzione dal vivo è quasi una fotocopia; la
performance, sia del gruppo che dell’orchestra, è impeccabile, ma indubbiamente la Haslam ha già
conquistato il primo posto. Altrettanto perfette, indistinguibili dagli originali, sono Can you
understand (10’26”) e Carpet of the sun (3’37”), mentre nella splendida Running hard (9’40”), pur
nella fedeltà della riproduzione, si può notare un tocco leggermente più spumeggiante. Verrebbe da
dire: le orchestre americane, si sa… ma resta il fatto che, comunque sia, in concerto la resa di questo
pezzo è veramente formidabile. L’ennesima menzione per la Haslam riguarda Mother Russia
(10’23”), in cui la cantante primeggia davvero alla grande. Bisogna comunque sottolineare che la
struttura del pezzo è adattissima a dare risalto, in modo altrettanto brillante, anche alla parte
orchestrale, a patto, ovviamente di saperci fare; ma è inutile dire che la New York Philharmonic è
attrezzata per riuscirci benissimo, come puntualmente si è verificato.
Il secondo Cd si apre con la stupenda Scheherazade (28’48”). A guardar le date, questa versione
dovrebbe essere successiva a quella dell’album (l’incisione su Lp fu infatti realizzata a maggio), ma
per il pubblico essa costituì il primo impatto con il capolavoro dei Renaissance. Peraltro secondo
alcuni critici l’esecuzione dal vivo fu fatta a partire da una prima stesura, ancor più orientata verso la
musica classica, rispetto alla versione divenuta poi definitiva sull’album omonimo. Resta solo da
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aggiungere che l’eccellente riproduzione dal vivo di una suite così complessa conferma, se pure ce
ne fosse bisogno, il grande valore dei cinque componenti dei Renaissance.
Anche il secondo ed ultimo pezzo è molto lungo, ed in questo caso la differenza rispetto all’originale
è davvero notevole. Ashes are burning (22’59”) è infatti riprodotto nella sua interezza, ma tra la
dilatazione di alcune parti e le rielaborazioni inedite introdotte durante la performance, la durata
totale diventa addirittura doppia. L’aggiunta più lunga consiste in un prolungato assolo di chitarra,
per la verità fin troppo insistito; non è che il risultato globale della rivisitazione sia di altissimo
livello, ma nel finale ci pensa ancora l’eterea voce della Haslam a riportare il tutto sui giusti binari,
concludendo alla grande un eccellente, meraviglioso concerto.
Tra gli altri concerti di quel periodo, dobbiamo segnalarne almeno uno, quello di Nottingham del
24 gennaio 1976, in quanto l’esibizione verrà pubblicata trent’anni dopo con il titolo British Tour
’76 [Major League 2006]; ci asteniamo da consigli perché la scaletta è sempre la stessa, e francamente
non si nota nulla di particolarmente diverso.
Nello stesso anno esce un singolo che presenta su entrambi i lati le versioni live di due vecchi
pezzi, Carpet of the sun / Kiev [Sire 1976]. A dicembre il gruppo tiene un celebre e spettacolare
concerto alla Radio City Music Hall, presentandosi sul palco con un taxi! “La folla gridava ed
aspettava che noi uscissimo fuori – ricorda Annie Haslam – Noi arrivammo, ed io suonai il clacson.
Uscimmo dal taxi e sei acrobati vennero proprio sopra di noi. Fu una cosa fantastica!”. Il successo
è tale che si muove una major, cioè la Warner Bros, per la quale esce il nuovo album, che
presenta, rispetto alla ricetta ormai collaudata, l’innesto di alcuni aggiustamenti tecnici e stilistici,
in particolare un pizzico di ‘elettricità’ in più; ed il risultato, ancora una volta, è di alto livello.
“Novella” [Sire/Warner Bros 1977 - Sire/Wea 1996], prodotto dai Renaissance, si presenta subito alla grande
con Can you hear me? (13’39”), firmato da Camp-Dunford-Thatcher. Si tratta infatti di uno dei brani
più riusciti dell’intera carriera del gruppo, caratterizzato da un’ariosa introduzione orchestrale curata,
come in tutto l’album, da Richard Hewson. Anche la parte cantata è immersa in un clima sospeso,
vagamente inquietante, come se si fosse in attesa di uno sviluppo imprevisto, che in realtà non si
realizza; Bruckner, nelle sue partiture, avrebbe scritto misterioso. E’ tutto il pezzo, comunque, ad
essere pervaso da un’aura sfuggente, davvero intrigante, in una parola di una bellezza rara e
sublimante.
Stessi autori per il successivo The sisters (7’13”), con un iniziale suono di campane che, innestato
sullo sfumato di Can you hear me?, è tale da rendere i due brani come una specie di tutt’uno. Gli
arpeggi di pianoforte, le sottolineature orchestrali ed i giri armonici di chitarra acustica
accompagnano benissimo la voce calda della Haslam, ancora una volta alle prese con tonalità assai
malinconiche, evidenziate da un testo tanto poetico quanto crepuscolare. E’ un brano di grande
effetto, certamente un po’ sottovalutato, perché in realtà è di una raffinatezza fuori dal comune.
Delicato e struggente.
Midas man (5’46”) è l’unico pezzo firmato dallo storico duo Dunford-Thatcher. E’ una bella ballata
di facile presa, fatta apposta per le doti canore della Haslam, che ancora una volta tocca le corde
della malinconia e s’invola su un arrangiamento orchestrale di prim’ordine. A quanto pare, in questo
album i Renaissance hanno deciso di trattenere il ‘tocco’ per prediligere le melodie dolci, riflessive e
romantiche, ed infatti l’ennesima conferma giunge il successivo The captive heart (4’16”), composto
dall’inedita coppia Camp-Dunford; la canzone è piuttosto convenzionale, ma il pianoforte di Tout e
la voce della Haslam le imprimono, tanto per cambiare, il consueto valore aggiunto di gran classe.
Di tutt’altro tenore, anche se firmato dagli stessi autori, è invece Touching once (is so hard to keep)
(9’27”). Gli arpeggi di pianoforte ‘rubati’ da ben note melodie della musica classica sono di tutta
evidenza, ma in questo caso la miscela comprende anche un pizzico di ironia, che è proprio vero che
non guasta mai. Il ritmo, finalmente, è più sostenuto, ma quel che colpisce è la grande maturità
artistica del gruppo, che ha confezionato un brano sicuramente non troppo spontaneo, costruendolo a
tavolino con molta meticolosità e mestiere, ma rifinendolo davvero come Dio comanda. L’innesto,
nella parte finale, dell’inattesa sonorità del sax è veramente un colpo di genio, un’eccellente
dimostrazione di come si cesella un pezzo alla Renaissance da nove minuti: degna conclusione di un
album un tantino introverso, ma tra i migliori in assoluto di tutta la loro storia.
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Nel 1977 esce anche il primo album solista di un componente del gruppo, nella fattispecie Annie
Haslam, che sceglie come produttore Roy Wood (ex Move), con il quale convive da tempo a poca
distanza da Birmingham. Annie in Wonderland [Sire/Warner Bros 1977 - Sire/Wea 1996], realizzato con la
collaborazione di Jon Camp, è incentrato non tanto sui contenuti musicali, quanto sull’estensione
canora della sua splendida voce, che Wood ha voluto valorizzare al massimo proprio come scelta
programmatica, ma al di fuori del progressive. L’album rimane in graduatoria negli Stati Uniti per
tredici settimane e raggiunge solo il n. 167 delle classifiche di vendita; come singoli vengono scelte
le canzoni effettivamente più riuscite, Going home / Inside my life e I never believed in love /
Inside my life [Sire/Warner Bros 1977], ma commercialmente i risultati sono altrettanto negativi. Nello
stesso anno esce Intergalactic touring band [Charisma 1977], un Lp ideato da Danny Beckerman e Wil
Malone con la partecipazione di vari artisti; la Haslam, che canta in Reaching out, ha modo di
incontrare uno dei principali collaboratori di Peter Gabriel, il tastierista Larry Fast, che diversi anni
dopo le farà da produttore per uno dei suoi albums solisti.
I Renaissance, invece, sono corroborati dal successo di Novella – che in agosto schizza al n. 46
(sedici settimane nelle classifiche americane) – e partono con la Royal Philharmonic Orchestra di
Harry Rabinowitz per un breve tour inglese, che tocca tre sole città, Birmingham, Manchester e
Londra. Nella capitale suonano il 14 ottobre, nella prestigiosa cornice della Royal Albert Hall, dando
vita ad una performance di alto livello che sarà incisa su Cd solo vent’anni dopo, approfittando del
ritorno di fiamma del progressive. Possiamo fare tutte le considerazioni che vogliamo sulla logica
perversa dell’industria discografica, ma in questo caso resta il fatto che si tratta di un live che
merita davvero la massima considerazione, per la sua eccellente qualità. Ricordiamo, a questo
proposito, che esiste anche una versione su doppio Cd, uscita nello stesso anno, in Giappone, per
la King Biscuit/Sony.
“Suonare alla Royal Albert Hall fu per tutti noi un sogno diventato realtà – ricorda la Haslam – Tutti
i nostri familiari erano là, in posti riservati, a vederci suonare con la Royal Philharmonic, una delle
migliori orchestre del mondo”. Particolarmente suggestiva fu la reinterpretazione orchestrale di
Prologue, come spiega Michael Dunford. “Convincemmo Louis Clark, che aveva curato
l’orchestrazione dell’album ‘A song for all seasons’ e quasi tutte quelle degli ELO, ad orchestrare
‘Prologue’: volevamo farne una specie di sigla, di ouverture dei Renaissance”.
“Live at the Royal Albert Hall” part one [King Biscuit/Bmg 1997] comincia proprio con il prestigioso
ensemble di Harry Rabinowitz subito al centro dell’attenzione, con la trascrizione orchestrale –
immersa in un caleidoscopio di variazioni sul tema – di Prologue (8’13”), uno dei pezzi più belli dei
Renaissance. Il risultato è a dir poco splendido: un esordio da dieci e lode, che spiana la strada
all’entrata in scena del gruppo, affidata ad uno dei suoi standards più classici, Can you understand
(11’44”), con quell’inizio di pianoforte tanto ritmato quanto sorprendentemente dolente.
L’esecuzione, al solito, è impeccabile, fedele all’originale in maniera millimetrica.
Ma gli applausi a scena aperta sono anche per Carpet of the sun (4’02”), una delle canzoni preferite
dai fans dei Renaissance, che con una Annie Haslam in forma così smagliante, non possono che
cadere vittima di un vero delitto perfetto, della serie ‘come ti avvolgo il pubblico in un incantesimo
indistruttibile’. Invece alla presentazione di Can you hear me (14’01”), l’accoglienza, incredibile a
dirsi, è piuttosto tiepida, ma probabilmente perché, trattandosi di un brano compreso nell’ultimo
album, esso non era ancora stato interiorizzato a dovere dai supporters del gruppo; ma con lo
sviluppo del pezzo, peraltro eseguito – a mio parere – in modo ancor più trascinante dell’originale,
il clima va via via surriscaldandosi, fino ad un irresistibile trionfo finale.
Subito dopo arriva l’ennesima versione del capolavoro dei Renaissance, Song of Scheherazade
(25’30”), che rispetto a quella del concerto alla Carnegie Hall, mostra una maggiore raffinatezza e
magniloquenza. E’ l’ulteriore dimostrazione del diverso approccio della Royal Philharmonic, che
non per questo, sia ben chiaro, risulta meno spumeggiante, quando ci si mette, della New York
Philharmonic; anzi, se la direzione di Rabinowitz è delicata nei momenti romantici, altrettanto
sapientemente è marcata nei passaggi più vivaci. Senza nulla togliere al lavoro di Cox alla Carnegie
Hall, io personalmente preferisco questa versione, fondamentalmente più ‘colta’ nella sua classicità.
“Live at the Royal Albert Hall” part two [King Biscuit/Bmg 1997] presenta subito Running hard (10’33”)
in una impeccabile esecuzione, ma a mio parere con una introduzione di pianoforte che risulta un
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tantino compassata. Per il resto, nulla da dire; anzi, ancora una volta le parti eseguite dall’orchestra
spiccano per brillantezza e maestria. Il pezzo, comunque, è talmente bello di per sé, che
bisognerebbe davvero mettersi d’impegno per rovinarlo…
Il successivo Midas man (4’33”) è invece un brano certamente meno coinvolgente, ma manco a dirlo
i vocalizzi della Haslam sono tali da intrigare chiunque, seppur applicati a questa canzone di livello
‘normale’. Tutt’altro discorso bisogna fare, ovviamente, per Mother Russia (10’01”), perché qui
siamo di fronte ad un pezzo forte del repertorio dei Renaissance, peraltro eseguito alla grande, per il
quale è inutile ribadire i concetti già espressi su orchestra, cantante e qualità dell’esecuzione dal
vivo; e ci mettiamo un bell’idem anche per Touching once (10’13”), in quel momento meno
conosciuto dal pubblico perché era tratto dall’ultimo album, di cui, però, era probabilmente il pezzo
migliore –e sicuramente uno dei più belli di tutta la produzione dei Renaissance.
Infine, di Ashes are burning (28’02”) ci viene presentata, ancora una volta, una versione dilatata
rispetto all’originale (che era di 11 minuti), cosa che era già successa nel precedente album live, ma
per una durata di ‘soli’ 22 minuti. Francamento, però, io credo che si debba riconoscere che anche in
questo caso l’operazione risulti poco convincente; le aggiunte, in parte improvvisate ed in parte
costituite da variazioni sul tema, non sono certo esaltanti, pur essendo, in certi momenti, meglio
assortite rispetto alla versione della Carnegie Hall. Insomma, per dirla tutta, a me sembra proprio che
il brano stia bene così com’è nella sua versione originale, senza i tanti inutili orpelli che finiscono
solo coll’appesantirlo oltre misura. Uno dei (pochi) difetti del progressive è proprio la mania della
grande suite a tutti i costi…
A questo punto il concerto sarebbe finito, ma il Cd contiene due brani aggiunti. Il primo è Prologue
(9’02”), tratto dall’esibizione del 28 luglio 1979 al Convention Centre in Ashbury Park, New Jersey,
per una esecuzione praticamente identica all’orginale (particolare curioso, la prima stesura delle note
di copertina riportava erroneamente A song for all seasons). Il secondo è invece un brano inciso in
studio, per la precisione a Sunningdale, Berkshire, dal titolo You (8’21”). Si tratta di una
composizione di buona fattura, caratterizzata da una variegata successione di temi e da marcati
cambi di tempo, realizzata con un ampio utilizzo delle tastiere e dei sintetizzatori al posto del
consueto accompagnamento orchestrale. Dobbiamo segnalare che questo brano è compreso anche
nell’antologia Songs from Renaissance days, anch’essa edita nel 1997, di cui parleremo più avanti;
scorrendo le note di copertina, si evince che esso è stato registrato nei primi anni ottanta, e che la
formazione comprendeva solo Camp, Dunford e la Haslam, con l’apporto di alcuni session men. I tre
sono anche accreditati come autori del brano.
Nel frattempo, mentre i Renaissance sono al top della condizione, alcuni dei vecchi componenti
della prima formazione del gruppo decidono di tornare alle origini, per riproporre lo stesso stile
musicale. “Nel 1975 Keith Relf, il cantante e co-fondatore, con me, degli Yardbirds – ricorda Jim
McCarty – mi chiamò per una rimpatriata con sua sorella Jane, e Louis Cennamo [..] Dei
Renaissance rimaneva ancora John Hawken, il tastierista, che fu invitato ad unirsi a noi; gli
parlammo dell’idea di ricostituire il vecchio gruppo, visto che in quel periodo nessuno di noi era
impegnato in altri progetti, e tenuto conto del fatto che, se tutti stavamo ancora ricevendo delle
‘royaltes’, ciò significava che quella musica era ancora popolare [..] Organizzammo alcune prove
nella mia casa di Molesey e le cose sembravano andare bene. Avendo già suonato insieme in
precedenza, non ci volle molto tempo per ricreare il nostro vecchio suono distintivo”.
Alcuni pezzi sono già pronti, ma purtroppo nel mese di maggio del 1976 Keith Relf, mentre sta
provando nella sua casa di Whitton con la chitarra elettrica, viene fulminato da una improvvisa
scarica; secondo alcuni amici si sarebbe potuto salvare, ma il suo stato di salute psico-fisico era già
notevolmente debilitato, anche a causa dei forti attacchi di asma causati dagli eccessi del fumo.
Superato lo shock, i quattro superstiti si ritrovano e decidono di andare avanti; Jane Relf (voce),
John Hawken (tastiere), Louis Cennamo (basso) e Jim McCarty (chitarre, voce e percussioni)
ingaggiano quindi altri due musicisti, Eddie McNeil (batteria) e John Knightsbridge (chitarra
elettrica).
“Molte canzoni vennero di getto – prosegue McCarty – ed a luglio noi avevamo già registrato più di
mezza dozzina di ‘demos’ [..] Fui io a contattare la Island, che stava ancora commercializzando le
incisioni dei Renaissance originali. Dopo un’audizione dal vivo, fummo subito ingaggiati, e
registrammo l’album ‘Out of the mist’ [..] Avevamo bisogno di un nuovo nome, perché i
Renaissance erano ormai un gruppo con membri diversi [..] Alla fine optammo per Illusion, il titolo
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del secondo album dei Renaissance, e partimmo per un tour come ‘supporters’ di Brian Ferry, in
Gran Bretagna ed Europa. Fummo ben accolti, sebbene le vendite fossero modeste”.
Tra il 1977 ed il 1978 gli Illusion realizzano dunque due Lps, che per la verità ricordano sono in
parte le antiche sonorità dei Renaissance prima versione; attualmente sono reperibili su un unico
Cd, in edizione integrale, con il titolo del primo disco, Out of the mist [Demon 1994]. “L’album
seguente (‘Illusion’) fu bello da fare – conclude McCarty – ma forse per la compressione dei tempi
il materiale non aveva, secondo me, l’energia del primo album, sebbene contenesse un classico
come ‘Madonna blue’, che fece venir fuori il meglio di tutti noi”.
“Out of the mist” degli Illusion [Island 1977], prodotto da Doug Bogie e dal gruppo, si apre con un
pezzo di McCarty, Isadora (6’56”), con il quale sembra proprio di tornare indietro nel tempo, ai
Renaissance prima maniera; si tratta infatti di un brano romantico, che si snoda attraverso il tocco
delicato del pianoforte di Hawken, la voce inconfondibile di McCarty ed il controcanto della Relf,
ma con l’aggiunta, però, di qualcosa di diverso, cioè alcuni sprazzi di chitarra elettrica.
Roads to freedom (3’53”), la prima di tre composizioni firmate da McCarty-Hawken, è una canzone
melodica, tenue e soffusa, in cui, però, la pur bella voce della Relf , dopo anni di Haslamdipendenza, ci appare decisamente inferiore. Bisogna comunque dire che la ‘colpa’, probabilmente, è
anche dell’effetto del primo impatto, perché andando avanti, com’è giusto che sia, certi confronti
verranno doverosamente relegati in disparte. Ed infatti in Beautiful country (4’21”), dove i toni
continuano ad essere molto pacati, quasi introspettivi, la voce carezzevole della Relf, accompagnata
dal lieve incedere del pianoforte di Hawken (e delle sue tastiere, in questo caso dolcissime), si fa
apprezzare di per sé nella sua giusta dimensione. Lo stile Illusion, insomma, comincia a venir fuori,
ed in Solo flight (4’23”) si esprime con un adeguato cambio di tempo; c’è un bell’arpeggio di
sottofondo per la voce di McCarty ed il gruppo mostra di saperci regalare ritmi più marcati, anche se
sempre con un certo aplomb aristocratico, mentre la chitarra di Knightsbridge riesce finalmente a
ritagliarsi un po’ di spazio. Si può dire trascinante… soft?!
Everywhere you go (3’18”) è invece una canzone piuttosto convenzionale, che la Relf non può
nobilitare più di tanto; è opera del solo McCarty, come le successive due. Face of yesterday (5’45”) è
certamente migliore, ma è un ‘già sentito’, trattandosi della riproposizione di un brano uscito nel
1970 sul secondo album dei vecchi Renaissance (intitolato, appunto, Illusion). Il finale è affidato a
Candles are burning (7’10”), il pezzo più lungo di tutto il disco, giocato su ritmi ben sostenuti e su
effetti chitarrisitici più in evidenza del solito. Nella parte conclusiva ritorna un momento di quiete
alla Illusion, una variazione ben riuscita che chiude degnamente un buon Lp, non eccelso ma
dignitoso e piacevole.
“Illusion” [Island 1978], prodotto dall’ex Yardbird Paul Samwell Smith, comincia piuttosto bene, con
quella Madonna blue (6’46”) di McCarty che probabilmente è il brano più riuscito dell’album: buon
impasto vocale, melodia piacevole, belle variazioni strumentali, atmosfere raffinate ma anche
corpose. Never be the same (3’18”) è invece una ballata lenta e romantica, francamente non molto
originale; è certamente migliore Louis’ theme (7’41”), firmato dall’inedita coppia Cennamo-Relf, un
altro brano molto rilassato, con la voce della Relf decisamente a suo agio nell’atmosfera malinconica
del pezzo, crepuscolare ed intimista al punto giusto.
I due brani successivi sono nuovamente di McCarty, ma se Wings across the sea (4’49”) risulta
ancora abbastanza piacevole, finisce coll’essere troppo relegato in uno standard che non cambia
minimamente. La formula, in effetti, comincia a risultare un po’ ripetitiva, per non dire monotona,
anche se finalmente uno spruzzo di vitalità si può captare in Cruising nowhere (5’01”): niente di
eccezionale, ma almeno qualcosa si muove, specialmente dopo aver ascoltato Man of miracles
(3’27”), il solito lento ben poco originale. L’unica particolarità sta nel fatto che tra gli autori, oltre a
McCarty ed Hawken, figura anche Keith Relf, tragicamente scomparso due anni prima. Il brano di
chiusura, The revolutionary (6’15”), firmato da McCarty-Hawken, è invece di buona fattura, con toni
vagamente epico-cavallereschi ed una bella serie di variazioni tematiche; non è sufficiente, però, a
risollevare le sorti di un album appena discreto, decisamente inferiore a quello d’esordio.
Gli Illusion non ottengono i risultati sperati, mentre i Renaissance continuano a vivere il loro
momento magico. “Tutti ci vogliono”, dice John Tout ad Alison Steele durante un’intervista
radiofonica del 1977, riferendosi, in particolare, ad alcune richieste provenienti dagli ambienti
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cinematografici. L’operazione va in porto per una serie televisiva, The paper lads, la cui sigla, Back
home once again, viene composta da Camp e Dunford ed esce su singolo alla fine dell’anno, con
sul retro un brano tratto dall’album Novella. Non vanno a buon fine, invece, i contatti per la
colonna sonora di una cartone animato, The last unicorn, che viene affidata agli America; i primi
abbozzi saranno utilizzati diversi anni dopo da Annie Haslam, per il pezzo Seashell eyes, inserito in
un live del 1998.
In definitiva, nel corso dell’anno vengono immessi sul mercato un Ep e due singoli. Il primo
comprende Can you hear me / Midas man / Kiev (live) / Ocean gypsy, il secondo Midas man / The
captive heart ed il terzo Back home once again / The captive heart [Sire 1977]. Ma è il 1978 a
costituire un anno di svolta, con il distacco da Miles Copeland, l’arrivo del promoter John Scher e la
registrazione di un nuovo album, ancora legato al vecchio stile prog, ma già segnato da alcuni
aggiustamenti stilistici che, sebbene inavvertitamente, preludono purtroppo alle pessime scelte
degli anni a venire. Il singolo di supporto, peraltro, dà ottimi risultati e rappresenta l’unico grosso
successo dei Renaissance nel mercato dei 45 giri; Northern lights / Opening out [Sire 1978]
raggiunge infatti a luglio il decimo posto delle classifiche inglesi e conquista il disco d’argento.
“A song for all seasons” [Sire/Warner Bros 1978 - Sire/Wea 1996], prodotto da David Hentschel, si presenta
con un inizio davvero promettente. Opening out (4’15”) è infatti un esordio ‘grazioso’, con un tema
romantico ma al tempo stesso vigoroso, un bell’arpeggio di chitarra acustica e la voce della Haslam
che si innesta su un motivo accattivante e coinvolgente, il tutto condito da ottimi interventi
orchestrali (opera, per quasi tutto l’album, del solito, bravissimo Louis Clark). Insomma, il risultato è
eccellente, come pure nel successivo Day of the dreamer (9’44”), un brano più esteso e
semplicemente molto, molto bello. Anche in questo caso gli arrangiamenti orchestrali sono
fondamentali per l’ottimo risultato finale; le variazioni sul tema, assai ben riuscite, ne fanno un tipico
pezzo alla Renaissance. Dopo qualche ascolto, si finisce per ritenerlo una delle cose migliori del
gruppo. Per farla breve: splendido!
Closer than yesterday (3’19”) è invece una canzone più semplice, orecchiabile e romantica, ancora
una volta firmata dal duo Camp-Dunford; niente di eccezionale, ma piacevole. Meglio riuscita è
Kindness (at the end) (4’48”), che ha per autore il solo Camp; è la bella introduzione dell’organo ad
indicare subito il leit-motiv, un tema vagamente medievaleggiante il cui primo sviluppo è orientato
verso sonorità rock, per poi trasformarsi in atmosfere eteree, molto romantiche e sottilmente
malinconiche. A cantare è proprio Camp ed il risultato è buono, forse perché, tutto sommato, uno
stacco, rispetto alla Haslam, ci può anche stare –a patto, però, di non esagerare…
Ed infatti con Back home once again (3’17”) diventa inevitabile dire ‘come volevasi dimostrare’. La
canzone, composta da Camp e Dunford, si colloca su standards normali, ma la Haslam riesce, come
al solito, ad imprimerle il suo marchio inconfondibile e pregiato, anche se insufficiente, comunque, a
farla passare alla storia. Il gioco non funziona, invece, con She is love (4’13”), l’unico brano
arrangiato, orchestralmente, da Harry Rabinowitz, il direttore del live alla Royal Albert Hall, ed il
primo a riproporre come autori, in questo album, il duo Dunford-Thatcher. Infatti, nonostante gli
sforzi della Haslam, il brano rimane quel che è, e cioè uno scarto di produzione insopportabilmente
melenso, una tipica canzone d’amore zuccherosa e facilotta, che merita una sola definizione: da
dimenticare, e al più presto.
Per fortuna arriva Northern lights (4’07”), ancora di Dunford-Thatcher, che invece è davvero una
bella canzone, destinata a diventare molto nota tra i fans più giovani del gruppo ma senza scontentare
i vecchi sostenitori dei Renaissance stile prog; del resto, per l’estensione canora della voce della
Haslam, questo pezzo è semplicemente perfetto. Voto alto anche per A song for all seasons (10’56”),
un finale decisamente alla grande, undici minuti di variazioni tematiche intriganti e coinvolgenti, con
gli innesti orchestrali di Clark a farla da padrone. Firmata collegialmente da Camp-DunfordThatcher-Tout-Sullivan, A song for all seasons costituisce un’ottima conclusione per un album un
po’ disomogeneo, caratterizzato da picchi molto alti ma anche da qualche caduta di tono; sono
chiare, insomma (pur se retrospettivamente), le premesse per le successive virate commerciali, anche
se valutato in sé l’ottanta per cento del disco è da Renaissance in gran spolvero.
I riscontri sono ancora una volta vincenti. Nel mercato inglese l’album ottiene il miglior risultato di
sempre, arrivando al n. 35 delle classifiche di vendita, mentre negli Stati Uniti si piazza al n. 58,
con una permanenza globale di quattordici settimane. Risalgono presumibilmente al periodo 1978-
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1979 anche alcune registrazioni dal vivo pubblicate oltre vent’anni dopo su Cd, di cui pertanto è
opportuno parlare subito, anche perché marcano una delle scelte fondamentali della svolta di fine
anni settanta dei Renaissance, vale a dire l’abbandono del supporto orchestrale.
“Day of the dreamer” [Mooncrest 2000] si apre con Can you hear me call your name (13’59”) in una
esecuzione sorprendentemente eccellente (solo l’inizio sembra un pochino incerto), nonostante
l’assenza dell’orchestra; le tastiere di Tout svolgono in effetti un ottimo lavoro di ‘riempimento’ e di
sostituzione, con esiti davvero straordinari. E’ impossibile, quindi, fare confronti con la versione del
live alla Royal Albert Hall (e questo varrà per tutti gli altri pezzi), ma voglio comunque ribadire che
in questo caso il risultato è notevole, e si traduce in una formidabile dimostrazione di forza di tutto il
gruppo.
Su Carpet of the sun (3’52”), non c’è niente da dire; questo è un classico, e con la Haslam ancora
una volta in forma smagliante, non ce n’è davvero per nessuno. Il discorso cambia, invece, per Day
of the dreamer (10’10”), una delle esecuzioni dal vivo non reperibili negli altri precedenti live (come,
ovviamente, tutti i pezzi tratti da A song for all seasons). Il risultato, infatti, è sempre di alto livello,
ma a mio parere, rispetto a Can you hear me l’assenza dell’orchestra si fa sentire, e di molto, perché
gli effetti delle tastiere non riescono a coprire così efficacemente la mancanza delle sonorità
orchestrali.
Per quanto riguarda Back home once again (4’07”), le note di copertina dicono che si tratta
dell’unica versione live mai realizzata, probabilmente perché questa canzone (per la verità non
eccezionale) in quegli anni era fresca di successo, trattandosi, come abbiamo già detto, della sigla di
una serie televisiva allora in voga; la ripresa dal vivo la definirei senza infamia e senza lode, ma devo
dire che alcuni timbri delle tastiere mi sembrano proprio poco perspicui. Il successivo Can you
understand & The vultures fly high (5’29”) è ovviamente la medley di due brani fra i più noti del
repertorio del gruppo, ben eseguito ma sfortunatamente contenuto in margini temporali troppo
limitati, per una versione, quindi, veramente ristrettissima rispetto agli originali. E’ un vero peccato,
perché l’idea – decisamente buona – meritava di più.
Ben fatta è invece A song for all seasons (11’09”). In alcuni momenti la mancanza dell’orchestra si
nota, ma il lavoro delle tastiere è veramente eccellente, e peraltro nelle parti più ritmate l’approccio
del gruppo risulta più grintoso rispetto all’originale, con risultati piuttosto convincenti. Insomma, se
in Can you hear me il lavoro di Tout era stato perfetto, qui è mancata proprio un’inezia; il giudizio,
quindi, non può che essere altamente positivo. Molto bene anche i tre pezzi finali, in particolare
Prologue (7’37”) e Ocean gypsy (7’30”), presenze quasi obbligate, per ovvi motivi, in tutti i live; le
esecuzioni come al solito sono impeccabili, e la Haslam, in entrambi i casi, è veramente strepitosa.
Running hard (9’36”), invece, in qualche punto risulta meno trascinante del dovuto, ma la
performance è ancora da applausi.
Il 1979, come detto, è l’anno della svolta. La Haslam mette a disposizione la sua voce per il
controcanto di Dancin’ at the rainbow’s end e Way beyond the rain, due brani del nuovo Lp di Roy
Wood, On the road again [Warner Bros 1979], mentre John Tout partecipa alla registrazione di un
album di Louis Clark, (Per-spek’tiv)n. [Jet/Cbs 1979 - Edsel 2000], l’arrangiatore orchestrale degli Electric
Light Orchestra e dell’ultimo lavoro dei Renaissance. Ma come abbiamo accennato, si sta
consumando la fine di un sogno. Il gruppo decide di voltare radicalmente pagina rispetto al
passato, non solo rinunciando definitivamente agli arrangiamenti orchestrali, ma imboccando la
strada delle canzoni brevi-e-facili, che già avevano fatto capolino nel pur bello A song for all
seasons. L’esito finale è una brusca virata verso un sound molto commerciale, che taglia i ponti
rispetto alle magnifiche composizioni di ampio respiro, dagli splendidi contenuti artistici, del
passato. Peraltro, come spesso succede in casi del genere, il tentativo di strizzare l’occhio alle
classifiche non è che dia i risultati sperati; il nuovo album, negli Stati Uniti, rimarrà in graduatoria
per sole nove settimane e non supera il n.125, il record peggiore degli ultimi cinque anni. Scarsi
riscontri ottengono anche i due singoli, The winter tree / Island of Avalon e Jekyll and Hyde /
Forever changing [Sire/Warner Bros 1979]. Di questi quattro brani uno solo non viene inserito nel Lp,
cioè Island of Avalon, una scelta, per la verità, francamente incomprensibile; verrà recuperato
molti anni più tardi per una antologia di inediti.
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“Azure d’or” [Sire/Warner Bros 1979 - Sire/Wea 1996], prodotto da David Hentschel, è ultimo album a
presentare la formazione storica al completo. Il primo brano, Jekyll and Hyde (4’41”), lascia subito
intendere quale sarà lo stile dell’album: canzoni brevi, melodie orecchiabili, musica semplice. La
crisi del progressive ha colpito anche i Renaissance, anche se comunque questo pezzo non è male,
nobilitato com’è da qualche sprazzo di classe che serpeggia qua e là.
The winter tree (3’05”), anch’esso di Dunford-Thatcher, è del genere delle ballate in classico stile
Renaissance, quelle che intervallavano (piuttosto bene, peraltro) i brani più lunghi e complessi; la
canzone è bella, ma il problema è che in questo disco mancano appunto le ampie composizioni in
stile prog. Pollice verso, invece, per la successiva Only angels have wings (3’44”). Spesso abbiamo
detto che la voce della Haslam è capace di migliorare nettamente la resa di un pezzo, ma in questo
caso non sarebbe stato sufficiente neppure un simile ‘artificio’; e visto che a cantare è Jon Camp
(l’autore del pezzo), non occorre aggiungere altro…
La controprova, del resto, arriva subito dopo. Golden key (5’16”) è una bella canzone romantica a
firma Dunford-Thatcher, e come volevasi dimostrare, con una splendida voce femminile il gioco è
fatto. Ma anche l’assolo della tastiera, con un ‘sostenuto’ in crescendo molto coinvolgente, è davvero
azzeccato, come pure la coda finale del pianoforte. C’è molto mestiere, d’accordo, ma se quel che
conta è il risultato, a mio parere questo è il pezzo migliore dell’album.
Anche Forever changing (4’50”), composta dalla strana coppia Sullivan-Thatcher, è un’altra
canzone molto melodica, ben arrangiata e ben eseguita, ma con esiti inferiori; a parte un buon
innesto strumentale verso la fine del pezzo, è troppo convenzionale e di maniera. Secret mission
(5’02”) è opera di Camp, è un po’ più ritmata – ma senza esagerare, come nello stile dei Renaissance
– ed in definitiva non è niente di eccezionale. Meglio riuscita è Kalynda (a magical isle) (3’44”),
ancora di Camp, come pure la successiva The discovery (4’28”), un buon brano strumentale, con
qualche innesto spagnoleggiante e diverse variazioni tematiche. Si rimane, però, ad uno standard
poco più che discreto, che peraltro prelude al vero e proprio tracollo di Friends (3’33”); la crisi c’è, e
si vede (o meglio, si sente), perché questa è davvero una canzoncina di sconsolante pochezza,
nonostante la prestigiosa firma Dunford-Thatcher.
Di fronte ad un simile tonfo, The flood at lyons (4’58”) non può che segnare una leggera risalita,
anche se la parte finale, in alcuni momenti, ricorda motivi tematici già sentiti; è per questo, tutto
sommato, che il pezzo sembra buono, anche se il giudizio globale può essere, al massimo, appena
sufficiente. Si tratta, insomma, dell’ultima conferma di un album che può dirci solo una cosa: non ci
sono dubbi, i Renaissance non esistono più.
Il tramonto di una grande avventura sta dunque diventando una triste realtà, non solo a causa
delle discutibili scelte del gruppo, ma anche di una situazione generale oggettivamente difficile per
chi voglia vivere la musica come un Arte, e non come un oggettino ornamentale da affogare nei
dollari, al prezzo del beota appagamento di un presuntuoso riff di chitarra elettrica finto-pseudorock. Lo spiega bene Jim McCarty, quando ricorda come è stata posta la parola fine alla breve
esperienza degli Illusion (pur senza sottovalutare l’incidenza dei limiti oggettivi di un progetto che
non ha avuto brillanti risultati). “La ‘new wave’ della musica punk stava diventando sempre più
popolare, e la tendenza del momento (la fine degli anni settanta) era davvero molto lontana da
quel che stavamo facendo [..] Fummo tagliati dalla Island nel 1979. Noi registrammo diversi
‘demos’, ma in assenza di ogni interesse da parte delle ‘majors’ ci perdemmo d’animo e gettammo
la spugna pochi mesi dopo”. Questi brani, destinati ad un terzo Lp mai realizzato, sono stati
recuperati ed incisi su Cd diversi anni dopo; la formazione non era cambiata, e comprendeva Jane
Relf (voce), Jim McCarty (voce), John Hawken (tastiere), John Knightsbridge (chitarra), Louis
Cennamo (basso) e Eddie McNeil (batteria).
“Enchanted caress” degli Illusion [Outline 1990], composto da brani scritti tutti da McCarty, inizia con
Night in Paris (3’13”), un brano che fa subito intuire quale sarò lo stile dell’album: composizioni in
forma canzone, stile melodico, scarsi elementi prog. In questo caso si tratta di una ballata tipo
country, piacevole ma nulla di più. Niente di eccezionale anche in Walking space (3’59”), un’altra
canzone dalle sonorità dolci, innervate su una melodia semplice ed orecchiabile.
La voce della Relf compare per la prima volta – e con buoni risultati – in The man who loved the
trees (3’28”), ricamato da un bel lavoro di pianoforte per un tema più sostenuto; la cantante replica
con Getting into love again (3’33”), l’ennesima ballata di chitarra, scarna ed essenziale, su un
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motivetto semplice e tutto sommato abbastanza gradevole. La successiva As long as we’re together
(3’42”) conferma invece che i risultati sono decisamente migliori quando il pianoforte si mette in
primo piano, pur nell’ambito di uno standard medio che non supera il discreto.
A questo punto il Cd presenta una vera e propria cesura, costituita da un brano di Rodgers suonato
dal vivo, ma da una diversa formazione; Slaughter on tenth avenue (3’26”) è infatti eseguito da
McCarty e Knightsbridge insieme a due componenti degli Strawbs, Chas Cronk al basso e Tony
Fernandez alla batteria; il risultato è un rock molto sanguigno, costruito quasi esclusivamente sulle
potenti bordate della chitarra, magistralmente suonata da Knightsbridge.
La scaletta dei pezzi ritorna alle incisioni in studio con Living above your head (2’54”), un brano
molto soft per la voce di McCarty, con un delicato tappeto sonoro sviluppato dal pianoforte e da
percussioni appena accennate; anche Crossed lines (3’18”) è interpretato da McCarty, ma il pezzo è
più corposo, con ritmi sostenuti. La voce della Relf ritorna – ed in grande spolvero – per You are
the one (4’01”), una canzone abbastanza atipica rispetto allo standard del disco, ma decisamente ben
fatta; lo stile è quasi soul, con un ritornello accattivante e grazioso. Forse è il pezzo migliore di tutto
l’album.
Le registrazioni per il Lp “fantasma” degli Illusion finiscono qui, ma il Cd comprende anche All the
falling angels (5’26”), lo stesso pezzo che abbiamo già presentato parlando di Innocence, la ristampa
del primo album dei Renaissance. Ricordiamo che esso è indicato come l’ultima incisione di Keith
Relf prima della tragica morte, avvenuta nel maggio del 1976; la prima edizione assoluta, peraltro, è
proprio questa, in quanto Innocence uscì nel 1998.
Chiusa la vicenda degli Illusion, McCarty nel 1980 forma un nuovo gruppo, i Ruthless Blues, che
sopravvive per tre anni, ma senza lasciare alcuna traccia discografica. Anche per i Renaissance, del
resto, il futuro è diventato incerto, non solo per la discutibile svolta stilistica, ma anche per l’usura
psico fisica causata da anni di vita frenetica e per una sorta di insidioso appagamento. L’atmosfera
all’interno del gruppo, minata anche dalla evidente insoddisfazione della casa discografica per
l’insuccesso commerciale di Azure d’or, si è fatta pesante; nel 1980, dopo un breve tour in Israele,
un John Tout prostrato dalla prematura morte della sorella, durante un concerto sbaglia
clamorosamente un passaggio e, furibondo per l’errore, abbandona il palco, costringendo il gruppo
a terminare lo spettacolo senza l’apporto delle tastiere. Le successive discussioni si trasformano in
litigio; qualcuno chiede che Tout sia allontanato e, quando viene presa tale decisione, il batterista
Terry Sullivan, suo grande amico, decide polemicamente di schierarsi dalla sua parte,
abbandonando anch’egli il complesso. I Renaissance di fatto sono vicinissimi allo scioglimento, e la
Warner Bros decide di rescindere il contratto.
3. IL CREPUSCOLO DEGLI DEI (1980-1983)
Agli inizi degli anni ottanta, la situazione si è dunque fatta assai precaria ed i tre membri superstiti
dei Renaissance inizialmente non sanno davvero che pesci pigliare. Jon Camp si aggrega
temporaneamente al gruppo di Roy Wood, gli Helicopters, mentre Annie Haslam e Michael Dunford
assumono il tastierista Peter Gosling per un progetto provvisorio, che nelle intenzioni dovrebbe
viaggiare a lato dei Renaissance. Il trio sceglie il nome di Nevada e pubblica due singoli, firmati da
Dunford-Gosling ed in linea con lo stile dell’ultima fase del gruppo-madre: In the bleak mid winter
/ Pictures in the fire [Polydor 1980] e You know I like it / Once in a lifetime [Polydor 1981]. Gli esiti non
sono promettenti; il primo 45 giri, comunque, raggiunge il n.71 delle classifiche inglesi e sarà
inserito nella scaletta dei brani suonati dal vivo dai futuri, nuovi Renaissance. Altri sei brani
vengono registrati in previsione di un album, ma l’operazione non va in porto; come al solito
finiranno tutti, diversi anni dopo, nell’ennesimo Cd per collezionisti e nostalgici, insieme ad alcuni
inediti dei Renaissance presumibilmente del periodo 1980-1982, incisi da Annie Haslam e Michael
Dunford con la partecipazione di Mark Lambert alla chitarra e Raphael Rudd alla batteria (presenti,
come sembrerebbe dalle note di copertina, in tutte le incisioni). Di valore artistico, naturalmente,
manco a parlarne.
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“Pictures in the fire” dei Nevada [Mooncrest 2000] comprende dieci brani del gruppo, tutti firmati da
Dunford-Gosling. Dei quattro che componevano i due singoli già citati, cioè In the bleak mid winter
(3’44”), Pictures in the fire (3’19”), You know I like it (4’46”) e Once in a lifetime (3’44”), solo
quest’ultimo non è cantato dalla Haslam, ma purtroppo, a maggior ingiuria, da Peter Gosling,
decisamente migliore come tastierista; sono tutte canzoni brevi, melodiche e piuttosto dolciastre. Dei
pezzi inediti, anche Star of the show si presenta come la solita minestra, decisamente insopportabile,
mentre Lady of the sea (3’06”) è appena un poco più ritmata, ma comunque con risultati sempre
molto scarsi; di Mr. Spaceman (4’33”), infine, è meglio non dire nulla.
L’unico brano accettabile è Fairies (4’44”), che peraltro è una prima versione del brano omonimo
che sarà inserito nell’imminente nuovo album dei Renaissance; si tratta di una registrazione più
orientata allo stile dance, molto simile a quella che sarà la stesura finale ed in definitiva fatta
piuttosto bene. Tokyio (3’02”), invece, è probabilmente la diretta progenitrice di Okichi-san, altra
canzone di buona fattura del futuro Camera camera, mentre Motorway madness (4’17”) è la seconda
performance vocale di Gosling, di cui non facciamo commenti solo per carità di patria.
A questo punto cominciano i brani dei Renaissance, tutti firmati da Dunford-Thatcher. Dei tre
inediti, Love is a state of mind (3’31”) è una robetta quasi in stile hawaiano, I am a stranger (4’16”)
è una canzone melodica che potrebbe anche risultare piacevole, se non fosse l’ennesima di questo
album, mentre On and on (4’15”) fa proprio venir voglia di invocare pene corporali. Decisamente
più gradevole è No beginning no end (4’16”), un pezzo moderato-dance già compreso in una raccolta
del 1997 (Songs from Renaissance days, di cui parleremo più avanti). L’ultimo brano è
l’immancabile Mother Russia (10’21”) in versione live, del quale ovviamente è inutile tessere le lodi;
aggiungiamo solo che anche in questo caso l’assenza dell’orchestra si fa sentire in modo evidente,
pur trattandosi di una performance di buon livello.
Il progetto Nevada naufraga quasi subito, ma il tastierista Peter Gosling viene proposto da Dunford
e dalla Haslam al terzo ‘sopravvissuto’ dei Renaissance, Jon Camp, per rimettere in carreggiata il
gruppo, con l’aggiunta del batterista Peter Baron. Il nuovo album esce nel 1981 per l’etichetta di
Miles Copeland, nume tutelare dei Police, e si piazza al n. 196 delle classifiche americane, per una
permanenza di quattro settimane; lo stile è molto distante dal sound dei bei tempi andati, ma tutto
sommato il risultato è dignitoso, come riconoscono anche i critici più severi. Insomma, se la
sterzata verso la canzone-semplice-e-possibilmente-orecchiabile è ormai irreversibile, quantomeno
il prodotto finale si è concretizzato in un pop d’autore di gradevole ascolto, che avvicina al gruppo
un bel numero di nuovi fans, presenti in massa, insieme agli irriducibili nostalgici del prog, ad una
nuova fortunata serie di concerti, sorprendente per l’entità del successo. I singoli vengono scelti
ruotando attorno a due brani, che escono sui vari mercati nazionali; si tratta di Faeries /
Remember [Illegal 1981], Faeries / Bonjour swansong [Line 1981], Bonjour swansong / Ukraine ways
[Illegal 1981] e Bonjour swansong / Remember [Irs 1981].
“Nessuna collezione del catalogo dei Renaissance – dirà Betty Thatcher diversi anni dopo – può
essere ritenuta completa o pienamente rappresentativa, senza ‘Camera Camera’ “. L’enfasi è
ovviamente eccessiva, ma a chi non vuole fare paragoni con il passato e non intende vivere solo di
ricordi, questo disco può risultare accettabile; si tratta, in effetti, dell’album più riuscito tra quelli
della fase decadente dei Renaissance, a patto, beninteso, di fingere che il progressive non sia mai
esistito…
“Camera Camera” [Irs 1981 - Htd 1995], prodotto dal gruppo, si apre con il brano omonimo, che
immediatamente conferma la virata degli ultimi anni verso sonorità disco-rock; ma trattandosi di
gente come i Renaissance, il livello è ovviamente medio-alto, ed infatti Camera Camera (6’05”) è
molto ben riuscito, con la Haslam subito lanciata in vocalizzi di grande effetto (che in certi momenti
fanno capire a chi si è ispirata una certa Matia di casa nostra). La prima lezione da trarre, comunque,
è che è proibito fare confronti con il passato; l’album va giudicato per conto suo, e l’inizio è
decisamente buono.
Faeries (living at the bottom of the garden) (4’02”) è un altro brano azzeccato, ripreso pari pari dal
repertorio, allora inedito, dei Nevada; la formula disco-dance, con una spruzzata di ritornelli
melodici, è ben assortita, con risultati sorprendentemente buoni. La successiva Remember (4’36”) è
aperta da una introduzione un po’ sospesa, con toni vagamente misteriosi, che si stempera poi in una
melodia più convenzionale, ma con continue riprese del tema iniziale. Se provassimo ad immaginarci
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questo pezzo con arrangiamenti stile vecchi-Renaissance (eliminando cioè le sonorità delle tastiere),
probabilmente otterremmo qualcosa di molto simile alle composizioni del periodo prog. Niente del
genere, invece, in Bonjour swansong (3’41”), una canzone melodica francamente anonima.
Buone notizie, al contrario, giungono da Tyrant-tula (6’01”), un brano più ritmato, caratterizzato da
una bella serie di variazioni tematiche. Molto riusciti sono gli assoli di tastiera; Gosling è davvero
bravo, e forse questo è il pezzo in cui lo dimostra nel modo più inopppugnabile. La coda finale è
piuttosto strana, ma l’idea è azzeccata; il voto finale, dunque, punta decisamente verso l’alto. Per il
successivo Okichi-san (6’01”), l’aggettivo da usare è invece ‘imbarazzante’, poiché lo potremmo
definire un plagio… dei Renaissance! Ovviamente si tratta del pezzo che ricorda maggiormente il
passato, ma in effetti esso risulta, per usare un neologismo un po’ tirato, un già-sentito, nonostante
gli innesti di stile orientale. E’ certamente bello, ma alla fine risulta un tantino ripetitivo, anche
prescindendo dalle precedenti considerazioni .
La modernità torna in auge con Jigsaw (5’07”), una canzone trascinante, anche se non molto
originale, che dà proprio l’idea di un pezzo elaborato a tavolino per ottenere il risultato di… essere
com’è!. Comunque, piacque molto ai nuovi fans del gruppo, a differenza di Running away from you
(3’54”), un brano di poche pretese e di scarso impatto. Di tutt’altro genere Ukraine ways (6’26”), i
cui primi arpeggi ricordano il tema di Mother Russia, assumendo poi la cadenza di una ballata per
chitarra in stile, appunto, vagamente russo; il risultato finale è buono, e serve a chiudere bene un
album lontanissimo dallo stile Renaissance, ma costruito su stilemi pop nettamente superiori alla
robaccia in circolazione nei mercati (ahimé) della musica.
Ma nonostante tutto, la nuova, apparente strada per il futuro dei Renaissance è destinata a
chiudersi in un vicolo cieco. Per il nuovo album, previsto in uscita per il 1983, il gruppo non può
più fare affidamento su Betty Thatcher, la mitica autrice dei testi indissolubilmente legata alla
grande storia dei Renaissance; a sostituirla ci prova Jon Camp, per la verità con esiti non eccelsi.
Per l’ennesimo tour di supporto, i tre membri orginari ingaggiano Mike Taylor (tastiere) e Gavin
Harrison (batteria), ottenendo una confortante risposta dal pubblico; il riscontro commerciale,
però, è decisamente insoddisfacente sia per l’album che per il singolo, Richard the IX / Flight
[Irs/A&M 1983]. Time line è dunque l’ultimo disco dei Renaissance; più che giusto, quindi, che le note
di copertina indichino come componenti del gruppo i tre superstiti, Dunford, Haslam e Camp,
accanto ai collaboratori esterni, che per la cronaca sono Peter Gosling, Nick Magnus e Eddie Hardin
alle tastiere, Peter Baron e Ian Mosley alla batteria, Bimbo Acock al saxofono e Dave Thompson
alla tromba. E’ inutile segnalare agli amanti del prog quali siano i più illustri tra questi ospiti
d’eccezione.
“Time line” [Irs/A&M 1983 - Htd 1995], prodotto dai Renaissance, si presenta subito per quel che è, vale a
dire un album veramente di modesto valore. L’iniziale Flight (4’09”) è un brano ritmato, non
particolarmente brillante, a cui segue la discreta Missing persons (3’37”), una canzone orecchiabile,
con una bella melodia. Chagrin boulevard (4’24"), invece, non è proprio niente di che, come pure
Richard the IX (3’40”), una filastrocca mediocre che precede The entertainer (4’48”), un brano
moderatamente più lento, anch’esso di scarso impatto.
Electric avenue (4’57”) sembra un tantino migliore, ma solo all’inizio; in realtà si trattta
dell’ennesimo pezzo dance con le tastiere elettroniche in primissimo piano, che finisce col tradire le
illusorie premesse con un proseguimento a dir poco fiacco. Non dicono granchè anche le successive
Majik (3’14”) e Distant horizons (3’58”), con il loro standard medio poco coinvolgente; leggermente
pìù gradevole è Orient express (3’55”), soprattutto per il buon intervento del sax. La chiusura spetta
ad Auto-tech (5’23”), riservato alla voce maschile e costruito su ritmi più sostenuti; tutto sommato è
un brano discreto, ma senza esagerare. Insomma, l’epitaffio dei Renaissance è veramente desolante,
e si consuma in una fine ingloriosa, travolto da un crepuscolo tristemente inesorabile.
La casa discografica recede dal contratto, e come sempre succede in questi casi, rimangono nel
cassetto diversi inediti; qualcuno sarà recuperato nelle varie antologie degli anni a venire, ma
l’unica raccolta che li comprende probabilmente tutti è Songs from Renaissance Days, edita nel
1997 e curata personalmente da Michael Dunford e Annie Haslam.
Durante i concerti, ricorda Dunford, “eseguivamo spesso una canzone intitolata ‘Dreamaker’ ed
un’altra intitolata ‘You’. Solitamente suonavamo anche ‘America’ di Paul Simon (..) Volevamo
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metterle in un Cd, visto che spesso i nostri fans ce lo hanno chiesto. Annie ed io ne parlammo e
spuntammo una lista (..) Nessuno di questi pezzi è mai apparso prima in altri albums, tranne in ‘Da
capo’, che racconta la storia del gruppo”.
Il rifacimento di America, prosegue Dunford, “fu un’idea di Jon Camp. Suonavamo molto negli Stati
Uniti e così pensammo che sarebbe stato carino farne una nostra versione [che nel caso specifico
è eseguita dal trio Haslam-Dunford-Camp con Peter Baron alla batteria e Peter Gosling alle
tastiere]. Nei nostri concerti eseguivamo come bis un pezzo molto lungo, ‘Ashes are burning’, e se
il pubblico ne chiedeva un altro, noi suonavamo ‘America’, e si scatenava il finimondo”. A
proposito, invece, di You (inserito come brano aggiunto anche nel live della Royal Albert Hall, di
cui abbiamo già parlato), Dunford la descrive giustamente come la composizione più allineata al
vecchio stile dei Renaissance. “Innanzitutto è un po’ più lungo degli altri pezzi. Contiene differenti
tendenze ed anche alcuni passaggi acustici, sebbene sia stato registrato agli inizi degli anni
ottanta, quando cominciammo ad usare molto di più il sintetizzatore. E’ un’altra canzone che
eseguivamo dal vivo e che rendeva molto bene”.
L’unico brano inciso dalla formazione del periodo d’oro è Island of Avalon, il retro di un 45 giri del
1979 scartato, come si ricorderà, ai tempi della registrazione di Azure d’or, che Dunford continua a
considerare fra le sue canzoni preferite. Tutti gli altri pezzi risalgono invece ai primi anni ottanta; le
note di copertina non entrano troppo nei particolari, ma è abbastanza evidente che non tutti i
brani appartengono alle sedute di registrazione degli albums Camera Camera e Time line (nel qual
caso dovremmo considerare solo l’arco di tempo compreso fra il giugno del 1981 e l’agosto del
1982); diciamo allora per scrupolo che il periodo da indicare, largheggiando un po’, è quello del
1980-1983. Quel che è certo è che le incisioni sono tutte opera dell’ultima versione dei
Renaissance, vale a dire Annie Haslam, Michael Dunford e Jon Camp, insieme a diversi musicisti
ospiti, che nel Cd sono indicati alla rinfusa: i tastieristi Peter Gosling, Eddie Hardin, Mike Taylor e
Rod Edwards, i batteristi Peter Baron, Gavin Harrison, Ian Mosley e Dave Dowle, ed il
polistrumentista Bimbo Acock, impegnato al flauto in Writers wronged.
Dunford diventa più loquace del solito quando parla di Africa, un brano effettivamente un po’
atipico. “Dio solo sa come ci venne fuori! Noi volevamo proprio creare un po’ d’atmosfera. Lo
registrammo, come molto dell’altro materiale, nei primi anni ottanta. L’eccezione è ‘Island of
Avalon’ (..) Si possono notare i differenti stili che noi sperimentammo con i nuovi pezzi. Non è
tutto materiale tradizionale alla Renaissance e c’è più enfasi sull’elemento pop. A ripensarci, forse
non fu la miglior cosa da fare, ma suppongo che fu la nostra risposta ai cambiamenti di quel
periodo. Noi tutti dovevamo necessariamente rinnovarci, perché negli anni settanta tutti, come gli
Yes ed i Genesis, facevano grandi pezzi lunghi, ma dopo noi dovemmo adattarci a ciò che stava
succedendo negli anni ottanta. Devo ammettere però che ci smarrimmo, con la nostra nuova
produzione, quando andammo troppo lontano dalla nostra strada”.
A proposito, invece, della celeberrima Norhern lights, si tratta di una nuova versione registrata nei
primi anni ottanta, con Rod Edwards alle tastiere e Dave Dowle alla batteria, oltre, naturalmente,
alla Haslam; nella stessa occasione venne inciso anche No beginning No end, un brano che
abbiamo già incontrato nel disco antologico dei Nevada (che però, lo ricordiamo, è uscito dopo
Songs from Renaissance days). Di The body machine non è certo una sorpresa sentir dire che il
premeditato stile-Abba era finalizzato a piazzare i Renaissance nei numeri alti della classifica,
mentre Writers wronged è definita da Dunford “una canzone bizzarra. Non penso proprio che sia
venuta come noi volevamo. Possiede un leggero tocco jazz e c’è pure un coretto pop; ma è molto
interessante e contiene un assolo di flauto di Bimbo Acock. Per quel che ricordo, la canzone è priva
di autori, ed io non ne scrissi il testo”, sebbene le note di copertina riportino anche il suo nome.
“Songs from Renaissance days” [Htd 1997] presenta una scaletta di brani che non rispetta l’ordine
cronologico. Africa (4’40”) è firmato da Camp-Dunford-Haslam, ed inizia appunto con una specie di
canto africano; lo sviluppo è abbastanza piacevole, e presenta una buona variazione tematica a metà
pezzo. Dreamaker (4’57”) è invece di Dunford-Camp ed è una bella canzone, tenera e delicata (che
come vedremo a suo tempo, con un nuovo testo della Thatcher diventerà la Love lies love dies di
alcuni albums solisti della Haslam e di Dunford); per le sue caratteristiche è adattissima alla voce di
Annie, come pure la successiva ed arcinota Northern lights (4’22”), una reinterpretazione del
celebre hit del duo Dunford-Thatcher, in una versione molto simile all’originale e ben riuscita. Stessi
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autori per No beginning No end (5’05”), pezzo già ascoltato nella raccolta dei Nevada; questa
versione, però, mi sembra più azzeccata, in particolare per la miglior resa sonora degli effetti della
tastiera. Tra l’altro è più lunga di quella nevadiana, poichè la coda comprende una ripresa dell’assolo
di pianoforte elettrico.
Molto meno interessante è invece il primo di tre brani firmati dal trio Camp-Dunford-Haslam, cioè
Only when I laugh (4’08”), una canzone romantica piuttosto convenzionale. The body machine
(4’06”), quantomeno, è un pezzo ben costruito, con un motivetto grazioso ed orecchiabile, mentre
Writers wronged (3’58”), un brano dai toni sospesi, con un’atmosfera vagamente inquietante che poi
si snoda in uno sviluppo più tradizionale, è nobilitato da un bell’intervento del flauto, capace di
alzarne decisamente le quotazioni, altrimenti solo discrete.
Della successiva Island of Avalon (2’44”), firmata da Dunford-Thatcher, abbiamo già detto quasi
tutto. Unico pezzo inciso dal gruppo storico, è una gradevole ballata per chitarra, uscita come retro in
un 45 giri del 1979 e stranamente scartato durante le sessions di Azure d’or. America (3’57”) è
invece una cover del celebre brano di Paul Simon, soft al punto giusto e con la voce della Haslam in
grande risalto; il risultato è eccellente, anche per il sapiente uso del pianoforte (molto discreto ma
efficace). Conclude l’album la bella You (8’18”), altra coproduzione Camp-Dunford-Haslam;
l’abbiamo già descritta parlando del secondo Cd dedicato al concerto alla Royal Albert Hall, per cui
non ci soffermiamo ulteriormente. Diciamo solo che il brano risente chiaramente dello stile
veramente Renaissance: lunga durata, molte variazioni tematiche, toni epici e romantici. E’ scontato
che si tratta del brano migliore di questa antologia, ma merita un voto molto alto anche a confronto
con la produzione degli anni eroici.
In definitiva, Songs from Renaissance days è un album di valore più che altro collezionistico, tutto
sommato discreto, ma comunque rappresentativo, tranne poche eccezioni, del periodo finale (cioè
discendente) dei Renaissance.
4. I PROGETTI SOLISTI DEGLI EX-RENAISSANCE (1984-1994)
Dopo il flop di Time line, i Renaissance, come già detto, si ritrovano senza contratto discografico.
Jon Camp decide allora di unirsi ai Cathedral, mentre Dunford e la Haslam ingaggiano due
musicisti americani, il tastierista Raphael Rudd ed il bassista e chitarrista Mark Lampariello; il
quartetto inizierà nel 1985 una serie di concerti acustici che proseguirà per altri due anni, fino allo
scioglimento definitivo del gruppo. Alcune registrazioni, tratte dalle serate di Philadelphia,
compariranno diverso tempo dopo su Unplugged live at the Academy of Music [Mooncrest 2000],
peraltro con una scaletta composta quasi esclusivamente dai vecchi cavalli di battaglia degli anni
settanta.
Le principali novità, nel frattempo, giungono dall’area degli ex Renaissance prima versione, anche
se sul versante rock. Nel mese di luglio del 1983 Jim McCarty, Chris Dreja e Paul Samwell Smith
avevano rispolverato la gloriosa sigla degli Yardbirds per un concerto al Marquee di Londra,
chiamando, per l’occasione, il cantante-arpista Mark Felton (Nine Below Zero), il chitarrista John
Knightsbridge (Illusion, Ruthless Blues) ed il cantante-chitarrista John Fiddler (Medicine Head).
L’esibizione londinese è solo una rimpatriata, ma i tre membri originari degli Yardbirds decidono di
dare vita ad un nuovo progetto, in cui coinvolgono anche Fiddler.
Il primo album si intitola con il nome del gruppo, Box on frogs [Epic 1984], è accompagnato da tre Ep
e da un 45 giri, è seguito da un Lp della BBC con musica ed interviste (BBC Rock Hour: Box on
frogs) ed ottiene un buon successo, decisamente meritato.
Gli ospiti, del resto, sono veramente di prim’ordine, da Jeff Beck a Rory Gallagher, ed il loro
apporto si fa sentire alla grande; ovviamente non si tratta di progressive, ma il risultato è un rockblues di alto livello, e chi ama la musica senza etichette troverà sicuramente di che deliziarsi, a
cominciare dal brano d’apertura, Back where we started, un inizio sontuoso che davvero va
indietro dove tutto cominciò, con tanto di armonica ed in perfetto stile Yardbirds. Altrettanto
trascinante è Harder, dove i Rolling Stones sembrano presenti molto più che in spirito, mentre
l’apparentemente più ‘calma’ Another wasted day è costruita su un canto sussurrato e su arpeggi
acustici di forte intensità emotiva, su cui si innestano le svistate elettriche di Beck, veramente da
brividi. Eccellente è anche The edge, una ballata sostanzialmente country & western dove è la
chitarra di Gallagher ad imprimere, al momento giusto, una sterzata rock di gran classe, con una
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coda finale basso-chitarra-batteria che è una vera chicca. I pochi brani lenti sono meno
coinvolgenti (ma Into the dark, ben lavorato dalle tastiere di Max Middleton, merita un bel voto) e
non manca qualche caduta di tono (Just a boy again, ad esempio); il risultato globale è però
decisamente buono, e dopo aver ascoltato nell’ultimo pezzo l’accattivante ritornello di Poor boy,
ancora una volta con Beck in splendida forma, viene proprio voglia di ricominciare da capo. E
quando succede così, vuol dire che ci siamo…
Il secondo album esce due anni dopo, con un solo singolo di contorno. Strange land [Epic 1986],
però, non raggiunge gli stessi livelli qualitativi, nonostante la presenza di ospiti ancor più
prestigiosi, da Graham Parker a Ian Dury, da Roger Chapman a Jimmy Page, da Rory Gallagher a
Steve Hackett. Il corposo ricorso all’elettronica, nell’evidente tentativo di conquistare qualche
consenso nel mondo della dance-music, non sortisce gli effetti sperati, ed infatti i pezzi più riusciti
sono proprio quelli vecchio stile.
Get it while you can è un bel rock con venature hard, in cui spicca la chitarra di John
Knightsbridge, uno dei fedelissimi dell’orbita di McCarty; House of fire è forse il brano migliore
dell’album, con Gallagher in gran forma ed una serie di belle variazioni tematiche brillantemente
eseguite dal gruppo; Hanging from the wreckage è più in linea con l’andamento stilistico del disco,
ma il delizioso sitar elettrico, suonato dallo stesso Gallagher, è un tocco di classe che alza
notevolmente le quotazioni del pezzo; Heart full of soul è una cover della celebre canzone di
Gouldman, e pur non risultando eccezionale, si avvale dell’irresistibile voce roca di Chapman. Tutto
qui; gli altri cinque pezzi risultano poco trascinanti, e non basta l’enorme mestiere del gruppo a
salvare l’album da una sostanziale convenzionalità. Vale comunque la pena, per gli innamorati
degli Yardbirds e per i seguaci del verbo rock-blues, procurarsi il Cd che raccoglie in un unico
dischetto entrambi gli albums, con il titolo Box on frogs [Renaissance/Sony 1996].
Nel frattempo Annie Haslam ha pubblicato una nuova prova solista, Still life [Spartan 1985 - One Way
1996], realizzato anche a nome di Louis Clark, l’arrangiatore della Electric Light Orchestra e di
diversi lavori dei Renaissance. Il disco si basa sull’adattamento in forma-canzone di celebri arie
della musica classica, eseguite dalla Royal Philharmonic Orchestra su testi di Betty Thatcher; il
risultato è decisamente buono, non solo per l’esperienza in materia della Haslam e per la scelta di
melodie veramente molto belle, ma anche per l’indubbia abilità di Clark, che a parte qualche
coretto un po’ troppo hollywoodiano, è riuscito a dare corpo a quella trasposizione da classico a
moderno che non è affatto semplice, come molti superficialmente credono.
Basta ascoltare, ad esempio, One day, basato sulla Berceuse di Fauré, per avere una
dimostrazione a contrario; in questo caso, infatti, l’arrangiamento di Clark non convince affatto,
mentre l’esito è invece di tutt’altro segno in Bitter sweet, decisamente azzeccato, pur non potendo
usufruire di una melodia di partenza fra le più note, Il cigno del Carnevale degli animali di SaintSaens. E’ infatti evidente che con l’Aria della Suite in re di Bach (Still life) o con il Lago dei cigni di
Ciaikovsky (Glitter and dust) il gioco è decisamente più semplice, anche se in entrambi i casi il
contributo della voce della Haslam è da dieci e lode; ma l’utilizzo di melodie molto conosciute può
risultare un’arma a doppio taglio, perché se il pezzo prescelto è l’altrettanto celebre Adagio di
Albinoni, si può correre il rischio di presumere che basti far poco per ottenere il massimo. Clark,
invece, dimostra anche in questo caso di saperci fare, e la sua Save us all, tra l’altro, regge
benissimo il confronto con una precedente versione degli stessi Renaissance, l’ottima Cold is being
di Turn of the cards (ed anzi, personalmente la ritengo anche migliore). Tra gli altri brani,
generalmente ben fatti, meritano ancora una citazione Shine e Chains and threads: la prima
perché costruita sulla non facile Gymnopédie n. 2 di Satie, di cui riesce a trasmettere l’atmosfera
sognante ed eterea; e la seconda perché chiude degnamente il disco, innestando nello splendido
Tannhauser di Wagner, molto ben eseguito, un coro conclusivo da gran finale, capace di regalare
brividi di emozione.
La Haslam, dunque, ha inciso uno dei migliori lavori della sua carriera solista, accompagnandolo
con un singolo di discreto successo, Stil life / Bitter sweet [Spartan 1985]. Nello stesso anno la
cantante ha partecipato al 45 giri natalizio So the story goes, prodotto da Joe Massimiano per un
progetto benefico che coinvolge centinaia di artisti, sotto la sigla Philadelphia for Philadelphia. Il
singolo vende oltre 10mila copie, e l’iniziativa si guadagnerà l’encomio ufficiale delle autorità
pubbliche della Pennsylvania.
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Per non perdere la scansione temporale, ricordiamo che l’album ed i 45 giri erano usciti nel 1985,
l’anno prima dell’ultimo disco dei Box on frogs. Passiamo quindi al 1986, quando l’ennesimo
progetto di Jim McCarty si è esaurito, ed i suoi amici dell’era Yardbirds si sono momentaneamente
persi per altre strade. L’instancabile Jim si dà subito da fare per intraprendere una nuova
avventura, e questa volta chiama a raccolta alcuni dei fedeli compari dell’epoca dei Renaissance
(prima versione) e di quella degli Illusion. A differenza dei Box on frogs, il genere musicale
prescelto pesca maggiormente nel progressive, ma quasi esclusivamente nella sua diramazione
new-age. Il nuovo gruppo sceglie il nome di Stairway, e schiera, oltre a McCarty (che si cimenta
anche alle tastiere), la cantante Jane Relf, il bassista Louis Cennamo ed il tastierista e
percussionista Clifford White.
Il primo lavoro del gruppo è Aquamarine [New World Company 1986], composto da sei brani e pubblicato
solo su cassetta; due anni dopo otto nuove composizioni escono ancora su cassetta, con il titolo di
Moonstone [New World Company 1988]. Finalmente la casa discografica decide di raccogliere su Cd una
selezione dei due albums, nuovamente intitolata Moonstone [New World Company 1988]; dalla prima
cassetta vengono estratti tre brani e dalla seconda sei, con l’aggiunta di due pezzi, che per la
verità ricordano molto i temi di quelli mancanti. Del resto lo stile new-age del gruppo è veramente
molto marcato, e com’è noto una delle caratteristiche di questo genere è l’ossessiva ripetitività
delle melodie e delle atmosfere, in certi casi con esiti sorprendentemente avvincenti, quasi ipnotici,
ma non di rado con effetti di ben altro tipo (leggasi noia). Anche Moonstone non sfugge alla
regola, ed infatti a mio parere i brani che meritano una citazione non sono molti. The lovers è
costruito su una melodia accattivante, con la bella voce della Relf a migliorare nettamente il
risultato finale; Aquamarine è forse il pezzo più riuscito dell’album, un tipicissimo brano alla newage immerso in atmosfere eteree, con vocalità (femminili) carezzevoli ed un tappeto sonoro
innervato quasi esclusivamente sulle tastiere, supportate da una morbida base percussiva; Island
of jewels, che si avvale di un maggior apporto della chitarra, è ancor più lento e rilassato, un po’
troppo lungo ma veramente suggestivo, ed è capace di evocare davvero l’idea di un’isola incantata
sperduta nell’Oceano. Per il resto, nulla da aggiungere; gli schemi melodici e l’aria che si respira
sono più o meno gli stessi, senza grandi sussulti. Il relax è assicurato, per chi è in cerca di rifugio
dallo stress; altrettanta soddisfazione proveranno i seguaci della new-age, ma ovviamente il
discorso cambia per chi ama collocarsi in altre categorie…
E mentre Annie Haslam medita sulla fine dei Renaissance (“è stata un’incredibile esperienza essere
parte di una ‘band’ così unica, ma dopo sedici anni, era triste ma inevitabile: era tempo che
finissero i giorni dei Reinassance, tempo di vivere nuove avventure”), Jim McCarty continua a
muoversi a 360 gradi, impegnandosi, anche in contemporanea, su più fronti. Nello stesso,
frenetico 1988, prima recluta i chitarristi Eddie Phillips (Creation) e Don Craine (Downliners Sect), il
tastierista Matthew Fisher (Procol Harum), il bassista Keith Grant (Downliners Sect) ed il cantante
Ray Phillips (Nashville Teens) per fondare la British Invasion All-Stars Band, e successivamente si
riunisce ad Anthony ‘Top’ Topham, il primissimo chitarrista degli Yardbirds, quello che venne
sostituito quasi subito, nel 1963, dal grande Eric Clapton; con l’aggiunta del chitarrista John Idan e
del bassista Louis Cennamo (poi sostituito da Andy Cleveland e quindi da Rod Demick), nasce la
Topham-McCarty Band, che sopravvive per altri tre anni, incidendo alcune canzoni rock-blues per
un album rimasto inedito, mentre una performance dal vivo trova spazio su cassetta.
Nel 1989, comunque, sono ancora gli Stairway a farsi vivi, con un album-concept ideato da
Malcolm Stern, il cui nome, infatti, compare sulla copertina come co-autore. Chakra dance [New
World Company 1989] è un altro prodotto in stile new-age, di buona fattura nella prima parte – sette
brani raggruppati sotto il titolo, appunto, di Chakra dance – ma decisamente assai monotono nella
seconda, intitolata Chakra meditation e composta da tre prezzi, lunghi, pesanti e francamente di
scarso valore. Gli autori di musiche e testi sono, da soli o insieme, l’eclettico McCarty, il tastierista
Andy Portman e l’immancabile Louis Cennamo; Jane Relf, invece, non è della partita. A dividersi le
parti cantate, oltre a Mancolm Stern, sono Christina Balfour, Linden J. Harley, Gila Muller-Steger,
Amanda Stern e Naomi Ward; al sax ed al flauto ci pensa Volker Cat, protagonista dei pochi
momenti più briosi (si fa per dire!) dell’album.
Nello stesso anno esce anche Annie Haslam [Epic 1989], nuovo album solista della cantante, da poco
trasferitasi negli Stati Uniti, dove ha recuperato gli ultimi session-men dei Renaissance, il chitarrista
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Mark Lampariello ed il tastierista Raphael Rudd, per formare la Annie Haslam Band. Il disco,
prodotto da Larry Fast, si avvale, in alcuni brani, della collaborazione di Justin Hayward, il
chitarrista dei mitici Moody Blues, ma la sua influenza è chiaramente avvertibile, più in generale,
nell’atmosfera di tutto l’album; la canzone da lui composta è scelta come singolo per un Cd
promozionale, The angels cry [Epic 1989], mentre l’altro singolo di supporto è la celeberrima
Moonlight shadow [Virgin 1989] di Mike Oldfield, il cui video, registrato in una chiesa, viene destinato
al mercato giapponese. Si tratta ancora una volta di un album lontanissimo dallo stile prog,
francamente anonimo; il fatto è che di raccolte di pop-songs del genere ce ne sono in giro a
migliaia, ed infatti l’esito commerciale è mediocrissimo.
Con Justin Hayward, comunque, la Haslam ha partecipato ad un progetto basato sulle poesie di Sir
John Betjeman, musicate da Mike Read per la produzione di Rod Edwards. Le registrazioni
coinvolgono diversi musicisti; Annie aveva eseguito la canzone Hunter trials in una calda giornata
del 1988, utilizzando lo studio mobile dei Rolling Stones, che si trovava, in quel momento, proprio
a fianco della casa di Read, dotata, all’interno, di un eccellente sala d’incisione. Read è talmente
soddisfatto del risultato, che decide di realizzare allo stesso modo tutte le altre registrazioni; i
tempi di lavorazione, però, si allungano di molto, al punto che il disco, intitolato Poetry in motion
[Silhouette 1990], esce dopo lo sfortunato Annie Haslam.
Le cose vanno un pochino meglio in Giappone, dove lo stesso album viene ripubblicato nel 1990
con il titolo di Moonlight shadow, visto che il relativo singolo aveva dato qualche buon risultato. Si
tratta pur sempre di timidi spiragli, ma la Haslam decide di rischiare, e parte per un tour
promozionale che le dà ragione; il pubblico nipponico mostra di gradire, al punto che, nell’ambito
del programma di ristampa su Cd dei vecchi dischi dei Renaissance, al mercato giapponese viene
riservato un occhio di riguardo. E mentre tali ristampe si estendono anche ai due precedenti
albums solisti (Annie in wonderland e Still life), la Haslam continua a sfruttare il momento magico;
insieme ad Akio Dobashi pubblica Fox [Virgin 1990], per il quale scrive i testi delle quattro canzoni che
lei stessa interpreta, Diving for pearls, Luminai, Lost in love e Six days and seven nights – anche
se quest’ultima, per la verità, non compare nella prima versione del Cd, ma nella seconda,
pubblicata quattro anni dopo dalla Apollon.
Considerata la popolarità della Haslam in Giappone, per la promozione dell’album la casa
discografica decide di utilizzare solo i suoi pezzi; per il singolo vengono scelti i primi due titoli,
mentre per il video tocca a Lost in love. Successivamente torna alla ribalta una straordinaria
performance vocale della Haslam, incisa originariamente nell’agosto del 1989; quando il tastierista
dell’ultima versione dei Renaissance, Raphael Rudd, decide di pubblicare un disco solista,
Skydancer [Polystar 1991], rispolvera quella canzone, intitolata Seasons, anche perché l’album esce
esclusivamente sul mercato giapponese.
Nel frattempo è in gran movimento anche l’inossidabile Jim McCarty. Tra il 1990 ed il 1991 incide
due dischi, nella veste di batterista, con i già citati British Invasion All-Stars (ma senza Fisher),
Regression [Brisk/Promised Land 1990] e United [Brisk/Promised Land 1991], dedicati alla riproposta di alcuni dei
più celebri classici del rock (tipo The house of the rising sun e Summertime blues, per intenderci…
ma anche My generation degli Who). Nel secondo album, come ospiti, sono presenti Dick Taylor e
Phil May, che McCarty decide di aggregare nella Pretty Thing & Yardbird Blues Band, per
pubblicare The Chicago blues tape [Demon 1991], questa volta pescando nel repertorio dei vecchi
standards del blues. Nel 1991, inoltre, si esaurisce l’avventura quadriennale della Topham-McCarty
Band, come già detto senza alcuna incisione; Anthony Topham ha gettato la spugna, ma il
batterista convince gli altri due componenti del gruppo, il chitarrista John Idan ed il bassistaarpista Rod Demick (Strawbs), a rimanere con lui per un nuovo progetto, il Jim McCarty Group,
che due anni dopo sarà integrato dal chitarrista Ray Majors (Mott the Hoople).
L’interesse di McCarty sembra tornato definitivamente al mondo del rock-blues, e tra l’altro nel
1992 i leggendari Yardbirds vengono ammessi alla cosiddetta “Rock & Roll Hall of Fame”, il
riconoscimento più prestigioso per la carriera artistica di un musicista rock. Alla cerimonia, che si
svolge a New York, partecipano anche Jeff Beck e Jimmy Page, ma sono due dei membri storici,
Chris Dreja e lo stesso McCarty, a tenere per l’occasione alcuni concerti, a cui fanno da spalla
proprio i due componenti del nuovo gruppo del batterista, Idan e Demick. Ma a conferma del suo
innato eclettismo, nello stesso anno McCarty si rituffa nelle sonorità new-age e partecipa al quarto
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capitolo della saga degli Stairway, realizzato per la seconda volta in collaborazione con Malcolm
Stern; Medicine dance [New World Company 1992] presenta ancora al basso il suo grande amico Louis
Cennamo, e comprende nove brani, ognuno dedicato ad un animale (aquila, orso, cervo, lupo,
serpente, lince, bufalo, cavallo e delfino). Il concept di base, anche in questo caso ideato da Stern,
è senz’altro interessante, ma la musica non esce di un millimetro dai confini, usati ed abusati, della
solita new-age.
Chiusa la parentesi, McCarty ritorna al rock-blues con la Pretty Thing & Yardbird Blues Band, per
un secondo disco di vecchi classici, Wine, women and whisky [Demon 1993], a cui partecipa, oltre a
May e Taylor, Bob Hite dei Canned Heat. Infine McCarty chiama a sé un’altra vecchia conoscenza,
Jane Relf, per completare la realizzazione di un album a proprio nome; Out of the dark [Higher Octave
Music 1994] contiene dieci canzoni, quattro delle quali vedono come ospite Jane Relf, la deliziosa
cantante dei primi Renaissance e dei successivi Illusion. Tutti i collaboratori, comunque, sono di
lusso, da un paio di amici della British Invasion All-Stars, Don Craine ed Eddie Phillips, all’ex Procol
Harum Matthew Fisher, ad alcuni richiesti session men, in particolare il bassista Rod Dimick. Le
coordinate stilistiche, tuttavia, sono sempre le stesse, anche se con una maggiore attenzione agli
arrangiamenti; i brani scivolano via in modo piacevole, senza lasciar trasparire picchi particolari, a
parte, forse, We’re still dreamers e Just a breath away, oltre, naturalmente, alla canzone che dà il
titolo all’intero album.
5. IL REVIVAL DEGLI ANNI NOVANTA (1994-1999)
Con il ritorno di interesse nei confronti del progressive, anche il glorioso marchio Renaissance
ricompare nei negozi di dischi, e non solo in occasione delle molte ristampe dei vecchi Lps. La
Haslam e Dunford intervengono nella fase di supervisione di alcune antologie, mentre procede a
piene mani la revisione dei nastri di registrazione di molti concerti del passato; entrambi, poi,
decidono di riutilizzare il nome del gruppo, abbinandolo al proprio, per lanciare nuovi progetti
solisti, anche se le coordinate musicali sono decisamente lontane dalle sonorità di un tempo.
La cantante sceglie dunque per il nuovo album la sigla Annie Haslam’s Renaissance, che per la
verità, musica a parte, non è del tutto fuori luogo; per la cantante, infatti, il 1994 è davvero l’anno
della rinascita, poiché segna la fine dell’oscuro tunnel della malattia, una forma tumorale da cui si
è ripresa perfettamente dopo un periodo di intense cure. Anche il titolo del disco, Blessing in
disguise [Thunderbolt 1994], cioè ‘beneficio inatteso’, evoca il drammatico momento vissuto dall’artista;
la sua firma, per quanto riguarda i testi, compare in nove dei quattordici pezzi, spesso per le
musiche di Tony Visconti, il produttore dell’album. I contenuti, comunque, non si discostano dal
tradizionale stile pop-romantico che da diverso tempo contraddistingue i lavori della Haslam; come
al solito la sua magnifica voce riesce a nobilitare non poche canzoni, ma il risultato globale è
inevitabilmente inficiato dalla ripetitività del genere. Fanno eccezione, a mio parere, il suggestivo
brano iniziale, Blessing in disguise, cantato a cappella in modo superlativo; la gradevole Pool of
tears, malinconica e coinvolgente; l’emozionante Raindrops and leaves, caratterizzata da un
bell’arpeggio introduttivo di clavicembalo e soprattutto dagli acuti della Haslam; l’orientaleggiante
What he seeks e la conclusiva e spigliata After the oceans are gone.
Un discorso a parte se lo merita The children (of Medellin), poiché la canzone è dedicata ai
bambini di strada, con un testo, scritto dalla Haslam, davvero toccante; nelle note è indicato
l’indirizzo di una fondazione di Medellin, in Colombia, che si occupa dei drammatici problemi
dell’infanzia. Infine, una curiosità. Love lies love dies è firmata dal vecchio duo Dunford-Thatcher,
ma in realtà si tratta della canzone Dreamaker, il cui tema musicale era stato composto nei primi
anni ottanta dallo stesso Dunford, con la collaborazione di Jon Camp per i testi. Ne abbiamo
parlato a proposito dell’antologia Songs from Renaissance days, che però nel 1994 non era ancora
stata pubblicata; la trasformazione in Love lies love dies (che come vedremo tra poco, comparirà
anche nell’album solista dello stesso Dunford) di diverso ha solo le parole, ma vale la pena di
ricordare che una terza versione entrerà a far parte nel musical dedicato alla celeberrima
Scheherazade, con il nuovo titolo di A love so pure, per i testi di Jude Alderson.
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Mentre l’album della Haslam esce sui mercati discografici, Michael Dunford sta ancora incidendo il
suo primo lavoro da solista. Durante una seduta di registrazione, il chitarrista conosce una
cantante americana, Stephanie Adlington; la vocalist sta proseguendo alla Royal Academy of Music
di Londra gli studi classici iniziati alla Eastman School of Music di Rochester (New York), ma nel
frattempo non manca di esibirsi a teatro, senza disdegnare una parallela carriera di cantante pop,
con un occhio di riguardo per gli Eagles e gli stessi Renaissance (tra le sue canzone preferite, non
a caso, spicca la ben nota Ocean gypsy).
Le registrazioni terminano agli inizi del 1995; tutte le dieci canzoni portano la firma di Dunford e
della Thatcher, ma le affinità con il passato sono solo formali, ivi compreso il marchio Renaissance
impresso sulla copertina del Cd, ovviamente con un chiaro intento promozionale. Lo stile del disco,
infatti, è lo stesso di quello della Haslam: pop e nulla più. Tra i brani più interessanti di The other
woman [Htd 1995] spicca la già citata Love lies love dies, soprattutto perché ci permette di
confrontare la voce della Haslam con quella della Adlington; il match è senz’altro impari, ma
bisogna comunque rimarcare che la cantante scelta da Dunford è veramente brava (e peraltro, a
mio parere, l’esecuzione musicale del pezzo è migliore, rispetto a quella di Blessing in disguise).
Un’ulteriore conferma si ricava già dalla canzone immediatamente successiva, Don’t talk, un brano
decisamente originale, con uno strano coretto fuori standard, nel quale la Adlington si muove con
bella sicurezza. Il pezzo è brioso, a tratti spiritoso, molto particolare e vagamente funky; la
cantante americana si lascia andare a vocalizzi, risatine e scioglilingua, ed a tratti accenna anche a
spezzoni di parlato. Insomma, la classe c’è e si vede tutta.
Per il resto, però, i limiti angusti del pop, per quanto di pregevole fattura, si fanno sentire con
inesorabile puntualità, anche se una citazione è doverosa, quantomeno, per Northern lights, la
celebre canzone dei Renaissance, decisamente ben reinterpretata anche grazie ad un
arrangiamento più spumeggiante dell’originale. Un voto alto, infine, se lo merita pure la conclusiva
Somewhere west of here, ben suonata, ben cantata, con buoni innesti strumentali ed un ritmo un
po’ più sostenuto; di fatto il pezzo è un tutt’uno con May you be blessed, che le fa da introduzione
e che, tra l’altro, è una breve rivisitazione di una parte di You, brano di cui abbiamo già parlato in
occasione del live alla Royal Albert Hall. I due pezzi, in totale, superano gli otto minuti, e la
variabilità dei temi ricorda, anche se di striscio, i fasti del passato.
Del resto l’ambiente in cui continua a muoversi anche la Haslam è quello della pop music, senza
alcuna concessione al progressive, con una frenesia che probabilmente è il segno più evidente del
ritrovato slancio, dopo il dramma della malattia. L’anno prima la cantante aveva scritto i testi per
una canzone, Searching all over, inserita nell’album Sarph cogh [Inside Out 1994] degli Air Pavillon, ma
è nel 1995 che gli impegni si assommano uno dopo l’altro. In poco tempo, la Haslam compare
nell’album-tributo agli Yes, Tales from yesterday [Magna Carta 1995], con il pezzo Turn of the century,
che si avvale dell’accompagnamento della chitarra di Steve Howe; partecipa poi alla realizzazione
di un altro tributo, in questo caso in onore dei Genesis, Supper’s ready [Magna Carta 1995],
segnatamente nel brano Ripples; infine, incide il singolo Lily’s in the field, ancora una volta insieme
a Steve Howe, per poterlo distribuire esclusivamente durante il concerto benefico di New York del
21 novembre 1995, un’iniziativa in cui coinvolge diversi artisti per raccogliere fondi a favore dei
bambini orfani della Bosnia-Erzegovina, con notevoli risultati. In tutti e tre i pezzi compaiono David
Biglin e Denny Bridges, in qualità, rispettivamente, di tastierista e tecnico del suono; si tratta di
due suoi stretti collaboratori, entrambi presenti nell’ultimo album solista.
A margine di tali lavori, la Haslam e Howe, considerati i buoni risultati della loro collaborazione,
decidono di realizzare insieme un Cd completo, ma nonostante la registrazione di una serie di
canzoni (peraltro ben accolte anche durante alcuni concerti), il progetto non va in porto. Si
ripresenta, invece, il solito Jim McCarty, per una nuova fase della ubriacatura new-age, che si
concretizza in due albums. Il primo è l’epitaffio dell’avventura degli Stairway, che interrotta la
collaborazione con Malcolm Stern, pubblicano il loro quarto ed ultimo lavoro su Cd, Raindreaming
[Oasis 1995]. Degli undici pezzi, spicca la composizione che dà il titolo all’album, suddivisa in tre parti;
La giralda è invece ripresa dalla prima cassetta (ed è uno dei brani mai comparsi su Cd), mentre
Moonlight Skater si avvale della deliziosa voce di Jane Relf. McCarty la vorrebbe con sé per
realizzare il secondo album dell’anno, ma dalle sessions di Raindreaming lo segue invece il fido
bassista Louis Cennamo, che si aggiunge ai cantanti John Richardson e Tania Matchett, ai
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tastieristi Matthew Hammond, Clifford White e Paul Miller, al chitarrista Dugald Brown, alla
violoncellista Julie Palmer ed al fisarmonicista Andy Thomas, per formare un nuovo gruppo, i
Pilgrim.
Il disco d’esordio si intitola Search for the dreamchild [New World Company 1995] ed è influenzato da una
forte connotazione spiritualista e religiosa; le musiche dei dieci pezzi sono tutte firmate da
McCarty, su testi dalla poetessa Carmen Willcox (socia dello psicologo Colin Wilcox, fondatore
dell’etichetta discografica). Lo stile dell’album non è affatto esclusivamente e rigidamente new-age,
e questo è un pregio; il pezzo migliore, infatti, è Agnus Dei, una stupenda ballata country-gospel di
pregevolissima fattura, fatta apposta per il timbro vocale di McCarty. Molto riuscita è anche
l’iniziale Ouverture / From angels to lovers, che dalla suggestiva introduzione in stile quasi
gregoriano, con tanto di coro appoggiato su sonorità inquiete e misticheggianti, si evolve in un
bell’arpeggio di pianoforte elettrico, sul quale si rincorrono e si alternano le voci maschili e
femminili; nel finale, poi, c’è il lampo di genio dell’innesto del violoncello, che chiude alla grande il
pezzo. Ed a proposito del violoncello della Palmer, è giusto sottolineare quanto sia incisivo il suo
ruolo per migliorare nettamente un brano altrimenti piuttosto convenzionale come Barefoot angel,
e per regalarci un avviccente duetto con il pianoforte in Seduction, brillante memento per il canto
dolente e drammatico di McCarty. Per il resto, non c’è molto da mordere, a parte le buone svisate
‘blueseggianti’ di Conquest ed il bel lavoro di pianoforte della conclusiva Longing. Insomma, non
siamo certo di fronte ad un capolavoro, ma finalmente dal non esaltante periodo new-age di
McCarty è saltato fuori un lavoro discreto… ovviamente perché è il ‘meno’ new-age!
Ma manco a dirlo, il vulcanico Jim sente subito il richiamo della foresta del vecchio amore rockblues, e tornato nelle vesti di batterista, chiama a raccolta gli amici della British Invasion All-Stars
(Eddie Phillips, Don Craine, Keith Grant e Ray Phillips) e nientemeno che Noel Redding, il mitico
bassista del grande Jimi Hendrix. La nuova formazione, che prende il nome di Yardbirds
Experience, pubblica l’eccellente British Thunder [Griffin Music 1996], che ripropone una corposa serie
di classici d’epoca. Si stabilizza, inoltre, l’assetto di un gruppo che vorrebbe rispolverare il mito
degli Yardbirds; McCarty si riunisce ad uno dei membri fondatori, Chris Dreja, ed aggrega Laurie
Garman, John Idan (uno dei migliori collaboratori dello stesso McCarty, già con lui in vari
complessi) e Gypsie Mayo, che ha sostituito un altro vecchio amico, Ray Majors.
A questo punto, l’ennesima giravolta di McCarty non può certo sorprendere più di tanto. Esce
infatti il secondo lavoro dei Pilgrim, il buon Gothic dream [New World Company 1996]. Le note di
copertina non segnalano i nomi dei musicisti; possiamo solo dire, quindi, che le musiche sono tutte
di McCarty, mentre i testi sono tratti da liriche di Byron, Poe, Shelley e Keats, a parte quelli
altrettanto poetici della solita Carmen Willcox (peraltro splendida, anche come voce recitante, nella
suggestiva Swinburne, ottima scelta per la conclusione dell’album). Il lavoro è decisamente
migliore del precedente e risulta di gradevole ascolto. Tra i pezzi più riusciti, val la pena di
segnalare A face to die for, raffinato ed elegante, ben giocato sull’alternanza della voce femminile
e di quella maschile, e nobilitato da un piacevole intermezzo strumentale di chitarra in stile
spagnolo; Tower of enchantments, uno strumentale dall’atmosfera inquietante e drammatica,
elaborato sul tema ricorrente della campana a morto; Dreams of thee e My lady dances, entrambi
costruiti su sonorità medievaleggianti, ben sottolineati dal gioco armonico degli arpeggi di chitarra
e dei vari filtri delle tastiere; Gothic dream, un altro strumentale in cui, come al solito,
l’arrangiamento degli archi è eccellente, e che giustamente è stato scelto per intitolare tutto
l’album; ed infine La belle dame sans merci, di fatto un emozionante recitato maschile, ben
supportato da un arpeggio chitarra-tastiere che apre la strada, nella coda, ad un tenue ma
suggestivo vocalizzo femminile. Insomma, a parte l’inevitabile sbavatura di qualche caduta di
tensione, un po’ di ripetitività ed un paio di pezzi poco riusciti, l’album si guadagna certamente un
buon voto.
Nel frattempo non si è certo fermata neppure l’attivissima Annie Haslam. Come si ricorderà, nel
1991 aveva inciso un pezzo, Seasons, per il primo disco solista di Raphael Rudd, il tastierista che
aveva suonato nell’ultima versione dei Renaissance. A proposito di quel brano, Rudd diceva di
averlo “scritto con Annie in mente”, prima ancora di incontrarla; “e come succede in questi casi, il
destino mi riservò una stabile collaborazione con Annie, da quando mi unii ai Renaissance nel
1983. Tra l’altro in tour noi eseguimmo ‘Seasons’, insieme, per diversi anni”. Nel 1996, il tastierista
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decide dunque di recuperare ancora una volta Seasons (ma con un diverso mixaggio) per il nuovo
album, un doppio Cd che raccoglie molti vecchi nastri, alcuni incisi anche con Phil Collins e Pete
Townshend; ed è proprio il pezzo registrato dalla Haslam, insieme al grande chitarrista degli Who,
ad essere prescelto per dare il titolo all’album, The awakening [Wedge Music 1996], mentre il terzo
brano in cui compare la cantante è Willow song. Ma oltre all’attività discografica, la Haslam
continua ad organizzare una prolungata serie di concerti, accompagnata dalla sua band o da
gruppi di supporto come i Sojourn (trasformatisi poi nei Grey Eye Glances) e gli October Project;
peraltro questi ultimi, scioltisi proprio nell’estate del 1996, durante un concerto presentano come
ospite Terry Sullivan, il batterista dei Renaissance.
Ma nel corso del 1997 il più attivo è Michael Dunford, che dà alle stampe una bella raccolta di
vecchie canzoni dei Renaissance. La cantante è ancora Stephanie Adlington, giunta ad una
maturazione artistica davvero completa, tanto da potersi permettere il lusso di cimentarsi in sette
dei brani più ‘marchiati’ dalla voce straordinaria della Haslam, con esiti decisamente positivi. Tra gli
ospiti figura il grande flautista e saxofonista Jimmy Hastings, personaggio di punta del Canterbury
sound, presente in diversi lavori dei Caravan, dei Soft Machine, degli Hatfield And The North e dei
National Health. L’album, intitolato Ocean gypsy [Htd 1997], è veramente di ottima qualità; le
operazioni di remakes di vecchi successi spesso rischiano di cadere nella banalità, ma non è questo
il caso, anche grazie agli eccellenti arrangiamenti orchestrali, curati con grande efficacia da Richard
Brown, direttore artistico della Royal Shakespeare Company. In alcuni casi, come ad esempio At
the harbour, la nuova versione risulta addirittura migliore dell’originale, mentre in altri si possono
notare dei lampi di genio veramente azzeccatissimi, come lo splendido assolo di sax di Trip to the
fair.
Per il resto, basta citare i titoli: Ocean gypsy, amatissima – e si sente – dalla Adlington; Things I
don’t understand p.2, ovviamente in versione breve, rivista e corretta; Young prince and princess,
quasi totalmente acustica; Carpet of the sun, semplicemente meravigliosa; I think of you, elegante
e sofisticata. Ma il Cd comprende anche due inediti, Star of the show, firmata da Dunford e Gosling
(il tastierista dei Renaissance anni ottanta), e The great highway, di Anderson-Dunford. Il primo
pezzo è una canzone romantica, che si inserisce senza problemi nell’impianto globale dell’album; il
secondo è invece un brano ‘bifronte’, per così dire, perché se inizialmente esso si presenta in modo
un po’ dimesso, nei minuti finali si sviluppa in una variazione strumentale in perfetto stile
Renaissance, chiudendo nel modo migliore un disco veramente bello.
Nello stesso anno, il 17 dicembre, Dunford (ma di riflesso tutto l’universo dei Renaissance) si
prende un’altra grande soddisfazione. A Londra, infatti, debutta il musical Scheherazade, nella
prestigiosa cornice della Royal Academy of Music, con Poppy Tierney nella parte principale. Il
progetto era in corso d’opera da molti anni; Dunford si è avvalso della preziosa collaborazione di
due personaggi che abbiamo già incontrato nel disco precedente, Richard Brown per le musiche e
gli arrangiamenti e Jude Alderson per i testi, la quale Alderson, tra l’altro, è una intima amica della
Adlington, conosciuta proprio ai tempi della frequentazione della Royal Academy. In un Cd
promozionale a tiratura limitata, che era stato realizzato ad ottobre, compaiono sei estratti, uno dei
quali è stato però eliminato dalla scaletta del musical (Future brides); A love so pure, come più
volte ricordato, è l’ultima versione delle precedenti Dreamaker e Love lies love dies, mentre Dance
of the masks, arrangiata da Andy Spillar, è costruita su alcuni temi del vecchio repertorio dei
Renaissance. In altri due brani, Remember me e In the stillness of the room (una rielaborazione di
The young prince e princess), la voce è quella della Haslam.
Particolarmente significativa è la replica del 19 dicembre, pubblicizzata con grande enfasi come la
“Renaissance Fan Evening”. Durante le pause del musical, i supporters del mitico gruppo hanno
l’occasione di incontrare non solo Dunford, ma anche Terry Sullivan, in una sorta di conferenza
stampa fra amici che coinvolge un folto pubblico; le domande, ovviamente, spaziano dal passato al
futuro, tra le impellenti richieste della tanto agognata reunion dei Renaissance. Al termine del ciclo
di rappresentazioni di Scheherazade (l’ultima data è il 20 dicembre), si comincia a parlare
insistentemente di un disco dal vivo che raccolga le migliori performances del musical; ma al
momento il progetto è rimasto solo sulla carta.
E’ la Haslam, invece, a tornare di lì a poco sul mercato con un nuovo Cd, tratto da alcuni concerti
brasiliani, organizzati a Rio de Janeiro e Petropolis nel mese di marzo del 1997. L’idea era nata a
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margine dell’esibizione del 21 giugno 1996 al Bottom Line di New York; alcuni mesi dopo la Haslam
ed uno dei suoi più stretti collaboratori, il chitarrista e tastierista David Biglin, avevano scritto una
canzone intitolata Brazilian skies e nel marzo del 1997 si erano appunto recati in Brasile per
quattro concerti, organizzati non solo a Rio e Petropolis, ma anche a Sao Paulo. Assemblato agli
inizi del nuovo anno, Live under brazilian skies [White Dove 1998] contiene sia canzoni del repertorio
della carriera solista della Haslam (Blessing in disguise, Nature boy/If I loved you, After the oceans
are gone e Turn of the century) sia alcuni nuovi pezzi (Seashell eyes, Summon the angels e
Brazilian skies), oltre alla cover della celebre Moonlight shadow di Mike Oldfield; i brani del periodo
Renaissance sono invece Carpet of the sun, I think of you, The captive heart, The young prince
and princess, Let it grow, Northern lights e Spare some love.
Per un’altra testimonianza del frenetico 1997 bisognerà attendere quasi dieci anni, ma come di
consueto preferiamo seguire il nostro canovaccio rigidamente cronologico. Si tratta di Live studio
concert Philadelphia 1997 [Voiceprint 2006], realizzato, ancora una volta, con la collaborazione della
propria cerchia di fidati amici, David Biglin (chitarre, tastiere, voce), Rave Tesar (tastiere) e Joe
Goldberger (batteria); la scaletta comprende dieci pezzi, il primo e l’ultimo dei Renaissance: Carpet
of the sun e Young prince and pricess.
Ma anche nel 1999 la cantante è in continuo movimento. Prima partecipa a Portraits of Bob Dylan
[Eagle 1999], un album-tributo al grande menestrello americano ideato da Steve Howe, interpretando
con la consueta classe la canzone It’s all over baby blue; poi si incontra con l’entourage del grande
Carl Perkins per studiare un eventuale disco, che avrebbe dovuto coinvolgere anche i tre figli del
celebre rocker, Debbie, Greg e Stan; infine pubblica un nuovo album solista, The dawn of Ananda
[White Dove 1999], contenente dieci canzoni, per nove delle quali scrive i testi. I collaboratori, ancora
una volta, sono quelli più fidati (Rave Tesar e Micky Simmonds in particolare), ma la Haslam
riserva una menzione particolare, nelle note di copertina, anche Tony Visconti, “il primo che mi ha
veramente incoraggiato a scrivere canzoni”, capace per puro istinto di “tirare fuori da me il meglio
di musicista. Tony ha aperto una porta per me nel mondo della scrittura delle canzoni e mi ha dato
una nuova, solida fiducia, e di ciò io gli sarò eternamente grata”. Il disco non presenta novità di
rilievo, dal punto di vista stilistico, ma nel suo genere è decisamente ben fatto, e peraltro presenta
alcuni pezzi destinati a diventare una presenza fissa nei concerti della cantante, in particolare
Precious one (composto insieme a Michael Dunford) ed Ananda (co-autore Rave Tesar).
6. IL RITORNO DI FIAMMA (1999-2006)
Ma la novità più ghiotta è ormai alle porte. Già da diverso tempo Jon Camp insisteva con la
Haslam, con Dunford e con Sullivan per rimettere in piedi la storica formazione dei Renaissance.
Sullivan era il più entusiasta; come Tout era rimasto ai margini del mondo della musica, ma stava
preparando del materiale per un album solista, a suo dire in pieno stile prog. Nell’estate del 1996,
comunque, aveva avuto la soddisfazione di veder uscire The race of 1000 camels, il primo disco
dei Boa, con in figlio Lee alla batteria; anche la cantante, Jasmine Rodgers, è una figlia d’arte, per
la precisione di Paul Rodgers, voce dei mitici Free.
Alla fine il progetto prende l’avvio nell’estate del 1998, quando la Haslam e Dunford stanno ancora
lavorando attorno al musical Scheherazade. Ai due si uniscono Sullivan e Tout, mentre Camp, a
causa di insanabili divergenze sulle modalità dell’operazione, si chiama subito fuori; al suo posto,
come membro esterno, subentra Roy Wood, da anni legato alla cantante. L’idea iniziale – incidere
un album di vecchi successi con qualche canzone inedita – viene superata dagli eventi; nello sala
d’incisione di Sullivan prendono corpo una decina di nuove canzoni, su temi composti da Dunford e
testi scritti dalla Haslam. “La musica è «progressive» – afferma la cantante – moderna e classica
allo stesso tempo; io credo davvero che noi siamo riusciti a catturare una nuova direzione per il
futuro dei Renaissance. Il gruppo non ha programmato dei tour, ma se arrivassero proposte
fondate, ci penseremmo seriamente”.
L’album della ricostituzione è stato registrato vicino a Canterbury, presso gli Astra Studios. La
nuova formazione, inizialmente composta, lo ricordiamo, da Annie Haslam (voce), Michael Dunford
(chitarra), John Tout (tastiere), Terry Sullivan (batteria) e Roy Wood (basso), ha potuto
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partecipare solo ad una parte delle registrazioni; successivamente, infatti, Tout si è dovuto
assentare a causa di altri impegni, per cui le sue tastiere compaiono in tre soli pezzi. Wood si è
invece alternato con il bassista Alex Caird, uno dei componenti dei Boa, il gruppo di Lee Sullivan,
figlio di Terry; è stato quest’ultimo a suggerire di ingaggiare anche il noto tastierista Mickey
Simmonds, già collaboratore di Mike Oldfield, dei Camel e di Fish. Le note di copertina riportano
quindi, come componenti ufficiali dei nuovi Renaissance, la Haslam, Dunford, Sullivan e Simmonds,
mentre gli altri musicisti sono segnalati come ospiti esterni; il Cd, intitolato Tuscany, è uscito prima
in Giappone, ed è stato immesso nel mercato europeo solo di recente.
“Tuscany” [Toshiba/EMI 2000], prodotto da Michael Dunford ed Annie Haslam, autori peraltro di tutti i
pezzi, si apre con Lady from Tuscany (6’40”), che non a caso inizia con una introduzione lenta e
maestosa tutta dedicata alla voce della solista, per poi trasformarsi in una atmosfera più briosa, con
un ritornello molto accattivante supportato da un semplice ma efficace gioco di tastiera; la variazione
mediana, nuovamente lenta, è un classico intermezzo certamente un po’ di maniera, ma
indubbiamente questo pezzo è un’ottima carta di presentazione per un disco che, celebrando una
reunion, poteva nascondere brutte sorprese. La successiva Pearls of wisdom (4’25”) vede all’opera il
grande John Tout, protagonista di uno dei suoi tipici tappeti sonori pianistici; è un brano molto dolce,
con un ritornello per la verità un po’ déjà vu, ma la performance della Haslam è assolutamente
irresistibile. Eva’s pond (3’40”) è invece un po’ troppo sentimentale, e francamente somiglia ad una
fotocopia di tante altre canzoni stile Haslam; tutto sommato, la sua collocazione migliore sarebbe
stata, appunto, uno dei suoi dischi solisti.
Dear landseer (5’19”), per fortuna, riporta il disco in carreggiata. Costruito su un bell’arpeggio di
Dunford, si avvale ancora dell’apporto di Tout, che suona pianoforte e clavicembalo, ma brilla
soprattutto per l’ottimo arrangiamento; gli effetti stile archi ed ottoni sono sapientemente calibrati, e
ci regalano un bell’esempio del sound tipicamente alla Renaissance. In the sunshine (4’25”) ed In my
life (5’26”) sono due altre canzoni Haslam-dipendenti, senza infamia e senza lode, anche se davvero
in eccesso di zuccheri; l’inevitabile sterzata arriva con The race (4’58”), brano spumeggiante e ben
giocato sui coinvolgenti ritmi delle tastiere elettriche. Dolphins prayer (3’19”) vede all’opera, per
l’ultima volta, le tastiere di John Tout, unico supporto della voce eterea della Haslam, mentre Life in
Brasil (3’40”) è davvero un pugno nello stomaco: sarà in linea con i gusti musicali della Haslam, ma
tanto per cominciare, nei suoi dischi c’è molto di meglio… e secondariamente (si fa per dire), cosa
c’entrano i Renaissance con questa robaccia?
Il finale, a questo punto, è il toccasana che ci voleva proprio. One thousand roses (7’12”) parte con
la solita introduzione incantata della Haslam, per poi trasformarsi in una bella rincorsa di temi tra di
loro sovrapposti, con le tenute di ritmo tipiche dei buoni, vecchi Renaissance di una volta, e con la
giusta dose di variazioni tematiche ed uno spruzzo di energia sanamente evocativo. Certamente è il
pezzo forte del disco, e la coda finale, che ritorna sulle atmosfere lente del prologo, è quantomai
adeguata al momento: struggente nella sua intensità melodica, dolce per averci riportato i bei ricordi
della grande Musica anni settanta, crepuscolare nella sua chiusura, quasi a marcare con crudezza che
ormai c’è solo spazio per la nostalgia.
Nel corso dell’anno è uscito anche un nuovo album di Annie Haslam, It snows in heaven too [White
una riproposizione di celebri canti natalizi e religiosi, da White Christmas a O come o
come Immanuel, e fino all’Ave Maria firmato Bach-Gonoud; da diversi anni, del resto, la cantante
partecipa ai Candelight Concerts, organizzati appunto nel periodo natalizio.
Il rinato interesse per il pianeta Renaissance è confermato dalla pubblicazione, nel corso del 2001,
di diversi bootlegs. A mia conoscenza, ne sono usciti ben quattro, di cui tre in formato doppio. Uno
riguarda alcuni concerti del 1974, mentre altri due, praticamente identici, riportano gli estratti dei
concerti giapponesi di marzo della nuova formazione (e quindi comprendono anche alcuni pezzi del
nuovo album); quello singolo è invece un mix di pezzi live e di studio. Nel 2003 è stata la volta di
un doppio Cd, riguardante, però, il gruppo storico, con riferimento al tour del 1976. Ma a proposito
di uno di questi bootlegs, bisogna registrare la dura presa di posizione della Haslam, che via
Internet, dopo averne sottolineato la pessima qualità di incisione, ha rivolto un accorato appello ai
fans del gruppo affinché boicottino l’acquisto di questo “insulto” al lavoro dei musicisti ed alla
diffusione della vera musica; peraltro nello stesso messaggio ha promesso che sarà presto
realizzato un live ufficiale della nuova formazione (di cui infatti parleremo fra poco).
Dove 2000],
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In anticipo, comunque, si è mosso il solito Jim McCarty, reduce da un paio di incisioni vecchia
maniera, Weekend in Memphis [Inside Sounds 2000] – accreditato al McCarty-Hite Project in quanto
realizzato con il bassista dei Canned Heat, Richard Hite – e Outside woman blues [Moorland 2001],
della Jim McCarty Band, con la partecipazione di John Idan, Ray Majors (ex Moot the Hoople) e
Rod Demick (ex Strawbs); quest’ultimo disco, in particolare, ottiene notevoli consensi per il suo
feeling da rock-blues in gran spolvero, senza contare una vera chicca per i fans più attempati, la
presenza, in tre pezzi, di un vecchio amico degli Yardbirds, Chris Dreja.
Ma nel contempo, fiutata l’aria di prog-revival, mr. Jim ha pensato bene di riunire per l’ennesima
volta Jane Relf, John Hawken e Louis Cennamo, per un nuovo disco del vecchio marchio degli
Illusion, che anzi, per l’occasione ha ribattezzato… Renaissance Illusion! L’album si intitola Through
the fire [Spiral/Kissing Spell 2001], ed il giudizio è preso detto: una grande, sonora delusione. Già la
copertina reca ben evidente il nome di McCarty, con a seguire, dopo un with quantomai
esplicativo, i nomi degli altri, chiamati, evidentemente, a fungere da aggiunti. In effetti, la loro
presenza è appena poco più percebile di quella dei vari ospiti di supporto (nove in tutto, per la
precisione). Le dieci canzoni, del resto, sono tutte firmate dal solo McCarty, e si inseriscono nel
tradizionale filone in stile Yardbirds: ballate molto simili tra di loro, che nulla hanno a che fare con i
Renaissance, e tutto sommato neppure con i precedenti lavori degli Illusion.
Certamente meglio (ma non era certo difficile!), è andata Annie Haslam, protagonista di un nuovo
album solista, One enchanted evening [White Dove 2002], registrazione del concerto del 23 giugno
2001 nella chiesa luterana di Upper Black Eddy, in Pennsylvania. Come di consueto, la voce della
Haslam, supportata solo dai delicati fraseggi tastieristici del fido Rave Tesar, dimostra tutto il suo
splendore, nella fattispecie applicato a quindici brani dalle firme davvero celebri: il duo RodgersHammerstein, Jobim e Bernstein, Lennon-McCartney ed alcuni grandi compositori classici (Satie,
Fauré, Handel). Da segnalare, a proposito di Handel, una interpretazione in lingua italiana, la
cantata Lascia che io pianga.
Ma l’evento dell’anno, ovviamente per i Renaissance fans, è stata la pubblicazione del tanto atteso
album dal vivo, ovviamente dedicato al Giappone. Il concerto prescelto è stato quello di Tokio del
16 marzo 2001, con il trio storico Haslam-Dunford-Sullivan affiancato da Rave Tesar e Micky
Simmonds alle tastiere, e David Keyes al basso. Il disco è certamente di notevole livello, ma
purtroppo è rimasto segnato da uno scarso riscontro commerciale: un vero peccato, perché come
era prevedibile, da quel momento è calato un silenzio di tomba sul progetto dei nuovi Renaissance.
“In the land of the rising sun” [Toshiba/EMI 2002], prodotto da Rave Tesar ed Annie Haslam, è un
doppio Cd costruito davvero con un bilancino rigidamente dosato. Il primo disco, infatti, contiene
dieci pezzi scelti tra quelli più brevi, sostanzialmente in forma canzone, anche se di gran classe; alle
immancabili Carpet of the sun (3’49”) e Northern lights (4’22”) si alternano altri cavalli di battaglia
– da Opening out (4’24”) a Midas man (6’31”) – ed i brani tratti dell’ultimo disco: Lady from
Tuscany (7’08”), il più lungo, Pearls of wisdom (4’42”) e Dear landseer (5’40”); non mancano, però,
anche tre pezzi della produzione solista della Haslam, Precious one (4’49”), Ananda (5’41”) e la
celeberrima Moonlight shadow (4’22”) di Mike Oldfield, la cui riproposizione sul mercato
giapponese rilanciò alla grande le quotazioni della cantante.
Il secondo Cd riporta invece cinque brani quasi tutti di lunga durata, dalla leggendaria Mother Russia
(10’31”) alla altrettanto nota Ashes are burning (19’57”), come di consueto nella versione ormai
diventata da clichè per i concerti, cioè allungata fino a raddoppiare i dieci minuti dell’originale (e che
io continuo a ritenere troppo prolissa). Fra Trip to the fair (11’53”) e la breve, ma entusiasmante I
think of you (3’21”), è perfettamente incastonato One thousand roses (7’53”), l’unico brano di questa
parte old style tratto dall’ultimo album, ma, per le sue caratteristiche, adattissimo al contesto.
Il risultato globale è certamente positivo, anche se i vecchi fans non troveranno grandi differenze
rispetto ai live già in loro possesso; peraltro, i superpatiti dei Renaissance, quelli dal palato fine (e
quindi molto attenti anche alle sfumature), noteranno la mancanza del tocco pianistico di John Tout.
La sua caratteristica era quella di dare una ritmicità più corposa alle eteree atmosfere classico-folk
dello stile Renaissance, pur mantenendosi all’interno di una lettura canonica dello spartito musicale.
I due tastieristi di questo tour sono invece in perfetta sintonia con l’approccio più pop e sentimentale
della Haslam, in particolare il suo accompagnatore preferito, Rave Tesar, ancora più soft di Mickey
Simmonds.
32
Capita l’antifona, la Haslam è tornata alla sua attività solista. Nel 2005 partecipa ad Icon, l’album di
John Wetton e Geoff Downes, nel brano In the end, mentre l’anno dopo è la volta dei Magenta,
uno dei più eccellenti gruppi prog dell’ultima ondata, per un Ep intitolato Night and day [2006], che
di fatto contiene due brani: quello omonimo, scritto appositamente per lei da Rob Reed e Christina
Booth (presentato in tre versioni) ed Essence of love, un inedito del gruppo. Sebbene si tratti solo
di un singolo, è estremamente interessante, e molto intrigante, questo accostamento tra due voci
femminili di generazioni lontane, ma entrambe di grande livello. Infine, sempre nel 2006, pubblica
Woman transcending [White Dove 2006], ennesima riproposta delle sue performances vocali, sedici
brani scelti nella sua vasta e variegata collezione di incisioni inedite, brani scartati, pezzo poco noti,
collaborazioni con altri artisti e simili.
Per la verità un anno prima si era fatto vivo anche Terry Sullivan, lanciando sul mercato un disco
intitolato South of winter [autoprodotto, 2005] ed attribuito ad un gruppo denominato Renaissant; il
tutto è stato realizzato in famiglia – la moglie Christine ed i figli Kristian, Derrick e Lee – ma con la
collaborazione speciale di John Tout per le parti pianistiche e di Betty Thatcher per la stesura dei
testi, per un totale di nove pezzi.
L’avventura dei Renaissance, insomma, continua anche nel nuovo millennio… ma il profumo della
grande musica e la luccicante meraviglia dei capolavori dell’era progressive, anche per loro
rimangono racchiusi nell’irripetibile saga degli anni settanta.
PAOLO ASCAGNI
(pubblicato nella sua versione originale su Nobody’s Land - Frammenti dell’Utopia progressiva,
n. 18, dicembre 2001, pp. 28-43, e n. 19, luglio 2002, pp. 78-83; aggiornamenti marzo 2007 )
© Paolo Ascagni 2000-2007. Tutti i diritti riservati. I contenuti del portale sono protetti dalle leggi a tutela dei diritti d’autore.
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Appendice
Riepilogo della discografia 1969 - 2006
Per rendere più agevoli le ricerche discografiche, vale la pena di ribadire quantomeno i titoli degli
albums indicati nelle pagine precedenti, con qualche breve nota esplicativa. Credo che la lista sia
pressochè completa; ovviamente sarà gradita ogni integrazione da parte dei lettori.
Le date sono quelle originali delle versioni a 33 giri, ma sono stati indicati solo i lavori riprodotti
anche su Cd, salvo qualche rara eccezione, ovviamente segnalata.
Per quanto riguarda i componenti della prima formazione dei Renaissance, abbiamo ripercorso,
oltre ai lavori degli Illusion, solo la carriera solista di Jim McCarty (escludendo, ovviamente, il
precedente periodo con gli Yardbirds).
ALBUMS UFFICIALI DEI RENAISSANCE (IN STUDIO)
1969
1970
1972
1973
1974
1975
1977
1978
1979
1981
1983
2000
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Renaissance – formazione originale (J.Relf-K.Relf-Hawken-Cennamo-McCarty)
Illusion – formazione originale, con la prima apparizione di Dunford
Prologue – formazione intermedia (Haslam-Hendry-Tout-Camp-Sullivan), più Dunford
Ashes are burning – formazione storica (Haslam-Dunford-Tout-Camp-Sullivan)
Turn of the cards – formazione storica
Scheherazade and other stories – formazione storica
Novella – formazione storica
A song for all seasons – formazione storica
Azure d’ore – formazione storica
Camera camera – ultima formazione (Haslam-Dunford-Camp) con Gosling e Barron
Time-line – ultima formazione, con Gosling, Barron ed altri session-men
Tuscany – formazione della ricostituzione (Haslam-Dunford-Simmonds-Sullivan con Tout)
ALBUMS DAL VIVO
1976
1997
1997
2000
2000
2002
2002
2003
2006
–
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–
Live at Carnegie Hall – doppio, concerto del 1975 (formazione storica)
Live at the Royal Albert Hall, part 1 – concerto del 1977 (formazione storica)
Live at the Royal Albert Hall, part 2 – idem, più un brano live del ‘79 ed uno in studio
Day of the dreamer – concerti del 1978/79 (formazione storica)
Unplugged live at the Academy of Music – concerti del 1985 (Haslam-Dunford ed altri)
In the land of the Rising Sun – concerto del 2001 (formazione della ricostituzione)
Live and direct – concerto del 1970 (formazione originale) e brani in studio 1970/76
Heritage – vecchi brani, sei in gruppo, otto acustici, formazione sconosciuta
British tour ’76 – concerto del gennaio 1976 (formazione storica)
BOOTLEGS
1992
1992
1992
1992
2001
2001
2001
2001
2003
–
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–
–
–
–
Live in London – concerto del 1975, probabilmente radiofonico (formazione storica)
Ocean gypsy – selezione del periodo 1973/78 (formazione storica)
Waterfall of sounds – concerto del 1990, in realtà del gruppo di Annie Haslam
Off shoots – concerti della formazione originale, più brani solisti dei vari componenti
Turn of the seasons – doppio Cd, concerti del 1976 (formazione storica)
Archive – brani in studio e dal vivo
Cristal Lily – doppio Cd, concerto di Osaka del 2001 (formazione della ricostituzione)
Angel from Tuscana – doppio Cd, concerto del 2001 (formazione della ricostituzione)
Touching once/ Running hard/ Premiere novella – doppio Cd, concerto del 1976
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ANTOLOGIE ESSENZIALI (INEDITI, SINGOLI, LATI-B, COVERS)
1997 – Songs from Renaissance days – incisioni 1980/83 (ultima formazione), più una del ‘79
ALTRE ANTOLOGIE
1978
1990
1990
1992
1995
1999
2002
2004
–
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–
–
–
–
–
In the beginning – doppio, raccolta integrale di “Prologue” e di “Ashes are burning”
Tales of 1001 nights, volume 1 – selezione del periodo 1974/76 (formazione storica)
Tales of 1001 nights, volume 2 – selezione del periodo 1976/79 (formazione storica)
First & Illusion – doppio, raccolta integrale di “Renaissance” e di “Illusion”
Da Capo – doppio, selezione del periodo 1969/83 (formazione originale e storica)
BBC sessions – incisioni per la BBC, metà anni settanta (formazione storica)
Songs for all seasons – selezione da “Day of the dreamer” più altri brani
Midas man – selezione di brani tratti da altre antologie
Rock Galaxy (1980) è la raccolta integrale di “Turn of the cards” e “Scheherazade”, ma non è disponibile su Cd.
Classics from progressive rock, volume 4: Renaissance and Annie Haslam (1997) è una selezione di pezzi
celebri della musica classica, dai quali sono stati attinti i temi per diverse composizioni del gruppo e della cantante. Il Cd
contiene le versioni originali, eseguite da orchestre dirette da grandi nomi, come Ashkenazy, Dutoit, Marriner, Solti.
NEVADA (HASLAM-DUNFORD-GOSLING)
2000 – Pictures in the fire – tutte le incisioni del 1980/81, più cinque brani dei Renaissance
ANNIE HASLAM
1977
1985
1989
1994
1998
1999
2000
2002
2006
2006
–
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–
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–
–
–
–
–
Annie in wonderland
Still life – con Louis Clark, versioni in forma canzone di arie celebri della musica classica
Annie Haslam
Blessing in disguise
Live under brazilian skies – concerto del 1997, con diversi brani dei Renaissance
The Dawn of Ananda
It snows in Heaven too – interpretazione di canzoni natalizie e religiose
One enchanted evening – concerto del 2001
Live studio concert Philadelphia – concerto del 1997, con due pezzi dei Renaissance
Woman transcending – raccolta di inediti, rarità, collaborazioni
Fox (1990) è un album di Akio Dobashi; la Haslam compare in quattro canzoni, di cui ha scritto i testi.
Waterfall of sounds (1992), uscito a nome dei Renaissance, è un bootleg già segnalato (vedi sopra).
Mother Russia (1997) è un bootleg realizzato durante un concerto del 1991, con diversi brani dei Renaissance.
MICHAEL DUNFORD
1994 – The other woman
1997 – Ocean gypsy – nuove versioni di vecchi successi dei Renaissance
Trip to the fair (1998) è una selezione di brani tratti dai due dischi precedenti.
RENAISSANT (TERRY SULLIVAN)
2005 – South of winter – con la partecipazione di John Tout e Betty Thatcher
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ILLUSION (J.RELF -MCCARTY-HAWKEN-CENNAMO E KNIGHTSBRIDGE-MCNEIL)
1977
1978
1990
1993
–
–
–
–
Out of the mist
Illusion – disponibile solo su Lp
Enchanted caress – incisioni del 1979 per un terzo album inedito, più altri due brani
Out of the mist – raccolta integrale di “Out of the mist” e “Illusion”, in un solo Cd
RENAISSANCE ILLUSION (J.RELF-MCCARTY-HAWKEN-CENNAMO E SESSION-MEN)
2001 – Through the fire
JIM MCCARTY
1973
1975
1984
1986
1986
1988
1988
1989
1990
1991
1991
1992
1993
1994
1995
1995
1996
1996
2000
2001
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
Shoot : On the frontier – disponibile solo su Lp
Armageddon : Armageddon – con Cennamo e Keith Relf
Box on Frogs : Box on frogs – con vecchi componenti degli Yardbirds
Box on Frogs : Strange land – con vecchi componenti degli Yardbirds
Stairway : Aquamarine – con Cennamo e Jane Relf, disponibile solo su cassetta
Stairway : Moonstone – con Cennamo e Jane Relf, disponibile solo su cassetta
Stairway : Moonstone – selezione delle due cassette, in versione Cd
Stairway : Chakra dance – anche a nome di Malcolm Stern, con Cennamo
British Invasion All-Stars : Regression – gruppo di celebri musicisti anni sessanta
British Invasion All-Stars : United – gruppo di celebri musicisti anni sessanta
Pretty Things & Yarbird Blues Band : The Chicago blues tape – covers di blues
Stairway : Medicine dance – anche a nome di Malcolm Stern, con Cennamo
Pretty Things & Yardbird Blues Band : Wine, women and whisky – covers di blues
Jim McCarty : Out of the dark – con Jane Relf in alcuni brani
Stairway : Raindreaming – con Cennamo, più Jane Relf in una canzone
Pilgrim : Search of the dreamchild – con Cennamo
Yardbirds Experience : British thunder – con Redding, ex bassista di Hendrix
Pilgrim : Gothic dreams – probabilmente con Cennamo
McCarty-Hite Project : Weekend in Memphis – con Richard Hite, dei Canned Heat
Jim McCarty Blues Band : Outside woman blues – altro disco di blues rock
Box on Frogs (1997) è un Cd singolo che contiene le versioni integrali dei due precedenti dischi del 1984 e del 1986.
a cura di
PAOLO ASCAGNI
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