KENSINGTON - Fogli di Viaggio
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KENSINGTON - Fogli di Viaggio
KENSINGTON Ho imparato a camminare in Africa. In Africa orientale. Un passo dopo l’altro, ben cadenzati, con la schiena dritta e un cappello in testa. Pochi minuti dopo l’alba, come si usa qui, ho lasciato il mio alloggio e calpestando la ghiaia del vasto cortile, sono arrivato al cancello che immette sulla strada che conduce alla via principale. La mia stanza, infatti, faceva parte di un centro di accoglienza situato fuori dalla città, equidistante dal centro cittadino come dal piccolo aeroporto con la pista in terra battuta, praticabile solo in quel periodo di mesi asciutti, dove ero atterrato qualche giorno prima, spogliandomi della maglia di lana che ancora indossavo e quasi slogandomi l’osso del collo cercando di indovinare, intorno, tra i rari arbusti, un edificio, o un hangar; qualcosa insomma che ricordasse un aeroporto, prima di incamminarmi insieme agli altri passeggeri, pochi, verso una lontana baracca di scintillante lamiera che colui che sembrava essere un soldato, in divisa mimetica gialla e verde, accoccolato nell’ombra sotto all’immane chioma di un isolato sicomoro, aveva pigramente indicato. La strada che stavo percorrendo quella mattina si svolgeva tra sghembi scheletri di cantieri edili dove s’affollavano, comparendo inattesi tra le imprecise travi e le sequenze inesatte di porte e finestre, uomini e donne impiegati come manovali, chi guidando la sua carriola zeppa di mattoni, o breccia, lungo le impalcature che apparivano in colpevole ondeggiamento, chi portando, una alla volta, le lunghe ed esili travi d’eucalipto che, appunto, costruivano ininterrottamente questo sbilenco formicaio che era l’impalcatura. Le donne, affusolate e dritte, con un passo lento ed elegante e immutabile, l’una in fila all’altra, tenendo con una mano sacchetti di sabbia, o calce, in equilibrio sulla testa, salivano e scendevano da un piano all’altro della struttura, scandendo un ritmo, questo sì, esatto, nella sua costanza. Misurando ogni passo tra le insidie di voragini e sconquassi sul terreno inaridito, arrivai all’incrocio con la strada principale, quella che portava in città, ad un angolo del quale, sotto ad un telone di plastica blu sorretto da quattro lunghi rami d’eucalipto di ineguale lunghezza, una dozzina di bambini vestiti di stracci sgargianti, m’invitarono, raggianti e striduli, a contemplare la fila di bottigliette di bibite, di varie marche, anch’esse sgargianti, allestita su scatole da frutta rivoltate, indicandomele ad una ad una, più volte, ed elencandone i nomi, ad una ad una. Thoreau diceva che, decidendo in quale verso indirizzare la sua quotidiana, irrinunciabile, passeggiata, si ritrovava ogni volta a dirigersi, forse perché era la frontiera, verso ovest. Al bivio, svoltando sulla strada verso la città, il sole che intanto s’alzava rapido m’accecò per un momento, insieme all’enorme nuvola di polvere giallognola, che nascondeva l’incipiente brulicare in lontananza, nella quale la luce si frantumava. Come fosse una lenta e interminabile sonata d’archi, anzi, di solo violoncello, accordai, per alcuni metri, il mio passo all’incedere allo stesso tempo sontuoso e grave di una colonna di dromedari, carichi di enormi sacchi ricolmi di sale, diretta, la colonna, da un ossuto vecchio, quasi scarnificato, che appoggiava i polsi ad una bacchetta di legno che teneva dietro al collo, da una magra spalla all’altra, come crocifisso, e si faceva strada, bofonchiando secchi monosillabi, tra schiere di vacche e vitelli altrettanto scarni e prosciugati che sostavano ai lati della strada, o procedevano in senso opposto spinti dallo schiocco di scudisci branditi da smilzi ragazzini sibilanti in lacere magliette e sandali di gomma, o meglio, come notai quando risposi ai loro insistenti saluti, sandali ricavati da copertoni, per le suole, e da camere d’aria ritagliate in strisce, legate poi tra loro, a fasciare il piede. Dopo essere stato negli uffici di una banca, condividendo la lunga attesa con tremolanti donne anziane dalla fronte rugosa segnata da una piccola, oscura croce, seduto a fianco di alteri e impenetrabili ministri del culto locale con al collo una croce, questa però brillante d’argento sulla tonaca nera, e con pazienti impiegati di incalcolabile cordialità, seduti dietro opachi vetri divisori a battere i tasti di calcolatrici obsolete, e dopo aver ricevuto pile e pile di lerce e appiccicose banconote della valuta del posto, mi ritrovai di nuovo sulla strada, su quella terra porosa dalla quale germogliavano continuamente uomini in cammino con fagotti annodati a sottili cannucce, infaticabili donne con in mano bustine di plastica contenenti ceci, grossi fagioli, semi e spezie da portare al mercato, giovani uomini alla guida di rumorose motorette e bambini, bambini vocianti ed instancabili, come quei tre che, sotto ad una altissima pianta di euforbia, mi implorarono, ridendo euforici e striati d’ombre, di fotografarli, avendomi visto riporre nella mia sacca la macchina fotografica, che il guardiano, all’ingresso, aveva tenuto con sé nella guardiola di lamiera, impedendomi, con maniere gentili, di introdurla in banca. Arrangiavo il passo miscelando tra loro le cantilenanti ed ossessive melodie dei salmi che, recitati lamentosamente e senza sosta, si univano al ritmo e ai battiti delle canzoni popolari che provenivano da ogni negozio e da ogni finestra lungo la strada, coppie di battiti, sempre uguali, che si sommavano con fervore tra loro a migliaia, innervati dallo stentoreo richiamo che scivolava a ondate dai minareti, di cui riconoscevo le vette che sbucavano da dietro le pareti azzurre e verdi delle basse abitazioni lungo la via, dentro le quali distinguevo, sbirciando senza fatica negli ingressi aperti, donne intente alla laboriosa preparazione del caffè, con il viso nascosto dal fumo ed il lungo collo in vista, spesso gonfio per il gozzo, oppure inginocchiate a terra a pestare con un mortaio le granaglie che poi avrebbero trasformato nel loro spugnoso pane grigio. Mi fermai all’Amhara Hotel, qualche metro oltre la piazza principale della città, che altro non era se non una trafficata rotatoria al centro dell’incrocio delle due strade più importanti, e mi sedetti ad un tavolo del bar, sotto gli ombrelloni, ed ordinai un succo di papaya e mango, e pochi minuti dopo ne ordinai altri due per i due bambini che avevo conosciuto il giorno prima, passeggiando al mercato, tra i legumi, i peperoncini rossi, i blocchi duri di sale, gli stracci e le altre merci esposte per terra, ordinatamente, su tappeti di plastica, da moltitudini di mercanti che si riparavano dal sole sotto ombrelli neri, e che ora, i bambini, mi avevano visto arrivare e dall’altro lato della strada erano corsi a sedersi al mio tavolino, avidi di barattare con me le loro striminzite parole in inglese, che avevano appreso durante precedenti incontri come il nostro. E poi, adeguando il mio passo al trotterellare dei due, proseguii il cammino, seguendoli all’interno di botteghe d’abbigliamento e stoffe, dove mi aiutavano a scegliere tra panni e scialli da acquistare e mi guidavano nelle contrattazioni, che si svolgevano a voce sussurrata, e poi, di nuovo in strada, fuggirono verso un gruppo di altri ragazzini cenciosi che s’accanivano attorno ad un tavolo da biliardino. L’incalzante ritmo della musica popolare che si diffondeva intorno scandiva, con il suo doppio battito ripetuto, in levare, la mia marcia, per stradine laterali ora, e i miei passi spaventavano, scacciandoli, luridi cani randagi ridotti a pelle e ossa, quasi calcinati, incapaci, innaturalmente, di sostenere l’affezione umana. Curai la manutenzione del mio vagare scegliendo uno tra le decine di lustrascarpe che, seduti su panche di ferro scrostato lungo il percorso, lavoravano indefessi, tenendo gelosamente al loro fianco la preziosa scatola di attrezzi, stracci, creme, spugne, unguenti, spazzole. Attento, poi, ad evitare questuanti e pretendenti che, accovacciati lungo i corridoi, sventolavano una mano monotonamente per combattere le mosche, tenendo nell’altra gualciti documenti, passai un paio d’ore negli uffici del municipio cittadino, per sbrigare alcune faccende inerenti il motivo del mio soggiorno. Di nuovo in strada, calibravo il passo scorrendo tra le dita della mano, una dopo l’altra, come fosse un rosario, le noccioline contenute in una lunga striscia di sacchetti quadrati di plastica trasparente attaccati tra loro, che avevo comprato da un ragazzino che avevo incontrato, appollaiato insieme ad altri mocciosi su un muretto sbrecciato, appena uscito dal municipio, e che, vedendomi, m’era balzato incontro. Facendomi strada tra le schiene ravvicinate e dritte degli spettatori, in piedi davanti al televisore, all’aperto, dell’ Awash Cafè dove mi ero diretto per bere una birra ghiacciata, mi sedetti ad un tavolino e, aspettando la birra, guardai anch’io verso il televisore dove trasmettevano una partita di calcio del campionato inglese ( e mi ricordai che qualche anno prima, due o tre forse, mi trovavo a Londra, era gennaio e pioveva, e dovendo andare a vedere una mostra, di un certo rilievo, che si teneva alla Serpentine Gallery, presi la metropolitana alla stazione Elephant and Castle, la più vicina al mio albergo, cambiai treno a Charing Cross, credo, e scesi infine a Kensington. Seguendo le indicazioni, percorsi la banchina, scansando coppie di ragazzi e ragazze che, mano nella mano, si spartivano sincopate pulsazioni dalle cuffiette collegate ai loro telefonini, cedendo il passo, quando capitava, ad esangui vecchiette intabarrate in pallidi impermeabili, rosa o verdi, o viola. Pensai di gettare una monetina ad uno dei tanti musicisti che si guadagnavano la vita nei sotterranei, suonando i loro strumenti appoggiati alle lucide mattonelle bianche e grigie delle pareti, ma poi non lo feci e proseguii, rinunciando a scegliere una bibita esposta nelle vetrinette di un distributore automatico. Arrivato ai piedi della scala mobile mi disposi diligentemente sulla destra appoggiandomi al corrimano di gomma nera, e, salendo, vidi scorrere davanti a me, procedendo in senso opposto, i volti di decine di persone, tra i quali notai il bel viso lungo e affilato, con zigomi aguzzi, di una giovane donna, e l’incarnato rubizzo sul volto teso di un paffuto signore dai capelli rossicci, e notai, ancora, gli occhi, circondati da profonde occhiaie, di un altro uomo, fissi sulla pagina del giornale che teneva in mano, e in quel momento, a Kensington, in piedi fermo sulla scala mobile della stazione di Kensington, ebbi per la prima volta una percezione, mai così nitida prima d’allora, e chiaramente, giunto al termine della risalita, guardando verso l’uscita, verso i bagliori sul selciato fradicio di Kensington Road, ebbi la consapevolezza di essere unico, di essere uno. E solo.).