Scompenso cardiaco e qualità della vita
Transcript
Scompenso cardiaco e qualità della vita
AGGIORNAMENTI SCOMPENSO CARDIACO E QUALITÀ DELLA VITA Marco Trabucchi, Renzo Rozzini Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia Il titolo potrebbe essere criticato perché propone un modello di lettura della realtà umana dell’anziano in modo segmentario, quasi fosse possibile in una persona affetta da diverse patologie isolare in modo schematico e diretto le conseguenze indotte dai segni clinici dello scompenso cardiaco sulla qualità della vita. Anche se l’impresa riveste qualche difficoltà pratica e concettuale, la realtà clinica induce a considerare la malattia prevalente che affligge una persona anziana come quella attorno alla quale incentrare analisi operative, pur consci dei limiti dei dati così ottenibili. Lo scompenso cardiaco, che è stato definito il modello prototipale di sindrome cardiogeriatrica del 21esimo secolo (1), rappresenta una condizione sempre più frequente, associata nel vecchio ad una prognosi infausta, in grado di esercitare un carico pesante per il paziente e la sua famiglia. Studiarne quindi l’impatto sull’”essere nel mondo“ dell’anziano rappresenta un dovere della geriatria moderna, profondamente coinvolta nell’impegno di ridurre il carico di sofferenza indotta dalle malattie croniche. Le misure di qualità della vita: utilità e limiti Per costruire un modello interpretativo adeguato è necessario partire dal concetto di qualità della vita, come misura complessiva di una specifica condizione umana (vedi per una revisione recente ed ampia) (2). Ogni persona nel momento in cui viene richiesta di dichiarare in modo sintetico la qualità del proprio essere nel mondo tende a valorizzare alcuni aspetti del sentire in base alla propria cultura, alla propria esperienza, alla quantità-qualità dei rapporti umani. Inoltre spesso attribuisce più valore ai cambiamenti di stato rispetto allo stato stesso e tende a far contare di più i picchi (negativi e positivi) degli episodi e non la loro effettiva durata ed i momenti di normalità. Non è quindi semplice compiere un’operazione di oggettivizzazione –come è stato fatto in letteratura negli ultimi anni- del dato soggettivo, al fine di ottenere una modalità di valutazione applicabile in soggetti diversi ed adottabile in diversi setting, anche al fine di misurare l’efficacia di specifici interventi. Spesso purtroppo il concetto stesso di qualità della vita è stato banalizzato, sia per superficialità sia perché è stato adottato come misura surrogata in mancanza di dati più diretti per analizzare, ad esempio, gli effetti di un farmaco. E’ quindi necessario utilizzare criteri di equilibrio, al fine di non svilire una misura di primaria importanza, anche alla luce dell’evoluzione del concetto di medicina basata sulle evidenze, sempre più aperta a collocare nell’ambito delle evidenze stesse anche misure complesse, in grado di descrivere in modo realistico la condizione vitale di una persona. L’attenzione alla qualità della vita è peraltro un’operazione tipicamente geriatrica, perché in linea con il concetto di valutazione multidimensionale della condizione dell’anziano; infatti le diverse scale utilizzate sono strutturate attorno alla rilevazione di domain diversi, di ordine somatico, psicologico, relazionale. Non vi è condizione di fragilità così grave da non permettere una valutazione della qualità della vita; anche nella persona affetta da demenza, quando si valuta il paziente la dimensione complessiva conserva un notevole rilievo. Un recente editoriale di un’importante rivista scientifica così intitolava: “Il mondo post-moderno degli studi sull’Alzheimer: quanto pesa un punto all’Adas Cog nel centro di Londra?” (3). E’ una provocazione, però riassume la tendenza, che caratterizza gli studi più avanzati, ad interpretare la realtà in una logica sistemica, uscendo dai tradizionali schemi della medicina incentrati sulla patologia d’organo che viene affrontata e vinta solo con interventi mirati. L’editoriale ribadisce che non è l’organo encefalo che si deve curare, estraendolo da un corpo che vive nel mondo e portandolo in un laboratorio, ma è la persona che si deve accompagnare –utilizzando il massimo della tecnica intesa in senso ampio- verso una possibilità di vita migliore, tenendo conto di limiti e occasioni. Queste considerazioni si adattano all’organo cuore, il cui malfunzionamento produce effetti che incidono sulla vita di altri organi, sulla psiche, sulla possibilità di relazioni. Tanto più la persona è anziana e fragile, tanto più il riferimento a ricadute più ampie dello specifico evento biologico diviene necessario. La complessità è caratteristica principale della condizione umana (e quindi anche biologica e clinica) con il passare degli anni; ogni analisi quindi deve subire la contaminazione da parte di eventi casuali, dall’incertezza, dall’emergere di situazioni inattese e imprevedibili. La logica del pensiero medico tradizionale deve essere contaminata dagli eventi del mondo reale. Ciò non mette in crisi né il pensiero clinico né l’atto di cura, ma anzi forma il medico ad una sempre maggiore capacità di attenzione all’insieme, senza averne timore. Infatti nella visione medica tradizionale non trovava spazio una misura oggettiva della qualità della vita, perché l’interesse si incentrava sulla sintomatologia o –eventualmente- su una interpretazione soggettiva e globale da parte del medico sulla condizione del suo paziente (“come sta?”). Un impegno analitico in questo campo risulta quindi difficile da gestire, perché incentrato sul paziente, mentre l’atteggiamento tradizionale dava un ruolo centrale al medico, interprete unico della condizione umana dell’ammalato. Tale mancanza di rilevazioni oggettive permetteva però interpretazioni scarsamente equilibrate: da una parte un ottimismo spesso superficiale ed inutile, dall’altra un pessimismo che non lasciava spazio ad interventi di supporto. Il risultato per l’ammalato era pesantemente negativo. Non è questa la sede per una revisione sistematica dei dati sulla condizione vitale dell’anziano affetto da una malattia cronica come lo scompenso cardiaco; non è però possibile dimenticare a questo proposito il cambiamento di atteggiamento culturale compiuto verso una medicina che non è più vissuta come scienza che guarisce, ma scienza che cerca di mettere assieme i pezzi di un puzzle umano in difficoltà, in modo di permettere la sopravvivenza della persona. In questa operazione, tra l’altro, giocano un ruolo importante anche attori non direttamente legati alla clinica, però altrettanto importanti al fine di garantire la sopravvivenza in condizione di grave malattia. Si pensi al ruolo delle badanti (ci ripromettiamo sempre di eliminare questa denominazione meschina, ma non abbiamo ancora trovato un sinonimo espressivo), che ha permesso di costruire piccole cliniche casalinghe attorno a malati sempre più numerosi e compromessi. Nei prossimi anni potremo scrivere la storia di questo evento -improvviso, inatteso e non gestito-, cercando di andare a misurarne gli effetti sulla qualità della vita di milioni di anziani altrimenti destinati all’abbandono o all’istituzionalizzazione (peraltro sempre più costosa, difficile, precaria). Tra le cose che dovremo descrivere nel prossimo futuro (per meglio comprendere la dinamica di cambiamenti avvenuti in tempo molto breve) vi è anche la condizione dell’uomo vecchio di oggi che vede la sua vita sempre più affidata a farmaci e talvolta anche ad interventi di alta intensità tecnologica. Ben lungi da me qualsiasi atteggiamento di nostalgia verso il buon tempo passato dove si moriva presto (e spesso malissimo!); però è necessario ripensare alla condizione soggettiva dell’anziano che si sente “costretto” a sopravvivere grazie alle potenzialità della medicina contemporanea. Non alludo all’accanimento (che ha altre dinamiche), ma alla normale e quotidiana sensazione di ogni persona affetta da scompenso di sentirsi vivo grazie ad un atto di cura. Fiducia, speranza, stanchezza, delusione…quanti e diversi sentimenti accompagnano queste vite, che dobbiamo essere in grado di “leggere”, per evitare di diventare gestori freddi delle giornate altrui, senza essere capaci di guardare nel cuore e nella mente dell’altro. “Leggere”, comprendere, accompagnare; questa sequenza sta alla base di un atteggiamento equilibrato del medico che non si fa condizionare dalla propria cultura e dal proprio orgoglio professionale, ma nemmeno si lascia dominare da un malinteso (e soggettivo) sentimento di pena di fronte alle innegabili sofferenze del paziente anziano affetto da una grave malattia cronica che limita l’autonomia e carica l’esistenza di un pesante fardello di fatica. Leggere la condizione del paziente diventa la premessa per capirlo ed essere quindi in grado di essergli vicino, esprimendo un sentimento di compassione che permette il massimo rapporto di cura, comprendendo quali sono le aree dove più opportunamente ed efficacemente è possibile realizzare una terapia. Infine l’accompagnamento esprime la caratteristica peculiare del medico nel momento in cui sente la necessità di porsi di fianco all’ammalato, facendo assieme a lui i percorsi di cura. In questo modo nel corso di storie naturali di malattia talvolta lunghissime si sviluppa un rapporto intenso tra medico, paziente e famiglia, rendendo superflua qualsiasi discussione accademica sulle modalità per compiere scelte riguardanti il futuro delle cure, come quelle sull’apparente dualismo accanimento-eutanasia. Un rapporto meccanico (o falsamente tecnologico) con l’ammalato è spesso la causa negativa di interventi puntiformi, che non giovano, anche se apparentemente obbediscono a richieste del paziente espresse in passato; se, invece, il medico conosce la storia (e quindi anche il presente) dell’ammalato, perchè lo ha accompagnato nel corso di lunghi anni, ogni decisione sarà il frutto di una vicinanza che spesso nemmeno richiede verbalizzazioni, conseguenza di una condivisione non banale. Le considerazioni suddette aprono la strada all’approfondimento delle metodologie per la rilevazione della qualità della vita, diffondendo una cultura di avvicinamento al paziente cronico che non trascura nulla, ma è allenata a considerare le diverse componenti di un essere nel mondo complesso e difficile. Quindi anche le righe che seguono vanno lette nello spirito di approfondire tecniche che, al di là della loro specifica importanza, rappresentano uno stimolo ad avvicinare il paziente affetto da malattia cronica come si avvicina una persona assolutamente originale, la cui specificità biologica e clinica offre spunti significativi per un rapporto di cura. Nell’anziano, in particolare, la condizione esistenziale e il supporto di uno specifico servizio possono profondamente modificare la qualità di vita soggettiva, anche indipendentemente da oggettive condizioni di salute. Lungi dall’essere un limite, questo fatto insegna come sia necessario collocare ogni intervento clinico all’interno di un sistema complesso di relazioni, facendolo precedere da un’analisi che tiene in conto condizionamenti o vantaggi conseguenti all’ambiente. Si pensi, ad esempio, alla valorizzazione della casa come luogo primario di cura compiuta in questi anni dalla geriatria, anche utilizzando il supporto delle moderne tecnologie telematiche. Ben si sa però quanto sia ambigua la reazione del paziente in gravi condizioni di salute rispetto al mantenimento a casa, perché sia lui che i famigliari oscillano periodicamente tra il desiderio di rimanere nel proprio luogo naturale di vita ed il senso di protezione che in ogni momento è offerto da una struttura ospedaliera. Lo stesso dicasi per il ricovero in hospice di persone affette da scompenso in fase terminale; per poter decidere se questa alternativa è di vantaggio per il paziente la misura della qualità della vita rappresenta una valutazione critica, sapendo a priori che il paziente darà maggiore importanza agli aspetti psicologici di accompagnamento rispetto a quelli clinici. Ciò non vuol dire trasformare il lavoro del medico in un impresa di assistenza sociale, ma aver chiaro il risultato di salute che si vuol ottenere (che spesso è il mantenimento dell’autonomia, sia attraverso interventi palliativi, sia attraverso atti di cura che rallentano l’evoluzione della malattia). Un’ultima considerazione riguarda la collocazione da dare nell’ambito della rilevazione della qualità della vita alle questioni relative al senso della vita stessa. Nel tempo delle “passioni tristi” (4) può essere molto difficile aiutare la persona anziana fragile a non perdere il senso della vita, quando tutti i punti di riferimento tradizionali si sono progressivamente svalutati. Pur non invocando per il medico e per gli altri componenti dell’equipe di cura una funzione religiosa o etica, non vi è dubbio che nelle condizioni spesso estreme di vita della persona affetta da una malattia cronica fortemente invalidante, come lo scompenso cardiaco, l’accompagnare l’atto di cura con gesti di speranza e di vicinanza da allo stesso un significato importantissimo, perché delinea un tempo di vita che non è esclusivamente un tempo di attesa della morte. Potrebbe essere utile ricordare a questo proposito come –secondo Rodriguez-Artalejo et al. (5)- la qualità della vita rappresenti a sua volta un predittore di ricoveri ospedalieri e di mortalità, al pari di ben noti fattori quali una storia di diabete, il trattamento con ACE inibitori, il numero delle precedenti ospedalizzazioni. Si ritorna quindi a considerare un complesso di eventi hard (biologici) ed eventi apparentemente soft (prevalentemente psicosociali, in particolare quelli legati all’intimo sentire del paziente rispetto al senso della sua vita) nel determinismo di condizioni quali la sopravvivenza di persone affette da scompenso di cuore. Non per costruire una confusa e indistinta raccolta di determinanti, ma per identificare elementi che possono costituire punti di attenzione in una prospettiva di prevenzione. La complessità degli aspetti sopradescritti rimarca l’esigenza che in questi ambiti si sviluppi un grande impegno di ricerca, per mettere a punto modelli di lavoro adeguati alla multiformità delle situazioni e alla difficoltà di identificare strumenti adeguati per costruire risposte mirate. Certamente non si vuole entrare in concorrenza con la ricerca biologica che arriva alla radice dell’evento clinico (e che –per esempio nell’ambito dello scompenso cardiaco- ha permesso negli anni enormi progressi nella qualità delle cure e nei risultati ottenuti), ma aver chiaro il modello che attraverso studi e ricerche è possibile raggiungere ogni giorno un piccolo ma significativo progresso, che di fatto diviene un grande progresso sul piano dell’interpretazione soggettiva. In particolare la ricerca sulla qualità della vita offre allo studioso la possibilità di delineare modelli con immediate ricadute per persone colpite da malattie fortemente invalidanti e pesantemente interferenti con la vita psichica. Il fine ultimo (ma anche il primo) è permettere a persone anziane molto ammalate di poter ancora provare speranza (6). Questo sentimento più di tutti indica che la vita vale la pena di essere vissuta; qualsiasi medico capace di onorare il proprio mestiere deve porsi in ammirato silenzio, perché probabilmente la speranza non consegue al suo lavoro, ma, anche così fosse, è un sentire troppo vasto per essere inquadrato tra i possibili outcome di un intervento terapeutico. D’altra parte, in apparente contraddizione con queste osservazioni, è noto che alcuni pazienti scambierebbero volentieri un allungamento della vita con una migliore qualità della vita stessa (7). E’ retorico affermare che il cuore dell’uomo nasconde anfratti inesplorati e inesplorabili; non è però difficile comprendere come per taluno la speranza abbia un valore assoluto e talaltro desideri invece fare un commercio (un pò faustiano?) tra durata e qualità della propria vita. Lo scompenso cardiaco e la qualità della vita Nonostante i notevoli progressi della medicina, lo scompenso cardiaco in fase avanzata rimane una condizione con una prognosi negativa (la mortalità può arrivare annualmente al 30%). E’ una malattia molto grave e come tale spesso viene percepita dal paziente e dall’equipe curante, con rilevanti conseguenze sul benessere psicologico. E’ quindi comprensibile l’aumento di interesse avvenuto in questi anni per la rilevazione della qualità della vita; la letteratura ha ampiamente affrontato la tematica con approcci diversi. In questo capitolo mi limito a ripercorrere alcune linee più largamente discusse, sottolineando in premessa che spesso i dati sono contradditori e poco confrontabili tra loro. In parte questa variabilità può essere attribuita all’uso di diversi strumenti di rilevazione (8-9-10-11). Inoltre è ben noto come all’interno di una stessa popolazione, con pari livello di compromissione clinica, la misura della qualità della vita dia risultati estremamente diversi, con questo confermando l’utilità di adottare routinariamente strumenti di valutazione del singolo paziente, al fine di calibrare in modo personalizzato la qualità degli interventi di supporto e talvolta anche quelli di cura in senso stretto (12). Una tempestiva rilevazione della qualità della vita diviene componente fondamentale di ogni atto terapeutico in pazienti sempre fragili dal punto di vista psicologico, che sono sottoposti a cure di lunga durata e non sempre di significativo rilievo soggettivo (13). Il problema centrale è e resta quello di comprendere –pur alla luce di quanto affermato nel paragrafo precedente- come i sintomi dello scompenso (tra i quali dispnea, edemi diffusi, affaticabilità, alterazioni del sonno, mancanza di appetito e tosse persistente) possono indurre così diverse conseguenze sul piano della qualità della vita. Dietro a questa tematica vi è anche lo studio del rapporto tra gli stadi della malattia e malattie diverse e qualità della vita, sulla scia di un problema largamente discusso in geriatria, cioè il rapporto tra disease e disability (14). La ricerca di predittori del livello della qualità della vita diviene di importanza primaria (15) anche perché -mancando una condizione clinica dominante (come il dolore nel paziente oncologico)- è più complesso identificare una scala di importanza delle diverse condizioni (si pensi, ad esempio, all’essere molto vecchio, alla gravità della classe NYHA, alla presenza di depressione, di comorbidità somatiche, all’appartenere ad una classe socioeconomica svantaggiata). Come sempre avviene riguardo alle malattie croniche dell’anziano, le componenti psicosociali rivestono un’importanza primaria; ad esempio, condizioni quali la solitudine e la povertà giocano un ruolo significativo, perché tolgono all’ammalato i principali meccanismi tampone (16). Questi dati sono apparentemente in contrasto con altri, secondo i quali le donne con meno di 65 anni sono a maggior rischio di sofferenza soggettiva rispetto agli uomini e alle donne più anziane (17). Poichè sembrerebbe che questo gruppo sociale è meno esposto agli stress psicosociali, è necessario ipotizzare meccanismi più complessi, che possono essere chiariti solo attraverso ulteriori studi accurati, con una più ampia numerosità. In generale, secondo alcuni autori (18), non è sempre possibile costruire una sequenza chiara tra alterazioni patologiche a livello cardiaco, manifestazioni sintomatologiche e qualità della vita. In particolare, da più parti viene enfatizzata l’importanza del valore assoluto del livello di autosufficienza e delle sue modificazioni nel tempo come determinante della qualità della vita e quindi anche come target di interventi specifici (19). Ovviamente queste valutazioni aprono la strada a sperimentare l’impatto di specifici interventi miranti a modificare più o meno direttamente la qualità della vita (20); purtroppo, come di seguito indicato, manca ancora un’indicazione che permetta di adottare comportamenti omogenei, ma la ricchezza di dati suggerisce una serie di potenziali interventi, ciascuno dei quali in grado di modificare, anche se di poco, la qualità della vita della persona in età avanzata. In questo ambito decisionale il rispetto della volontà del paziente diviene fondamentale, in particolare per quanto riguarda lo scompenso nelle fasi finali della vita (21). Proprio nella prospettiva della qualità della vita, adottare o meno un atteggiamento palliativo può cambiare radicalmente la condizione del paziente, perché sono in gioco sentimenti come la perdita di speranza che devono essere monitorati dal medico con grande attenzione. E’ infatti difficile condividere con il paziente una scelta di rinuncia ad interventi curativi, senza ammettere la vicinanza della fine. E’ interessante notare come un altro momento delicato per quanto riguarda la qualità della vita è quello immediatamente successivo alla comunicazione della diagnosi (22). L’inizio e la fine della malattia espongono il paziente ai rischi di una crisi psicologica; è quindi particolarmente necessario un supporto da parte del medico, in grado di trasmettere contenuti rassicuranti, dimostrando concretamente un’attitudine all’accompagnamento. Una problematica particolare, anch’essa scarsamente approfondita, ma importante rispetto alla possibilità di una cura adeguata nel tempo, riguarda la qualità della vita del principale caregiver del paziente; infatti, come per molte malattie croniche dell’anziano, chi assiste diviene una delle principali vittime della crisi. Anche nel caso di pazienti scompensati il coniuge si trova in una condizione di grave precarietà e spesso con una qualità della vita molto povera (23); qualsiasi intervento, anche se strettamente biologico, non potrà quindi trascurare il caregiver che vive assieme al paziente, sia per ovvie motivazioni umanitarie sia perché rappresenta molto spesso il fulcro di qualsiasi cura a domicilio. Modelli di intervento nello scompenso cardiaco e ricadute sulla qualità della vita La letteratura sugli interventi è molto ampia, a testimonianza di come la medicina abbia dato attenzione – assieme all’impegno per prolungare la vita- anche agli aspetti della “care” delle malattie croniche, non più ritenuti, come in un recente passato, marginali, ma obiettivi da raggiungere con determinazione per garantire il massimo livello possibile di benessere del paziente (la cui definizione è peraltro molto difficile). Studi recenti riguardano interventi legati alla organizzazione di sistemi di continuità assistenziale, ai supporti psicologici, alla riduzione della disabilità, all’uso di farmaci specifici, agli interventi di chirurgia (di seguito vengono presentati alcuni tra i più significativi contributi della letteratura). La schematizzazione richiede di presentare separatamente le diverse tipologie di interevento; è però utile ricordare –soprattutto allo scopo di una moderna formazione degli operatori- che molti degli interventi indicati vengono adottati in modo integrato, richiedendo il contributo di conoscenze e di competenze professionali di vari componenti dell’equipe di cura (24). Dal punto di vista organizzativo è importante ricordare come non vi sia chiarezza definitiva circa le modalità più efficaci di prestare assistenza (centralità dell’ospedale verso un’organizzazione prevalentemente domiciliare con responsabilità territoriali, diversità nelle responsabilità di management, ecc.). Ducharme et al. (25) hanno recentemente pubblicato i risultati di un trial dimostrando che l’afferenza dei pazienti scompensati ad un ambulatorio specializzato, caratterizzato dalla presenza di un team multidisciplinare, induce un significativo miglioramento della qualità della vita, oltre a ridurre il numero delle ospedalizzazioni e la durata delle stesse. Numerosi altri studi riguardano il monitoraggio a casa dei pazienti ad opera di infermiere adeguatamente formate, sia attraverso visite dirette (26) sia attraverso il telefono (27) o strumenti di telemanagement (28). In entrambi i casi gli intereventi comprendono il monitoraggio della condizione clinica e l’eventuale adeguamento delle terapie, ma hanno anche lo scopo di aumentare il senso di controllo del paziente sulla propria condizione vitale. In questo ambito si deve ricordare il ruolo particolarmente importante svolto dalla professione infermieristica (29-30) Sebbene la maggior parte degli studi sia stata compiuta nei paesi anglosassoni dove la professione infermieristica svolge funzioni diverse rispetto alla nostra organizzazione sanitaria, non vi è dubbio che la strada del futuro sia quella di un sempre maggior ruolo delle professioni sanitarie non mediche nell’assistenza continuativa agli ammalati cronici (sperando di riuscire a superare in breve tempo l’attuale grave crisi provocata dalla scarsa disponibilità di professionisti in questo campo). E’ significativo anche rilevare come, in generale, i risultati sulla qualità della vita accompagnino quelli più strettamente clinici, a conferma di come nelle malattie croniche il supporto psicologico sia una componente strutturale di qualsiasi intervento e non un aggiunta di “lusso”, affidata a scelte individuali (31). La percezione soggettiva di un supporto psicologico è una delle determinanti principali della qualità della vita (32); il distress psicologico che si accompagna alla sensazione di perdita di supporto (o anche ad un supporto non esistente) è –assieme alla classe NYHA- uno dei fattori maggiormente incisivi sulla qualità della vita stessa (33). Un altro aspetto significativo è rappresentato dagli studi sull’esercizio fisico e i suoi effetti sulla qualità della vita, nonché sull’oggettivo miglioramento della tolleranza all’esercizio stesso (34). Questa azione riflette componenti di tipo psicologico e la sensazione di benessere derivante da una migliore capacità di sostenere lo sforzo. Sullo stesso piano si collocano i risultati ottenuti sulla qualità del sonno; infatti un sonno soggettivamente riposante è strettamente correlato con una migliore funzionalità del paziente (35). Infine, di particolare importanza è l’insieme degli studi che correlano la qualità della vita con la somministrazione di farmaci per la cura dello scompenso cardiaco. In questo ambito le ricerche hanno definito diversi outcome, utili per valutare il significato clinico dei nuovi trattamenti; tra questi la qualità della vita –rilevata in modi diversi- è stata al centro di molte ricerche di farmacologia clinica, alcune delle quali riguardanti il valsartan (36), carvedilolo e metoprololo (37), eplerenone (38). Anche indagini sulla supplementazione di micronutrienti hanno dato risultati significativi (39). Nell’ambito degli studi di interevento rispetto all’effetto sulla qualità della vita devono anche essere ricordati quelli riguardanti la chirurgia. Ad esempio, Goyal et al. (40) hanno dimostrato in pazienti ottuagenari che la chirurgia cardiaca ottiene risultati positivi sia sul piano oggettivo (riduzione dell’angina e miglioramento di almeno una classe NYHA) sia su quello soggettivo (minore sensazione di dipendenza e disponibilità ad una eventuale ripetizione dell’intervento chirurgico). Al contrario, un'altra procedura chirurgica, mirante a ridurre il livello di rigurgito mitralico, non ha portato a risultati significativi sul piano della qualità della vita (41). Nel loro insieme gli studi suggeriscono che i diversi interventi portano mediamente a risultati significativi; come sempre, resta l’interrogativo rispetto ai dati negativi che non sono stati pubblicati e che invece potrebbero dare indicazioni sul rapporto tra specifici eventi clinico-biologici (indotti dai diversi interventi) e modificazioni della qualità della vita. Il campo è ancora molto aperto e l’esigenza di studi è sempre più sentita per l’aumentare del numero degli anziani colpiti da scompenso ed anche perché l’incremento della spettanza di vita delle persone ammalate impone di dedicare attenzione alla qualità degli anni conquistati grazie alle nuove cure. Gli studi più recenti hanno peraltro confermato come la qualità della vita rappresenti un fattore importante anche rispetto a eventi solo apparentemente hard, ma che invece sono strettamente dipendenti dalla soggettività del paziente e dal suo livello di sofferenza. I dati soprariportati si collocano in un tempo di grandi ripensamenti della medicina, imposti soprattutto dalla crescita delle malattie croniche. E’ quindi doveroso approfondire le ricerche in modo da offrire ai medici un modello formativo che prepari a dare risposta a nuovi bisogni. La sfida –che non possiamo perdere- prevede come riferimento un sistema di conoscenze in grado di dare il massimo in termini di tecnologie, evitando però che queste assorbano ogni spazio dell’impegno professionale, e di superare qualsiasi dualismo rispetto all’attenzione per i bisogni primari dell’ammalato cronico. Bibliografia 1. Rich MW. Heart failure in the 21st century: a cardiogeriatric syndrome. J Gerontol: Med Sci 2001;56A:M88-M96. 2. Hickey A, Barker M, McGee H, O’Boyle C. Measuring health-related quality of life in older patient populations. A review of current approaches. Pharmacoeconomics 2005;23:971-93. 3. Schneider LS. The post-modern world of Alzheimer’s disease trials: how much is an ADAS-Cog point worth in central London? Int J Geriatr Psychiatry 2006;21:9-13. 4. Benasayang M, Schmit G. L’epoca delle passioni tristi. Milano: Feltrinelli, 2004. 5. Rodriguez-Artalejo F, Guallar-Castillón P, Pascual CR, Montoto Otero C, Ortega Montes A, Nieto Garcia A, et al. Health-related quality of life as a predictor of hospital readmission and death among patients with heart failure. Arch Intern Med 2006;165:1274-79. 6. Rustøen T, Howie J, Eidsmo I, Moum T. Hope in patients hospitalized with heart failure. Am J Crit Care 2005;14:417-25. 7. Lewis EF, Johnson PA, Johnson W, Collins C, Griffin L, Stevenson LW. Preferences for quality of life or survival expressed by patients with heart failure. J Heart Lung Transplant 2001;20:1016-24. 8. Rector TS, Anand IS, Cohn JN. Relationships between clinical assessment and patients’ perceptions of the effects of heart failure on their quality of life. J Cardiac Failure 2006;12:87-92. 9. Heo S, Moser DK, Riegel B, Hall LA, Christman N. Testing a published model of health-related quality of life in hear failure. J Cardiac Failure 2005;11:372-79. 10. Franzén K, Blomqvist K, Saveman BI. Impact of chronic heart failure on elderly persons’ daily life: a validation study. Eur J Cardiovasc Nurs 2006;5:137-45. 11. Witham MD, Crighton LJ, McMurdo MET. Using an individualised quality of life measure in older heart failure patients. Int J Cardiol 2006; in press. 12. Calvert MJ, Freemantle N, Cleland JGF. The impact of chronic heart failure on health-related quality of life data acquired in the baseline phase of the CARE-HF study. Eur J Heart Fail 2005;7:243-51. 13. Evangelista LS, Dracup K, Moser DK, Westlake C, Brickson V, Hamilton MA, et al. Two-year follow-up of quality of life in patients referred for heart transplant. Heart Lung 2005;34:187-93. 14. Guralnik JM. Understanding the relationship between disease and disability. J Am Geriatr Soc 1994;42:1128-9. 15. Gott M, Barnes S, Parker C, Payne S, Seamark D, Gariballa S, et al. Predictors of the quality of life of older people with heart failure rescruited from primary care. Age Ageing 2006;35:172-7. 16. Luttik ML, Jaarsma T, Veeger N, van Veldhuisen DJ. Marital status, quality of life, and clinical outcome in patients with heart failure. Health Lung 2006;35:3-8. 17. Hou N, Chui MA, Eckert GJ, Oldridge NB, Murray MD, Bennett SJ. Relationship of age and sex to health-related quality of life in patients with heart failure. Am J Crit Care 2004;13:153-61. 18. Rector TS, Kubo SH, Cohn JN. Patients’ self assessment of their congestive heart failure: II. Content, reliability and validity of a new measure – the Minnesota living with heart failure questionnaire. Heart Fail 1987;3:198-209. 19. Masoudi FA, Rumsfeld JS, Havranek EP, House JA, Peterson ED, Krumholz HM, et al. Age, functional capacity, and health-related quality of life in patients with heart failure. J Card Fail 2004;10:368-73. 20. Franzén K, Saveman BI, Blomqvist K. Predictors for health related quality of life in persons 65 years or older with chronic heart failure. Eur J Cardiovas Nurs 2006, in press. 21. Formiga F, Chivite D, Ortega C, Casas S, Ramón JM, Pujol R. End-of-life preferences in elderly patients admitted for heart failure. Q J Med 2004;97:803-8. 22. Van Jaarsveld CHM, Sanderman R, Miedema I, Ranchor AV, Kempen GIJM. Changes in ehalth related quality of life in older patients with acute myocardial infarction or congestive heart failure: a prospective study. J Am Geriatr Soc 2001;49:1052-8. 23. Pihl E, Jacobsson A, Fridlund B, Strömberg A, Mårtensson J. Depression and health-related quality of life in elderly patients suffering from heart failure and their spouses: a comparative study. Eur J Heart Fail 2005;7:583-9. 24. Jones AM, O’Connell J, Gray CS. Living and dying with congestive heart failure: addressing the needs of older congestive heart failure patients. Age Ageing 2003;32:566-8. 25. Ducharme A, Doyon O, White M, Rouleau JL, Brophy JM. Impact of care at a multidisciplinary congestive heart failure clinic: a randomized trial. CMAJ 2005;173:40-5. 26. Scott LD, Setter-Kline K, Britton AS. The effects of nursing interventions to enhance mental health and quality of life among individuals with heart failure. App Nurs Res 2004;17:248-56. 27. GESICA Investigators. Randomised trial of telephone intervention in chronic heart failure: DIAL trial. Br Med J 2005;331:425. 28. Benatar D, Bondmass M, Ghitelman J, Avitall B. Outcomes of chronic heart failure. Arch Intern Med 163:347-52. 29. Kodiath M, Kelly A, Shively M. Improving quality of life in patients with heart failure. An innovative behavioral intervention. J Cardiovas Nurs 2005;20:43-8. 30. Zambroski CH, Moser DK, Bhat G, Ziegler C. Impact of symptom prevalence and symptom burden on quality of life in patients with heart failure. Eur J Cardiovasc Nurs 2005;4:198-206. 31. Krumholz HM, Butler J, Miller J, Vaccarino V, Williams CS, Mendes CF, et al. Prognostic importance of emotional support for elderly patients hospitalized with heart failure. Circulation 1998;97:958-64. 32. Bennett SJ, Perkins SM, Lane KA, Deer M, Brater DC, Murray MD. Social support and healthrelated quality of life in chronic heart failure patients. Qual Life Res 2001;10:671-82. 33. Lee DTF, Yu DSF, Woo J, Thompson DR. Health-related quality of life in patients with congestive heart failure. Eur J Heart Fail 2005;16:419-22. 34. Klocek M, Kubinyi A, Bacior B, Kawecka-Jaszez K. Effect of physical training on quality of life and oxygen consumption in patients with congestive heart failure. Int J Cardiol 2005;103:323-9. 35. Redeker NS, Hilkert R. Sleep and quality of life in stable heart failure. J Card Fail 2005;11:700-4. 36. Majani G, Giardini A, Opasich C, Glazer R, Hester A, Tognoni G, et al. Effect of valsartan on quality of life when added to usual therapy for heart failure: results from the valsartan heart failure trial. J Card Fail 2005;11:253-9. 37. Cleland JGF, Charlesworth A, Lubsen J, Swedberg K, Remme WJ, Erhardt L, et al. A comparison of the effects of carvedilol and metoprolol on well-being, morbidity, and mortality (the “patient journey”) in patients with heart failure. A report from the Carvedidol or Metoprolol European Trial (COMET). J Am Coll Cardiol 2006;47:1603-11. 38. Spertus JA, Tooley J, Jones P, Poston C, Mahoney E, Deedwania P, et al. Expanding the outcomes in clinical trials of heart failure: the quality of life and economic components of EPHESUS (EPlerenone’s neuroHormonal Efficacy and SUrvival Study). Am Heart J 2002;143:636-42. 39. Witte KKA, Nikitin NP, Parker AC, von Haehling S, Volk HD, Anker SD, et al. The effect of micronutrient supplementation on quality-of-life and left ventricular function in elderly patients with chronic heart failure. Eur Heart J 2005;26:2238-44. 40. Goyal S, Henry M, Mohajeri M. Outcome and quality of life after cardiac surgery in octogenarians. ANZ J Surg 2005;75:429-35. 41. Hauptman PJ, Rector TS, Wentworth D, Kubo S. Quality of life in advanced heart failure: role of mitral regurgitation. Am Heart J 2006;151:213-8.