perché l`urbanistica gira a vuoto

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perché l`urbanistica gira a vuoto
A G O R À 23
Giovedì
9 Aprile 2015
anzitutto Venaria, ecco la mostra sulle preghiere. Nosiglia:
CULTURA, RELIGIONI, TEMPO LIBERO, SPETTACOLI, SPORT
«Ogni credo ha le proprie, ma tutte sono simili»
a preghiera è una via di grande
speranza per recuperare forza,
spiritualità ed energie interiori». Così
l’arcivescovo di Torino, monsignor
Cesare Nosiglia, durante la presentazione alla
stampa della mostra “Pregare. Un’esperienza
umana”, alla Reggia di Venaria dall’11 aprile. In
mostra gli oggetti che aiutano la preghiera, i suoni
e le musiche che l’accompagnano, gli odori di
incensi e mirre e la partecipazione ai diversi
rituali. «Sant’Agostino diceva che il nostro cuore è
inquieto – ricorda monsignor Nosiglia – finché
«L
E
L Z E V I R O
PERCHÉ L’URBANISTICA
GIRA A VUOTO
Anniversari. Nel marzo di cinquant’anni fa il priore pubblicò la “Risposta
ai cappellani militari” in difesa dell’obiezione di coscienza. E finì alla sbarra
Quel processo
FRANCO LA CECLA
erché l’urbanistica è messa
così male? Perché lo statuto
delle città oggi è
l’espressione più lampante
di una nostra generale schizofrenia.
Le città sono diventate il luogo dove
si moltiplica o si depaupera la
ricchezza, il serbatoio in cui riporre
le speranze di collegamento col
resto del mondo e allo stesso tempo
luoghi in cui si vorrebbe vivere
meglio. Esse sono investite dal
verbo della globalizzazione e chi ci
vive si abitua a guardare la propria
città dal di fuori, come parte di ciò
che «dovrebbe accadere» o che «sta
accadendo altrove». Ed è così che
finiamo per farci guidare dai guru
della finanza e dell’ideologia della
omogeneizzazione. Ciò nonostante
non riusciamo a perdere la pretesa
di vivere secondo il nostro concreto
stare qui e non altrove. È nelle città
che si gioca il destino della
globalizzazione, perché a partire da
qui che se ne subiscono gli effetti o
che si resiste a essa. Il problema è
che questa bipolarità in cui stiamo
intrappolati tutti noi che viviamo
nelle città è una schizofrenia delle
città stesse. Posti come Kuala
Lumpur vorrebbero diventare
world class cities secondo parametri
dettati da un altrove che non
c’entra con la vita reale e
quotidiana di chi ci vive. Ma la
stessa cosa si può dire per la
trasformazione in brand di città
come Barcellona, che hanno
sacrificato le logiche del viver bene
locale, le logiche del tessuto
compatto e conviviale che le
caratterizzava, per arricchirsi con
una immagine di città dei giovani e
del turismo che nulla aveva a che
fare con l’identità “interna” della
città stessa. E oggi Barcellona deve
pagare il prezzo di questa totale
alienazione. Il punto è che le città
sono entrambe le cose, un interno,
un’identità di appartenenza, e un
esterno, quello che esse
rappresentano a una scala più
ampia e l’immagine imposta
dall’esterno. L’urbanistica si è fatta
vincere dall’esterno e ha smarrito la
capacità di leggere l’interno. Questa
disciplina è oggi afflitta da una
povertà arricchita di slogan e visioni
a volo di drone o di elicottero.
Nessuno come Rem Koolhaas
rappresenta la povertà intellettuale
in cui si ritrova l’urbanistica. La sua
visione da grillo che salta in modo
cosmopolita da una città all’altra,
Rotterdam, Dubai, Venezia,
Singapore, New York, Lagos, ci fa
credere che in fin dei conti le città
sono tutte riducibili agli stessi
parametri. Koolhaas è un
conservatore e in questo giudizio
omogeneizzante c’è un senso di
fatalismo un po’ reazionario: come
volesse comunicarci che è meglio
abbandonare ogni illusione, le città
sono tutte città del capitale, che sia
esso vero o simbolico, sono strette
nella morsa o di George Soros o di
P
Guy Debord, città finanza o città
spettacolo. Il problema è che lui è
miope, al pari di noi e
dell’urbanistica rispetto
all’esperienza di chi vive in città,
miope di fronte al vissuto
dell’abitare, quello che centra in
maniera radicalmente diversa il
senso di un’appartenenza urbana.
Per capire cosa le città sono
dall’interno occorre rovesciare il
paradigma, essere capaci di vedere
quello che, rintronati dal rumore
della globalizzazione che pretende
ideologicamente di essere l’unica
realtà, abbiamo perso di vista.
Ovviamente esiste anche il resto,
esiste anche l’immagine che le città
vogliono dare di sé, ed esiste il
modo con cui alcune città fanno
fortuna appoggiandosi ad
aspettative esterne, Dubai prima di
tutte. Una città che esiste come hub
delle richieste, che vengono da
altrove, di costituire una mondanità
nuova del denaro e del potere.
Dubai è la Cannes di oggi e vi
accadono cose quasi impensabili,
che vanno dal fatto che buona
parte dei politici di paesi come
l’India vi si ritrovano e vi prendono
decisioni, a spostamenti di carriere,
fidanzamenti di divi e naufragi di
fortune. È una Cannes pacchiana e
votata alla peggiore architettura
glamour che il sistema delle
archistar possa offrire, ma è quello
che serve all’emiro per salvare il suo
paese dalla fine prossima del
petrolio. Spesso coloro che leggono
città come Dubai lo fanno con lo
stesso moralismo che in Koolhaas si
chiama cinismo e in Mike Davis
marxismo, cioè l’idea che siamo di
fronte a qualcosa che «è il modo
con cui funziona il mondo del
capitale» e si fermano lì, senza
leggere tutte le implicazioni e le
forme di resistenza alle
implicazioni. Anche nei suoi
migliori teorici, da David Harvey a
Mike Davis, l’urbanistica oggi è
ammalata di fatalismo materialista,
lo stesso che al dandy Rem
Koolhaas riesce così bene e gli fa
acquisire ai nostri occhi la patina di
Petronius Arbiter. Il fatalismo
materialista dà l’ebbrezza di avere
le stesse armi del capitale, del
grande mercato, della
globalizzazione; in verità queste
realtà complesse sono sempre
molto più avanti nel materialismo
di quanto lo possano essere i
concorrenti dandy o marxisti o
neomarxisti. Il materialismo
dialettico è oggi il preteso
meccanismo autoregolantesi del
capitale informatizzato. Le sue
ragioni sembrano quelle del sano
realismo. Per opporsi bisogna
credere non alla forza della materia
ma alla forza dello spirito, la forza
delle derive collettive dei sogni, la
forza della dialettica del significato
che la gente dà alla propria vita
quotidiana nonostante tutto.
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La povertà intellettuale delle città
L’urbanistica è diventata una disciplina
sempre più inadeguata alla realtà delle città e
del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi
umani, economici, etnici e ambientali che si
manifestano nei centri urbani sfuggono
sistematicamente a piani e progetti, a mappe e
logiche immobiliari. Questa la tesi di “Contro
l’urbanistica”, il nuovo saggio dell’antropologo
Franco La Cecla, edito da Einaudi (pagine 148,
euro 12,00), del quale proponiamo un passo.
non trova uno spazio da dedicare al Signore». La
mostra, realizzata nelle Sale delle Arti in
collaborazione con l’associazione Sant’Anselmo, è
un viaggio attraverso culture e culti diversissimi,
ma accomunati dalla preghiera. «Ogni religione
ha le proprie preghiera – spiega l’arcivescovo di
Torino – tutte, però, sono simili, perché aprono ad
un rapporto con Dio e, nella loro ripetitività,
confermano un atteggiamento di fede, di
disponibilità, di abbandono». La mostra, nella
residenza sabauda alle porte di Torino, resterà
aperta fino al 30 agosto.
a
DON MILANI
ANDREA FAGIOLI
ono passati cinquant’anni dalla Risposta ai cappellani militari che costò a don Lorenzo Milani due processi
per apologia di reato: il primo di assoluzione con formula piena «perché
il fatto non costituisce reato»; il secondo, in appello, di condanna con
«reato estinto per la morte del reo». Il priore di Barbiana, infatti, morì quattro mesi prima del processo che si tenne a Roma il 28 ottobre 1967.
Tutto era nato da un comunicato su “La Nazione”
del 12 febbraio 1965 nel quale un gruppo toscano
di «cappellani militari in congedo», riunitosi a Firenze «nell’anniversario della conciliazione tra la
Chiesa e lo Stato italiano», considerava «un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento
cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Don
Milani, come lui stesso raccontò, lesse il testo davanti ai suoi ragazzi della scuola di Barbiana nella sua «duplice veste di maestro e di sacerdote»,
mentre loro lo «guardavano sdegnati e appassionati». «Un sacerdote che ingiuria un carcerato
ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno – scrisse
il priore – di far notare queste cose ai miei ragazzi.
Le avevano già intuite. E avevano anche intuito
che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita». D’accordo con gli allievi, don Lorenzo decise di replicare ai cappellani: «Le armi
che voi approvate sono orribili macchine per
uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo
dunque idee molto diverse. Posso rispettare le
vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo
e della Costituzione. Ma rispettate anche voi le
idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per
le loro idee pagano di persona».
LEZIONE. Milani tra i suoi ragazzi, «sdegnati e impressionati» per gli attacchi agli obiettori
Per rendere pubblico il documento, don Milani, il
23 febbraio, ne fece stampare tremila copie da distribuire tra la gente di Barbiana, i preti fiorentini,
ra ai giudici, nella quale il concetto di fondo è
alcuni politici e sindacalisti, oltre ad inviarlo ai giorAssolto in primo grado, fu condannato che quando le leggi non sono giuste bisogna batnali, che si guardarono bene dal pubblicarlo, ad ecin appello anche se con «reato estinto tersi per cambiarle ed è dovere di ogni cittadino
cezione del periodico comunista “Rinascita” che
intervenire quando non si rispettano i principi di
per morte del reo». Malato, non poté
lo mise integralmente in pagina nel numero del 6
giustizia, di libertà e di verità. Don Milani fu anpartecipare alle udienze, ma scrisse
marzo 1965. Alla Risposta ai cappellani militari
che costretto ad accettare un difensore d’ufficio
la “Lettera ai giudici” per rivendicare
reagirono in molti, anche per il tipo di testata che
che non voleva: «Non voglio un luminare del foil diritto a battersi contro leggi ingiuste ro col bavero di pelliccia e la macchina con le
l’aveva accolta, ma fu l’esposto alla procura di Firenze presentato da un gruppo di ex combattenti
tendine e l’autista... Se mi vuol difendere, delin(«Profondamente e dolorosamente feriti nel loro
qua anche lui come ho delinquito io».
più sacro patrimonio ideale di cittadini e di soldaAl processo, come detto, non si presentò, ma fece
ti») a dare il via all’azione legale contro il priore di
avere tramite l’avvocato un certificato e la Lettera.
Barbiana e il direttore di “Rinascita”, Luca PavoliLa prima seduta si risolse in cinque minuti e fu agni. Un accoppiamento che disturbò molto don
giornata al 14 dicembre. Tra un rinvio e l’altro il
Lorenzo: «È dunque per motivi proceduraprocesso si concluse il 15 febbraio 1966 con la
li cioè del tutto casuali ch’io trovo incririchiesta da parte del pubblico ministero di
minato con me una rivista comunista.
otto mesi di reclusione per don Milani e otNon ci troverei da ridire nulla se si tratto mesi e mezzo per Pavolini. I giudici,
CONDANNA ANCHE PER BALDUCCI E PINZAUTI
tasse d’altri argomenti. Ma essa non
dopo tre ore di camera di consiglio, opmerita l’onore d’essersi fatta bantarono per l’assoluzione, ma il pubNel pubblicare la Risposta ai cappellani militari, “Rinascita”
diera di idee che non le si addiblico ministero ricorse subito in apintrodusse il testo di don Milani con il titolo I preti e le guerra,
cono come la libertà di coscienpello. Il processo di secondo grado
ricordando un’analoga lettera di don Bruno Borghi e soprattutto del
za e la non violenza».
fu fissato il 28 ottobre 1967, ma don
processo subito, sempre per obiezione di coscienza (che allora era reato e
Il processo di primo grado fu
Milani morì il 26 giugno. Ad esseportava dritti in carcere), dal padre scolopio Ernesto Balducci, che sul
fissato a Roma, in quanto sede
re condannato fu il direttore di “Ri“Giornale del mattino” diretto da Leonardo Pinzauti aveva replicato a un
legale di “Rinascita”, il 30 ottonascita”. La cosa strana e per cerintervento di don Luigi Stefani su “La Nazione” del 12 gennaio 1963 all’indomani
bre 1965. «Come avrete visto –
ti versi misteriosa è che le motidel processo che aveva condannato il primo obiettore cattolico: Giuseppe
scrisse don Milani ai suoi ravazioni di quella sentenza non soGozzini. Don Stefani, allora assistente diocesano dell’Azione cattolica fiorentina,
gazzi –, i capi d’imputazione
no mai stata pubblicate. «In apsosteneva che il rifiuto di indossare la divisa non poteva essere giustificato in
pello sono andato solo, perché
sono ridotti a incitamento alla
alcun modo. Balducci replicava che anche la chiamata alle armi doveva
purtroppo don Milani era già mordiserzione e incitamento alla
sottostare alla giustizia naturale e quindi non ci può essere corrispondenza
to – raccontò Pavolini –. E naturaldisubbidienza militare». In ogni
tra le leggi dello Stato e quelle teologico-morali. A seguito della replica
mente mi hanno condannato: a cincaso rischiava da tre a dieci anni,
alcuni cittadini presentarono un esposto alla magistratura. Balducci e
que mesi e dieci giorni... Ma non si soma non potendo partecipare diPinzauti furono processati per apologia di reato. Assolti in primo
no accorti che la condanna veniva a carettamente alle sedute perché orgrado, furono condannati in appello (otto mesi a Balducci). La
dere sotto amnistia. E l’amnistia è stata
mai malato di tumore, decise di inCassazione confermò la condanna nel giugno 1964. Di
applicata dalla Cassazione».
viare al tribunale una memoria difenfatto la stessa sorte toccata a don Milani. (A.Fag.)
siva che è passata alla storia come Lette© RIPRODUZIONE RISERVATA
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