n.3 - Laboratorio di ricerca sociale

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n.3 - Laboratorio di ricerca sociale
The Lab’s Quarterly
Il Trimestrale del Laboratorio
2014 / n. 3 / luglio-settembre
Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Politiche
Università di Pisa
Comitato direttivo
Direttore
Massimo Ampola
Comitato editoriale
Luca Corchia (segretario)
Marco Chiuppesi
Gerardo Pastore
Comitato scientifico
Paolo Bagnoli
Roberto Faenza
Mauro Grassi
Elena Gremigni
Franco Martorana
Antonio Thiery
Contatti
[email protected]
Gli articoli della rivista sono sottoposti a un doppio processo di peer-review.
Le informazioni per i collaboratori sono disponibili sul sito della rivista.
ISSN 1724-451X
© Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Politiche
Università di Pisa
The Lab’s Quarterly
Il Trimestrale del Laboratorio
2014 / n. 3 / luglio-settembre
EPISTEMOLOGIA E METODI DI RICERCA
La costruzione della distinzione socioculturale. Il caso delle Grande Écoles
nell’analisi di Pierre Bourdieu
Roberta Salsi
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SOCIOLOGIA DELL’AMBIENTE E DEL TERRITORIO
Manuela Rossi
Nella ragnatela del GAP. Come liberarsi
dalla trappola del gambling
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Laboratorio di Ricerca Sociale
Dipartimento di Scienze Politiche
Università di Pisa
“The Lab’s Quarterly” è una rivista che risponde alla necessità degli
studiosi del Laboratorio di Ricerca sociale dell’Università di Pisa di
contribuire all’indagine teorica ed empirica e di divulgarne i risultati
presso la comunità scientifica e il più vasto pubblico degli interessati.
I campi di studio riguardano le riflessioni epistemologiche sullo statuto conoscitivo delle scienze sociali, le procedure logiche comuni a
ogni forma di sapere e quelle specifiche del sapere scientifico, le tecniche di rilevazione e di analisi dei dati, l’indagine sulle condizioni di genesi e di utilizzo della conoscenza e le teorie sociologiche sulle formazioni sociali contemporanee, approfondendo la riproduzione materiale e
simbolica del mondo della vita: lo studio degli individui, dei gruppi sociali, delle tradizioni culturali, dei processi economici e politici.
Un contributo significativo è offerto dagli studenti del Dipartimento di
Scienze Politiche dell’Università di Pisa e di altri atenei, le cui tesi di laurea costituiscono un materiale prezioso che restituiamo alla conoscenza.
Il direttore
Massimo Ampola
SOCIOLOGIA DELL’EDUCAZIONE
LA COSTRUZIONE DELLA DISTINZIONE SOCIO-CULTURALE.
IL CASO DELLE GRANDE ÉCOLES NELL’ANALISI DI PIERRE BOURDIEU
di Roberta Salsi
Indice
Introduzione
1. Il capitale culturale e le forme di conversione
2. Le Grandes Écoles e la formazione della “nobiltà di stato”
3. La distribuzione sociale delle opportunità di accesso
4. Le modalità di selezione e lo “spirito di corpo”
5. Mutamenti interni al campo delle grandi scuole
Riferimenti bibliografici
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INTRODUZIONE
Il lavoro sociologico di Pierre Bourdieu costituisce uno dei contributi
più rilevanti che la sociologia europea abbia prodotto nella seconda
metà del secolo scorso. Nonostante la diversità degli ambiti d’indagine,
la produzione scientifica del sociologo francese, ha assunto lungo
quattro decenni di riflessioni e di ricerche le dimensioni di un
monumento dotato stringente logica interna che la letteratura critica ha
ben analizzato. Nel presente arcicolo ci soffermiamo sulle specifiche
indagini dedicate all’educazione e, in particolare, alla funzione di
riproduzione della classe dirigente che le Grandes Écoles svolgono nel
sistema francese.
Le ricerche realizzate da Bourdieu e i suoi collaboratori sul sistema
scolastico francese – Les Héritiers (1964) e La Réproduction (1970),
sull’istituzione universitaria – Homo Accademicus (1984) e sulle Grandes Écoles (La Noblesse d’État, 1989) – confermano che vi è una correlazione positiva fra la classe di appartenenza e il successo negli studi:
quanto più elevata è la classe di origine, quanto più probabile è che uno
studente abbia un alto rendimento scolastico, sia iscritto a una buona
scuola e che continui a lungo gli studi, fino alla laurea e oltre. Da tali
ricerche emerge che ciò che maggiormente influisce sul successo non è
il reddito della famiglia di origine o l’occupazione dei genitori, ma il
loro titolo di studio. Infatti, se gli studenti provenienti dalle classi sociali
più basse hanno un basso rendimento scolastico e interrompono presto
gli studi è perché, a differenza di quanto avviene nelle classi medie, la
famiglia fornisce in misura minore sia le capacità cognitive e linguistiche che i valori, la condotta e le aspirazioni che la scuola richiede.
D’altra parte, le origini dei ritardi, dei ripiegamenti e degli abbandoni
vanno ricercate anche nella scuola, in cui gli insegnanti si aspettano che
gli allievi delle classi popolari abbiano bassi rendimenti scolastici perché “culturalmente privati” di quelle “doti naturali” che connotano culturalmente il reciproco riconoscimento tra tutti coloro che appartengono
alla classe dominate. Gli studenti hanno un capitale culturale dovuto alla
classe di appartenenza, che influenza i risultati, stante l’omogeneità fra i
valori impliciti e interiorizzati della cultura dominante e quelli del sistema di insegnamento. Questi risultati trovano conferma nelle indagini
condotte ne La Distinzione (1979) sulla riproduzione del capitale culturale incorporato, oggettivato e istituzionalizzato, che consolida e specifica l’appartenenza non a una “classe sulla carta” ma a una “classe reale” che condivide lo stile di vista e i gusti. Nelle società moderne, infatti,
l’istruzione è l’elemento di connessione tra la condizione sociale dei ceti
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superiori, medi e inferiori e i loro stili di vita, fornendo il sistema di cognizioni, valutazioni ed espressioni verso gli oggetti culturali e rispecchiando i rapporti di dominio in cui ciascuna classe è inserita .
Se queste sono le coordinate generali dell’analisi boudieusiana sull’istruzione, abbiamo preferito prendere in esame unicamente il testo
sulle Grandes écoles perché è un’opera compiuta dal punto di vista contenutistico e metodologico. Lo stesso Bourdieu nel libro-intervista Risposte (1992) a Loïc Wacquant esprime questa convinzione:
la vera risposta a tutte le domande che Lei mi ha rivolto, soprattutto sulla logica della riproduzione sociale, è contenuta secondo me nelle cinquecento
pagine di La Noblesse d’État, cioè nell’insieme di analisi, teoriche e nello
stesso tempo empiriche, con le quali soltanto è possibile articolare, in tutta la
sua complessità, il sistema di relazioni tra le strutture mentali e le strutture
sociali, tra l’habitus e i campi, e la dinamica che è loro immanente (Bourdieu 1992, 105).
Prima di ripercorrere i risultati dell’indagine sulle Grandes écoles è utile
presentare quanto Bourdieu ha scritto sul concetto di capitale culturale e
sui rapporti di conversione con il capitale economico e il capitale sociale.
Queste riflessioni teoriche, infatti, sono indispensabili per inquadrare la
disamina delle specifiche dinamiche di riproduzione culturale e distinzione sociale all’interno delle istituzioni che formano la La Noblesse d’État.
1. IL CAPITALE CULTURALE E LE FORME DI CONVERSIONE
Il concetto di capitale culturale rappresenta uno dei contributi maggiori
di Bourdieu alla sociologia della cultura, e in particolare alle analisi dei
processi educativi, la cui portata è dirimente per comprendere l’analisi
dei rapporti sociali. A partire da quelle indagini, Bourdieu spiega perché
una volta verificate la condizione economica e l’origine sociale, gli studenti provenienti da famiglie più istruite non solo presentano tassi di successo scolastico più elevati, ma anche dei diversi modi di consumo e di
espressione culturale. Egli ricorda così la genesi intellettuale del concetto:
La nozione di capitale culturale si è imposta anzitutto come una ipotesi indispensabile per render conto dell’ineguaglianza dei prove scolastiche dei ragazzi delle differenti classi sociali, confrontando la loro “riuscita”, ovvero i
risultati specifici che i ragazzi delle differenti classi sociali e frazione di
classe potevano ottenere sul mercato scolastico e la distribuzione del capitale culturale tra le classi e le frazioni di classe (Bourdieu 1979b, 3).
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Giorgio Marsiglia precisa che il concetto di capitale culturale rappresenta la forma di capitale su cui Bourdieu si è soffermato maggiormente, al
punto da richiamare su di se l’attenzione ogni volta si pronuncia in letteratura il termine. Tuttavia negli scritti del sociologo francese non si trova un esplicito concetto di cultura ma molte definizioni che sottolineano
aspetti semantici complementari, a seconda dell’ambito d’analisi e della
prospettiva scelta. A partire dalla consa-pevolezza della sua polidimensionalità, egli circoscrive il concetto di cultura, come l’insieme degli
oggetti simbolici e fisici in cui si incarna un sapere implicito, linguistico
e di senso comune, e un sapere esplicito, cognitivo, morale ed estetico,
trasmesso nelle frazioni dello spazio sociale nel quadro di tradizioni culturali, più o meno, consapevoli, omogenee e durevoli nel tempo:
Si tratta di una grande varietà di risorse, anche molto differenti anche se
fonda-mentalmente omogenee: dalle abilità linguistiche ai beni culturali
posseduti, dalle conoscenze e informazioni alle disposizioni e preferenze
estetiche, dal rapporto con scuola e cultura alle esperienze e credenziali
educative. In sintesi, si può dire che in Bourdieu il capitale culturale
corrisponde all’insieme di proprietà, delle qualifica-zioni e delle esperienze
culturali, siano esse trasmesse o indotte dalla famiglia, prodotte o rese
disponibili dall’istruzione, o comunque incluse nell’appartenenza ad un
campo culturalmente specifico (Marsiglia 2002, 87-88).
Nonostante le resistenze a proporre delle definizioni “schematiche” e
“formali” di concetti scaturiti e applicati nelle ricerche, nell’articolo Les
trois états du capital culturel (1979) – ripubblicato immutato nel saggio
Ökonomisches Kapital, kulturelles Kapital, soziales Kapital (1983) –
Bourdieu ha sistematizzato la morfologia del capitale culturale nelle tre
forme di “capitale incorporato”, “oggettivato” e “istituzionalizzato”:
Il capitale culturale può esistere sotto tre forme: allo stato incorporato, ossia
sotto la forma di disposizioni durevoli dell’organismo; allo stato oggettivato, sotto la forma di beni culturali, quadri, libri, dizionari, strumenti, macchine, i quali sono la traccia o la realizzazione di teorie o di critiche di queste teorie, di problematiche, ecc.; allo stato istituzionalizzato, una forma di
oggettivazione che occorre considerare a parte poiché, come si osserva con
il titolo scolastico, essa conferisce al capitale culturale che è tenuta a garantire, delle proprietà del tutto originali». (Bourdieu 1979b, 3).
Il “capitale culturale incorporato” si riferisce all’insieme di competenze
e di disposizioni individuali che consentono agli individui di fare esperienza di ciò che accade nel mondo, di esprimere giudizi e di provare
bisogni e sentimenti. Si tratta di un patrimonio di schemi di apprendi-
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mento e di atteggiamenti che sono interiorizzati tramite il processo di
socializzazione-individualizzazione a partire dall’educazione infantile
per proseguire lungo tutto il corso della vita. Il capitale culturale incorporato è inscindibile dal proprio vissuto biografico, cresce, matura e si
estingue al crescere, maturare e perire del suo portatore:
La maggior parte delle proprietà del capitale culturale può essere desunta dal
fatto che, nel suo stato fondamentale, esso è legato al corpo e presuppone
l’incorporazione. L’accumulazione del capitale culturale esige una incorporazione che, presuppone, al contempo, un lavoro di inculcamento e di assimilazione, costa del tempo e del tempo che deve essere investito personalmente dall’investitore (essa non può attuarsi, in effetti, per procura, in maniera simile a un’abbronzatura: il lavoro personale: il lavoro personale di acquisizione è un lavoro del soggetto su se stesso (si parla di “coltivarsi”). Il
capitale culturale è un avere divenuto essere, una proprietà fatta corpo, divenuta parte integrante della “persona”, un habitus (Ivi, 3-4).
Nonostante il lavoro di acquisizione del capitale culturale avvenga in
assenza di una deliberata interiorizzazione, esso presuppone un
investimento, in misura variabile e temporalmente continuo, di energie
intellettuali, sociali ed emotive che acquisiscono un valore “positivo” o
“negativo” a seconda del sistema di opportunità che l’ambiente
formativo e relazione rende disponibile. E poiché le condizioni sociali di
acquisizione e di trasmissione sono più dissimulate rispetto a quelle del
capitale economico, può essere prodotto e messo a realizzo solo se gli
altri attori sociali sono in grado di riconoscerne il valore:
L’accumulazione di capitale culturale incorporato comincia molto presto
nell’infanzia e dipende ovviamente dalla famiglia. Essa richiede un “lavoro
pedagogico” da parte dei genitori e degli altri familiari, specialmente
orientato alla sensibilizzazione rispetto alle esperienze e alle distinzioni
culturali […] si esprime in un investimento che frutta all’interno della scuola
in termini di successo e riconoscimento (Marsiglia 2002, 88-89).
La riproduzione del capitale culturale incorporato è, secondo Bourdieu,
la forma più nascosta di trasmissione ereditaria e di produzione di
ricchezza, anche se trova modi di manifestarsi in forma oggettivata e
istituzionalizzata (Bourdieu 1979b, 4). Il capitale culturale “oggettivato”
è costituito dai oggetti culturali concreti, quali ad esempio, libri, opere
d’arte, strumenti e macchinari tecnici, ecc. che possono essere costruiti,
scambiati e posseduti fisicamente dagli attori sociali. Anche se il
capitale sociale “oggettivato” si presenta indipendente rispetto agli
individui, il suo “impiego” richiede quei portatori del “capitale
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incorporato”:
Il capitale culturale nel suo stato oggettivato si presenta con tutte le apparenze di un universo autonomo e coerente che, benché sia il prodotto
dell’azione storica, ha proprie leggi, trascendenti rispetto alla volontà degli
individui, e che, come mostra bene l’esempio della lingua, restano irriducibili a ciò che ogni attore o l’insieme di essi si può appropriare (cioè, al capitale incorporato). Occorre fare attenzione, peraltro, a non dimenticare che il
capitale culturale esiste e sussiste come capitale materiale e simbolico agente soltanto nella misura in cui esso è appropriato dagli attori investito come
arma e come gioco nelle lotte, nei campi di produzione culturale (il campo
artistico, scientifico, ecc) e, al di là di loro, nei campo delle classi sociali, in
cui gli attori ottengono dei profitti proporzionali al “possesso” del capitale
oggettivato, dunque nella misura del loro capitale incorporato (Ivi, 5).
Il capitale culturale “istituzionalizzato” rappresenta la forma di capitale
riconosciuta formalmente e pubblicamente da parte di istituzioni atte a
farlo. Nelle società contemporanee, secondo Bourdieu, questa
istituzionalizzazione avviene, in virtù della centralità del sistema
scolastico nei processi educativi e formativi, attraverso il
riconoscimento di titoli di studio e di attestati di merito. Si tratta di
riconoscimenti che, al pari o quasi dei titoli di credito del capitale
economico, sono valutabili negli spazi sociali indipendentemente dal
portatore del capitale culturale e dagli oggetti materiali e immateriali a
cui si devono, come, ad esempio, riguardo alla preparazione presupposta
dal titolo di studio. Il livello di istruzione istituzionalizzato sotto forma
di titoli di studio socialmente riconosciuti è una manifestazione
legittimata del possesso di capitale culturale. Il riconoscimento ufficiale
comporta una relativa autonomizzazione del titolo rispetto alla persona
che è portatrice di capitale culturale. In questo caso, secondo Bourdieu si
ha la “magia performativa” del potere di istituzione, nel manifestare e
convincere sul contenuto iscritto nel titolo. L’istituzionalizzazione del
capitale culturale assicura non solo il giudizio sul volume e sul valore
della capacità di ingegno, impegno ed espressione del soggetto
accreditato ma la comparazione tra soggetti in virtù dei loro titoli. Le
forme di attestazione si riferiscono alle selezioni per merito, che
legittimano, poi, la conversione del capitale culturale in capitale sociale
ed economico. Una volta istituzionalizzato, il capitale culturale si
tramuta da dote personale nella pretesa legittima ad avanzare richieste di
forme di prestigio e di ricchezza (Ivi, 6). Anche se gli attestati e le pretese
rimangono soggette a valutazioni effettive di chi, all’occorrenza possono
sottrarre il loro riconoscimento fiduciario, come ad esempio, un cliente
verso un professionista o la scuola verso un professore. Il capitale
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culturale è, anzitutto, convertibile in “capitale sociale”, il cui concetto,
anche grazie a Bourdieu, è entrato nel lessico delle scienze sociali:
Il capitale sociale, invece, è l’insieme delle risorse attuali e potenziali che
sono legate al possesso di una rete duratura di relazioni, più o meno istituzionalizzate di interconoscenza e di inter-riconoscenza; o in altri termini,
all’appartenenza a un gruppo, come insieme di agenti che non sono solamente dotati di proprietà comuni (suscettibili di essere percepite attraverso
l’osservazione dagli altri o da se stessi) ma sono anche uniti da dei legami
permanenti e utili (Bourdieu 1980, 2).
Bourdieu ne ha riformulato una definizione precisando che il capitale
sociale è l’insieme delle relazioni di cui un soggetto individuale o collettivo dispone in funzione della collocazione all’interno di reti di vincoli
reciproci – network – a riconoscersi determinate obbligazioni:
Il capitale sociale è la somma delle risorse, attuali e virtuali, che fanno capo
a un individuo o a un gruppo in quanto questo possiede una rete durevole di
relazioni, conoscenze e reciproche riconoscenze più o meno istituzionalizzate, è cioè la somma di capitali e poteri che una simile rete permette di mobilitare (Bourdieu 1992, 87).
L’esistenza di una rete non è un “dato naturale” ma il prodotto di un
lavoro creativo interminabile a partire dalle risorse rese disponibili dalla
parentela. Le strategie di investimento mirano a stabilire e a trasformare
tutte le relazioni contingenti, come quelle di vicinato, di lavoro, ecc. in
rapporti durevoli e in cui lo scambio di doni, di parole, ecc, favorisce
quella conoscenza reciproca e quei sentimenti di rispetto, di amicizia e
di gratitudine che motivano l’aiuto. La creazione di capitale sociale
implica, per così dire, uno sforzo incessante di socievolezza, attraverso
la partecipazione a manifestazioni, feste, ricevimenti, ecc), in cui nei
luoghi di ritrovo, quartieri, scuole, associazioni, ecc, si svolgono quelle
pratiche sportive, ludiche, culturali, che riuniscono in modo
apparentemente casuale gli individui appartenenti a comunità (Bourdieu
1983, 247). Il capitale sociale è l’insieme delle risorse, reali o potenziali,
materiali e immateriali che dipendono dall’accesso relazionale a una
rete formale o informale di rapporti di riconoscimento reciproca che
rende, poi, disponibili delle opportunità o delle credenziali per ottenere
delle forme di capitale economico e culturale. Il volume del capitale
sociale è, dunque, il risultato di un complesso sistema di pratiche in
stretta connessione che gli habitus che sono collegati alla condizione di
classe, ovvero a disposizioni dell’attore che sono strettamente collegata
alla distribuzione delle altre forme di capitale. Tale volume dipende
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dall’estensione del raggio di relazioni che l’agente può effettivamente
intrattenere e mobilitare in conseguenza del possesso di altre forme di
capitale. E capitale economico e capitale culturale soprattutto possono
essere facilmente trasmutabili o convertibili in relazioni sociali, e quindi
in capitale sociale.
Ciò significa che, se è relativamente irriducibile al patrimonio economico e culturale posseduto da un determinato agente, il capitale sociale non ne è mai indipendenti, in quanto la “rete” ha un “effetto moltiplicatore” sui capitali (Bourdieu 1983, 243-249). Il capitale culturale è, in
secondo luogo, convertibile in capitale economico in quanto permette di
accedere o di legittimare l’accesso a condizioni di lavoro alle quali sono
corrisposte delle retribuzioni lavorative o dei profitti d’impresa. Si tratta
di una specie “transunstanziazione” di beni immateriali in condizioni
economiche convertibili in moneta e istituzionalizzate in diritti di proprietà (Bourdieu 2000). A loro volta la disponibilità economica permette
di impiegare tempo e lavoro per acquisire capitale culturale incorporato,
oggettivato e istituzionalizzato, creando un circolo virtuoso per i singoli
attori e per l’intera comunità sociale. Rilavata la tendenza crescente a
convertire capitale economico in capitale culturale, soprattutto in titoli
di studio, il problema sollevato da Bourdieu nelle ricerche
sull’educazione riguarda la ripartizione delle opportunità formative offerte agli studenti e quanto e come condizionino la struttura generale
della stratificazione sociale.
L’idea di fondo che emerge da tali scritti è che le istituzioni educative oltre alla riproduzione culturale delle abilità e conoscenze, costituiscano la principale risorsa di legittimazione della stratificazione. In tali
ambiti i soggetti mettono in atto, ognuno secondo il proprio habitus, le
strategie volte a conservare e migliorare le proprie posizioni nell’allocazione delle forme di capitale. Questa dinamica si interseca profondamente con quella dei rapporti di dominio e, quindi, con i meccanismi di
produzione delle diseguaglianze sociali, sulle aspettative di miglioramento delle condizioni di vita e di elevamento culturale da parte delle
classi inferiori e sui fattori costrittivi di accettazione della subalternità.
2. LE GRANDES ÉCOLES E LA FORMAZIONE DELLA “NOBILTÀ DI STATO”
Se consideriamo le origini sociali degli allievi reclutati dalle grandes
écoles emerge che i figli delle “classi superiori ” sono nettamente sovrarappresentati. A partire da questa constatazione, Pierre Bourdieu cerca
di dimostrare empiricamente che i modi di selezione di queste istituzioni, le classes préparatoires e i concorsi d’ingresso, sono assolutamente
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congeniali alle disposizioni sociali tipiche di tali classi e che, a dispetto
delle regole egualitarie, il contenuto delle prove e gli atteggiamenti degli
insegnanti valorizzano il sapere e il saper fare dei figli della borghesia.
Prima di esaminare nel dettaglio lo sviluppo dell’indagine, è opportuno
descrivere – per chi non lo sapesse –che cosa sono le grandes écoles.
Le grandes écoles sono istituti di istruzione superiore che diplomano
gli studenti che costituiranno i dirigenti e i tecnici di numerose aziende
private e di amministrazioni pubbliche. All’interno del sistema educativo francese, esse si collocano accanto alle Università, tradizionalmente,
orientate verso la trasmis-sione della cultura e della ricerca scientifica,
con una funzione propria.
Anche se alcune scuole in esse confluite sono state costituite in precedenza, le grandes écoles, risalgono al periodo della rivoluzione francese, come ad esempio l’École polytechnique (1794), l’École normale
supérieure - ENS (1795) e altre scuole superiori di applicazione, sono
aumentate durante l’800 e il ‘900 con la creazione di molte altre, tra le
quali si segnalano: la Scuola speciale militare di Saint-Cyr (1802), la
Scuola speciale del commercio e dell’industria di Parigi, poi European
School of Management - ESCP-EAP (1819), la Scuola navale (1819), la
Scuola nazionale delle carte (1821), la Scuola reale delle acque e delle
foreste (1824), l’Istituto reale agronomico (1826), la Scuola centrale
delle arti e manifatture (1829), le Scuole del Commercio (1833), la
Scuola Libera di Scienze Politiche (1871), la Scuola di commercio “superiore” – HEC (1881), l’École Supérieure d’Électricité (1894),
dell’École nationale d’administration (1945), l’Istituto di Studi Politici –
IEP, del Centro studi letterari e scientifici applicati (1965), poi Scuola di
Alti Studi in Scienze dell’Informazione e della Comunicazione, e ancora
la Scuola nazionale superiore di tecnica avanzata - ENSTA (1970).
Il mondo delle grandes ècoles molto più complesso per ambito disciplinare e localizzazione territoriale di quanto risulti da questo elenco
è un mondo dai confini incerti nonostante la definizione proposta dal
Ministero dell’Istruzione francese cerchi di delimitare chiaramente ciò
che si definisce “grande école”: «Sotto la denominazione “grandes écoles” sono raggruppate le scuole di ingegneri, le scuole normali superiori
(ENS), le scuole di commercio e le scuole veterinarie. Queste grandes
écoles si caratterizzano per il livello elevato del loro diploma (di solito 5
anni dopo il baccalaureato) e per una forte selezione all’ammissione».
Rispetto alle università, le grandes écoles di differenziano anche per
il modo di selezione dei propri studenti, in quanto se le prime assegnano
il diritto di iscrizione a coloro che possiedo il diploma di insegnamento
secondario, le seconde attuano la selezione all’ingresso tramite un con-
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corso di reclutamento. Tuttavia, anche se i testi ufficiali fanno riferimento alle grandes écoles colle-gandole al concorso aperto agli studenti delle classe préparatoire aux grandes écoles, oggi la Conferenza delle
grandes écoles con il termine ricomprende anche un ristretto numero di
istituti di formazione di alti funzionari pubblici francesi, a cui si accede
con concorso dopo la laurea universitaria quadriennale o un titolo equivalente, e, più recentemente, certi istituti di istruzione superiore a cui si
accede direttamente per concorso o per domanda, o indirettamente tramite un ciclo preparatorio integrato a livello di baccalauréat (il nostro
diploma di maturità) e in cui il corso di studi dura generalmente cinque
anni. A grandi linee, per ognuno dei principali corsi di studio - Scuole
militari, Scuole normali superiori, Scuole di ingegneri, Scuole di commercio e di gestione, Scuola nazionale di cartografia e Istituti di studi
politici – si distinguono le scuole che durano tre anni dopo un concorso
preparato dai corsi preparatori (Bac+3 a Bac+5) e le scuole che durano 5
anni senza passaggio per i corsi preparatori (Bac+1 a Bac+5) dette “post
bac” o “con prépa integrati”.
Proprio per il ruolo centrale delle grandes écoles nella formazione
delle élites sociali e per il modo di selezione specifico rispetto
all’insegnamento superiore universitario ha sollevato un interesse costante sull’assunto ne che giustifica il prestigio, ovvero che sia davvero
capace di promuovere il merito.
Il sistema delle grandes écoles è stato oggetto di numerosi studi. Ma
la più celebre ricerca è quella realizzata da Bourdieu e i suoi collaboratori nel corso degli anni ‘70 e ‘80, culminata in La nobiltà di Stato.
Grandes écoles e spirito di corpo (1989a), un’opera coofirmata da
Bourdieu e da M. de Saint-Martin. Si tratta di un lavoro complesso articolato e voluminoso le cui ipotesi mettono in dubbio uno dei principi
cardine della Repubblica francese – l’eguaglianza e le pari opportunità
dei cittadini - proprio nel bicentenario della rivoluzione.
Se una delle funzioni sociali del sistema educativo nel suo complesso è quella di assicurare la stabilità dell’ordine e delle divisioni sociali,
secondo Bourdieu le grandes écoles costituiscono eminentemente
l’istituzione deputata a riprodurre le gerarchie sociali che perpetuano
una sorta di “nobiltà francese”.
La Noblesse d’État non è soltanto un’indagine sulle Grandes Écoles
e sulle funzioni di riproduzione della classe dirigente che esse svolgono
ma anche uno studio delle strategie di riproduzione riguardanti la fecondità, l’educazione, l’investimento economico e la trasmissione patrimoniale, le politiche matrimoniali, la gestione del capitale sociale e, più in
generale, un’analisi del rapporto di legittimazione tra i campi del potere
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e della cultura.
La ragione per cui Bourdieu riprende gli studi sulle istituzioni
scolastiche, dopo le ricerche degli anni ‘60 è spiegata nell’intervista a D.
Éribon (1989) precisando che pur avendo incominciato le indagini sulle
grandes écoles nella seconda metà degli anni ‘60, i seguito i suoi
interessi di ricerca furono influenzati dalla sua traiettoria professionale e
solo dopo aver studiato le molteplici forme di trasmissione del potere,
comprese appieno la centralità della scuola:
Le imprese di ricerca richiedono degli investimenti molto ingenti: l’indagine
sulle grandes écoles è cominciata nel 1966 fino al 1969. Io sono passato
dall’Écoles normales supérieures à l’X, à HEC, à l’ENA, ecc. Da ciò
l’analisi del patronato, della alta funzione pubblica, dei professori
dell’insegnamento superiore, ecc. Io resto sullo stesso terreno, ma
l’ambizione del lavoro è molto cambiata : io penso oggi che non si può
comprendere che cos’è il potere, né la trasmissione del potere, in tutte le società sviluppate, dell’Ovest e dell’Est, senza comprendere l’azione della
scuola […] Io avevo maturato l’ipotesi che lo spazio delle grandes écoles,
ossia che les grandes écoles in quanto struttura di relazioni e di opposizioni,
contribuisse a riprodurre le differenze all’interno di quella che si definisce
“la classe dirigente” (Bourdieu, 1989b).
La dinamica di riproduzione delle differenziazioni sociali è stata subita
come una disillusione da parte delle classi inferiori, le quali pur avendo
impegnato tante risorse nella formazione delle nuove generazioni si
sono ritrovate smarrite di fronte alla circostanza che, dapprima, il
diploma e, poi, persino la laurea non costituissero più un titolo
sufficiente a rendere possibili una significativa e duratura ascensione
nella scala della stratificazione sociale.
L’enorme crescita degli effettivi scolastici ha modificato il valore
dei titoli di studio e, quindi, anche le strategie degli appartenenti alle
classi sociali con l’intensificarsi della concorrenza nella selezione delle
posizioni dominanti (Passeron, 1982).
Ma la crescita in termini assoluti del numero dei bac e delle ammissioni all’insegnamento superiore da parte degli studenti delle classi inferiori non rappresenta una prova del miglioramento delle opportunità di
formazione, in quanto, non solo in termini relativi il rapporto è peggiorato ma gli studenti delle classi borghesi accedono sistematicamente alle
istituzioni più prestigiose.
A dispetto dell’espansione dell’insegnamento superiore nella società
france-se le differenze nelle opportunità di formazione continuano a esistere perché con la crescita del tasso di scolarizzazione il valore dei titoli
di studio viene, per così dire, ponderato a seconda dell’esclusività delle
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scuole frequentate. Non è il titolo come tale che fa la differenza, ma il
rango del titolo che permet-te di occupare posizioni di distinzione nella
scala dai più ai meno diplomati.
Gli svantaggi legati alle origini familiari e ai contesti territoriali confermano la tendenza delle società occidentali contemporanee alla concentrazione delle opportunità, a partire dalla diseguale crescita delle
chances nella formazione.
A partire dall’assunto metodologico della ricerca sulla struttura e
sulle funzioni delle grandes écoles – quella prospettiva relazione che
richiede anche per la comprensione di ciascuna scuola lo studio dei loro
rapporti nel tempo, al fine di rilevare le specificità e i mutamenti - si
profilano i dati dell’indagine.
Solo una ricostruzione strutturale del campo delle istituzioni superiori di insegnamento può far comprendere il funzionamento specifico
di ciascuna. Bourdieu rintraccia le relazioni in cui sono inserite grandes
écoles quali l’ENS, il Polytechnique, l’ENA e l’HEC e gli effetti che
ognuna produce sulle altre. no le une sulle altre, con particolare attenzione all’affermarsi dell’ENA e di una serie di nuove scuole superiori di
gestione, marketing, pubblicità, ecc.
Definendo il panorama del campo delle grandes écoles, Bourdieu ha
affron-tato il tema della formazione delle classi dirigenti come “fondamento di una antropologia generale del potere e della legittimità”
(Bourdieu 1989a, 18) nella misura in cui gli permette di individuare i
meccanismi di riproduzione delle “strutture sociali e mentali” e di precisare la specificità delle “vocazioni” e “scelte” formative (Ivi, 196-197).
Queste conclusioni sono state confermate da numerose ricerche indipen-denti quali ad esempio gli studi di M. Bauer e Bertin-Mourot sulla
formazione delle élite (1992), le indagini di G. Lazuech sull’azione pedagogica delle grandes écoles e di V. Albouy e T. Wanecq (2003) e dai
lavori monografici di H. Le More sulla HEC di Parigi (1976), di D. Cuche sull’École des Arts et Métiers (1988) , di M. de Saint Martin sulle
Scuole di gestione (1997).
3. LA DISTRIBUZIONE SOCIALE DELLE OPPORTUNITÀ DI ACCESSO
Negli ultimi decenni, la società francese ha visto sensibilmente allargarsi la fascia degli studenti che possono accedere a forme di insegnamento
superiore. D’altra parte, nonostante l’obiettivo della politica educativa di
tutti i governi sia stato, almeno nei principi programmatici, quello di
democratizzare il siste-ma di selezione della classe dirigente favorendo
le pari opportunità, le dise-guaglianze sociali continuano a dominare il
Roberta Salsi
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reclutamento alle grandes écoles.
Nell’arco dei venti anni che intercorrono dalla fine degli anni ‘60 alla fine degli anni 80, Bourdieu e i suoi collaboratori hanno avuto la possibilità di seguire, accanto ad alcuni mutamenti superficiali, delle sostanziali continuità. Dall’analisi sulle origini sociali degli studenti ammessi alle grandes écoles emerge, infatti, che gli studenti appartenenti ai
“ceti superiori” costituiscono la grande maggioranza degli iscritti, ovvero che sono sovrarappresentati all’inter-no della popolazione rispetto
alle percentuali rilevate negli studi universitari. Se negli anni ‘80, i terzi
cicli universitari continuavano a democratizzarsi, per contro nelle grandes écoles il reclutamento è rimasto più selettivo e classista. Bourdieu
rileva, infatti, che i figli dei amministratori, degli imprenditori e degli
insegnanti hanno molte più possibilità di accesso e di integrarsi nelle
grandes écoles, rispettivamente nell’ENA, nell’HEC e nella ENS, rispetto ai figli delle classi popo-lari, nonostante gli ultimi decenni siano
caratterizzati da una generalizzazione dei alti livelli nell’istruzione secondaria e superiore:
Le opposizioni cardinali, tra le scuole che portano alle carriere intellettuali e
quelle che conducono alle sfere del potere, si ritrovano intatte. Come tutta
una serie di opposizioni secondarie, che io esamino in dettaglio. Tutti gli indicatori statistici tendono a dimostrare che lo scarto tra le grandi e le piccole
scuole - o facoltà -, o, se si preferisce, tra la grande e la piccola porta, si è
rinforzato, e che le differenze all’universo delle grandes écoles sono
anch’esse acuite. Uno degli effetti del sistema nella sua forma iniziale, alla
vigilia del ‘68, era la creazione di effettive isole culturali molto omogenee,
che si potevano considerare popolazioni insulari. […] Oggi l’omogeneità è
più forte che mai. La Rue-d’Ulm non ha mai contato una proporzione così
elevata di figli di direttori o di professori, Lo stesso per i figli dei grandi
commercianti o industriali all’HEC o i figli degli altri funzionari all’ENA
(Bourdieu 1989b, 81).
Da un lato, si regista un notevole innalzamento del livello medio di
istruzione, nell’insieme della popolazione, ossia in tutte le categorie sociali. Dall’altro, i figli delle “classi superiori” ne hanno beneficiato in
misura maggiore.
Quando si programmano interventi di democrazia educativa ci si
propone di far accedere ai livelli di formazione superiore una quantità
sempre più ampia di studenti provenienti da ogni contesto socioculturale. Tuttavia, affinché si abbia una democratizzazione qualitativamente significativa dell’istruzione oc-corre che non solo la maggioranza ma, soprattutto, le “classi modeste” traggano più profitti
dall’incremento dei tassi di scolarizzazione superiore. Per contro,
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
all’espansione delle iscrizioni le diseguaglianze sociali sono cresciute:
Il nostro sistema educativo ha conosciuto delle evoluzioni considerevoli:
dagli anni ‘60, il numero degli studenti si è moltiplicato per sette. Come non
felicitarsi nel veder entrare all’università un terzo dei ragazzi degli operai!
Ma questa massificazione nell’insegnamento generale (quasi il 70% dei giovani accedono al livello del bac, il doppio rispetto al 1980) e superiore si accompagna a una vera democratizzazione? Questa buona notizia non nasconde
una realtà profonda immutata? Se l’accesso all’insegnamento superiore appare
meno differenziato, i figli degli operai che intraprendono gli studi superiori rimangono pur sempre minoritari, rispetto a quelli dei quadri sono due volte
meno numerosi. Delle distanze sociali molto pronunciate permangono riguardo ai risultati e al conseguimento del diploma superiore: l’80% sono figli di
professori o di professionisti delle arti liberali contro il 20% solamente di figli
di impiegati o di operati meno qualificati (Bourdieu 1989a, 436).
Ciò non dipende solo dalla scarsa informazione a cui possono accedere
gli studenti delle classi popolari e medie riguardo all’offerta di studi superiori (Ivi, 256). Le grandes écoles diventano, anno dopo anno, sempre
più selettive accrescen-do così anche il livello sociale che si deve soddisfare che essere valutati adatti:
La “democratizzazione” è infatti un argomento del numero di concorrenti: la
sopravvivenza nella corsa scolastica è più difficile e, di conseguenza, le carte culturali che occorre possedere all’inizio – e lungo tutta la corsa – per sopravvivere a questa selezione sono sempre più importanti. Per accedere
all’Ulm-sciences, all’Ulm-lettres o al Polytechnique, occorre più capitale
culturale di prima e la cultura ereditata nella famiglia gioca un ruolo sempre
maggiore. Di conseguenza, l’origine sociale degli studenti che entrano in
queste scuole non cessa mai di elevarsi (Bourdieu 1989b, 81).
Questa dinamica frustra le aspettative delle “classi inferiori”, le quali si
erano illuse che “un” titolo di studio fosse sufficiente per l’ascesa sociale. Un fenomeno di sfasamento tra aspettative indotte e contesto di azione che, come ricorda G. Marsiglia, Bourdieu esprime con il concetto di
“istéresi”. L’esplosione scolastica produce sia un aumento di diplomati
o laureati che la perdita di valore dei titoli. Si crea una sfasatura strutturale tra le aspirazioni dei laureati e le opportunità reali. Nell’habitus, infatti, é stato inculcato il principio che per accedere a posizioni elevate
era necessario un titolo di studio elevato – una convinzione introiettata
nell’habitus nella situazione sociale precedente.
Questa sfasatura provoca conseguenze comprensibili solo considerando con l’effetto istéresi, cioè il fatto che l’habitus continua a produrre
i suoi effetti:
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L’esplosione scolastica della scolarità di massa, con il rapido incremento
degli iscritti di tutte le classi sociali all’istruzione superiore e universitaria,
produce un fenomeno sociale tipico. La conseguenza è infatti un aumento
dei diplomati e laureati, ma anche una perdita di valore dei titoli di studio sul
mercato del lavoro, cioè l’inflazione dei titoli di studio. Ovviamente aumenta anche la concorrenza, quindi la rarità del titolo di studio si riduce. Si crea
quindi una sfasatura (al di là dei comportamenti soggettivi) tra le aspirazioni
educative e occupazionali degli agenti, collegate alla speranza di svolgere una
certa professione o di occupare una certa po-sizione, che sono state generate
dalla struttura precedente e la situazione attuale (Marsiglia 2002, 232).
Le grandes écoles hanno come funzione peculiare di riprodurre la noblesse d’État, che il sociologo francese presenta come l’“ereditiera strutturale” della noblesse d’Ancien Régime. Lungi dall’impiegare quel termine come una “metafora magnificante”, Bourdieu ne coglie la validità
euristica nella «applicazione controllata del concetto di nobilità agli
eletti della scuola» (Bourdieu 1989a, 534n). Le grandes écoles rappresentano, dunque, l’“archetipo” della funzione di gerarchizzazione per il
quale il sistema di insegnamento francese si definisce,
Oltre alla scarsa possibilità di finanziare il prolungamento degli studi
da parte degli studenti delle classi inferiori, Bourdieu sostiene che
all’origine della sovra-rappresentazione dei ceti superiori vi sarebbero,
le modalità di selezione delle grandi scuole – i corsi preparatori e i concorsi di ammissione.
4. LE MODALITÀ DI SELEZIONE E LO “SPIRITO DI CORPO”
La forza del meccanismo di riproduzione dell’ordine sociale deriva dal
fatto che l’insieme di coloro che vi prendono parte sono intimamente
persuasi che il successo scolastico, in particolare l’accesso alle classi
preparatorio e ai concorsi delle grandi scuole, sia una questione di capacità intellettuali individuali. Bourdieu parla al riguardo di una “ideologia
del dono” su cui si fonda la legittimità. Tale convinzione condivisa maschera allo sguardo di tutti, e in particolare delle “vittime” dell’istituzione, le funzioni oggettive che svolge il sistema educativo, e in particolare la scuola superiore. In realtà, le modalità di selezione delle grandi
scuole sono conformi alle disposizioni e alle conoscenze tipiche degli
appartenenti ai “ceti superiori”. Nella grandes écoles si riproduce in
modo accentuato la logica di reciproco riconoscimento tra gli insegnati
e gli studenti per appartenenza di ceto sociale smascherata da Bourdieu
e collaboratori negli anni precedenti riguardo alla valutazione vincolata
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delle prove nelle scuole superiori e ai corsi universitari.
Uno dei contributi più interessanti delle ricerche è costituito dalle
indagini sulla creazione fabbricata ad hoc di un “ésprit de corps” tra gli
studenti eletti nella condizione di isolamento dal mondo esteriore durante i corsi preparatori, come quelli tenuti al Lycée Louis-le-Grand, à Paris, uno dei licei più celebri in cui le classes préparatoires formano alle
grandes écoles più prestigiose. Ciò che si manifesta nello “spirito di
corpo” è un nucleo di credenze collettive e di stereotipi ritualizzati che
rappresentano la dottrina e gli ideali comuni a coloro che si intendono e
sono intesi come tra loro affini e diversi dagli altri (Bourdieu 1981).
L’appartenenza al medesimo “corpo” delle grandes écoles, e particolarmente alle istituzioni più celebri, sviluppa all’interno tra i membri
una specie di etica solidale fondata sulla loro distinzione e la pretese di
superiorità intellettuale (Bourdieu 1989a, 320-325).
Come abbiamo scritto, secondo Bourdieu, la capacità di produrre
appartenenze e differenzazioni sociali in ragione di selezioni scolastiche
rappresenta una delle funzioni fondamentali svolta dall’istituzione formativa. Inoltre, nonostante che per accedere alle grandi scuole occorra
superare dei concorsi aperti a tutti e che il criterio di valutazione sia la
capacità personale di studio superiore alla media, Bourdieu e i collaboratori hanno dimostrato che la classificazione in unità discrete e distinte
dei candidati al concorso e la frattura tra gli ammessi e gli esclusi sono
originate e rispondono a logiche differenti. Il concorso di ammissione,
presentato come uno strumento neutrale e imparziale, sarebbe in realtà
alla luce delle indagini una prova profondamente inegalitaria, valorizzando il tipo di sapere e di saper fare tipicamente borghesi, ad esempio,
della borghesia d’affari alla HEC, intellettuale all’ENS o funzionaria
all’ENA.
Certamente il superamento del concorso in sé è dovuto esclusivamente alle capacità intellettuali e alle conoscenze culturali dei candidati.
Tuttavia, questa “ideologia della capacità” nasconde e legittima un processo di selezione delle élite che riproduce il sistema di rilevanze funzionale alla selezione degli studenti della classe dominante (Bourdieu,
de Saint Martin 1987) Un processo che anche tramite gli argo-menti dei
concorsi, favorisce la diffusione degli schemi cognitivi che “delimi-tano
il pensabile” e delle categorie valutative del “giudizio professorale”
(Bourdieu, de Saint Martin 1975). Al riguardo risultano esemplificativi
le valutazioni e i commenti apposti dai pro-fessori delle khâgne, la cui
lettura consente a Bourdieu di confermare la tesi di una stretta correlazione tra l’origine sociale e l’habitus culturale degli studenti che sono
ammessi e l’origine sociale e l’habitus culturale degli insegnanti:
Roberta Salsi
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il sistema di apprezzamento funziona come una macchina cognitiva che a
per fine di comprendere le differenze sociali (notoriamente tramite l’habitus)
sotto le apparenze di differenze puramente scolastiche. Così gli aggettivi
“brillante”, “sottile”, intelligente” sono attribuiti maggiormente ai figli dei
professori o delle professioni liberali prestigiose, mentre i ceti medi ricevono
il più delle volte le qualifiche di “scolaro”, “onesto”, “maldestro” che caratteriz-zano così bene la buona volontà culturale di cui essi danno prova.
All’altro estremo dello spettro sociale, i qualificativi più contrariati e i meno
eufemistici riguardo alla severità della critica sono riservati alle classi più
sfavorite (Bourdieu 1989a, 48).
Il fatto che diversi professori delle khâgne, invece di valutare il lavoro
degli studenti, identifichino gli habitus di classe è in gran parte
inconsapevole, come dimostra lo sconcerto e lo scandalo suscitate dalla
pubblicazione di Bourdieu. Ed è precisamente poiché è inconsapevole
che l’arbitrarietà della selezione ri-sulta così efficace che gli stessi
soggetti discriminati non se ne accorgono (Ivi, 53).
Bourdieu non si interessa ai contenuti formativi degli insegnamenti,
in poiché ritiene che la sfida conoscitiva sia comprendere i presupposti
trasmessi implicitamente nelle visioni pedagogiche e nelle pratiche
didattiche, conside-randole come “atti di consacrazione” volti a produrre
un gruppo dirigenziale separato dalla comunità sociale e sacralizzato per
la sua formazione elettiva (Ivi, 97).
Nella critica delle modalità di selezione nell’accesso alle grandes
écoles, egli istituisce un parallelo tra il senso delle classes préparatoire
e dei concorsi e i “riti di passaggio” delle società arcaiche studiate da A
Van Gennep e M. Mauss, o ancora le “forme di investitura” medioevali
esaminate da M. Bloch:
Uno degli effetti maggiori di queste istituzioni è di compiere ciò che io
chiamo dei riti di passaggio, simili a quelli che segnano, in altre società, il
passaggio allo status di uomo, in opposizione ai fanciulli, i quali non li hanno ancora subiti, ma anche e soprattutto rispetto alle femmine, che non li subiranno mai (come la circoncisione). Questi riti stabiliscono una separazione, una frontiera sacra, come quella che, nei concorsi, separa l’ultimo ammesso dal primo dei respinti, un quarto di punto che crea una differenza per
tutta la vita. I grandi concorsi sono i riti magici con i quali le nostre società
selezionano i successori legittimi. Marc Bloch, riguardo alla investitura del
cavaliere, l’assimila all’ordinazione di un prete, anch’esso assegnato a un
ordine, ranking, con cui viene creato un ordine, nel senso di un gruppo sociale separato dagli altri per differenze essenziali. […] è precisamente questa
trasmissione di competenze tecniche che dissimula la trasmissione sociale,
l’atto di consacrazione, di legittimazione, ciò che rende il titolo di studio, in
22
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
senso forte titolo di nobiltà (Bourdieu, 1989b, 84).
Queste considerazioni sono ricorrenti nell’opera di Bourdieu, il quale
concepisce i “riti di passaggio” come “riti di istituzione” la cui funzione
è di imporre visioni del mondo e far accettare come naturali differenze
culturali (Bourdieu 1982). La pedagogia che caratterizza le istituzioni
delle grandes écoles opera come «un rito d’istituzione, volto a produrre
un gruppo separato e sacralizzato» (Bourdieu 1989a, 101). Il reclutamento e la cesura con la vita quotidiana a cui sono soggetti gli studenti
delle classes préparatoires non sarebbero una conseguenza involontaria
della durezza della selezione attuata al momento del concorso, bensì il
tentativo di riprodurre di una noblesse distinta e separata dai comuni
mortali. Queste forme di distinzione sono insiemi di riti di istituzione di
“ordini” e di “confini” tramite investiture simboliche con le annesse
magie performative:
Interamente affidati all’istituzione che gli sottrae nell’arco di pochi anni ogni
valore sociale (a parte quello che essa gli riconosce), gli individui ricevono
al termine della loro formazione un valore sociale legittimato e con-sacrato
dal titolo di studio che gli attribuisce un’essenza superiore e di cui beneficeranno tutta la vita. Le cerimonie d’investitura, così come la pubblica-zione
dei risultati dei concorsi nei grandi quotidiani nazionali, sono lì per ricordare
a tutti l’esistenza di una élite superiore per natura destinata ad assu-mere la
guida della nazione. Ciò che sanziona il titolo non è tanto una compe-tenza
tecnica specialistica – la quale ha grandi possibilità di diventare obsoleta nel
tempo – quanto una dignità essenziale al di là della loro competenza (Mounieu 2001, 151).
Accanto alla funzione tecnica di preparare studenti di alta formazione, le
grandes écoles svolgono la funzione di riprodurre, in forma dissimulata,
i rituali attraverso cui si compiono i processi di esclusione e di elezione
sociale.
L’accesso alle posizioni elevate nella stratificazione sociale che le
grandes écoles assicurano è riservato, di fatto, ai figli di coloro che già
occupano posizioni dominanti nell’allocazione della ricchezza, del potere o del prestigio. È come la trasmissione ereditaria dei titoli nobiliari,
con la particolarità che l’accesso alle posizioni dominanti passa per
l’ostentazione del titolo di studio, e che l’equilibrio nella trasmissione
della distinzione è stabile, non eterno (Bourdieu 1989b, 84).
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5. MUTAMENTI INTERNI AL CAMPO DELLE GRANDI SCUOLE
Nel saggio Variations et invariants (1987), in cui Bourdieu anticipa alcuni risultati delle ricerche sui mutamenti strutturali del campo delle
grandes écoles approfondite nella successiva pubblicazione, sottolineando sia la determinante egemnia delle classi dominanti
nell’istruzione superiore che la subordinata prolificazione delle scuole
private, di commercio, di gestione, di comunica-zione, ecc. in cui i figli
della borghesia economica trovano uno spazio protetto per acquisire la
“distinzione” messa in pericolo dall’accresciuta concorrenza:
Le analisi che sono qui proposte permettono di comprendere come il campo
delle grandes écoles abbia fornito ai ragazzi della borghesia socialmente destinati alle posizioni dominanti la garanzia, oramai necessaria, che le istituzioni formative più illustri gli negavano spesso in ragione dell’intensificarsi
della concorrenza scolastica, e ciò anche con una diversificazione estrema
delle scuole di insegnamento superiore e un rafforzamento di quelle che forniscono i mezzi per evitare il giudizio (Bourdieu 1987, 8).
Queste istituzioni superiori rappresentano quella molteplicità di scappatoie che offrono ai respinti dalla strada maestra di aggirare le barriere
scolastiche:
Queste scuole rifugio, spesso molto costose, accolgono i figli della borghesia a
basso capitale culturale: grandi commercianti, industriali, ecc. Esse offrono
una seconda chance ai loro studenti e gli assicurano il minimo indispensabile
per uscirne, in particolare nelle professioni nuove, come il marketing, la pubblicità, ma anche nell’industria e nel commercio. Un’altra circostanza rilevante
è che la proliferazione delle scuole rende difficile orientarsi. E per avere senso
della posizione, occorrere un esperto dell’universo di istituzioni o una mappa
del tipo che io presento sotto forma di diagramma (il mio libro potrà servire
può darsi come guida d’orientamento) (Bourdieu 1989b, 81).
Egli precisa che i recenti cambiamenti all’interno del campo delle grandes écoles, mostrano una competizione tra le istituzioni tradizionali e
quelle nuove prova della complessità dei rapporti tra gerarchie scolastiche e sociali e della lotta tra frazioni della classe dominante per imporsi
come classe dell’avvenire:
Se la distribuzione delle posizioni di potere istituito, presenta oggi una struttura
globale molto vicina a quella che era stata realizzata nel periodo anteriore al
1968, tuttavia, la generalizzazione del modo di riproduzione su base scolastica
e, per ciò, l’intensificazione della concorrenza formativa che caratterizza il
periodo recente sono all’origine delle due trasformazioni maggiori. Per un
24
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
verso, la crescita del peso relativo dell’Ecole nationale d’administration – che,
forte delle posizioni acquisite dai suoi allievi anziani nel campo
amministrativo, politico ed economico, si è appropriata della parte maggiore
delle posizioni disputate dagli studenti delle grandes écoles – , ha determinato
delle trasformazioni profonde nell’insieme del campo e in particolare nei suoi
concorrenti diretti, l’Ecole polytechnique et l’Ecole normale. Per altro verso, si
assiste allo sviluppo di tutto un insieme di istituzioni d’insegnamento nuove
(Scuole di gestione, di marketing, di pubblicità, di giornalismo, ecc.) che sono
richieste dai mutamenti nel campo economico ma devono il loro successo al
fatto che servono oggettivamente le strategie con cui gli adolescenti della
borghesia d’affari e i loro familiari provano a modificare l’accresciuto rigore
delle regole scolastiche (Bourdieu 1987, 3-4).
Come anticipato, l’indagine empirica ha permesso di poter distinguere
tra grandes écoles del sapere e grandes écoles del potere, anche se la
lotta per la supremazia culturale, sociale ed economica è soggetta a
cambiamenti continui. I punti cardinali della competizione sono l’ENS,
il Polytechnique e l’ENA. Ciascuna delle grandes écoles si è guadagnata nel tempo un proprio profilo: l’ENA offre l’accesso alle migliori posizioni sociali ed economiche e, soprat-tutto, è la sola scuola che prepara
esplicitamente all’acquisizione del potere; l’ENS pur essendo la scuola
che formato il maggior numero di Presidenti della Repubblica è orientata verso la ricerca scientifica e l’insegnamento superiore; il Polytechnique ha preparato molti amministratori ma soprattutto ingegneri (Bourdieu 1989a, 200-203). Tuttavia, con la proliferazione delle scuole cambiano le regole del gioco:
ci sono due maniere di sbagliarsi: ci sono quelli che non sanno nulla. E sono
molti. Li si vede, al momento dell’iscrizione, in pieno smarrimento; si iscrivono a qualsiasi cosa. E ci sono quelli che credono di sapere: gli eletti vittime della loro elezione. Sono stati consacrati dall’istituzione scolastica e pensano che le cose continuano come in passato, senza vedere questa specie di deriva dei continenti che si spostano insensibilmente. Non vedono, per esempio,
che il centro di potere non è più il Polytechnique ma l’ENA, e a fortiori che
non è più all’Ulm. Lo sfasamento diviene così sempre più grande tra i “meriti”
scolastici e i profitti sociali – senza dubbio una delle cause fondamentali della
rivolta ambigua, “rivoluzionaria” e “conservatrice” dei professori: uno studente dell’HEC o di Sciences-po andrà a guadagnare dieci volte di più, al termine
della scuola, che un normalista (Bourdieu 1989b, 83).
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SOCIOLOGIA DELLA DEVIANZA
NELLA RAGNATELA DEL GAP.
COME LIBERARSI DALLA TRAPPOLA DEL GAMBLING
di Manuela Rossi
Indice
Introduzione
1. Il gioco d’azzardo patologico
2. Il coinvolgimento terapeutico secondo le tecniche del counseling
3. Gli interventi terapeutici nel processo di aiuto
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
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29
40
53
63
64
INTRODUZIONE
Il gioco è un’attività che fa parte della vita di ciascun individuo che, in
ogni sua fase di sviluppo, acquisisce, sempre più, parte della realtà circostante, sviluppando le sue percezioni sensoriali.
Crescendo, l’individuo, impara a relazionarsi con i coetanei, riconoscendo ad ognuno il proprio ruolo, condividendo insieme le principali regole di comportamento e dello stare insieme.
Man mano che lo sviluppo avanza cambia, anche, l’interesse nel gioco
avvicinandosi maggiormente ai giochi elettronici, dove luci, suoni e colori
fungono da polo attrattivo del soggetto.
Anche in età adulta il gioco continua ad accompagnare la persona nelle ore di svago, prendendo, con esso, le distanze dallo stress derivante dagli impegni quotidiani.
In alcuni casi il gioco da mera attività ludica e ricreativa si trasforma
in una patologia, che può portare ad un bisogno compulsivo di sfidare la
sorte, mettendo in secondo piano tutti gli altri interessi della vita.
La crescita del gioco d’azzardo, nello scenario socio – culturale degli
ultimi tempi, è riconducibile a due fattori principali: il primo riguarda
l’aumento dell’offerta di gioco e la corrispettiva facilità di accesso ad esso, nei più svariati luoghi ( bar, casinò, giochi online ); il secondo, è costituito dall’aumento della pressione pubblicitaria che si caratterizza come
una spinta attrattiva verso il gioco stimolando, nella mente del giocatore,
un crescente ed incontrollabile desiderio di scommettere e sfidare la sorte.
L’idea di esaminare questo problema nasce dal riscontro quotidiano di
tali fattori, che rendono labile la linea di confine tra “sano” e “patologico”.
Col presente elaborato, si cerca di inquadrare da vicino il vasto tema
del gioco d’azzardo patologico, partendo da una sua definizione e mettendo in evidenza i meccanismi e le dinamiche concernenti lo sviluppo di
una vera e propria dipendenza fino ad arrivare alle conseguenze indotte
sia sull’utente interessato che sul suo contesto familiare di appartenenza.
Successivamente, si intende spostare l’obiettivo sul coinvolgimento terapeutico incentrato sulle tecniche di counseling: dalla presa in carico
dell’utente da parte dei servizi socio-sanitari, al colloquio motivazionale e
definizione degli obiettivi nel processo di cambiamento. Nell’ultima parte
del presente elaborato, vengono argomentati i possibili interventi terapeutici da adottare nei confronti degli utenti per favorire il loro processo di
cambiamento e si arriva ad una conclusione del trattato illustrando un
esempio tipo di trattamento terapeutico del giocatore d’azzardo definito
“Progetto Orthos” eseguito nella città di Siena in Toscana.
Manuela Rossi
29
1. IL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO
1.1. Definizione di gioco d’azzardo patologico
Il gioco d’azzardo patologico, dall’inglese gambling, rientra nelle
“nuove dipendenze”, in particolare nelle categorie delle dipendenze da
non sostanza, dove la stessa dipendenza non è generata da un consumo
frequente di sostanze psicotrope, bensì da un bisogno imprescindibile
di mettere in atto comportamenti compulsivi e ripetitivi, che nel caso
sopra indicato consiste nel giocare d’azzardo. Nello specifico, il gambling rientra nelle categorie dei giochi di alea1 ovvero tutte quelle
forme di scommesse dall’esito incerto in cui la perdita o la vincita sono determinati dal caso, dalla fortuna, e non dalle abilità del giocatore.
Attraverso la scommessa il giocatore prova un forte brivido e in lui si
risveglia il desiderio di onnipotenza e l’illusione di poter controllare il
destino.
Il gioco d’azzardo patologico è un fenomeno il cui studio attento
risale agli albori degli anni 80 iniziando a considerarlo, per la prima
volta, come vera patologia e non semplicemente un vizio, includendolo nel “ Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali” ( DSM III ) tra i disturbi del controllo degli impulsi, insieme alla cleptomania,
piromania, tricotillomania, disturbo esplosivo intermittente.
Nella successiva edizione del DSM - IV - TR vengono riportati i
criteri diagnostici del gioco d’azzardo patologico:
La persona ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti
di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata (Lellis 2009, 2-23):
– il giocatore è eccessivamente assorbito dal rivivere esperienze
passate di gioco d’azzardo, dal soppesare e programmare la successiva
avventura, o dal pensare ai modi come procurarsi il denaro con cui
giocare;
1
Roger Caillois ne I giochi e gli uomini la maschera e la vertigine elenca quattro
tipologie di giochi (28-45): 1) Agon dove i giocatori si affrontano in condizioni ideali di
partenza, in posizione di rivalità competitiva, mostrando le proprie abilità fisiche e celebrali (
rientrano in questa categoria i giochi come gli scacchi, il bigliardo, la dama, le gare di tiro ed
altri cimenti sportivi ), anche questa tipologia di gioco può rientrare nell’orizzonte di interesse
del giocatore patologico in circostanze in cui è possibile poter scommettere somme di denaro
sugli eventuali esiti delle competizioni; 2) Alea; 3) Mimicry dove i giocatori, in un contesto
immaginario, diventano dei personaggi illusori altri da se stessi ( tale categoria si riferisce al
gioco del far finta di, ai giochi di mimica e di travestimento ecc.); 4) Ilinix comprende la
categoria dei giochi che si basano sulla ricerca di sensazioni di vertigini, capogiro, perdita di
stabilità, equilibrio che implicano il piacere dello stordimento ( qui’ rientrano giochi ed attività
quali l’altalena, le giostre del luna park, acrobazie, il girotondo ecc.).
30
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
– il soggetto ha ripetutamente tentato, senza successo, di controllare, ridurre o interrompere l’attività di gioco;
– quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo si mostra irrequieto ed irritabile;
– gioca d’azzardo per sfuggire dai problemi o alleviare un umore
disforico ( sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione );
– dopo aver perso al gioco, spesso torna nuovamente a giocare un
altro giorno rincorrendo le proprie perdite;
– mente ai componenti della sua famiglia, al terapeuta ed altri per
occultare l’entità del suo coinvolgimento nel gioco;
– spesso fa affidamento ad altri per reperire il denaro per alleviare
una situazione finanziaria disperata causata dal gioco;
– per finanziare il gioco d’azzardo patologico, ricorre ad azioni illegali: falsificazione, frode, furto, appropriazione indebita;
– ha messo a repentaglio, o perso una relazione significativa, il lavoro oppure opportunità scolastiche , o di carriera a causa del gioco
d’azzardo.
Dai seguenti criteri si può risalire alla definizione del gioco
d’azzardo intendendolo come “un comportamento persistente, ricorrente e maladattivo di gioco che compromette le attività personali, familiari e lavorative.
Per la diagnosi occorre rilevare almeno cinque di questi sintomi
nel soggetto interessato.
Il mondo del gioco d’azzardo è un fenomeno complesso, eterogeneo e variegato la cui condizione patologica si manifesta in modo progressivo e fortemente insidioso la cui presa di coscienza del giocatore
giunge solamente quando il gioco si è trasformato in un irrefrenabile
impulso di scommessa oltre le sue possibilità, in cui risulta difficile ed
impossibile uscirne unicamente con le proprie forze e risorse; una situazione, questa, in cui il confine tra normalità e patologia si fa sempre più sottile e labile.
Negli ultimi anni, tale fenomeno, sta assumendo una notevole rilevanza sociale con una potenziale crescita sempre più elevata, collocando l’Italia al terzo posto nel mondo, dopo il Giappone ed il Regno
unito, ed al primo posto per quanto riguarda la spesa pro capite che
raggiunge una cifra di circa 1.260 euro.
Si tratta di un andamento crescente (tra gli anni 2003-2010), resistente all’attuale crisi economica: si passa da una cifra di 42 miliardi
di euro nel 2007, ad una pari a 76 miliardi di euro nel 2011 (Fig. 1).
Manuela Rossi
31
Fonte: Centro studi ricerca e documentazione su droghe –dipendenze e HIV/AIDS, I
numeri del gioco in Italia e in Toscana”, www.cesda.net
Parlando, invece di numeri nel nostro paese i giocatori d’azzardo patologici risultano essere circa 800.000, contro i due milioni di quelli a rischio. Inoltre, da una ricerca realizzata nel 2011 dal “ CONAGGA” (
coordinamento nazionale gruppi giocatori d’azzardo ) risulta una relazione tra ricorso al gioco e minore scolarizzazione.
L’Agenzia Regionale di Sanità della Toscana (“ARS TOSCANA”),
nel suo lavoro di revisione di ricerche internazionali sulla popolazione
adulta, in età compresa tra 18-74 anni, emerge: l’80% della popolazione
generale gioca, o ha giocato almeno una volta d’azzardo, i giocatori problematici risulta essere, dalla popolazione totale adulta dall’1%, al 3%;
mentre tra i giovani tale percentuale sale è va dal 3% al 5% .Inoltre ha rilevato una tendenza alla comorbilità con problemi di dipendenza da alcool
e droghe, disturbi depressivi, d’ansia; si tratta di una percentuale che varia
dal 25-73%; mentre risulta una bassa percentuale tra i soggetti dipendenti,
principalmente, da sostanze con la tendenza alla comorbilità col gioco
d’azzardo patologico: percentuale che varia dal 9% al 16 %. Tra la categoria giovanile sul territorio toscano, da una ricerca effettuata dalla stessa
“ARS TOSCANA” sui giovani che frequentano la scuola media superiore
32
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
risulta un alzamento della percentuale al gioco pari al 13% nelle scuole di
Pistoia ed Massa, non solo emerge ulteriori comportamenti a rischio quali:
fumo precoce di tabacco, consumo di binge drinking, rapporti sessuali
precoci, guida a rischio.
1.2 I meccanismi che incidono sulla dipendenza del gioco d’azzardo
L’ingresso del giocatore nell’attività del gioco d’azzardo scatena sempre
“l’esperienza del rapimento” (Picone 2010, 21), il soggetto, giocando si
rifugia in un oasi privata distaccata dalla realtà, liberandosi dallo stress
della responsabilità ed impegni diversi della quotidianità; è uno spazio per
dimenticare, sospendere momentaneamente tutte quelle preoccupazioni e
problemi appartenenti ai suoi contesti di vita reale.
In questo mondo fantastico il giocatore si ritrova immerso in uno stato
d’animo, molto confortevole detto di “beatitudine artificiosa” caratterizzata da una mescolanza di emozioni e sensazioni legati al desiderio di avventura del soggetto e di potersi mettere in gioco ovvero di entrare in
azione sfidando le sorti del proprio destino, modificandolo con successo e
a proprio piacimento.
Si tratta di una distorsione cognitiva definibile come “ illusione di
controllo” (Ivi, 14); ciò si manifesta nella convinzione irrazionale ed erronea del giocatore di poter vincere, nonostante le numerose perdite.
A tale proposito si può fare una distinzione fra due differenti tipologie di meccanismi di questa distorsione cognitiva, messa in atto dai giocatori: Il ”locus of control interno”, dove il giocatore ha l’illusione che
la possibile vincita sia derivata dalle proprie abilità e non dalla fortuna;
Manuela Rossi
33
ciò è dovuto da un bisogno di conquista da parte del giocatore e si manifesta maggiormente quando c’è un elevato grado di partecipazione del
soggetto, una crescente familiarità con il gioco ed un alto livello di
competizione (Lavanco, Varveri 2006, 65); il “locus of control esterno”
il pensiero comune di questi giocatori è quello di sentirsi completamente
nelle mani del destino, quindi il caso e la fortuna dirigono gli esiti incerti delle loro scommesse (Ivi, 64).
In ogni giocatore è possibile, quindi, rintracciare un comportamento
comune di sensation seeking ovvero un elevato grado di stimolazione sensoriale e mentale che spingono tali individui alla ricerca continua di forme
intense di emozioni, collegate al rischio (risk taking) della scommessa
dando origine ad una serie di reazioni emozionali positive di piacere ed
eccitazione avente come obiettivo primario l’auto-gratificazione immediata che deve continuamente essere rinnovata (Castorina, Mendorla 2011,
113-114), generando anche sentimenti di onnipotenza che rafforza la condotta a rischio dei giocatori.
La Sensation Seeking Scale misura nell’individuo il livello di stimolazione ottimale, in relazione al grado di arousal soggettivo con la conseguenza di ricerca del sensazionale. Essa è composta da quaranta coppie di
item che misurano la propensione per alcune sensazioni intense; comprende quattro sotto scale:
1) Ricerca del brivido e dell’avventura (rileva il grado di attrazione per
attività rischiose quali paracadutismo, guida spericolata o in stato di
ebrezza …);
2) Ricerca di nuove emozionanti esperienze (esamina l’intensità con
cui si cercano particolari e intense percezioni sensoriali);
3) Suscettibilità alla noia (rileva il livello di insofferenza nello svolgere attività abitudinarie e il grado di tensione provocato da ambienti noiosi
o dalla compagnia di persone monotone);
4) Disinibizione (misura l’intensità della ricerca edonistica del piacere
tramite varie attività).
I soggetti che ottengono un punteggio alto nella Sensation Seeking
Scale (Picone 2010, 21; Castorina, Mendorla 2011, 120; Zuckerman
1999, 2007) hanno un intenso bisogno di stimolazione rispetto ai soggetti
che ottengono punteggi minori.
Questi soggetti non riescono a controllare l’intensità delle loro emozioni, risultano essere molto sensibili agli stimoli, incapaci di inibire i
comportamenti impulsivi; passano in continuo stato emozionale di forte
eccitazione a uno stato di forte depressione mostrando sentimenti di inadeguatezza, inferiorità.
Tali soggetti mostrano un’elevata predisposizione a sviluppare un
34
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
modello comportamentale di dipendenza.
L’insieme dei fattori di natura: individuale, ambientale e culturale costituiscono i “fattori predittivi” coinvolti nell’eziopatogenesi del gioco
d’azzardo patologico; ovvero quei fattori che lasciano prevedere la possibilità che il gioco d’azzardo possa diventare problematico e patologico
(Picone 2010, 25-27).
Questi fattori si classificano in diverse aree di riferimento in base alle
loro caratteristiche, si possono perciò distinguere: fattori di rischio (quelle
caratteristiche che possono provocare l’insorgenza di una possibile dipendenza del gioco d’azzardo),e fattori protettivi (caratteristiche con funzionalità inverse alle precedenti, che possono in qualche modo proteggere dai
rischi). Le aree di riferimento di entrambi i fattori sono: area individuale,
ambientale e culturale.
FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI
NELL ADDICTION DA GIOCO D’AZZARDO
AREA DI
RIFERIMENTO
FATTORI DI RISCHIO
FATTORI PROTETTIVI
INDIVIDUALE
- Predisposizione genetica
- Deficit delle abilità sociali
- età precoce di inizio
- Scarse conoscenze della teoria della
probabilità
- Basso livello di autostima
- Problemi di comportamento
- Atteggiamento competitivo, energetico ed irrequieto
- Disturbi di deficit di attenzione con
iperattività
- Disturbi d’ansia
- Disturbi dell’umore
- Disturbi di personalità
- Presenza dell’illusione del controllo
- Ricerca di sensazioni forti
- Responsabilità
- Stabilità emotiva
- Positivo senso di sé
- Competenze sociali: abilità
di decision making, abilità
assertive o di comunicazione interpersonale
- Abilità di problem solving
- Flessibilità
. Resilience
AMBIENTALE
- Abuso di altre sostanze:alcool e droghe o /gioco d’azzardo dei genitori
- Scarso supporto familiare
- inefficaci abilità genitoriali, specie
per i bambini con problemi di apprendimento o di comportamento
- perdita dei genitori per morte o loro
separazione/ divorzio
- Insufficiente valorizzazione del risparmio da parte della famiglia
- Legami con pari che usano ed hanno
un atteggiamento favorevole verso
alcol, droghe e gioco d’azzardo
- Relazioni positive
- Supporto emotivo
- Senso di fiducia
- Alte aspettative genitoriali
- Ruoli e aspettative chiari
- Monitoraggio familiare
- Gruppo dei pari positivo
- Partecipazione, coinvolgimento.
- Responsabilità nei compiti
e nelle decisioni scolastiche
- Ambiente scolastico supportivo
Manuela Rossi
CULTURALE
35
- Clima scolastico negativo, sregolato
e insicuro
- diffusione ed accessibilità ai luoghi
della scommessa
- Attività positive durante il
tempo libero
- Norme comunitarie che promuovono o permettono il gioco d’azzardo
- Diffusione della cultura consumistica e del guadagno facile
- Perdita del senso del denaro
- Comunità interessata ed
supportiva
- Scambio di informazioni
- Comunità garante delle
attività
1.3. Le tipologie di giocatori
Per comprendere al meglio e in maniera attenta il fenomeno, la letteratura
ha permesso di giungere ad una classificazione in tipologie dei giocatori
distinguendo:
– Giocatori d’azione con sindrome da dipendenza: il gioco d’azzardo
per questa tipologia rappresenta la cosa più importante della loro vita,
l’unica cosa che li mantiene in azione; il giocatore compulsivo non può
smettere di giocare, la sua famiglia, amici ed il suo lavoro sono influenzati
negativamente.
– Giocatori per fuga con sindrome da dipendenza: per questa tipologia, invece, il gioco diviene una sorta di fuga dalla loro vita reale dove
possono trovare sollievo alle sensazioni di ansietà, depressione, rabbia,
noia e solitudine; utilizzano il gioco come strumento ad effetto analgesico per sfuggire dalle crisi e difficoltà, piuttosto come uno strumento di
euforia.
– Giocatori sociali costanti: per questi giocatori il gioco costituisce la
principale fonte di relax e divertimento che viene messo in secondo piano
rispetto alla famiglia ed il lavoro; essi riescono ad mantenere, ancora, un
pieno controllo sulle loro attività di gioco.
– Giocatori sociali adeguati: tali giocatori vivono il gioco come un
passatempo, per divertirsi e come forma di socializzazione, il gioco non
interferisce con le obbligazioni familiari, sociali e lavorative; a questa categoria appartiene la maggioranza delle persone adulte.
– Giocatori antisociali: si tratta di una tipologia di giocatori che fanno
del gioco un uso per ottenere forme di guadagno, in maniera illegale.
– Giocatori professionisti non patologici: questi giocatori fanno del
gioco d’azzardo una forma di professione con la quale si mantengono
(Guerreschi 2010, 53-55).
36
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
1.4. Le fasi del gioco d’azzardo patologico: lo schema di Custer
Il gioco d’azzardo patologico si configura come un processo dinamico su
un continuum a fasi che può condurre un qualsiasi giocatore occasionale o
abituale a sviluppare una forma di addiction (Lavanco, Varveri 2006, 32).
Il “modello evolutivo di Custer” permette di inquadrare da vicino le
diverse fasi di sviluppo del gioco patologico e le possibili fasi di una guarigione (Ivi, 52-53; Guerreschi 2010, 63-69):
1) La fase vincente: il gioco viene vissuto come un passatempo, un divertimento il giocatore lo pratica in maniera occasionale, in compagnia di
amici o familiari, la durata della fase può variare dai tre ai cinque anni di
gioco, durante il quale può capitare che il giocatore possa vincere ed anche stravincere. È la grossa vincita a determinare nel giocatore l’idea di
essere più abile degli altri e sentirsi come un vero giocatore professionista.
2) La fase perdente: caratterizzata da perdite e “dall’inseguimento della perdita” il giocatore torna a scommettere nel tentativo di ricuperare il
denaro perduto, convinto dall’idea di essere investito un momento di sfortuna passeggero.
3) La fase della disperazione: il bisogno di giocare si fa sentire più
forte, accompagnato dalla perdita di controllo di sé e della situazione: le
ingenti scommesse indebitano il giocatore costretto, quest’ultimo, a chiedere prestiti a familiari, amici o ricorrere alle vie illegali per sanare il profondo debito cui è stato travolto( questa fase, generalmente dura oltre cinque anni ). Insorgono, così, momenti di panico che fanno intravedere delle
possibili vie di uscita per il giocatore: il suicidio, la fuga, la carcerazione o
la richiesta d’aiuto.
4) La fase critica: il giocatore arrivato a toccare il fondo decide di
chiedere aiuto per uscire dalla difficile condizione in cui si è cacciato e di
rivolgersi a persone esperte, con la disperazione e la speranza di voler
cambiare il corso della sua vita e uscire da questo circolo vizioso
5) La fase della riedificazione: è la fase della ricostruzione: caratterizzata dai tentativi di riparare i danni economici ma soprattutto relazionali,
causati dal gioco patologico che vede il giocatore protagonista attivo nella
ricostruzione di un nuovo percorso di vita, improntato alla ricostituzione
dei rapporti familiari perduti, al perseguimento di nuovi obiettivi.
6) La fase della crescita: l’ultimo stadio di questo, lungo, percorso
verso la guarigione che prevede una diminuzione della preoccupazione
legata al gioco dove, il soggetto interessato, ha raggiunto ottimi esiti di
riuscita di questo processo.
Manuela Rossi
1 FASE VINCENTE
2 FASE PERDENTE
1 gioco occasionale
2 susseguirsi di vincite
3 sale l’eccitazione legata al
gioco
4 il gioco si fa più frequente
5 aumento dell’ammontare
delle scommesse
6 avviene vincita importante
7 il giocatore gioca da
solo
8 susseguirsi di perdite
9 il giocatore ricorre a
menzogne e sottorifugi
10 il giocatore non riesce
a smettere
11 irritabilità,
12 agitazione,
13 isolamento
sociale
14 la sua vita diventa
infelice
15 si indebita e risulta
difficile risarcire i debiti
4 FASE CRITICA
21 il giocatore sente il desiderio realistico di essere
aiutato
22 emerge la speranza del
cambiamento
23 presa di coscienza sugli
avvenimenti reali
24 si chiariscono le idee
circa la propria situazione
25 si inizia a prendere decisioni concrete a fronte della
situazione
5 FASE DELLA
RIEDIFICAZIONE
29 miglioramento dei
rapporti familiari
30 progettazione di nuove mete
31 ritorna il rispetto di sé
32 maggiore tempo trascorso con la famiglia
33 minore impazienza
34 maggiore serenità
37
3 FASE DELLA
DISPERAZIONE
16 aumento del tempo e denaro
da dedicare al gioco
17 isolamento dalla famiglia e
amici
18 seguono momenti di panico
19 ricorso ad azioni illeciti
20 perdita della speranza:
pensieri e tentativi suicidi, arresti, divorzi, alcool, crollo emotivo, sintomi da ritiro.
6 FASE DELLA
CRESCITA
35 diminuisce la preoccupazione legata al gioco
36 migliore introspezione
37 maggiore comprensione
degli altri
38 manifestazione di affetto per
gli altri
38
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
26 si ritorna a lavorare
27 si avvia un possibile processo di cambiamento, di
risoluzione del problema
28 si attuano programmi di
risarcimento
1.5. Incidenza del gioco d’azzardo sulla famiglia
Le conseguenze del gioco non coinvolgono unicamente il giocatore ma si
riflettono anche sul suo contesto familiare di appartenenza, che esso sia
coniuge, genitore o figlio.
La famiglia è un vero e proprio sistema (De Lellis 2009, 73-74) nel
quale tutti i componenti interagiscono in stretta relazione tra loro, condividono un proprio progetto di vita, rivestono specifici ruoli ed responsabilità ad essi legati; le azioni del giocatore creano una” contro – reazione da parte dei suoi familiari, sottoposti ad una serie di cambiamenti
e stati d’animo negativi ed continui. Solitamente la famiglia del giocatore scopre l’origine del problema quando, ormai il giocatore stesso si trova già invischiato nella ragnatela di questa dipendenza (Castorina, Mendorla, 2011, 132), in particolare i dubbi emergono nel momento in cui la
situazione economica comincia a precipitare con una crescita, sempre
più elevata, dei debiti a causa dell’impiego incrementale di denaro nelle
scommesse di gioco.
Per non parlare dell’atteggiamento menzognero del giocatore stesso
nei confronti dei suoi familiari, nel tentativo di occultare la sua reale situazione, si adopera di una minuziosa e articolata serie di bugie allo scopo
di reperire denaro da destinare alle prossime scommesse, nel tentativo di
giustificare il calo finanziario o nel fornire spiegazioni circa i mancati pagamenti tassativi ( bollette, rata di un mutuo …) e le sue continue assenze
da casa e dagli impegni familiari, magari affermando di essersi trattenuto
ulteriormente sul luogo del lavoro, quando in realtà si trovava per ore in
un bar davanti a macchinette e videopoker.
Tutta questa serie di escamotage mettono il giocatore in una posizione
altalenante di forte stress spingendolo a diventare suscettibile di fronte alle
mille domande e spiegazioni da parte della sua famiglia, a cambiare, in
questo modo, umore all’improvviso diventando irascibile ed aggressivo
verso tutti i familiari (De Lellis 2009, 71).
Nel caso in cui il familiare giocatore risulta essere il coniuge, inizialmente la moglie, o compagna non immagina minimamente il fatto che il
marito, o compagno possa avere un problema come questo, piuttosto pensa ad un possibile tradimento, visto le frequenti assenze da casa giustifica-
Manuela Rossi
39
te in vario modo.
Si ritrova a vivere una situazione come di abbandono isolamento manifestando sentimenti di rabbia, desolazione di colpa e confusione circa
l’accaduto, possono manifestarsi anche attacchi di panico specie se
l’esordio del problema è emerso da un susseguirsi di telefonate da parte
dei debitori, i quali rivogliono indietro i prestiti precedentemente dati, o
dalla banca per avvisare di un conto corrente in rosso.
Per molte donne l’unica via di uscita risulta essere una separazione,
successivamente il divorzio nel caso di un matrimonio, nel caso di una
convivenza una definitiva rottura dei rapporti relazionali (Castorina,
Mendorla, 2011, 134).
Difficilmente il finto tentativo di separazione, utilizzato come minaccia, riesce a far cambiare la situazione; si inizialmente il proprio compagno, o marito giocatore riesce ad allontanarsi dall’impulso di scommette
ma poi ricade nuovamente in questa vischiosa ragnatela.
Nel caso in cui i giocatori sia il genitore la situazione si fa ancora più
complessa, a causa della difficoltà nel gestire le responsabilità genitoriali e
nel coinvolgimento affettivo verso i propri figli.
L’ambiente familiare viene vissuto dai figli dei giocatori in maniera
ostile, caratterizzato da una bassa coesione relazionale, anzi spesso subentrano stati conflittuali.
Ciò incoraggia ulteriormente i figli a legare con relazioni amicali negative, con coetanei devianti, manifestando comportamenti di ribellione
aggressivi, violenti e antisociali oltre a sintomi depressivi come forte isolamento interiore, tensione e paure legati al fatto di essere obbligati a vivere tale situazione in continua incertezza. Provano una forte rabbia nei confronti del proprio genitore che ha fatto cadere quel modello di eroe, idolo
che ha rotto l’idea di una realtà costituita da solidi affetti e pilastri educativi (De Lellis 2009, 59-60).
Può accadere in vari casi un inversione dei ruoli tra il genitore giocatore ed il proprio figlio nel tentativo, di quest’ultimo, di aiutare il proprio
genitore a smettere di giocare, cercando di farlo ragionare razionalmente,
monitorandolo e seguendolo nei luoghi dove si reca o coinvolgendolo in
varie attività familiari, organizzate in luoghi incompatibili con gli orari e i
posti dove si recava a giocare (Castorina, Mendorla, 2011, 130-131).
In altre circostante può avvenire un tentativo di creazione di alleanze
da parte del genitore giocatore con un solo componente della famiglia,
solitamente il figlio, che si manifesta in una forma di protezione propria
effettuata, a fin di bene, allo scopo di tenere nascosto il problema all’altro
coniuge o altri componenti della famiglia per mezzo di ulteriori bugie
quali evitare di far star male l’altro genitore o farlo arrabbiare.
40
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
In questo modo riesce ad manipolare il figlio, che ormai alleato si impegna a coprire le azioni del genitore (De Lellis 2009, 53-54).
La gravità della situazione aumenta notevolmente se i figli dei giocatori si trovano in età adolescenziale, questi contraggono il rischio di sviluppare una dipendenza da sostanze o da gioco anche in età adulta (Castorina, Mendorla, 2011, 129-131).
La reazione da parte della famiglia nei confronti del familiare giocatore riveste un ruolo importantissimo nel determinare gli esiti della vita di
tutto il contesto familiare, in relazione al genere ed intensità dei danni
conseguenti al gioco.
Se la famiglia decide di ignorare il problema, non giunge di certo ad
un rovesciamento della situazione, in atto, anzi tale azione porterà ad un
incremento, sempre più crescente del problema poiché il familiare si sentirebbe tranquillo di non essere stato scoperto e ciò lo inciterebbe a persuadere nella sua attività di gioco.
Se la famiglia prende coscienza della situazione cercando di affrontarla allora, in questo modo, si potrebbe avviare, su basi solide, un inizio di
un possibile percorso di recupero (De Lellis 2009, 73-74) terapeutico rivolgendosi insieme al familiare coinvolto ai servizi sociali territoriali di
competenza, che li orienterà in maniera adeguata verso un progetto ideale
che veda coinvolti anche i familiari del giocatore per un’accurata analisi
della situazione e buona riuscita del percorso terapeutico.
2. IL COINVOLGIMENTO TERAPEUTICO SECONDO LE TECNICHE DEL
COUNSELING”
2.1. La presa in carico e il colloquio di motivazione
La presa in carico di un utente che presenta una dipendenza da gioco
d’azzardo patologico avviene tramite una richiesta d’aiuto (Tiberio, Fortuna 2001, 397): sia direttamente dall’utente, che da parte di un familiare
(come spesso accade), rivolta ai servizi sociali territoriali del luogo di residenza dell’utente (distretto socio-sanitario2, SERT3).
L’assistente sociale, principalmente implicata in questo processo,
2
Per distretto socio-sanitario si intende: strutture tecnico-funzionali per l’erogazione di
prestazioni essenziali e di prima necessità, come collegamento capillare del Servizio Sanitario
Nazionale (articolazioni dell’AUSL).
3
Per SERT si intende: Servizio per le Tossicodipendenze è un servizio sanitario pubblico
afferente all’ASL per le terapie delle tossicodipendenze (farmacologica, psicologica e
psicosociale ) che vede coinvolta un’équipe multidisciplinare ( medici, infermieri, assistenti
sociali, psicologi…).
Manuela Rossi
41
provvederà a concordare un primo incontro colloquiale col soggetto interessato, coll’obiettivo di instaurare una relazione d’aiuto ed attivare un
percorso terapeutico assieme a lui.
Nel primo contatto è importante preparare un contesto di accoglienza
predisposto all’ascolto in cui la persona possa sentirsi a suo agio e riuscire
a parlare del suo disagio.
Nello stesso tempo l’assistente sociale deve comprendere la reale situazione problematica dell’utente, che spesso si cela dietro ad una richiesta di aiuto prettamente economica, o di altra natura, allontanandosi dal
vero disagio.
Il fondamentale strumento terapeutico utilizzato dall’assistente sociale
e da altre figure professionali è “ il colloquio di motivazione” (Miller,
Rollnich, 2011, 14-15): un particolare tipo di approccio relazionale finalizzato alla promozione del processo di cambiamento a valle di un comportamento persistente e disadattivo.
Le sue basi teoriche affondano le proprie radici nelle tecniche di
counselling centrato sulla persona, dalla terapia cognitiva, dalla teoria sistemica, dalla psicologia sociale della persuasione; i punti cardini sono il
concetto di ambivalenza ed il concetto di conflitto tra desiderio di soddisfare un impulso e capacità di esercitare un controllo sul proprio istinto da
parte dell’utente.
Le sue strategie di attuazione riguardano la creazione di un feedback
relazionale basato sull’argomentazione, discussione e sul confronto tra
operatore e utente circa la situazione problematica cui è inserito il soggetto interessato.
Questa metodologia si differenzia dalle strategie motivazionali, le quali, cercano di imporre il cambiamento nell’utente e non favorirlo, con modalità estrinseche attraverso approcci comportamentali come le sanzioni
legali, la punizione, la pressione sociale, i compensi economici allo scopo
di rinforzare uno specifico comportamento e scoraggiarne un altro a prescindere dal fatto che rispecchino o meno i valori e le credenze della persona, col rischio di bloccare il soggetto interessato allontanandolo ancora
di più dal cambiamento.
Il colloquio di motivazione, invece, è orientato ai processi motivazionali intrinsechi all’individuo, ponendo particolare attenzione agli interessi,
preoccupazioni e punti di vista dell’utente, cercando di comprendere ciò
che lui percepisce della situazione reale che sta vivendo e le sue aspettative circa i probabili esiti (positivi, negativi).
Proprio il riferimento a queste aspettative rappresenta un punto cruciale nel colloquio motivazionale poiché esse possono indurre un potente effetto sul comportamento della persona; ci sono giocatori d’azzardo che
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
sono restii a prendere in considerazione l’opzione di smettere di giocare
perché sono fortemente convinti che il brivido del gioco sia, per loro, la
più intensa fonte di eccitazione che hanno mai provato, di conseguenza
non possono farne a meno.
Altre persone, invece, sono fortemente convinti che il gioco non rappresenti realmente, un vero problema, e che in qualsiasi momento possono smettere, se solo lo vogliono.
Ciò avviene perché non hanno raggiunto una piena consapevolezza,
ed una certa obiettività circa il disagio che stanno veramente vivendo e
necessitano per questo di un lavoro di comprensione profonda che li conduca ad una presa di coscienza.
Quindi risulta di fondamentale importanza prendere in esame ciò che
il soggetto vuole veramente (Ivi, 32-33) e non fermarsi solamente sui perché la persona si rifiuta di porre in essere un cambiamento.
Centrare il focus su questo aspetto costituisce il contesto del cambiamento, infatti la modificazione di una condotta persistente e disadattiva,
come quella del giocare d’azzardo, non avviene fino a quando è l’utente,
stesso, a percepire il cambiamento come rilevante nel perseguire un obiettivo altamente importante per la sua esistenza.
2.2. Quattro principi guida del colloquio di motivazione.
L’approccio utilizzato dall’assistente sociale, o da altre figure professionali interessate alla presa in carico dell’utente, è di fondamentale importanza
ai fini del percorso terapeutico.
Una metodologia come quella del colloquio motivazionale rappresenta un valore aggiunto alla pratica della figura professionale dell’assistente
sociale, la cui mission consiste nel salvaguardare la salute globale della
persona prendendo in considerazione, nella sua interezza, la sua situazione
problematica.
L’assistente sociale deve saper gestire la relazione comunicativa con
l’utente, rispettare e gestire il tempo a disposizione del colloquio, deve
saper ascoltare ed osservare ciò che l’utente dice, cogliere le piccole sfumature nella comunicazione.
Il colloquio di motivazione pone le sue radici su quattro principi cardini: “ esprimere empatia, aumentare la frattura interiore, aggirare e utilizzare la resistenza, sostenere l’autoefficacia” (Ivi, 53).
Manuela Rossi
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Esprimere empatia
L’empatia è uno strumento essenziale nelle mani dell’operatore nel determinare il processo di cambiamento; consiste in una comprensione profonda ed accurata della persona delle sue emozioni, dei suoi significati di
riferimento più profondi, attraverso abilità di ascolto attento, riflessivo e
rispettoso dei bisogni e punti di vista dell’utente, senza manifestare alcuna
critica, giudizio o biasimo nei suoi confronti ma porsi in un atteggiamento
di completa accettazione (Ivi, 15-16; Tiberio, Fortuna 2001, 212). In questo senso il colloquio di motivazione si muove sulla linea del counseling
classico, centrato sul cliente, con l’obiettivo di mettere il soggetto in condizione di essere in grado di esplorare apertamente la propria esperienza.
Il counselor deve evitare atteggiamenti autoritativi e persuasivi nei
confronti dell’utente costringendolo al cambiamento, piuttosto deve creare
un’atmosfera collaborativa e favorire il cambiamento spontaneo, manifestando tre condizioni di base: accurata empatia, calore non possessivo e
genuinità. Il riferimento al termine accurata empatia sottolinea l’importanza del professionista di non identificarsi in maniera eccessiva con l’utente,
rischiando di rimanerne invischiato emotivamente a tal punto da non essere più in grado di gestire con obbiettività e abilita professionali la terapia.
Aumentare la frattura interiore
Le persone che lottano con problemi di dipendenza (sia da sostanza correlati all’uso di droghe-alcool, sia da non sostanza come nel caso del gioco
d’azzardo patologico ...), vivono l’esperienza dell’ambivalenza: uno stato
mentale caratterizzata dalla coesistenza di sentimenti contrastanti a fronte
di una situazione.
Nel coso del giocatore d’azzardo questo stato di incertezza fluttua tra
mettere in atto il comportamento di dipendenza ed il resistervi; questo stato di continua incertezza crea una sorta di conflitto interiore tra il bisogno
reale di giocare (crescente) ed il desiderio di smettere.
Il colloquio di motivazione, qui, svolge funzione direttiva: ovvero
aumentare la dissonanza cognitiva (cioè la frattura interiore) tra lo stato
attuale del soggetto ed il suo desiderio di cambiare, aiutarla a muoversi
dalla condizione di ambivalenza verso la modificazione della condotta.
Il conflitto che maggiormente accomuna i soggetti con problemi di dipendenza è “ il conflitto dell’approccio evitamento doppio” (Ivi, 27) in cui
la persona è tormentata da due alterative x e y (dove x simboleggia il giocare ed y simboleggia l’opzione di smettere di giocare), avente entrambe
aspetti fortemente positive e negative per il soggetto.
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
Appena la persona si avvicina all’opzione x gli svantaggi di tale scelta
diventano più evidenti mentre i vantaggi dell’opzione y, appaiono più allettanti; quando, poi, si dirige verso l’alternativa y i lati negativi diventano
chiari e x appare più invitante.
Un modo per poter stimolare la frattura interiore potrebbe essere quello di definire i costi e benefici percepiti dall’utente relativi al comportamento attuale ed all’ipotetico cambiamento attraverso l’utilizzo ” della
metafora della bilancia” (Ivi, 27-29), o dell’altalena. Consiste nel rappresentare su un foglio i costi e benefici dello status quo e del desiderio di
cambiare per operare un processo di bilanciamento finale.
L’utente, in questo modo potrebbe trovare un effettivo riscontro sulla
sua situazione ed acquisire più consapevolezza sulla sua ambivalenza e
rendere più salienti le conseguenze negative del comportamento.
CONTINUARE A GIOCARE
BENEFICI
COSTI
Mi aiuta ad eva- Potrei perdere la mia
dere dalla realtà.
famigli
Gioco per vince- Spendo troppi soldi.
re.
È un cattivo esempio
Gioco per diver- per i miei figli.
tirmi.
SMETTERE DI GIOCARE
BENEFICI
COSTI
Meno conflitti in fa- Provo una forte eccimiglia.
tazione.
Meno debiti da pagare. Mi piace sentire la
Più tempo da passare sensazione del brivicon i miei figli
do nel sfidare la sorte.
Non saprei cosa fare
senza scommettere.
La sommatoria degli elementi raffigurati sul foglio della bilancia non
è l’esito di una comparazione matematica tra costi e benefici, occorre tenere in considerazione il significato valoriale che il soggetto interessato
prova nei confronti di questi elementi, a quale piatto della bilancia associa
il maggiore peso.
Ovviamente emergeranno molte contraddizioni, sentimenti contrastanti come la consapevolezza dei rischi che l’atto del giocare d’azzardo comporta, per il soggetto e il suo bisogno di continuare a persuadere nel
scommettere.
Quando la frattura interiore aumenta l’ambivalenza inizialmente si intensifica, se, prosegue a crescere allora l’ambivalenza può risolversi in
direzione del cambiamento; comunque deve essere l’utente, non il
counselor a fornire le motivazioni per cambiare.
Aggirare e utilizzare la resistenza
Durante l’interazione interpersonale tra operatore e utente, può succedere
che l’utente stesso manifesti, ad un certo punto, il fenomeno della resi-
Manuela Rossi
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stenza: ovvero quei comportamenti di disaccordo nei confronti del
counselor ed atteggiamenti di riluttanza che indicano un suo progressivo
allontanamento dalla direzione del cambiamento.
Si tratta di un segnale di dissonanza nella relazione del counseling che
mostra come l’utente stesso non procede insieme al counselor ma si rifiuta
di collaborare o non si trova in accordo con quanto è stato detto.
Esistono quattro categorie di comportamenti di resistenza (Ivi, 131):
1) Discutere: l’utente contesta l’accoratezza, la capacità o l’integrità
dell’operatore. In tal caso, egli lancia una sfida aperta su quello che
l’operatore ha detto (“Sfidare”); mette in discussione l’autorità e le capacità personali dell’operatore (“Screditare”); esprime una diretta ostilità nei
confronti dell’operatore (“Manifestare ostilità”).
2) Interrompere: l’utente disturba e interrompe l’operatore in maniera
difensiva. In tal caso, egli interloquisce mentre il counselor sta ancora parlando senza aspettare una pausa appropriata o che abbia finito di svolgere
la propria argomentazione (“Inserirsi bruscamente”); si inserisce con parole che inequivocabilmente intendono zittire l’operatore («ora aspetti un
attimo, ho sentito abbastanza») (“Bloccare”).
3) Negare; l’utente esprime la sua indisponibilità a riconoscere i problemi, cooperare, assumersi le proprie responsabilità o ricevere consigli.
In tal caso, egli cerca di addossare ad altri la colpa dei propri problemi
(“Incolpare”); dissente dal suggerimento dato dall’operatore senza offrire
un’alternativa costruttiva (“Dissentire”); si scusa del suo comportamento
(“Scusarsi”); afferma di non correre alcun pericolo (“Proclamare la propria impunità”); suggerisce che l’operatore sta esagerando circa i rischi e i
pericoli, che in realtà la situazione non è così terribile (“Minimizzare”); fa
su se stesso o su altri affermazioni di tono pessimistico, disfattistico o negativo (“Esprimere pessimismo”); esprime riserve e riluttanza riguardo
alle informazioni o ai consigli ricevuti (“Mostrare riluttanza”); esprime
una mancanza di desiderio o una indisponibilità al cambiamento, intenzione di non cambiare (“Manifestare indisponibilità al cambiamento”).
4) Ignorare: l’utente dà prova di non seguire o di ignorare l’operatore.
In tal caso, la sua risposta indica che non ha seguito o non ha prestato attenzione all’operatore (“Essere disattenti”); oppure nel dare risposta a un
quesito dell’operatore, l’utente fa una formulazione che non risponde alla
domanda (“Non rispondere”); dà una risposta non udibile o non verbale a
una domanda dell’operatore (“Non rispondere affatto”); cambia la direzione della conversazione che l’operatore aveva svolto fino a quel momento (“Depistare”).
Quando si manifesta la resistenza, l’operatore deve saperla riconoscere
successivamente indietreggiare per comprendere il motivo per il quale
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
l’utente assume questi atteggiamenti, si deve interrogare sulle pratiche del
proprio operato.
La resistenza può manifestarsi in qualsiasi momento, sia al momento
della presa in carica, (quando si costruisce la motivazione al cambiamento), sia durante il percorso di trattamento (quando si rafforza l’impegno di
negoziare un piano di cambiamento): più la persona mostra resistenza minori sono le possibilità che si verifichi un cambiamento.
La resistenza, specie all’inizio del percorso terapeutico, può portare
come conseguenza l’abbandono del trattamento (drop out).
In questa fase iniziale gli utenti che vengono convocati direttamente
dal servizio interessato, mostrano sentimenti di rabbia e si pongono in posizione di maggiore diffidenza rispetto agli utenti che si recano spontaneamente.
Il counselor non deve assolutamente scontrarsi con la resistenza, piuttosto deve saper aggirarla, utilizzarla (Ivi, 127) per originare un nuovo
stimolo al cambiamento. La formula originale è roll with resistance significa letteralmente accordarsi con la resistenza: indica il processo del gestire la resistenza assecondando la direzione dell’azione dell’utente e su questa modellare l’intervento del counselor. In questo senso il colloquio di
motivazione può rivelarsi utile per abbassare i livelli di resistenza, attraverso l’impiego di metodi di risposta alla resistenza, questi si suddividono
in due categorie principali (Ivi, 128-138).
La prima categoria riguarda la variazione delle affermazioni dell’ascolto riflessivo. In tal caso, possiamo distinguere:
– Riflessione semplice: l’operatore deve rispondere alla resistenza con
una non resistenza attraverso una semplice ammissione del disaccordo;
– Riflessione amplificata: una forma di ascolto riflessivo con cui rimandare in modo amplificato ciò che la persona ha detto, dirlo con molta
più enfasi ma in maniera empatica, da evitare qualsiasi tono sarcastico ed
affermazioni troppo esagerate le quali porterebbero a reazioni di ostilità
maggiore.
– Riflessione a due facce: consiste nel catturare i due lati
dell’ambivalenza bisogna riconoscere o ammettere quello che l’utente ha
detto aggiungendovi l’altra faccia dell’ambivalenza, ciò richiede quanto
l’utente ha già raccontato in precedenza. Occorre impiegare, in entrambi i
metodi, l’uso della congiunzione evitare invece espressioni avversative
quali: «ma, però, invece, tuttavia….».
La seconda categoria comprende altri modi utili per rispondere alla resistenza:
– Spostamento di focus: consiste nell’allontanare l’attenzione della
persona da quello che potrebbe considerarsi un ostacolo sulla strada del
Manuela Rossi
47
progresso. Si tratta di aggirare la barriera piuttosto che tentare di superarla
per ridurre la preoccupazione iniziale e successivamente dirigere
l’attenzione verso questioni più semplici da elaborare.
– La ristrutturazione: altro modo per rispondere alla resistenza è quello
di ristrutturare le informazioni fornite dall’utente riconoscendo la validità
ma rielaborandole per fornire un nuovo significato. Ciò è particolarmente
utile in situazioni in cui l’utente adduce argomentazioni che negano un
problema personale.
– Concordare introducendo una variazione: consiste nel fornire un accordo iniziale ma con una leggera svolta, o un cambiamento direzione attraverso una battuta di ascolto riflessivo a cui segue una ristrutturazione.
– Enfatizzare la scelta personale e il controllo: la resistenza alle volte
nasce dal fenomeno della reattanza: quando le persone pensano che la loro
libertà di scelta sia minacciata tendono a reagire affermando la propria
facoltà di scelta.
È importante che l’operatore riassicuri l’utente sulla reale verità delle
cose facendogli capire che solo lui è l’artefice di quello che accade.
– Schierarsi per il non cambiamento: quando il counselor si schiera
per il cambiamento, la persona ambivalente si oppone ad essa .
Di fronte a questa tendenza dell’utente l’operatore deve agire in direzione dell’utente ovvero difendere il non cambiamento; ciò può considerarsi un paradosso rispetto a quanto è stato detto fin ora.
In effetti, si tratta di un fenomeno fortemente utilizzato in psicoterapia
nella terapia strategica familiare per mettere l’utente in una posizione in
cui l’opposizione o la resistenza al terapeuta possa rivoltarsi in un movimento, in una direzione benefica.
Viene definita “psicologia dell’opposto o paradosso terapeutico” un
esempio di esso è quello di prescrivere il sintomo: l’operatore, quando
tutti gli sforzi di cambiamento si scontrano con l’opposizione, può raccomandare di continuare come prima senza cambiare nulla, intensificando il
comportamento che ci si proponeva di cambiare.
Occorre porre attenzione alla metodologia posta in essere di questa
pratica non deve essere fatta in modo aggressivo, esasperato o rinunciatario, piuttosto con un tono calmo e diretto.
Questo metodo non è altro che un’estensione diretta del modello concettuale dell’ambivalenza dove il colloquio di motivazione esplora entrambi i lati; se l’operatore solleva solo un lato, l’utente cercherà di esplorare l’altro.
Quindi porsi in posizione opposta al cambiamento dovrebbe influenzare inavvertitamente l’utente ad sostenere affermazioni nella direzione
del cambiamento.
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
La resistenza è da considerarsi la chiave per il successo del trattamento è un segnale che indica di rispondere in maniera differente nei confronti
dell’utente; è solo nell’utente che bisogna trovare risposte e soluzioni. 30
Sostenere l’autoefficacia
Per autoefficacia si intende la consapevolezza della persona di essere in
grado di affrontare con successo un compito specifico.
Il colloquio di motivazione svolge il compito di accrescere la fiducia
dell’utente nelle proprie capacità di affrontare gli ostacoli e nel porre in
essere il cambiamento.
La speranza e la fiducia sono due elementi importanti per il cambiamento, se la persona non riesce ad intravederle non farà alcun minimo
sforzo e i tentativi del counselor saranno vani.
Il colloquio motivazionale sostiene l’autonomia di scelta della persona, essendo un approccio collaborativo e non prescrittivo persegue
l’obiettivo di far uscire il potenziale e favorire i spontanei processi di
cambiamento già presenti nell’individuo che rimangono inibiti, intrappolati a causa dell’ambivalenza.
2.3. La ruota del cambiamento.
Il cambiamento non va considerato come un fenomeno del “tutto o niente”, piuttosto come un processo graduale di avanzamento progressivo in
stadi, attraverso i quali, la persona si sposta da una situazione di partenza
di inconsapevolezza, circa la propria situazione problematica, al considerare la possibilità del cambiamento per poi giungere all’azione sostenendo
e mantenendo nel tempo il cambiamento intrapreso.
Il modello transteorico del cambiamento intenzionale del comportamento ( TTM: Transtheoretical Model of Change ), raffigura il processo
di cambiamento del comportamento in cinque stadi rappresentati in un
cerchio, con un ulteriore stadio al di fuori di esso, per considerare la possibilità della persona di percorrere il processo un certo numero di volte
prima di raggiungere un cambiamento stabile.
Tale modello, definito anche come “la ruota del cambiamento”(dai
suoi ideatori Prochaska, DiClemente ), è stato applicato a numerosi comportamenti a rischio come tabagismo, alcoolismo, tossicodipendenza, gioco d’azzardo, modificazioni alimentari, etc. (Miller, Rollnick 2000, 28;
Miller, Rollnick 2011, 240-255).
Manuela Rossi
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Gli stadi sopra raffigurati procedono secondo un ordine progressivo:
precontemplazione; contemplazione; determinazione; azione; mantenimento, (possibilità di uscita permanente); ricaduta.
Precontemplazione
In questo primo stadio del processo di cambiamento, la persona si trova
(al di fuori dell’ingresso della ruota del cambiamento), in una situazione
di inconsapevolezza circa il suo comportamento problematico, oppure si
sente sfiduciata a proposito della possibilità di cambiare.
I precontemplatori, possono mostrare la loro resistenza al cambiamento ponendo in essere atteggiamenti di: riluttanza, ribellione, rassegnazione
e razionalizzazione (“formula delle quattro R”).
I precontemplatori riluttanti sono quelli che si rifiutano di prendere in
considerazione il cambiamento perché non vogliono rischiare un potenziale disagio conseguente al cambiamento, oppure perché non sono ancora diventati consci circa la situazione attuale.
La creazione di un feedback empatico, da parte dell’operatore, può riscontrarsi utile nel risolvere la riluttanza dell’utente.
Inoltre è importante che l’assistente sociale, durante il colloquio di
motivazione non utilizzi domande troppo dirette perché, quest’ultime inducono l’utente a dare risposte brevi, secche, piuttosto possono rivelarsi
particolarmente utile porre domande aperte che portano la persona ad attivare un iniziale racconto di se stessa ed in questo modo aprirsi sempre più
nei confronti dell’operatore.
I precontemplatori ribelli, invece, hanno già acquisito una certa consapevolezza del proprio disagio, ma si pongono, ugualmente, nei confronti
dell’operatore in maniera ostile, discutendo in modo risentito su quanto è
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
stato detto durante il colloquio.
Qui il colloquio motivazionale si rivela uno strumento efficacie nelle
mani dell’operatore perché permette a tali soggetti di esprimere, liberamente, i loro forti sentimenti, indirizzando la loro energia verso una direzione positiva.
La strategia migliore per lavorare con queste persone è di offrire una
serie di opzioni a loro disposizione, piuttosto che un'unica soluzione; considerare nel percorso terapeutico piccoli cambiamenti graduali, invece che
la totale astinenza.
I precontemplatori rassegnati sono persone ormai sopraffatte dal loro
problema, si sentono disperatamente dipendenti dal gioco, incapaci di
esercitare un qualsiasi controllo.
Le strategie più consone da porre in essere nei loro confronti sono
quelli che permettono di trasmettere la speranza nei riguardi di un possibile cambiamento, che mirano ad esplorare le barriere interposte in questo
processo. 33
Essendo persone che hanno più volte tentato un cambiamento con esiti
negativi, è opportuno che l’operatore gli aiuti a comprendere come, la ricaduta possa essere considerata un fatto normale e non un fallimento, poiché ogni tentativo rappresenta un opportunità di apprendimento , di conoscenza.
L’ultima categoria è quella dei precontemplatori razionalizzanti, essi
sembrano possedere tutte le risposte, pensano che il loro attuale comportamento sia un problema più per gli altri che per loro.
Nell’interazione con l’operatore, tali persone tendono ad aprire un dibattito, una discussione per rafforzare il loro punto di vista sull’argomento
affrontato.
Le migliori strategie da adottare nei loro riguardi sono l’ascolto riflessivo e l’empatia, magari iniziando con l’esercizio della bilancia decisionale e, o la riflessione a due facce possono incoraggiarli ad collaborare.
Contemplazione
In questa fase le persone sono appena entrate nel primo raggio della ruota,
sono consapevoli di avere un problema ma non sono ancora pronti ad impegnarsi realmente nel mettere in atto il cambiamento.
È lo stadio della meditazione, dove i contemplatori manifestano maggiormente l’ambivalenza, possono trascorrervi molto tempo mesi o addirittura anni.
Ci sono persone che rimangono in quella fase chiamata contemplazione cronica, dove meditano molto sulle possibilità di cambiare ma non rie-
Manuela Rossi
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scono a passare alla fase successiva dell’azione.
Per l’operatore è importante quindi, capire quanto tempo l’utente si
trova in questo stadio, e se ha già tentato in passato di cambiare; deve cercare di focalizzare la attenzione, della persona, sui rischi del comportamento attuale e sui potenziali benefici del cambiamento e trasmettere la
speranza che il cambiamento sia realmente possibile.
Può essere utile fornirgli informazioni su tutto ciò che comporta
all’azione implicata, sul contesto di vita personale e in ambito familiare
della persona, in modo da renderli più rilevante.
Ciò può facilitare lo spostamento dell’ago della bilancia decisionale
verso l’azione rispetto ad altre tecniche fondate sull’idea di teorizzazione;
una buona strategia da considerare, è quella di porre l’accento sugli aspetti
positivi del cambiamento aiuta a prendere maggior consapevolezza circa
gli effetti del cambiamento, ad aumentare il senso di autoefficacia dei
contemplatori. 34
Determinazione
In questo secondo raggio della ruota (che corrisponde al terzo stadio), le
persone si sentono maggiormente pronte a impegnarsi nell’azione, hanno
bisogno di pianificare il processo del cambiamento, di intraprendere determinati passi per interrompere il comportamento problematico.
La sfida dell’operatore è qui rivolta ad aiutare l’utente a mettere a punto un piano di cambiamento accettabile, accessibile ed efficace per lui.
Il fatto che il soggetto si sente pronto ad intraprendere il cambiamento
non significa che lo porterà a compimento con successo a lungo termine,
il cambiamento non avviene in maniera meccanica perché l’ambivalenza
non è ancora completamente risolta, può risultare facile compiere un passo indietro.
L’operatore deve valutare pienamente il grado d’impegno dell’utente,
della sua determinazione e deve muoversi su questo binario deve , quindi,
utilizzare il colloqui di motivazione per aiutarlo a costruire una valutazione solida e realistica delle difficoltà che potrebbe incontrare.
Può essere utile preparare una gamma di opzioni di scelta e relative informazione da mettere a completa disposizione della persona, in modo da
indirizzare la scelta dell’utente verso le opzioni più consone alla sua situazione problematica, alla sua personalità, al suo modo di percepire e vivere
il disagio.
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The Lab’s Quarterly, 3, 2014
Azione
In questo stadio le persone attuano il piano per il quale si erano preparate,
iniziano un programma di trattamento .
L’azione è il periodo più impegnativo dal punto di vista dell’impiego
di energia ed impegno da parte del soggetto, richiede maggiore sforzo per
mantenere il cambiamento che segue l’azione.
Il rischio correlato a questo stadio è quello di identificare l’azione col
cambiamento tralasciando tutto il lavoro indietro di valutazione e di preparazione della buona riuscita dell’azione.
È possibile che si verificano, nuovamente, sentimenti contrastanti verso il cambiamento, l’utente può sentire la mancanza del precedente stile di
vita percepire una sensazione di vuoto interiore a causa dello sforzo, la
fatica derivata dall’adattamento al nuovo comportamento.
L’operatore, a riguardo, controllare assieme all’utente che se qualche
parte del percorso necessita una revisione.
Il colloquio di motivazione è un ottimo strumento per mantenere alto
il livello di autoefficacia nella persona, sostenere e confermare le loro decisioni, aiutarla a percepire il proprio merito nei successi ottenuti.
Mantenimento
È lo stadio finale della ruota del cambiamento, in esso la persona lavoro
per consolidare i miglioramenti ottenuti nello stadio precedente e combattere per prevenire una, eventuale, ricaduta nel comportamento problematico.
Non si tratta di uno stadio statico, bensì dinamico poiché il rischio di
inciampare è molto alta: basta un ricordo, una sensazione, un momento di
debolezza per ritornare nella condizione precedente al cambiamento.
Il mantenimento può avere una durata da un minimo di sei mesi ad un
massimo di un’intera vita, perché la ricaduta si nasconde sempre dietro
l’angolo, questo dipende dalla forza della persona a desistere, dal suo ambiente di vita familiare e dalle relazioni amicali dal sostegno che ne può
ricavare.
Ricaduta
Quando ci si muove lungo gli stadi è possibile che si verifichi una o più
ricadute nel comportamento problematico, come è probabile che la persona possa rientrare nel ciclo dei vari stadi, diverse volte, prima di raggiungere il successo.
Manuela Rossi
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Quando questo avviene non deve essere vissuto come un completo
fallimento, una ricaduta è comunque utile perché la persona può imparare
nuovi metodi per evitarla in futuro, quindi avere più possibilità di successo nel ciclo successivo.
La ricaduta può verificarsi per vari motivi: per un forte impulso a riprendere il comportamento problematico, oppure può avvenire con gradualità, dopo aver compiuto un passo falso.
In tutti i casi nel soggetto si manifesta un’autoefficacia indebolita, per
la paura che la vecchia abitudine possa prendere il sopravvento.
Il colloquio motivazionale può aiutare a motivare, nuovamente,
l’individuo a ricominciare il viaggio verso il cambiamento, sistemando
quel piano che non ha funzionato e crearne un altro, questa volta più efficace di quello precedente.
Il processo di cambiamento è un percorso faticoso, che richiede un
continuo impegno della persona coinvolta, necessaria dall’inizio alla fine,
la cui durata non conosce limiti di tempo.
Il colloquio motivazionale va considerato un ottimo strumento metodologico, nelle mani dell’operatore da affiancare a tutte le fasi cicliche del
processo del cambiamento ai fini dell’uscita permanente dell’utente dalla
situazione problematica cui era immerso.
3. GLI INTERVENTI TERAPEUTICI NEL PROCESSO DI AIUTO
Un’ulteriore fase, non meno significativa della presa in carico, da porre in
essere nel colloquio motivazionale per il raggiungimento del cambiamento è la progettazione degli interventi. Consiste in una vera contrattazione
del progetto dove l’assistente sociale ed l’utente definiscono, insieme,
l’itinerario preciso degli impegni da porre in essere per il consolidamento
dell’obiettivo finale. Si tratta di procedere alla piena realizzazione ed attuazione di tutte quelle ipotesi valutate, accuratamente e affrontate diverse
volte nel colloquio di motivazione, quindi di concretizzare nell’azione tutto il lavoro svolto fino a questo momento.
Nella scelta dell’intervento l’operatore deve tenere in considerazione
la personalità del soggetto interessato, i suoi bisogni e soprattutto deve
considerare insieme a lui tutti gli aspetti e le conseguenze che un determinato intervento comporta. Tale scelta dipenderà, in ultimo, anche dalla
metodologia professionale dello specialista cui si rivolge l’utente per la
richiesta d’aiuto.
Ogni intervento ha le sue modalità di accesso, richiede determinati
comportamenti da tenere, possiede regole ben precise, per questo non tutti
gli interventi possono ritenersi consoni alla personalità dell’utente e alla
54
The Lab’s Quarterly, 3, 2014
sua emotività. È di fondamentale importanza, quindi presentare sul tavolo
la varie possibilità, ed alternative, fornendo al soggetto interessato tutte le
informazioni relative al loro funzionamento.
3.1. La psicoterapia e il trattamento psichiatrico.
Un prerequisito importante nel collocare l’utente al di fuori della ruota del
cambiamento, all’uscita permanente, è la completa astinenza dal comportamento dipendente nel tempo; ma non è sufficiente per considerare la
persona completamente libero dalla dipendenza.
Occorre cambiare profondamente la mentalità del soggetto interessato,
il suo stile di vita ed il modo di apportarsi alla realtà tenendo sempre presente il fatto che una possibile ricaduta nella dipendenza è sempre in agguato. Proprio per questa ragione non esiste alcuna guarigione definitiva
dalla dipendenza, la persona rimarrà a rischio di ritornare nella condizione
precedente per tutta la durata della sua vita.
La psicoterapia è una terapia basata sulla parola, attraverso il colloquio
con un terapeuta (lo psicoterapeuta ), ed il soggetto interessato può essere
individuale, familiare e di gruppo.
Psicoterapia individuale
Mira al recupero del benessere psicologico del soggetto sbloccando la situazione di disagio che gli impedisce di vivere serenamente, occupandosi
delle difficoltà psicologiche che compromettono il suo benessere personale attraverso tecniche di indirizzo teorico del terapeuta (Guerreschi 2000,
114; De Lellis 2009, 134).
Durante le varie sedute l’attenzione dello psicoterapeuta dovrà focalizzarsi sulle specifiche problematiche legate al vissuto del soggetto rispetto ai temi di: affettività, emotività, sessualità, socializzazione.
In particolare dovrà indagare sulle forme di autoinganno e i vissuti di
onnipotenza, gli aspetti difensivi che si manifestano nel processo di attaccamento del soggetto al comportamento dipendente, sui problemi relativi
ai confini dell’io e della realtà, quest’ultima spesso occultata dall’illusione, da parte della persona, di poter controllare i suoi impulsi e nel credere che la sua situazione di disagio non è poi così allarmante.
Il terapeuta dovrà cosi provvedere ad avviare modifiche comportamentali del giocatore dipendente modificando anche gli stili di vita legati
alla dipendenza e condurre la persona al raggiungimento dell’obiettivo
finale di smettere di giocare.
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Psicoterapia familiare
La famiglia del giocatore viene presa in considerazione, durante il percorso terapeutico perché il comportamento di dipendenza genera effetti sugli
altri membri dell’organizzazione familiare di conseguenza il cambiamento di quest’ultimi, generano ulteriori cambiamenti sul membro giocatore
(Ivi, 117). Il sintomo del giocatore non viene trattato come espressione di
disfunzioni individuali ma viene considerato come informazione riguardante la globalità della rete relazionale nella quale la persona è inserita.
quindi l’intervento terapeutico non si focalizza unicamente sull’analisi
intrapsichica del soggetto interessato ma focalizza l’attenzione, anche, sui
modelli interattivi dell’intero gruppo familiare proponendosi di modificare il contesto dove è emerso il disagio.
Il gioco d’azzardo crea, all’interno della famiglia, un’aspirale di disfunzionalità, sofferenza, impotenza i cui tutti i componenti sono precipitati; la psicoterapia familiare mira a rompere questa aspirale andando a
modificare tutte quelle dinamiche relazionali caratterizzati da schemi rigidi, provvedendo ad una ristrutturazione del sistema familiare stesso e
l’assetto comportamentale di tutti gli aggregati.
Tale ristrutturazione viene considerata dal terapista come facilitatore
del cambiamento del membro giocatore: andando ad eliminare i rapporti
conflittuali, all’interno del suo contesto familiare, avviene un miglioramento delle interazioni che si trasformano a favore del sostegno del membro coinvolto nella dipendenza, spingendolo verso una maggiore autoefficacia in direzione del cambiamento.
Psicoterapia di gruppo
Per attivare questa terapia occorre che il soggetto interessato abbia acquisito una piena consapevolezza sul proprio io circa la sua dimensione interiore, sulla realtà che sta vivendo e della sua condizione di malessere;
questi sono elementi propedeutici per partecipare al gruppo terapeutico
(Albano, Gulimanoska 2006, 56). Nel gruppo il soggetto sperimenta gli
stessi comportamenti del vivere quotidiano, quei modi di fare che causano
il malessere, incapacità, bassa autostima, senso di inferiorità e demotivazione esistenziale; attraverso l’interazione con gli altri membri, il soggetto
intraprende un percorso diretto verso la crescita personale, l’autodeterminazione e l’autorealizzazione per imparare a vivere meglio se stesso e
con gli altri, impara a rispettare il proprio essere e successivamente gli altri (Ivi, 60-61).
Nella prima fase della terapia il terapeuta svolge il compito di indiriz-
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zare i partecipanti per facilitare l’interazione tra loro; all’inizio è normale
che i membri del gruppo provino un certo imbarazzo nell’aprirsi al gruppo, si pongono in posizione difensiva perché vivono la paura e l’ansia di
dover condividere con il gruppo le proprie esperienze e vissuto di dipendenza (Guerreschi 2000, 124-125). Quindi il terapeuta deve creare un
clima psicologico di sicurezza per ridurre, fino ad eliminare, l’atteggiamento difensivo dei membri favorendo una maggiore libertà di espressione dei partecipanti circa la condivisione delle proprie esperienze motivazionali nei riguardi dell’attaccamento al comportamento dipendente.
Una volta raggiunto tale risultato si passa alla seconda fase più terapeutica: i partecipanti si confrontano tra di loro sul proprio vissuto, commentano le proprie esperienze e quelle degli altri ed relativi stati d’animo,
distogliendo lo sguardo e l’attenzione dal terapeuta. Quest’ultimo si limita
soltanto nelle funzioni di mantenere l’ordine nel discorso, frenare gli eccessi di entusiasmo e limitare le eccessive divagazioni.
Nella terza fase della terapia l’obiettivo del terapeuta è quella di responsabilizzare il soggetto anche nei confronti degli altri puntando alla
collaborazione attiva tra ciascun membro: in pratica la persona che si trova in una fase avanzata della terapia aiuterà colui che si trova in una fase
meno avanzata. In questo clima collaborativo i membri sperimenta sensazioni differenti da quelle provate nella fase iniziale quali: senso di fiducia
negli altri membri, comprensione reciproca, senso di appartenenza al
gruppo; queste sensazioni positive stimolano l’autoefficacia, l’autostima
in ciascun membro. Nell’analisi dei comportamenti dipendenti da gioco
d’azzardo si evidenza la comorbilità (Castorina, Mendorla 2011, 147) con
altre dipendenze ( in particolare modo l’alcool), ed altri disturbi psicopatologici quali: abuso/ dipendenza da nicotina; abuso di alcool ed altre sostanze; disturbo d’ansia; disturbo depressivo; attacchi di panico; disturbo
ossessivo compulsivo; tentativi di suicidio; deficit dell’attenzione con iperattività. Tali patologie variano in relazione al genere: nelle donne tendono a manifestarsi, nella maggior parte dei casi: ansia; depressione; anoressia; bulimia; shopping compulsivo; abuso di farmaci. Nel genere maschile
sono più ricorrenti: disturbi d’ansia; dissociazione e conseguente depressione; abuso di altre sostanze specie alcool.
Il giocatore d’azzardo manifesta un impulso incontrollabile di scommettere, prima di compiere l’azione desiderata ( giocare d’azzardo ), avverte una sensazione crescente di tensione ed eccitazione, nel momento in
cui mette in atto l’azione il soggetto prova piacere, gratificazione, si sente
sollevato.
Successivamente, appena conclusa l’azione, può provare sentimenti di
meno rimorso, a seguito di una vincita, oppure senso di colpa circa il fatto
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di aver perso una grossa somma di denaro nella scommessa.
Il giocatore vive continuamente stati emozionali contrastanti che vanno dall’illusione di controllo sul destino delle scommesse e il grande senso di colpa dovuta dal precipitarsi della situazione economica, per non
parlare del suo continuo isolamento dalle reti familiari e amicali che lo
circondano; tale esperienza emozionale può portare il soggetto, nel corso
della sua vita, a manifestare psicopatologie ed altre dipendenze oltre il
comportamento di dipendenza attuale (Ivi, 147).
La complessità della situazione problematica del soggetto che si viene
a creare necessita di una maggiore cautela ed il coinvolgimento nel percorso terapeutico dello psichiatra ed relativo trattamento psichiatrico adeguato che veda implicato nella terapia il ricorso al suo di psicofarmaci
correlato al tipo di disturbo che il soggetto presenta: ansiolitici, antidepressivi o stabilizzanti dell’umore con azione anti-impulsiva.
3.2. I gruppi di auto-aiuto
Uno strumento molto importante ed efficacie nel trattamento della dipendenza da gioco d’azzardo sono i gruppi di auto-aiuto, essi rappresentano una risorsa d’aiuto e crescita per i giocatori (De Lellis 2009, 135136; Guerreschi 2000, 130. Questi gruppi sono costituiti da persone
aventi in comune lo stesso problema, si riuniscono periodicamente per
condividere e manifestare i propri stati d’animo, paure circa la propria
esperienza di dipendenza da gioco d’azzardo con altri giocatori patologici, senza il timore di essere criticati, giudicati, senza il coinvolgimento
direttivo di un professionista.
Nel gruppo di auto-aiuto i partecipanti sperimentano momenti di solidarietà, di sostegno ed aiuto reciproco, superando il senso di isolamento, impotenza e confusione che si presentano nella fase iniziale,
d’ingresso al gruppo. In questo clima collaborativo tra pari, di profonda
comprensione e condivisione, i partecipanti sono motivati, incentivati ad
iniziare e, successivamente, portare avanti un processo di cambiamento
e di crescita personale. I gruppi di auto-aiuto più rilevanti dal punto di
vista del trattamento del gioco d’azzardo patologico sono “i giocatori
anonimi” e “il gam-anon”.
Giocatori anonimi
I giocatori anonimi sono un gruppo di auto- aiuto, ispirato al modello degli alcolisti anonimi; nasce nel 1957 a Los Angeles. Si tratta di un percorso, non psicologico, bensì spirituale intrapreso, volontariamente, dal gio-
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catore con la piena consapevolezza di smettere di giocare; il loro programma prevede la completa astinenza dal comportamento dipendente,
ritenuto troppo attraente per il soggetto. L’idea di fondo del programma è:
una volta che si diventa giocatori compulsivi lo si resterà per sempre,
quindi il soggetto interessato non deve più giocare per il resto della vita.
Il percorso consiste nel superamento dei cosiddetti dodici passi (Ivi,
180-181): il primo e difficile passo da compiere per il giocatore, riguarda
il riconoscimento di essere impotente di fronte al gioco e prendere consapevolezza circa la sua incapacità di controllare l’impulso a giocare
d’azzardo, in maniera assidua. Nei successivi passi si cerca di costruire un
bilancio dei comportamenti passati e dei danni procurati a se stessi e ai
suoi familiari; nei confronti di quest’ultimi, il gruppo dei giocatori anonimi permette ai soggetti di ristabilire un contatto con loro per cercare di
recuperare il rapporto perduto. Nel gruppo i giocatori interagiscono tra
loro condividendo la propria esperienza, sostenendosi gli uni con gli altri,
nell’iniziare ed mantenere l’astinenza dal giocare d’azzardo .
Gam-Anon
È un’associazione di auto-aiuto per familiari e amici del giocatore, riprende l’esperienza maturata dai familiari degli alcoolisti in Al-Anon, le riunioni avvengono in concordanza con quelle tenute dai giocatori anonimi,
in stanze diverse e la partecipazione è gratutita. Il gioco d’azzardo provoca effetti non solo, direttamente sul soggetto interessato, anche Si tratta di
conseguenze negative, dovute non solo unicamente al precipitarsi della
situazione economica della famiglia ma anche, dell’alterazione degli equilibri affettivi-relazionali di tutto il contesto dovuta: al continuo isolamento
del giocatore e della sua incapacità di assumersi le proprie responsabilità,
genitoriali ed coniugali, dal suo atteggiamento menzognero per nascondere il problema reale, o nel tentativo di reperire denaro da destinare alle
successive scommesse. Quindi tutto il contesto familiare, ed amicale è
profondamente colpito dal manifestarsi di questa dipendenza sia per gli
effetti indotti che per la grande difficoltà provata nel gestire tale problematicità.
L’obiettivo principale di Gan-Anon è quello di aiutare gli stessi familiare, amici, ad affrontare la situazione problematica, facendogli prendere
coscienza sul reale disagio, sostenendoli e fornire una comprensione profonda. La partecipazione regolare al gruppo di Gam-Anon del familiare, o
amico, può incentivare il giocatore compulsivo a partecipare, anche lui,
agli incontri dei giocatori anonimi.
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3.3. Il life coaching
Il life coaching, definito anche personal coaching, è uno strumento di intervento orientato al cambiamento di uno specifico contesto di vita della
persona, mira a stimolare le risorse e le potenzialità dell’individuo nel perseguimento di un obiettivo, una meta desiderata dal cliente che per le sue
condizioni di disagio non riesce a raggiungerlo personalmente (Albano,
Gulimanoska 2006, 236-254; De Lellis 2009, 140).
Questa pratica fa riferimento al modello metodologico del coaching:
un metodo di sviluppo delle potenzialità personali dell’individuo; si tratta
di una partnership, ovvero una relazione simmetrica e bidirezionale tra il
professionista (coach) ed il cliente (coachee), basata su un rapporto paritetico di fiducia reciproca. Il termine coach di derivazione inglese, ha origini antiche, risale al IXX secolo usato dagli studenti universitari inglesi per
designare la figura del tutor impiegato nell’aiuto, sostegno nel percorso di
studi, al fine di migliorare il loro andamento accademico. Infatti, il significato etimologico del termine (nell’inglese moderno Wagon, o Cariage)
significa carrozza, vettura; in questo senso la figura del coach simboleggia
proprio la funzione di veicolo, di mezzo di trasporto che conduce la persona da una condizione iniziale attuale, ad un’altra condizione, di destinazione desiderata dall’individuo. In questa concezione moderna la pratica
del coaching risale alla fine degli anni ottanta, negli Stati Uniti per poi diffondersi nel resto d’Europa, in particolare in Inghilterra e Francia applicata in diversi settori della vita sociale e dell’attività umana riscontrando un
grande successo. L’esperienza del coaching in Italia, è piuttosto recente
(da circa sei anni ), trova sua applicazione, in particolare, nel settore
aziendale, volto a migliorare ed incrementare alti livelli di successo produttivo, migliorare la qualità delle relazioni all’interno della azienda ( “si
parla di coaching aziendale” o business coaching).
Attualmente, questa professione, in Italia sta crescendo notevolmente:
stanno nascendo le Coaching Training School e corsi di formazione; inoltre si sta diffondendo l’idea di ampliare il campo di applicazione di questa
metodologia ad altri settori, diversi da quello aziendale, come in quello
socio-sanitario, come metodo integrativo ed preventivo per il recupero di
soggetti in situazioni di dipendenza. Spesso la pratica del life coaching
viene associato al counseling, ma non sono proprio così uguali: nel percorso del cambiamento, secondo le tecniche di counseling, il soggetto interessato giunge, nella gran maggioranza dei casi, in una situazione di imperfetta coscienza e inconsapevolezza circa la sua condizione problematica, diversamente dal soggetto che si rivolge al life coach, quest’ultimo ha
già acquisito una piena consapevolezza sul suo problema di dipendenza
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ed è motivato ad attivare, volutamente un percorso di cambiamento.
Ulteriore differenza fra le due metodologie è che la pratica del life si
focalizza solo sul presente, sulle azioni da intraprendere per raggiungere
l’obiettivo desiderato, gli eventi del passato non sono presi in considerazione. Si tratta di un processo di continuo allenamento, dove vengono migliorate le performance le potenzialità del cliente, elaborando strategie e
piani d’azioni per il raggiungimento della meta e nel superare i vari ostacoli che possono insorgere lungo il cammino; aiuta la persona a saper gestire la propria emotività, non fornisce soluzioni, ma aiuta la persona a
trovarle. La pratica del coaching non si occupa solo dello sviluppo del
soggetto, può riguardare anche il cambiamento di tutto il suo contesto familiare, si parla in questo caso di “ family coaching” (Albano, Gulimanoska 2006, 254). Si rivolge alle famiglie che attraversano una crisi del ciclo
vitale, o che risentono degli effetti della situazione problematica di un loro
membro; il family coach focalizza l’attenzione sulle risorse disponibili del
contesto familiare attraverso l’interazione e la partecipazione di tutti i
componenti, migliorando la qualità dei legami affettivi, aiutando gli stessi
membri a gestire la situazione problematica, riorganizzando il loro contesto di vita familiare, superando le difficili conseguenze dovute al disagio.
3.4. La comunità terapeutica per i giocatori d’azzardo
La comunità terapeutica nel trattamento delle dipendenze, in generale,
rappresenta la struttura terapeutica completa, caratterizzata da un quadro
metodologico sistemico-relazionale, nel quale vede coinvolte figure professionali con proprie competenze terapeutiche, interconnesse per il perseguimento dell’obiettivo comune: la completa astinenza dalla sostanza, o
comportamento dipendente (Guerreschi 2000, 133). Oltre a questa finalità
terapeutica, vengono intrapresi ulteriori traguardi riguardanti: la riabilitazione psichica-fisica, l’integrazione ed il reinserimento sociale, una condotta di vita autonoma. Vista l’efficacia di queste esperienze comunitarie
nel trattamento delle tossicodipendenze e visto il notevole incremento delle nuove dipendenze, si sta cercando di aprire la stessa strada anche ad
altri ambiti, come nel caso del gioco d’azzardo patologico.
Il “Progetto Orthos”: un esempio di programma residenziale nella città
di Siena
“L’Associazione Orthos” nasce nel marzo 2007, sulla base di un modello
di ricerca, di sperimentazione sul gioco d’azzardo patologico; si tratta di
un programma psicoterapeutico residenziale intensivo di breve periodo
Manuela Rossi
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(non superiore a ventun giorni, in modo tale da non risultare incompatibile
con l’inserimento del mondo del lavoro, familiare e sociale, da tutelare ed
rinforzare). Si rivolge ad un’utenza di uomini, donne di maggiore età inseriti nel tessuto socio-economico, che dispongono di una rete familiare di
supporto, che soffrono di una qualche forma di dipendenza non gravemente invalidante; la responsabilizzazione dei residenti non consente
l’accettazione di un’utenza affetta da grave patologie quali politossicomania e disturbi di personalità grave.
Il procedimento di inserimento avviene mediante un colloquio di valutazione per individuare, con i soggetti interessati, il momento più favorevole per garantire l’efficacia del trattamento.
Il “ Progetto Orthos” è ubicato a Siena, (si può trovare anche a Roma,
Bolzano e Trieste), precisamente a sedici chilometri di distanza , in un
podere circondato da ampi spazi verdi, lontano dai centri abitati, per consentire un ritorno ad un’armonizzazione con i ritmi naturali ed sottrarsi da
un eccesso di “ virtualità” caratterizzante i tempi moderni, dove la simulazione del gioco costituita da realtà virtuali e fittizie hanno spesso il sopravvento sulla vita reale. In questo contesto naturale costituito da un continuo senso di vuoto e di silenzio, il gruppo di utenza raccolto, trova un
ambiente favorevole all’auto-osservazione, all’analisi esistenziale del proprio vissuto ed il confronto con i compagni di percorso, trovando, così, un
punto di svolta dalla continua fuga dalla propria ombra verso una ritrovata
familiarità con se stessi. La direzione scientifica del “Progetto Orthos” è
affidata a Riccardo Zerbetto, psichiatra e psicoterapeuta didatta, fondatore
delle Comunità Terapeutiche del Comune di Roma, consulente del Ministero della Sanità e membro della Commissione Dipendenze Patologiche
dello stesso, fondatore e Past President di ALEA, e docente incaricato di
Psicopatologia all’università di Siena.
La parola “Orthos” incorpora la filosofia del progetto stesso, deriva da
un appellativo dato a Dionisio, nella cultura greca classica simboleggia “
colui che sta in piedi” che non essendo reclinato (cliente), o abbandonato
passivamente (paziente), non dipende da altri (tantomeno né da una sostanza, né da un comportamento), si regge sulle proprie gambe. Tale filosofia mira a perseguire una meta fondata sul concetto del “giusto equilibrio” in una ricerca sofferta e paziente che permetta di riportare sotto controllo un comportamento che tendenzialmente sfugge ad ogni controllo.
Questa concezione nasce dal presupposto che il gioco è un’attività intrinseca nell’uomo, ( fin dall’infanzia l’individuo acquisisce ogni conoscenza giocando e crescendo, attraverso l’attività ludica, sviluppa ed affina la propria intelligenza creativa ), quindi risulta particolarmente difficoltoso sradicarlo completamente dall’individuo.
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Si tende, così, a privilegiare, all’interno del progetto, un lavoro terapeutico volto a sviluppare, strutturare ed rinforzare un comportamento,
nell’utente, orientato al “ gioco sociale “, piuttosto che ad una completa
astinenza, come nei trattamenti delle tossicodipendenze, la cui metodologia si basa sulla “Psicoterapia della Gestalt”.
All’interno della comunità residenziale si trova un équipe multidisciplinare costituita, oltre dal direttore scientifico: psicoterapeuti; counselor;
esperti in comunicazione; un consulente organizzativo-gestionale; un supervisore; un consulente psichiatra; un ludoarteterapeuta; un operatore di
supporto per le attività lavorative; un operatore culturale per l’aspetto psicoeducativo di stimolo alla crescita culturale; un responsabile amministrativo e consulente finanziario.
L’équipe professionale lavora al fine di interrompere in modo concreto attitudini ed abitudini, legati in qualche modo al comportamento dipendente, garantendo in una successione di interventi programmati una serie
di servizi offerti all’utenza di: ascolto e consulenza telefonica; counselling
informativo emozionale; psicoterapia; incontri di gruppo; consulenze psicologiche e legali; centro di documentazione; formazione; informazione
sulla rete dei servizi territoriali; accoglienza e terapia intensiva breve.
L’intervento terapeutico specialistico intensivo mira al perseguimento
dei seguenti obiettivi:
Esplorazione della storia personale, identificazione di eventuali disturbi della personalità che hanno messo in atto e successivamente perpetuato
l’incapacità di regolare i propri impulsi e di realizzazione di un soddisfacente progetto di vita;
Riappropriazione delle componenti emozionali, cognitive, relazionali
e comportamentali disfunzionali, assumendone la personale responsabilità
come individui adulti, evitando l’attribuzione a situazioni esterne, al mondo, agli altri;
Rivisitazione della storia affettiva e analisi dei possibili meccanismi di
compensazione, attraverso il gioco compulsivo, l’abuso di una sostanza o
altri componenti di dipendenza, o a rischio, della possibilità di strutturare
soddisfacenti rapporti di intimità e di relazione costruttiva;
Messa a punto della situazione economica-lavorativa con programma
di rientro di eventuali situazioni debitorie e di reinvestimento su possibili
prospettive di lavoro.
Per il raggiungimento di questi obiettivi, ed un loro consolidamento
lungo l’intero corso di vita della persona è importante provvedere ad un
sensibile cambiamento dello stile di vita, ad una maggiore consapevolezza
sulle situazioni di rischio ed a una ristrutturazione della situazione familiare, occupazionale, sociale del soggetto.
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Nella fase di attuazione degli interventi, è di fondamentale importanza
che l’assistente sociale, ponga in essere un attento lavoro di monitoraggio
ed verifica periodica circa l’evolversi della situazione attuale dell’utente,
fissando incontri di valutazione della persona, del suo percorso terapeutico per mantenere costantemente sotto controllo il suo impegno e comprendere se il percorso intrapreso, fino ad ora, possa ritenersi sempre utile
ed efficacie dal punto di vista del raggiungimento dell’obiettivo finale.
Anche se l’utente, in partenza, ha manifestato un intenzione a seguire
con impegno ed una certa determinazione, il percorso terapeutico, non è
da escludere la possibilità che si presentino momenti di sconforto e cedimento da parte del soggetto interessato.
A tal proposito l’operatore deve soffermarsi su quei elementi che hanno originato il momentaneo smarrimento dell’utente; potrebbe tornare utile riguardare il foglio dei costi e benefici, fatto in precedenza con l’utente,
rapportandolo alla situazione attuale, facendo un confronto con quella
passata, cercando di superare lo stallo che si è presentato per poter proseguire nel percorso.
CONCLUSIONI
Il nuovo scenario socio-culturale, degli ultimi tempi, si caratterizza per
un forte incremento delle New Addictions, le cosiddette nuove dipendenze: gioco d’azzardo; Internet Addiction; Sezual Addiction; shopping compulsivo, etc. Queste si differenziano, dalle conosciute dipendenze da sostanza, per l’oggetto intrinseco alla dipendenza, per le quali l’oggetto della
dipendenza non consiste nell’incontro e relativa relazione con una sostanza esterna, piuttosto concerne un comportamento un attività, che normalmente fanno parte del contesto di vita dell’individuo, ma che in questi casi
vengono a costituirsi come un vero problema di dipendenza.
Basta pensare al gioco, esso accompagna l’individuo in ogni fase del
ciclo di vita dall’infanzia all’età adulta, assumendo per ogni fase una funzione diversa ed relativo significato per la persona.
In termini di presa in carico e trattamenti di queste nuove dipendenze
il fenomeno del gioco d’azzardo, preso in esame in questo elaborato, determina nuove prospettive e dimensioni dal punto di vista metodologico
da parte del professionista.
Generalmente nel trattamento della dipendenze da sostanza l’unica
meta da raggiungere consisteva nella completa e durativa astinenza dalla
sostanza da parte del tossicodipendente, lungo l’intero ciclo di vita.
Nel caso della dipendenza da gioco d’azzardo, molti professionisti sosterranno sempre questa idea, ma attualmente ci si sta domandando come
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possa essere possibile interrompere, in maniera definitiva un comportamento che ha fatto sempre parte del vivere quotidiano della persona.
Inizia a prendere avvio un cambiamento di rotta nel lavoro terapeutico
del professionista, orientato alla riduzione dell’urgenza del gioco, con
l’obiettivo di sviluppare, nel giocatore, un maggiore auto-controllo, modificando il suo stile di vita, rieducandolo ad una nuova concezione del gioco. Ovviamente la scelta del percorso terapeutico dipende dalla metodologia teorica del professionista e soprattutto dalla situazione problematica
dell’utente e dalla sua disponibilità nel collaborare insieme all’operatore
in virtù del cambiamento terapeutico.
Dal punto di vista dei servizi sociali, la difficoltà maggiore che
l’assistente sociale si trova ad affrontare è proprio la scarsa collaborazione
dell’utente, la sua incapacità di accettazione della propria problematicità.
Quindi il raggio d’azione di, questa figura professionale, si amplifica
ulteriormente per l’incertezza e l’esitazione da parte dell’ utente , nei confronti del quale dovrà muoversi in maniera accurata, utilizzando un approccio relazionare empatico, tollerante e non giudicante da mettere
l’utente in una condizione favorevole alla collaborazione in direzione del
cambiamento.
Il colloquio motivazionale si configura, nella pratica dell’assistente
sociale, come un ottimo strumento metodologico in tutto il percorso terapeutico, e come facilitatore nella scelta dei trattamenti da porre in essere
in virtù del cambiamento.
In riferimento a quest’ultimi la relativa scelta da fare deve rispecchiare
le caratteristiche e le esigenze dell’utente, post valutazione della sua situazione problematica; per una miglior riuscita terapeutica, per quanto riguarda i giocatori d’azzardo, si potrebbe pensare ad un’interconnessione
fra diversi trattamenti, l’esempio, la filosofia terapeutica ed relativa metodologia del “Progetto Orthos” raffigura una buona prospettiva nel raggiungimento di un possibile successo terapeutico.
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