Donne e Resistenza - Storia Storie Pordenone

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Donne e Resistenza - Storia Storie Pordenone
PORDENONE
“Donne e Resistenza”
Festa Regionale di LiberEtà a Pordenone.
(Un piccolo contributo al dibattito realizzato con la collaborazione di G.Luigi Bettoli e Monica Emmanuelli)
La storia delle donne nell'antifascismo e nella Resistenza ha caratteri suoi particolari, che non
possono essere ristretti nel ruolo ausiliario della clandestinità ed opposizione armata, considerate
prevalentemente maschili. Le donne non sono state solo titolari di lavori di cura, di funzioni di
collegamento come staffette e, in alcuni casi estrapolati come "eroici", partigiane combattenti, ma
sono state molto di più.
Il territorio pordenonese in particolare, per la sua conformazione operaia tessile, e per la
combattività della sua classe operaia femminile, si distingue rispetto ad altre realtà. Il modello
sindacale pordenonese vede fin dall'inizio, dalle prime lotte spontanee di fine Ottocento ed inizi
Novecento, un autonomo protagonismo femminile, che distingue questo polo cotoniero dalle più
subalterne realtà operaie lombardo-venete, per avvicinarlo ai maggiori poli di conflittualità, come
Biella, Milano e Prato. Un protagonismo che trova nel sindacato di classe il suo punto di riferimento,
rompendone nelle vertenze locali i consolidati limiti corporativi, maschili e professionali, tipici
anche dell'antica federazione tessile prefascista.
In quelle lotte le operaie tessili porteranno alcuni elementi caratterizzanti, dalla capacità di
elaborazione di autonome iniziative di lotta e piattaforme rivendicative, ad una forte connotazione
identitaria, particolarmente in senso anticlericale, come testimoniò il loro principale antagonista, il
parroco di Torre ed organizzatore sindacale cattolico don Giuseppe Lozer.
Non è un caso che Pordenone sia, insieme all'area risicola lombardo-piemontese, l'area in cui
sperimenta nei primi anni trenta le sue capacità di dirigente nazionale Teresa Noce, che nel secondo
dopoguerra, sarà, insieme a Giuseppe Di Vittorio, il volto più nuovo della Cgil e l'indimenticata
segretaria della Fiot. Una dirigente carismatica, non a caso spesso presente nel nostro territorio a
sostegno delle lotte operaie. Nei testi di Noce rimangono le testimonianze, confermate dai documenti
d'archivio, del lavoro clandestino nei cotonifici pordenonesi, ma anche negli stabilimenti tessili
udinesi. Ed è proprio ad Udine che la dirigente sindacale sottolinea, in polemica con i compagni
maschi che vorrebbero escluderle dai momenti di discussione, la funzione di protagonismo delle
operaie, già consolidato nell’esperienza delle cotoniere pordenonesi.
Infatti soprattutto a Pordenone le donne sono al centro di quell'organizzazione clandestina che
a più riprese, nel 1924 dopo il delitto Matteotti, poi nello sciopero di un mese della primavera 1928
ed infine nelle agitazioni contro la crisi del 1930-1931, contende al regime il controllo sulla classe
operaia, realizzando quello che probabilmente rimane alla storia come il più lungo sciopero durante
il fascismo.
Il carattere resiliente, e spesso opaco dell'impegno politico delle donne è tale che le
partecipanti alle riunioni, ai volantinaggi ed agli scioperi sfuggono agli arresti di massa nel 1931.
Ma, a dispetto di questo dato, l'organizzazione clandestina continua la sua attività, ed esprime
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dirigenti, sia in patria che all'estero. Due esempi emergenti sono quelli di Ida Brusadin, che passa dal
coordinamento delle attività in Cotonificio a quella presso il Centro estero del Pci come "fenicottero"
(cioè attivista incaricata dei contatti con il territorio friulano, attraverso i viaggi clandestini in cui
vengono trasmesse direttive e materiali di propaganda) e come delegata a congressi nazionali; e
quello di Elvira Pomesano, un'operaia piemontese che per prima operò come attivista permanente
della Camera del Lavoro pordenonese, per poi continuare il suo impegno nell'emigrazione
antifascista in Belgio.
Non può quindi apparire casuale che la Resistenza assuma caratteri particolari negli
stabilimenti pordenonesi, almeno quelli rimasti attivi nel biennio 1943-1945 (Rorai Grande, Torre e
Fiume Veneto erano infatti stati trasformati in industrie belliche). Diversi del modello considerato
come il riferimento in regione, più ispirato alla pratica della lotta armata totale, cioè quello del
Cantiere di Monfalcone, con le sua centinaia di partigiani e di caduti. Il modello degli stabilimenti
pordenonesi è segnato invece dalla prevalente presenza di manodopera femminile, ed è sul piano
della vertenzialità politica ed economica che si svolge la lotta. Con scioperi radicali, che comportano
dure repressioni, all'Amman (Veneziano) di Pordenone ed al Makò (Cantoni) di Cordenons, nei quali
si saldano le rivendicazioni più tipicamente sindacali con l'azione partigiana, sia la guerriglia delle
Gap nel territorio, che l'azione delle Sap di fabbrica a tutela degli impianti.
In alcuni casi si formano militanti che saranno famose e lasceranno ampia testimonianza della
loro attività, come Nella Carli al Cantoni di Cordenons, che nel dopoguerra si trasferirà ad Udine e
dovrà affrontare lo sforzo per garantire un salto di qualità all'azione operaia al Cotonificio Udinese.
In altri casi, le militanti continueranno a rimanere nell'ombra, segnate da un diverso ruolo familiare
(che affianca al protagonismo operaio la subalternità casalinga) e da organizzazioni strutturate sul
modello del protagonismo maschile, rafforzato dal carisma del comando durante la guerra partigiana.
Nomi che rischiano di sparire nell'oblio, a dispetto del loro ruolo centrale nel garantire una
robusta struttura sindacale, che durerà fino alla ristrutturazione del 1954 ed all'espulsione in massa di
centinaia di operaie sindacalizzate. Come ad esempio Rachele Redigo Da Corte, Iole Zago, Graziella
Scian, Leda Perissinotti, di cui solo in alcuni casi si sono raccolte le testimonianze, mentre raramente
- tanto erano donne! - sono schedate dalla polizia del regime e da quella - con gli stessi uomini della Repubblica. Non è un caso che una grande dirigente come Virginia Tonelli, da Castelnovo del
Friuli, la responsabile della rete delle staffette garibaldine in Friuli uccisa nel campo di sterminio
della Risiera di Trieste, appaia nei documenti del Casellario Politico Centrale solo come
corrispondente dei suoi cugini antifascisti. O come Alma Da Corte, licenziata per rappresaglia e poi a
lungo operatrice dell'Inca: solo i documenti di archivio - avendo dapprima operato Alma come
funzionaria del Pci - ci restituiscono oggi la dimensione di una attivista inquieta, irriducibile al
conformismo dominante e quindi emarginata anche nelle file della sinistra.
Caratteristica delle donne è stata quella di garantire una riproduzione anche politica e
culturale. Ne sono esempi Rachele Redigo ed Anna Da Corte, operaie tessili che garantirono la
continuità non solo dell'organizzazione clandestina. Anche nascondendo, dietro l'armadio di casa, il
ritratto di Carlo Marx che campeggiava nella Casa del Popolo di Torre fino al sequestro dell'edificio
per mano fascista, celandolo così alle frequenti perquisizioni, ma soprattutto allevando le figlie da
attiviste dell'antifascismo, fino al passaggio di testimone nella Resistenza. Questa è la storia dalla
quale nascono un'Alma Da Corte ed una Teresina Degan, la maestra della storiografia del movimento
operaio pordenonese. Una intellettuale che aveva dato il suo contributo concreto anche come
sindacalista: nel settore agricolo, come rappresentante delle tabacchine e più tardi nel sindacato
scuola, di cui fu la prima segretaria. E’ lei che arringa la folla nel 1947 nella Piazza XX Settembre
strapiena di manifestanti che protestano contro la strage del 1° maggio di Portella della Ginestra.
È così che la vita delle donne durante il periodo dell’occupazione nazista si segmenta su più
piani, intersecando lo sforzo più strettamente personale a quello collettivo, cercando da una parte di
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contenere la distruzione del proprio Paese, dall’altra di arginare, in una forma di Resistenza privata,
l’angoscia causata dalla guerra, dagli stenti, dalle violenze e dai ricorrenti lutti. La demarcazione tra
pubblico e privato diventa labile, quasi cancellata dalle nuove necessità della guerra. Le case si
trasformano da nido familiare a centri di stampa, di ricovero di partigiani, di incontri sovversivi. Gli
ambienti di lavoro non sono solo centri di produzione, ma anche di preparazione all’antifascismo e di
reclutamento alla lotta.
Tra le prime forme di resistenza si può indicare, utilizzando la categoria della “resistenza
civile” introdotta dal sociologo francese Jacques Sémelin, quella volta a danneggiare l’attività di
sfruttamento delle risorse intrapresa dai nazisti. Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, i soldati
sbandati e ricercati da nazifascisti vengono nascosti, sfamati e vestiti in abiti borghesi soprattutto
dalle donne. Ugualmente le donne assaltano le caserme abbandonate per procurarsi cibo, coperte e
quanto potesse essere utile alla vita, si radunano nelle stazioni dove transitano i treni che trasportano
in condizioni disumane i soldati catturati e diretti ai campi di internamento tedeschi, offrono loro del
cibo, raccolgono i bigliettini lasciati cadere dai pertugi per dare notizie alle famiglie.
Parallelamente si forma, in seno ai Cln e grazie alle donne più politicizzate, un’organizzazione
femminile di Resistenza, denominata Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti
della libertà, finalizzata ad unire tutte le donne di ogni estrazione sociale e politica in una lotta che
affermasse e che, facendone prendere coscienza, educasse ai diritti nella politica, nel lavoro, nella
quotidianità, nella tutela dei beni per lo sviluppo del paese anche in previsione della Liberazione,
unendo una crescita e consapevolezza civile alla lotta contro il nazifascismo, aiutando in ogni modo
le formazioni partigiane. Una battaglia che si esplicita nei sabotaggi e nei rallentamenti alla
produzione industriale, negli scioperi, nella mancata adesione al lavoro coatto in Germania, ma
anche nell’impegno alla diffusione degli ideali della pace e della libertà nelle fabbriche, nella
partecipazione alle manifestazioni pubbliche, nella cura ai caduti e alle vittime dei tedeschi.
Un’attività solo apparentemente poco rischiosa, rispetto alla lotta armata: ma è necessario ricordare
che un decreto di Mussolini del 9 ottobre 1943 disponeva la pena di morte quale punizione per tutti
coloro che avessero aiutato prigionieri di guerra o militari di forze armate nemiche, anche solo
facilitandone la fuga o nascondendoli.
L’attività si trova condensata nell’atto costitutivo con il programma d’azione redatto nel
novembre del 1943 dai Gruppi di difesa della donna. L’incipit ricorda “le donne italiane che hanno
sempre avversato il fascismo, che della guerra hanno sentito tutto il peso per i lutti, le case distrutte, i
sacrifici e le raddoppiate fatiche, non possono rimanere inerti in questo grave momento.” Un
proclama rivolto a “donne di ogni ceto sociale: massaie, operaie, impiegate, intellettuali e contadine
[…] Donne di ogni fede religiosa, di ogni tendenza politica, donne senza partito si uniscono per il
comune bisogno che ci sia pane, pace e libertà” e che questo lavoro sia portato avanti “in ogni
fabbrica, ufficio, scuola, villaggio”.
Il luogo di lavoro diventa basilare per la diffusione di ideali e per combattere: si “organizzano
nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e nei villaggi la resistenza al tedesco, il sabotaggio della
produzione, il rifiuto dei viveri e delle provvigioni, preparano le donne a fianco dei lavoratori tutti
per la liberazione comune”. Un impegno che si amalgama all’antifascismo più politico, al sostegno
economico, alimentare e morale ai combattenti e agli internati in Germania, alla diffusione di una
cultura della Liberazione dall’oppressione nazifascista. Si esplicita in sei punti:
1)
L’aumento delle razioni alimentari oggi, insufficienti a garantire il minimo
necessario alla vita;l’alloggio delle famiglie dei sinistrati e degli sfollati;
2)
guerra;
3)
il riscaldamento, i vestiti e le scarpe per affrontare il durissimo 5° inverno di
l’aumento dei salari in rapporto all’aumentato costo della vita;
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4)
a uguale lavoro uguale salario;
5)
i locali necessari alle scuole; il riscaldamento e la refezione, i vestiti e le scarpe
per i bambini.
Nella parte conclusiva del documento la tematica del lavoro diventa nuovamente parte
integrante dell’emancipazione e dimostrazione della necessità di una vera uguaglianza tra i generi,
con richieste che nell’attualità crediamo scontate o quasi, ma che solo settant’anni fa, come si legge
nel documento, erano a dir poco rivoluzionarie, redatte in tempo di guerra e di grandi cambiamenti
sociali. Viene dichiarato che “le donne vogliono [nda: sottolineo il “vogliono”, non “vorrebbero”,
una decisione chiara, meditata e tutt’altro che condiscendente]:
avere il diritto al lavoro, ma che non sia permesso sottoporle a sforzi che
pregiudichino la loro salute e quella dei loro figli.
E chiedono:
proibizione del lavoro a catena, del lavoro notturno, dell’impiego delle donne
nelle lavorazioni nocive;
-
essere pagate, con salario uguale per un lavoro uguale a quello degli uomini;
-
delle vacanze sufficienti e l’assistenza nel periodo che precede e segue il parto;
la possibilità di allevare i propri figli, di vederli imparare una professione, di
saperli sicuri del proprio avvenire [nda: e quanto è ancora attuale questa richiesta!];
partecipare all’istruzione professionale e di non essere adibite nelle fabbriche e
negli uffici soltanto ai lavori meno qualificati;
la possibilità di accedere a qualsiasi impiego, all’insegnamento in qualsiasi
scuola, unico criterio di scelta, il merito [nda: nuovamente un sincero pensiero alla
quotidianità!]
partecipare alla vita sociale, nei sindacati, nelle cooperative, nei corpi elettivi
locali e nazionali;
l’organizzazione democratica e il controllo di massa sulle istituzioni assistenziali
della donna e del bambino, di fabbrica, locali e nazionali.
E’ del tutto evidente il legame tra la piattaforma programmatica dei GDD e l’azione sindacale
delle operaie pordenonesi, che conquistarono, sia direttamente durante le vertenze della fase
resistenziale che in quelle dell’immediato dopoguerra, diritti allora avanzatissimi, come l’istituzione
della mensa aziendale e di meccanismi di controllo sulla qualità dell’ambiente di lavoro. Anticipando
di decenni analoghe conquiste negli stabilimenti del nuovo manifatturiero tayloristico. Come ci ha
ricordato uno dei “giovani” cotonieri di allora, divenuto leader della Cgil alla Zanussi di Porcia Antonio Zaramella - il clima politico-sindacale che si respirava negli stabilimenti tessili era unico, e
ci vollero anni ed anni di lavoro per ricostruirlo almeno in parte nella metalmeccanica.
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