Sul capitalismo industriale e finanziario di Giacinto Motta

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Sul capitalismo industriale e finanziario di Giacinto Motta
Sul capitalismo industriale e finanziario
di Giacinto Motta
di
NICOLA DE IANNI
Giacinto Motta è stato sicuramente uno dei personaggi più influenti della
prima metà del XX secolo. La sua proverbiale riservatezza e, probabilmente,
anche la data della morte, il 1943, hanno contribuito nel dopoguerra e fino agli
anni più recenti a non riconoscergli il peso che ebbe, ed il contributo, certamente innovativo, che seppe dare non solo allo sviluppo dell’industria elettrica,
quanto alla definizione degli stessi caratteri del capitalismo italiano.
La recente biografia che Luciano Segreto gli ha dedicato1, con il supporto
principale delle carte personali e di una documentazione di prima mano rinvenuta nei moltissimi fondi archivistici ormai a disposizione degli studiosi, offre
diversi spunti non solo sulla storia dell’industria italiana, elettrica in particolare, ma anche sui principali nodi storiografici sui quali ci stiamo interrogando
negli ultimi anni.
Innanzitutto, la vicenda biografica di Motta si presta molto bene ad una
verifica dei caratteri principali del capitalismo italiano2. Si potrebbe dire, senza
forzature, che Giacinto Motta è un significativo rappresentante di un gruppo di
capitalisti portatori di una concenzione che non è possibile appiattire in quella
generale. Anzi, su molti punti e cercheremo di indicarne alcuni si può cogliere
una divaricazione rilevante. In definitiva, e vedremo perché, non pare azzardato parlare di un capitalismo industriale e finanziario di Giacinto Motta3.
1
L. SEGRETO, Giacinto Motta. Un ingegnere alla testa del capitalismo industriale italiano,
Laterza, Roma-Bari, 2005.
2
In questo senso resta ancora insuperato il quadro di riferimento offerto da FRANCO
BONELLI nel saggio Il capitalismo italiano. Linee generali d’interpretazione, in Storia d’Italia, Annali, I, Einaudi, Torino, 1978.
3
Devo questo spunto all’amico Franco Amatori che ne accennò nel suo intervento alla presentazione del volume organizzata dalla Fondazione Iri il 3/3/2005 alla presenza dell’autore e con
la partecipazione di Giorgio Mori, Peter Hertner, Piero Melograni e Claudio Pavese.
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Motta diventò direttore generale della Edison nel 1916 all’età di 46 anni.
Quasi i due terzi della sua non lunghissima vita sono fuori dalla grande società
e fa benissimo Segreto a soffermarsi quindi sugli studi, sulla formazione, sulle
esperienze di lavoro come docente del Politecnico milanese e, soprattutto, come ingegnere libero professionista con la passione per la telefonia. Già in questi tratti è possibile cogliere alcuni aspetti che caratterizzeranno la vicenda biografica di Motta, come la preminenza accordata al ruolo della tecnica, una
visione oggettiva e meritocratica delle relazioni di lavoro, un rapporto col potere intimamente legato alle capacità individuali, ed, infine, una concezione del
denaro tipicamente capitalistica, poco italiana, vissuta come misura del successo. Su quest’ultimo punto è forse necessaria una puntualizzazione. Se è vero che
l’approccio etico di Motta fu molto coerente con la sua epoca quasi come un
segno distintivo e di riconoscimento della comunità sociale e d’élite di appartenenza, egli ebbe anche, da manager puro quale volle fortemente restare, un rapporto col denaro rappresentativo della sua fortuna e del suo potere. Fu probabilmente tale atteggiamento, tipico dei professionisti abituati a fissare l’entità
delle parcelle in funzione della abilità loro riconosciuta, ad impedire a Motta di
effettuare, come altri, il grande salto verso la qualifica di proprietario4. Ma ciò
che più conta è che nella direzione d’impresa egli riuscì, pur non essendo proprietario, a non sottostare ad alcun padrone: il comando esercitato senza l’uso
di denaro proprio. Da questo punto di vista Motta appare come un precursore
di modelli di capitalismo più avanzati del nostro e di situazioni e di rapporti
quali si sarebbero presentati in epoche molto successive a quella da lui vissuta.
Il tema del potere rinvia quasi immediatamente a quello della politica.
Motta fu essenzialmente un liberale. La sua passione per la politica lo portò ad
un impegno attivo nei diversi movimenti che ebbero espressione nell’area milanese5. Ma appare chiaro che tale attività rappresentava nella sua visione uno
strumento lecito per raggiungere maggiori successi nel lavoro industriale. Tale
chiave di lettura consente di capire e non bollare semplicemente come incoerente l’abbandono nel 1926 del Partito liberale ed il progressivo avvicinamento
al fascismo ed a Mussolini. In questo senso, l’alibi della responsabilità della
gestione industriale non appare sufficiente a giustificare scelte in contrasto con
i propri ideali, sempre che si convenga che nessuno è indispensabile. Piuttosto,
le difficoltà di Motta col fascismo furono invece di natura caratteriale, come
ben sottolineò, al cospetto di Mussolini, il suo difensore Longoni, per il quale
4
Nel suo stesso ambiente, si possono citare gli esempi di Ettore Conti e Gian Giacomo Ponti,
entrambi tecnici ed ingegneri, entrambi presto avviati verso il salto quali capitani d’industria.
5
Motta entrò nell’Unione Liberale Democratica nel 1913 ed ebbe un ruolo di primo piano
nella scelta per l’intervento e nell’organizzazione bellica successiva. La sua attività diventò meno
intensa con il passaggio alla Edison nel 1916.
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“rudezza ed asprezza appaiono più di forma che di sostanza quando si abbia
imparato a conoscerlo”6. L’aspirazione di poter dare il suo contributo in posizione
rilevante, lo indusse, nella primavera del 1924 ad accettare, come numerosi altri
esponenti del mondo imprenditoriale, (Benni, Ponti, G. Olivetti) la candidatura
nel listone fascista. E certo fu tra quelli che più tentennò durante la crisi Matteotti, corrispondendo, ad esempio, con Giovanni Amendola e prendendo le distanze
dalle posizioni poco coraggiose della maggioranza dei suoi colleghi7. Ma non è
men vero che anch’egli soggiacque all’autoritarismo del dopo 3 gennaio 1925. In
quelle settimane, che in seguito sarebbero apparse decisive per le sorti della debole democrazia italiana, finirono per pesare nelle scelte più gli argomenti a favore
dell’inversione di tendenza positiva che il governo aveva garantito agli industriali,
che le questioni di principio e di garantismo parlamentare. E, nel caso specifico di
Motta, contarono, soprattutto nel primo periodo, presunte convinzioni secondo
cui era stato il fascismo ad andare incontro alle posizioni liberali e non viceversa8.
In definitiva, nessuno o quasi fra coloro che avrebbero dovuto e potuto si assunse l’onere di sbarrare il passo alla dittatura. E se è vero che molti, soprattutto in
quell’area liberale progressista in cui ancora gravitava Motta, lamentavano l’erosione delle condizioni operative9, al di là delle posizioni dichiarate, in realtà dimostravano la volontà di non voler rinunciare alla gestione della proprio fetta di potere, nonostante un quadro politico radicalmente mutato10.
6
Nel maggio del 1926 arrivò alla presidenza del consiglio un memoriale anonimo contro
Motta che Mussolini, secondo quanto Segreto afferma, pensò di utilizzare per portare Motta
dalla sua parte. L’avvocato e giornalista Edgardo Longoni e l’amico dei fratelli Mussolini, Guido
Marasini, furono incaricati di chiedere conto al Motta, esperire ulteriori indagini e poi riferire.
L’episodio si risolse con un avvicinamento ulteriore di Motta al fascismo, sugellato da un’intervista de “Il Popolo d’Italia” (pp. 151-154).
7
Ad una rilettura ancora molto efficace risulta la cronaca di quei giorni in P. MELOGRANI,
Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Longanesi
Milano, 1980, II, pp. 73-115.
8
Così infatti Motta si espresse in una lettera, che Segreto riporta, ad Oreste Simonotti,
fascista della prima ora, nonché amministratore delegato dell’Unione Esercizi Elettrici (p. 149).
Seppure c’era una parte di verità in tale affermazione stupisce che Motta non si rendesse conto
del carattere strumentale di tale posizione e che non fosse in grado di considerarne gli effetti che
nel tempo avrebbe comportato. Dello stesso tenore è il”clamoroso infortunio” – che Segreto
bonariamente definisce “esagerata moderazione nel valutare la situazione politica del Paese” – ai
danni di Albertini al quale inviò una lettera di solidarietà per la rinuncia al “Corriere” come se
si fosse trattato di una sua libera scelta (p. 150).
9
Resta sterile e tutta da dimostrare la tesi secondo cui il sacrificio di questa parte dell’antifascismo evitò a fascisti di qualità tecniche inferiori di assumere posizioni di responsabilità. Ci si
permetta di rinviare a N. DE IANNI, Il viaggio breve. Beneduce dal socialismo al fascismo in “Rivista di Storia Finanziaria”, n. 14, gennaio-giugno 2005, Napoli, 2005, pp. 43-50.
10
Val la pena di osservare che tanto in sede politica che in quella storiografica, la difesa di
tali posizioni fu fortemente sostenuta nel dopoguerra fino al punto, alquanto paradossale, di
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Il quindicennio successivo, fino alla nomina a senatore avvenuta pochi mesi
prima della morte e dopo l’abbandono della Edison, rappresenta una evidente
conferma che l’adesione al fascismo di Motta e di altri industriali, talvolta sulla
base di una errata e conveniente identificazione con lo Stato, fu piena e sostanziale11.
Non v’è dubbio – e qui Segreto offre spunti davvero importanti – che gli elementi per una valutazione delle qualità manageriali di Motta quale capo indiscusso della Edison, cioè della principale società per azioni italiana, siano rilevanti e significativi. Effettivamente egli fu in grado di costruire un vero e proprio
“gigante industriale”, garantendo la continuità dell’impresa, individuando un
percorso di crescita stabile e sicuro, conservando ed incrementando i livelli già
raggiunti durante la prima guerra mondiale e, soprattutto, guadagnando posizioni nei confronti delle altre società del settore (la Sade di Volpi, la Sip di Ponti e
poi dell’Iri, la Sme di Capuano, Cenzato e poi dell’Iri, etc.,) che pure erano guidate da elementi validissimi ed i cui legami col regime erano sicuramente più solidi di quelli della Edison. A Motta deve essere attribuito anche il merito di avere,
negli anni, rinforzato il gruppo conseguendo livelli di redditività crescente, di
essere riuscito a non far mancare i sostegni finanziari necessari allo sviluppo,
aggrappandosi per tempo ed a condizioni accettabili al carro dei finanziamenti
americani. E soprattutto di aver risolto i delicatissimi problemi di assetto societario fino ad arrivare, nel 1935, all’incontestabile successo di rientrare in possesso
della rilevante partecipazione dell’Iri, senza cui si sarebbe corso il rischio di compromettere la natura privata dell’azienda.
Sin dai tempi della guerra, in considerazione della centralità del settore
elettrico e delle notevoli dimensioni del gruppo, la Edison non era naturalmente sfuggita alle battaglie, anche borsistiche, che avevano coinvolto le principali
società italiane. Con una aggravante per l’azienda milanese di avere più di altre
un assetto proprietario basato su un azionariato diffuso e fortemente esposto ai
rastrellamenti azionari. Se si aggiunge che il gioco di alleanze portava Motta a
schierarsi con la Sconto di Pogliani, proprio mentre i Perrone andavano all’atnegare la natura stessa del fascismo e di interpretare le posizioni fasciste nel fascismo di non fascisti come prefasciste.
11
Luciano Segreto sottolinea (p. 289) che nell’ottobre del 1934 in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario della Edison, Mussolini si spinse in dichiarazioni impegnative ed elogi
espliciti nei confronti di Motta come raramente aveva fatto verso un imprenditore. Molto interessante anche una informazione di polizia (p. 296) che segnala come con l’amico Giovanni Calì,
amministratore delegato della società Elettrocondutture, Motta si fosse avventurato a descrivere
il sistema migliore di trattare con il Duce per ottenere la sua stima: “…essere molto sostenuto e
non strisciargli. Ogni tanto un atto di devozione, ma in forma altera. Se col Duce ci si fa piccoli
si è schiacciati, la cosa migliore, invece, è quella di fargli capire che da lui non si teme nulla e non
si spera nulla.”
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tacco della Commerciale, non può sorprendere che tra la fine del secondo
decennio del XX secolo e l’inizio del terzo, la Edison si trovasse a scontrarsi
con la forza d’urto costituita dalle ambizioni di Giuseppe Toeplitz. Già nell’autunno del 1919, Motta aveva creato le condizioni di una vincente difesa predisponendo in dettaglio la formazione di un sindacato di controllo che raggruppava il 41% del capitale, coinvolgendo in posizione complessivamente paritaria
i tre principali amici azionisti italiani (Sconto, Feltrinelli e Zaccaria Pisa) con
un importante socio americano (National City Bank) ed aggiungendo poi una
importante quota di azioni proprie smistate in società del gruppo. Quella combinazione non potè essere conclusa perché le condizioni monetarie del Paese e
segnatamente la continua e forte e progressiva svalutazione della lira, rendevano poco conveniente l’ingresso del socio straniero. Di lì a due anni, la caduta
della Banca Italiana di Sconto rese ancor più precaria la situazione ed un nuovo
accordo di sindacato faticosamente raggiunto, nell’estate del 1922, ancora una
volta con il concorso di capitali americani, fallì non solo per il perdurare della
crisi monetaria ma anche per le sperate e non più ottenute agevolazioni fiscali
che avrebbero dovuto attenuare l’esosità dell’operazione. Con la nomina di
Volpi (industriale elettrico ovviamente sensibile alla questione) alle Finanze nell’estate del 1925 e con il conseguente avvio a soluzione dei problemi monetari
e di approvviggionamento con capitali esteri, si crearono finalmente le condizioni per un assetto più stabile raggiunto con il patto di sindacato del 1927. Da
quel momento, garantito il controllo, la storia degli assetti proprietari della Edison sembra rincanalarsi nel solco della public company o meglio di una management company12 se è vero che grazie ad un vorticoso intreccio di partecipa12
La distinzione che proponiamo tra pubblic company e management compny trova la sua
ragion d’essere nelle caratteristiche stesse del mercato borsistico italiano, soprattutto dopo le trasformazioni introdotte con la nascita del’Iri, lo sviluppo degli enti Beneduce e l’abolizione della
banca mista. Intorno agli anni trenta, il mercato in Italia andò sempre più restringendosi anche e
soprattutto per via di quella vocazione al controllo che contribuì a deprimere ulteriormente gli
investimenti azionari. Se fino al 1936 ciò trovava il suo logico riscontro nel perdurare di una politica deflazionista, dopo fu, viceversa, forzosamente ostacolato con barriere e burocratizzazioni
che rispondevano ad una precisa volontà governativa. Né le cose cambiarono molto nei decenni
successivi con il risultato di una borsa “pozzanghera” facilmente controllata da mani forti e particolarmente esposta a logiche speculative di corto respiro.(E. BOCCIA, Francesco Micheli su
Mediobanca: mezzo secolo di storia della finanza italiana, in “Rivista di storia finanziaria”, Gennaio-Giugno 1999, Napoli, 1999, pp. 81-85). In definitiva alle borse italiane è mancata fino agli
anni più recenti la strategica presenza di investitori istituzionali che nei mercati più evoluti ha
rappresentato la possibilità di esistenza di autentiche pubblic company. In Italia hanno pesato in
alternativa molto più le participazioni incrociate e le “scatole cinesi” utilizzate per ridurre la percentuale di controllo. In assenza di un preciso gruppo di riferimento ha finito quindi per prevalere, è il caso di società quali Edison e Montecatini , una logica di management company, cioè di
aziende controllate, con gli stessi metodi, dal proprio management.
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zioni incrociate, di fatto, la Edison era, come molte altre aziende in quel
momento, proprietaria di se stessa13. In questa luce, il terremoto della grande
crisi, la rilevante partecipazione della Sconto poi assunta dalla Banca Nazionale di Credito, dal Credito Italiano e quindi dall’Iri avrebbero dovuto e potuto
determinare nuovi squilibri. Ma a salvare la situazione intervenne Beneduce
fortemente interessato a rilevare quel 5% del Credito Italiano in possesso della
Edison14. In buona sostanza, l’intesa della primavera del 1935 per retrocedere ai
privati la principale società elettrica italiana passava per quelle stesse partecipazioni incrociate contro le quali ci si era battuti per far nascere l’Iri, e mutare
profondamente i termini del rapporto tra industrie e banche. E, quel che più
conta, con questa operazione e con l’assenso dell’Iri, si suggellava un accordo
che permetteva alla Edison di essere proprietaria di se stessa, proprio mentre la
parola d’ordine con la quale si era proceduto all’intervento dello Stato ed alla
formazione di un grande Iri era stata quella di non consentire più che ciò accadesse.
Il rapporto con Beneduce merita una ulteriore osservazione. Mussolini
affidò di fatto a Beneduce, che seppe abilmente prendere rilevanti spazi, la
gestione del sistema finanziario italiano15. La fisionomia e le caratteristiche di
esso sopravvissero, come è noto, alla stessa caduta del fascismo, facendo prevalere la continuità alla rottura. Coloro i quali, e non furono pochi (da Jung a
Sinigaglia, da Ara a Feltrinelli), tentarono di opporsi a quel modello finirono
drasticamente emarginati. Anche in questo caso è da supporre che la moderazione di Motta gli consentì di evitare uno scontro frontale con Beneduce e di
vedersi gratificato di concessioni che ebbero l’effetto di rafforzare la Edison, sia
pure nei limiti di un disegno generale che non ammetteva deroghe. Non avrebbe senso , altrimenti parlare di Beneduce come del vero “dittatore economico
degli anni ’30”16.
13
In direzione di una conveniente generalizzazione di tale aspetto, si può rilevare l’interesse di collegare i problemi di assetto proprietario alla necessità di reperimento delle fonti finanziarie. Nel caso della Edison, cone Segreto ampiamente documenta, ciò avvenne sistematicamente. Bisogna tuttavia considerare che, specie per una società di rilevanti dimensioni, l’utilizzo di
risorse per l’acquisto di azioni proprie, diretto o incrociato che sia, comporta l’effetto di sottrarre capitale alla attività d’investimento e dunque, in ultima istanza, aggrava i problemi di approvvigionamento di fonti finanziarie.
14
G. PILUSO, Un centauro metà pubblico e metà privato, La Bastogi da Alberto Beneduce a
Mediobanca (1926-1969) in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, XXXVI, Torino, 1992, pp.
260-262 e L. SEGRETO, Gli assetti proprietari, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 3, Espansione e oligopolio 1926-1945, a cura di G. Galasso, Laterza, Roma-Bari, pp. 159-160.
15
M. DE CECCO, Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e
industriale dell’Italia dagli anni venti agli anni sessanta, in F. BARCA (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Donzelli, Roma, 1997, pp. 389-404.
16
A. CIANCI, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Mursia, Milano, 1977, p. 113.
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Dal punto di vista della evoluzione del capitale, Motta prende in mano una
società che ha emesso azioni per 18 milioni (ultimo aumento nel 1909) e la
lascia dopo l’ultima variazione del 1942 a 2,6 miliardi e con un totale patrimoniale vicino ad 8 miliardi, equamente distribuiti tra mezzi propri ed indebitamento17.
L’interessante capitolo delle relazioni personali di Motta non si ferma però
a quella con Beneduce, né a quelle accennate con Pogliani e Toeplitz, che pure
meriterebbero di essere ulteriormente indagate. Ci sono almeno due altri nomi
sui quali la ricerca di Segreto va in profondità, contribuendo ad eliminare molti
punti oscuri ed aprendo ulteriori interessanti interrogativi. Ci riferiamo ad
Ettore Conti e Carlo Feltrinelli.
Conti fu l’amico rivale di Motta, colui il quale giocava abilmente su diversi
tavoli e che per molti anni, fino al ridimensionamento sotterraneo, ma non per
questo meno drastico del 1926, continuò ad avere, nell’opinione pubblica e,
soprattutto, nella comunità finanziaria, larghi consensi e significativi riconoscimenti, sicuramente superiori a quelli del manager della Edison18. Le disavventure contabili della Conti e la disinvoltura tuttavia non inconsueta del suo presidente, rappresentarono il miglior pretesto che Motta non si lasciò sfuggire per
aggiungere un ulteriore connotato alla fisionomia del “gigante industriale” che
si era impegnato a costruire. È infatti è da attenuare la rappresentazione di un
Motta che guida i suoi gesti spinto dalla correttezza contabile contrapposta alla
scorrettezza del rivale. Lo è soprattutto in considerazione degli effetti che quell’incidente fu in grado di determinare. Tra l’altro, la lucida capacità di Motta di
cogliere l’occasione per mettere fuori gioco Conti, e che come abbiamo visto
non trova analoghi riscontri in sede politica, contribuisce molto a definire le
qualità del manager ed a spiegare i motivi del suo successo.
Carlo Feltrinelli rappresentò invece per Motta una sorta di cavaliere bianco, pronto ad intervenire in suo soccorso, in una solida comunanza di interessi,
ed aiutarlo a risolvere i delicati problemi di assetto prprietario in cui si dibatteva da anni la Edison. Non v’è dubbio che da tale relazione soprattutto alla fine,
Feltrinelli ne stava uscendo fortemente rafforzato. La sua autonomia non poteva essere certo gradita a Beneduce proprio nei mesi i cui questi era impegnato
a portare nell’Iri il controllo pressochè esclusivo delle principali ex banche
miste, Commerciale, Banco Roma e Credito Italiano, della cui ultima lo stesso
17
Per questi dati si veda, Il taccuino dell’Azionista 1951, Sasip, Milano, 1951, pp. 261-265.
V. ARMANNI, Ettore Conti tra industria elettrica e banca mista (1895-1933) in D. BIGAZZI
(a cura di), Storie di imprenditori, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 329-356; E. DECLEVA, Ettore
Conti in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXIII, Roma, 1985, ora in M. FORTIS, C. PAVESE, A. QUADRIO CURZIO, Il gruppo Edison 1883-2003. Profili economici e societari, tomo II, Il
Mulino, Bologna, 2003, pp. 865-886.
18
29
finanziere milanese era rimasto presidente. Cosicchè, i problemi familiari di
detenzione di capitali all’estero in presenza di una rigida norma che ne aveva
vietato la permanenza, rappresentarono, questa volta per Beneduce, un valido
argomento per ridimensionare fortemente Feltrinelli19. Ed anche i buoni rapporti successivi del presidente dell’Iri con Motta dovrebbero essere letti alla
luce di un rispetto reciproco e di una pace dichiarata convenienti ad entrambi.
Motta fu anche dal gennaio 1927 designato presidente della Banca Nazionale di Credito. Segreto dedica a questa vicenda un ricco capitolo, il cui titolo è un interrogativo retorico che lascia pochi dubbi di interpretazione: Banchiere controvoglia? La Banca dopo la costituzione nel maggio 1922 con la
quale rilevò la gestione della vecchia Banca di Sconto e dopo il risanamento
operato dal presidente Gidoni sotto la guida stretta di Stringher e della Banca
d’Italia, rappresentava soprattutto un punto strategico e nevralgico per la
Edison per via delle rilevanti partecipazioni incrociate che garantivano, come
abbiamo visto, l’equilibrio societario dell’azienda elettrica milanese. Non stupisce, quindi, che Motta, poco importa se controvoglia, ma certo per necessità, ne assumesse la presidenza suscitando i commenti sarcastici del vecchio
Pirelli20.
Come è noto, nel 1930 la Banca finirà fusa col Credito Italiano, mentre non
è del tutto chiarito, se come lascia intendere Segreto, basandosi sulle carte di
Motta, tale fusione servisse ad aiutare la grande banca milanese già fortemente in
difficoltà da alcuni mesi o, se, come sostenuto a Milano, essa fu un sacrificio chiesto dalla Banca d’Italia ed accettato in cambio di “sostanziose contropartite” che
in seguito non giunsero21. Sta di fatto che i due amici presidenti Feltrinelli e
Motta, si trovarono a gestire, con pochi margini di manovra, una operazione
complicata che, se non altro, presentava il merito di una razionalizzazione del
comparto bancario, poco prima dell’ insorgere degli effetti devastanti della grande crisi e dell’articolato successivo intervento delle autorità governative. Motta
operò in questa circostanza con spirito di servizio ma anche con l’empirismo tipico dell’uomo di potere inserito, e completamente a suo agio, nella comunità industriale e finanziaria di cui era ormai elemento di spicco.
19
Ai fini di tale interpretazione è poco rilevante il drammatico caso umano di Feltrinelli che
reagendo disperatamente alla soluzione che Beneduce aveva deciso di dare alla vicenda si avvelenò,
nella sua anticamera alla presenza di Motta, oppure fu colto da un ictus mortale (pp. 233-235).
20
Giovan Battista Pirelli, incontrando Motta poco dopo la nomina e, probabilmente, ancora turbato per il decisionismo mostrato dall’amministratore delegato della Edison nei confronti
della società del suo congiunto Negri, commentò: “Dunque il colpo è fatto” (p. 267).
21
Il lavoro di Alberto Cianci in proposito utilizza fonti interne al Credito Italiano che, all’epoca, non fu possibile citare direttamente. Si veda A. CIANCI, Nascita dello Stato imprenditore in
Italia, cit., p. 191.
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La biografia di una manager industriale e finanziario deve basarsi su una
attenta analisi dei caratteri dell’uomo ed opportunamente Segreto dedica l’ultimo capitolo del suo volume a questo aspetto complementare ma essenziale. Le
molteplici e colorite suggestioni che se ne ricavano completano il quadro del
personaggio, ma non ne modificano la linea interpretativa. Si rafforza comunque l’idea di un uomo di elevate qualità che ha esercitato le leve del comando
con autorità e durezza, non riunciando al gusto di coltivare la sua sensibilità.
Un parametro di valutazione dei grandi uomini è la misura di cosa resta della
loro opera e di quanto abbiano condizionato la propria epoca. Nel campo dell’industria elettrica per Giacinto Motta è innegabile che ciò sia avvenuto in
modo rilevante. Tuttavia su coloro vissuti sotto il fascismo e che vi abbiano
esercitato un potere rimane il peso di una condivisione dalle cui responsabilità
il giudizio storico non può prescindere.
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