Il federalismo, una risorsa per competere in Europa

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Il federalismo, una risorsa per competere in Europa
SEMINARIO
PER IL FEDERALISMO. RIFLESSIONI, INDICAZIONI E PROGETTI PER RIFORMARE LO
STATO
FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI - TORINO, 6 MARZO 2000
Il federalismo, una risorsa per competere in Europa
Marcello Pacini
Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli
La tesi che intendo sostenere è che il federalismo rappresenta una risorsa utile per
affrontare due grandi nodi della vita italiana.
E’, infatti, una risorsa utile per la competitività dei sistemi economici italiani, perché
può favorire in ciascuna regione o territorio la nascita di una strategia geoeconomica, ossia la
messa a punto e la gestione di consapevoli politiche orientate al rafforzamento dei vantaggi
competitivi di ciascun sistema locale, sulla base di una capacità di previsione e di
anticipazione delle dinamiche dell’economia globale.
Il federalismo è anche una risorsa utile per migliorare la qualità della politica e della
vita democratica del nostro paese, perché consente maggiore trasparenza delle scelte
pubbliche e può – auspicabilmente – contribuire a rinnovare il rapporto fra politica e cittadini,
restituendo loro un interesse alla partecipazione che in questi anni è in declino.
Le due utilità che individuo per il federalismo sono di ‘pari rango’, si integrano
reciprocamente e fanno parte del medesimo processo di modernizzazione del paese, che
sbaglieremmo a ritenere completato.
Dedicherò la prima parte del mio intervento a un problema che in Italia è fonte di
preoccupazione: la relativa perdita di competitività delle regioni e dei territori italiani sui
mercati europei e internazionali.
Una conferma che si tratti di preoccupazioni più che fondate viene dai recenti dati
Eurostat relativi al PIL procapite delle oltre duecento regioni dell’Unione Europea, calcolati a
parità di potere d’acquisto. Eurostat ha anche stilato la classifica delle prime dieci regioni. La
Fondazione Agnelli ha voluto completare questa classifica, estendendola a tutte le regioni
europee. I risultati che emergono sono sorprendenti.
La sorpresa è che tutte le nostre regioni, con l’eccezione di Molise e Basilicata, hanno
perso posizioni rispetto alla rilevazione media dei due anni precedenti. Perdono due posizioni,
dalla 12a alla 14a, la Lombardia e l’Emilia Romagna – che si trovavano al medesimo livello scavalcate, ad esempio, dalla olandese Groningen o dalla finlandese Uusimaa, la regione di
Helsinki. Perde quattro posizioni il Veneto, dalla 20a alla 24a, superato, fra gli altri, dal Nord
Est della Scozia, dalla regione di Amsterdam e da Utrecht. Perde una posizione, dalla 30a alla
31a, il Piemonte, a favore di Oxford. Due posizioni il Trentino, quattro il Friuli e così via.
Perde tre posizioni anche la Calabria, ultima delle regioni italiane, sorpassata da due regioni
greche e dalla portoghese Alentejo.
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La nostra elaborazione sui dati Eurostat fotografa la situazione del 1997. Alla luce dei
differenziali degli indici di crescita del nostro paese e quelli degli altri paesi europei, non è
lecito, tuttavia, sperare che negli ultimi due anni la tendenza si sia invertita.
Per capire di più, può essere utile guardare alla parte alta della classifica, cercando di
dare un volto alle regioni che sono passate davanti alle nostre regioni più forti.
Il successo di Groningen è costruito sulle biotecnologie, le tecnologie dell’informazione
e della telecomunicazione. Nella regione finlandese ha il suo quartier generale la Nokia,
leader mondiale della telefonia mobile. La regione di Amsterdam si qualifica, a sua volta, per
l’eccellenza della rete di trasporto e comunicazione, che ha favorito la localizzazione di grandi
imprese nei settori dell’informatica e delle telecomunicazioni. Dal canto suo, Aberdeen, nel
Nord Est della Scozia, è la capitale europea del petrolio e della ricerca sulle tecnologie offshore.
Da questo sguardo, beninteso più impressionistico che scientifico, io ricavo tre
insegnamenti.
Il primo insegnamento è che questi mutamenti nelle posizioni relative delle regioni
confermano lo spostamento a nord del baricentro dell’economia europea. Ne ho già parlato in
altre occasioni e non mi soffermo ora: a me pare, tuttavia, evidente che il problema del
riequilibrio dell’Europa del Sud, che non ha alcuna regione nelle prime tredici posizioni,
debba entrare con grande urgenza nelle agende dei nostri governi e delle élite economiche.
Il secondo insegnamento è che nella competizione europea e internazionale fra i territori
non ci si può distrarre e nemmeno i modelli di maggiore successo danno rendite di posizione.
L’Italia del Nord Est ha proposto un modello di sviluppo che giustamente tutto il mondo ci
invidia e che ha permesso il grande sviluppo che ben conosciamo. Tuttavia, anche le regioni
del Nord Est si trovano a perdere qualche posizione nella graduatoria che ho presentato.
Il terzo insegnamento è che, pur con grandi differenze da una regione all’altra, le ricette
del successo si assomigliano. Alcuni vantaggi competitivi ricorrono in tutte queste storie di
successo. Fra questi: un’alta qualità delle risorse umane, che si spiega anche con la presenza
di università di eccellenza; un orientamento alla ricerca scientifica e tecnologica più avanzata;
infine, un elevato potenziale di attrazione per l’insediamento di imprese, determinato, fra le
altre cose, da infrastrutture sofisticate e funzionanti, da grande flessibilità del fattore lavoro e
da sistemi fiscali più efficienti.
In sintesi: in Europa vincono quelle regioni che in anni recenti hanno potuto godere
della maggiore libertà e flessibilità dei fattori produttivi, sapendo reagire in modo molto
rapido alle sollecitazioni della globalizzazione e, in particolare, della new economy.
Proseguendo nell’interpretazione della classifica delle regioni europee, vediamo che
mentre ci dà un dispiacere, segnalando il generale arretramento delle nostre regioni, essa ci
conferma che la geografia economica dei territori italiani resta molto differenziata.
La gamma di posizioni occupate dalle regioni italiane è davvero ampia. Sei regioni del
Nord (Lombardia, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta. Trentino AA, Friuli VG e Veneto) sono
nelle prime venticinque posizioni, con la Lombardia a fare da battistrada al 14° posto. Ma
l’Italia ha anche tre regioni (Campania, Sicilia e Calabria) nelle ultime venticinque posizioni.
Le altre regioni si distribuiscono in tutti i livelli intermedi. Nessun’altra nazione europea, con
l’eccezione della Germania riunificata, manifesta così grandi differenze fra l’uno e l’altro dei
suoi territori.
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Consentitemi ancora un’osservazione sullo stato di salute dell’economia italiana. Un
dato positivo è che nel corso degli anni novanta è raddoppiato il numero dei territori con un
forte orientamento all’esportazione. Nel 1991 solo 24 province italiane avevano una quota di
export superiore al 20% del PIL. Sette anni dopo erano diventate 50. Ormai praticamente tutte
le province del Centro Nord hanno un solido orizzonte internazionale, ma anche parecchi
territori del Mezzogiorno dimostrano ritmi relativamente elevati dei loro interscambi con
l’estero.
La crescita dell’export non si indirizza in modo uniforme rispetto ai mercati
internazionali. Premesso che l’Unione Europea rappresenta per tutte le regioni il principale
mercato di destinazione, si possono però fare distinzioni fra quelle regioni la cui vocazione
europea è nettamente prevalente - è il caso di Piemonte e Abruzzo - da quelle che, invece,
orientano importanti flussi di prodotti verso altre regioni del mondo. La Toscana, ad esempio,
ha una propensione relativamente elevata a esportare negli Stati Uniti o nell’area dello yen, il
Veneto verso gli Stati Uniti e verso i paesi dell’Europa Centrale e dell’Est (Peco), come anche
il Friuli e le Marche.
Siamo nuovamente in presenza di dinamiche fortemente differenziate. Ogni mercato
presenta per questa o quella regione, per questo o quel distretto, specifiche condizioni di
opportunità o di rischio, che tendono a mutare con grande rapidità. La svalutazione dell’Euro
rispetto a yen e dollaro ha avuto perciò un impatto più importante per la Toscana che per il
Piemonte, che guarda soprattutto all’Unione Europea.
Alla luce di quanto detto fin qui, la domanda che voglio porre in questo seminario è:
come può ciascun sistema economico-territoriale adattarsi in modo rapido e flessibile al
continuo mutamento degli scenari economici e alle costanti sollecitazioni dei mercati
internazionali?
Nei suoi termini generali, la risposta è nota: ciascun territorio deve costruire la propria
geoeconomia, rafforzando i fattori di competizione sulla base di una conoscenza delle
specificità del suo sistema economico e sapendo prevedere i mutamenti di scenario.
Sappiamo da tempo che il problema non è solo delle imprese, ma dei territori nel loro
complesso. Richiede dunque risposte coerenti e convergenti da parte di una pluralità di
soggetti: non solo dunque le forze economiche, ma i governi e le amministrazioni locali, le
associazioni professionali e dei lavoratori, l’apparato della ricerca e della formazione,
l’università, la cultura e, in generale, la società civile.
In questa sede a me interessa parlare dell’Italia. Perciò, non mi pare affatto scontato
ricordare che il primo obiettivo resta quello del rafforzamento e del completamento
dell’economia di mercato.
Il principio è che tutto ciò che può essere fatto bene dal mercato, lo deve fare il mercato.
Il principio è valido per tutti i paesi europei. Non è un caso che le regioni di maggiore
successo appartengano alle nazioni che più di altre hanno seguito in questi anni politiche
fortemente orientate alla liberalizzazione del sistema e alla riduzione del ruolo dello stato in
economia. Nel caso dell’Italia, che su questo terreno è in ritardo, la terapia risulta ancora più
urgente e significa iniettare nel sistema abbondanti dosi di liberalizzazione dai tanti vincoli
imposti dalla mano pubblica e di privatizzazione.
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Nel quadro di questo più generale processo di liberalizzazione del sistema, il
federalismo rappresenta la veste istituzionale che meglio serve la costruzione di una
geoeconomia per ciascuna regione e territorio.
Questo perché il federalismo è la forma di governo che nell’Italia di oggi appare più
indicato per dare risposte rapide e flessibili alle esigenze di territori fra loro molto
differenziati.
Rapidità, flessibilità e attenzione alle specificità territoriali sono le carte vincenti del
federalismo, che, in questa luce, può diventare una risorsa davvero utile al miglioramento
della competitività dei territori italiani.
Sottolineo che il federalismo si presenta come una soluzione particolarmente idonea a
superare alcuni limiti storici dell’esperienza italiana.
Vi sono in Europa altre tradizioni statuali che hanno dimostrato di sapere reagire con
prontezza alle mutate condizioni di sistema, mantenendo un assetto centralista.
Non è questo evidentemente il caso dell’Italia, dove al contrario non si contano gli
esempi di incapacità dello stato e della pubblica amministrazione a reagire in modo rapido alle
sollecitazioni che provengono dalle diverse realtà regionali e territoriali.
Per questo, in Italia più che altrove, il federalismo, con il suo affidarsi alle capacità di
autogoverno delle comunità locali, deve essere considerato una soluzione quasi obbligata.
Sostituendo le diagnosi a distanza e tendenzialmente poco differenziate dello stato
centrale, il federalismo mette infatti il sistema pubblico in condizione di trovare una sintonia
più ‘fine’ con le esigenze del sistema economico locale, offrendo ai soggetti economici
interlocutori più sensibili e reattivi.
Rispondendo alla diversità di preferenze economiche espresse dai territori, il
federalismo permette di definire le politiche economiche in funzione della capacità dei
territori di trarre benefici dalle occasioni, di reagire alle congiunture sfavorevoli e di
riassorbire l’impatto sociale dei processi di aggiustamento strutturale.
Naturalmente, deve essere il principio di sussidiarietà a venire in soccorso per
qualificare questa idea di federalismo, indicando di volta in volta a quale livello di governo si
debba agire su un dato problema per avere i risultati più convincenti.
Il livello di governo regionale conserva un ruolo centrale. Da un lato, perché vi è
consenso nel ritenere che le principali strategie di rafforzamento dei fattori competitivi
afferiscano al livello regionale. Dall’altro, perché in molti casi la dimensione regionale sembra
definire la massa critica necessaria a progetti di sviluppo di respiro in grado di competere sul
piano europeo e internazionale.
Naturalmente questa indicazione generale va verificata nei casi concreti, sapendo che le
più convincenti esperienze italiane di organizzazione economico-territoriale sono di livello
sub-regionale. Proprio dai distretti, come dimostra una recente indagine del CENSIS, arriva la
richiesta di trovare nei governi locali alleati preziosi per reagire in modo rapido e differenziato
alle sollecitazioni dell’economia globale.
Se il federalismo è oggi in Italia un ingrediente necessario per costruire la geoeconomia
di un territorio, sarebbe un errore affermare che è anche un ingrediente sufficiente.
I vantaggi del federalismo si misurano soprattutto sull’asse del decentramento dei poteri,
della costruzione di forme di autonomia e di autogoverno all’interno del sistema pubblico. Il
federalismo, come si dice, ‘avvicina’ le istituzioni e la pubblica amministrazione alle esigenze
dei cittadini. E’ quella che viene talvolta chiamata sussidiarietà verticale.
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Non credo, però, a un federalismo come ingegneria istituzionale. Per me il federalismo è
piuttosto un’occasione storica per modernizzare la società italiana nel suo complesso.
Ma, allora, è illusorio pensare che il compito si esaurisca con il decentramento delle
funzioni e che il decentramento di per sé sia garanzia di maggiore efficienza.
Si pensi, ad esempio, alla riforma del collocamento pubblico, con il decentramento delle
competenze previsto dalle Bassanini. Nata dalla giusta intuizione che sia quello locale il
livello dove costruire un’intermediazione attiva fra domanda e offerta, la riforma all’inizio del
2000 non è ancora decollata.
Da una parte, pesano i ritardi di molte Regioni ad attrezzarsi per svolgere le nuove
funzioni. D’altra parte, non si può negare che permangono pregiudizi ideologici verso il
parallelo processo di liberalizzazione dei servizi per l’impiego e ciò rischia di compromettere
il successo dello stesso decentramento, dal momento che è impensabile attribuire a regioni e
enti locali tutti i compiti che un efficiente servizio richiede e che potrebbero essere svolti
egregiamente da soggetti privati.
Il federalismo, dunque, per funzionare va completato da un più generale movimento
dallo stato alla società, o, come talvolta si dice, dalla sussidiarietà orizzontale.
Questa scelta implica il rafforzamento della società civile.
Vanno, cioè, ricercate le sinergie virtuose che si possono innescare fra la riforma
federale e la costruzione di quadri giuridico-fiscali tali da consentire la libera iniziativa ai
cittadini che intendono realizzare finalità collettive in piena autonomia. Per limitarsi a un
aspetto: l’emergere di un terzo settore più forte e legittimato è essenziale per costruire
all’interno dei territori sistemi di solidarietà che sostituiscano a un welfare state che mostra la
corda, una più efficace welfare society, che consenta di affrontare in ogni territorio le tensioni
causate dall’adattamento dei sistemi produttivi con sicurezza, serenità e attenzione alle
esigenze di coesione sociale.
Il tema del rafforzamento della società civile è strettamente legato alla mia convinzione
che il federalismo, oltre a servire l’interesse geoeconomico, sia un valore in sé e possa
generare un rinnovamento della vita politica e democratica italiana.
Il federalismo è per sua natura una forma di governo che coinvolge totalmente le società
locali nelle decisioni relative alla cosa pubblica. Di conseguenza, esso assegna a ciascun
cittadino più responsabilità.
In cambio, il federalismo promette al cittadino non solo maggiore efficienza, ma anche
maggiore trasparenza, maggiore possibilità di leggere e interpretare le strategie di sviluppo
dell’economia locale e dei servizi, le politiche fiscali e di bilancio, i trasferimenti perequativi.
Questo, però, implica per il cittadino anche maggiori doveri, in termini di controllo
democratico.
La possibilità che lo scambio fra cittadino e sistema di governo federale risulti virtuoso
e innovativo esiste, e lo dimostrano molte esperienze internazionali.
Certo è che, senza un rinnovamento dello spirito civico, senza amore per la cosa
pubblica, non è possibile immaginare forme di autogoverno davvero funzionanti. Le élite
locali – politiche, economiche, culturali - devono avere ben presente questa esigenza, perché è
una loro diretta responsabilità.
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In ogni caso, se l’obiettivo è tentare di riaccendere nei cittadini italiani un nuovo
interesse per i temi dell’etica pubblica e una nuova passione per il gioco democratico, dopo
anni di disaffezione verso la partecipazione politica, la strada del federalismo mi pare l’unica
praticabile.
Non bisogna indulgere all’ottimismo: il federalismo in Italia è un traguardo
impegnativo. Non solo in ragione della volontà debole e del modesto impegno delle forze
politiche, che pure hanno il federalismo nei loro programmi.
Il federalismo è difficile in sé, per il tipo di relazione che definisce fra cittadino, società
e istituzioni, per l’impegno esigente che reclama da tutti i soggetti.
Vorrei finire affermando che proprio perché è una forma di governo pensata per
valorizzare le differenze e le specificità delle società locali – come più volte ho ripetuto nel
mio intervento - sarebbe in un certo senso contraddittorio che queste differenze venissero
ignorate proprio nel momento in cui si riflette sui concreti processi che riguardano la sua
realizzazione in Italia e sulle inevitabili fasi di transizione.
Per questo ritengo giusto che in Italia il federalismo venga costruito progressivamente,
accettando l’idea espressa in questo convegno e già praticata in altri paesi d’Europa della
‘velocità e della geometria variabili’. E’ giusto, cioè, e pragmaticamente sensato partire
innanzitutto da quelle società regionali e locali che ne sentono davvero l’esigenza, si sentano
pronte a goderne i benefici e ad assumersene la responsabilità.
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