Ricordo di Lilia Silvi - Ricordando il Trio Lescano

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Ricordo di Lilia Silvi - Ricordando il Trio Lescano
Virgilio Zanolla
Ricordo
di
Lilia Silvi
29 Luglio 2013
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Sono tristissimo. Ho saputo solo l’indomani [ieri, domenica 28],
dall’amico Manuel Carrera, che l’ha appreso anche lui in quel momento,
della morte di Lilia Silvi. Poiché la tv non mi risulta ne abbia dato notizia,
altrimenti ne sarei stato subito informato, sono andato su Internet a vedermi
i titoli delle News: prima su Prima Pagina, poi su Italia, quindi su
Spettacoli: macché! Le notizie che circolano sono queste: Elisabetta
Canalis ha querelato “Novella 2000”, Renzo Arbore battibecca con la sua
ex Mara Venier, “The Sun” pubblica l’immagine fantasomatica del Royal
Baby all’età di quindici anni, Lady Gaga si fa fotografare in poltrona
‘vestita’ solo con gli occhiali... Una caterva d’ignobili idiozie che mi
costringono a chiedermi in quale caspita di mondo stiamo vivendo.
Silvana Musitelli, in arte Lilia Silvi, benché abbia preso parte solo a
19 film, una dozzina dei quali la videro assoluta protagonista, è stata una
delle più importanti attrici italiane del cinema dei ‘telefoni bianchi’, una
figura di tale personalità da imprimersi indelebilmente negli occhi e nella
memoria di chi la seguiva. In un’epoca in cui il fascismo aveva dettato le
coordinate della donna italiana (che doveva essere, il prima possibile,
moglie e madre, per dare tanti figli alla patria: Oh signorine siate giudiziose
/ più presto che potete andate spose..., cantavano in Papà e mammà le
nostre tre olandesine), quando nel nostro cinema, per opporsi al ‘dominio’
del maschio era consentita soltanto la spiazzante ironia di Elsa Merlini, la
Silvi irruppe sulla scena con tutta la sua esuberante freschezza, con
vivacità, simpatia, intraprendenza, cocciutaggine, e – perché non dirlo? –
deliziosa prepotenza.
E anche se, in ossequio alla morale dell’epoca ed anche alle più
ovvie convenienze narrative, i suoi personaggi, per amore, finivano sempre
per sottomettersi al proprio partner, la sua irruenta vitalità era come un
avviso, una sorta – mi si passi l’ossimoro – di gioioso prodromo di quella
liberazione della donna, che, sul piano del costume, si sarebbe verificata
soltanto trent’anni dopo. Come dimenticare, ne La bisbetica domata di
Poggioli (’42), il momento in cui Catina-Silvi, conciliatasi finalmente col
marito Pietruccio-Nazzari, gli chiede con un ammicco il permesso per
‘mettere in riga’ con uno schiaffetto la sorella Bianca-Rossana Montesi?
Poco importa se Giuseppe De Santis, critico cinematografico e futuro
regista di Caccia tragica e Riso amaro, sulle pagine di “Cinema” la
stroncasse accusandola di «una stucchevolezza che supera ogni limite»:
anche i grandi sbagliano, e De Santis, certo in polemica con l’idea di
cinema che imperava allora, non aveva colto la straordinaria modernità
recitativa dell’attrice, che, come lei stessa ebbe a dirmi più volte, una volta
imparata la parte amava andare ‘a braccio’.
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Ma la Silvi non era soltanto una formidabile commediante nel ruolo
di deliziosa peperina: col suo bagaglio d’attrice istintiva e intuitiva sapeva
toccare molte corde, dando vita a personaggi tra loro anche piuttosto
diversi: lo provano la Carina di Violette nei capelli di Carlo Ludovico
Bragaglia (’41), la Teresa de La vispa Teresa di Mattòli (’43), la Franca di
Giorni felici di Franciolini (’43), soprattutto la sensibile Scampolo,
dall’omonimo film di Malasomma (’41), non a caso il ruolo che ella ha
forse amato di più.
Vorrei anche parlare dell’amica Lilia Silvi, se così posso dire, anche
se non ci siamo mai conosciuti di persona ma sempre e solo parlato al
telefono, e anche se a un certo punto – mea culpa – io mi sono eclissato,
ma non solo da lei... La chiamavo sempre di mercoledì o di giovedì
pomeriggio, perché nei primi due pomeriggi della settimana lei,
immancabilmente, andava a lezione di lingue: se ben ricordo, d’inglese e di
francese; a novant’anni, si trovava a contatto con persone molto più giovani
di lei, ma solo anagraficamente, perché la sua mente ragionava con grande
speditezza e molta logica. Anche se il motivo dei nostri colloqui era
un’intervista per il nostro sito (ma anche l’idea d’un libro, che non ho
abbandonato), parlavamo di tutto. Dico parlavamo, perché Lilia era
sanamente curiosa, e mi chiedeva spesso, teneva a conoscermi: in fin dei
conti, risultavo soltanto una ‘voce’, che voleva sapere di lei, quindi era
ovvio e democratico che ‘mettessi le carte in tavola’.
La prima cosa che mi domandò era se credessi in Dio. Per lei la fede
era un fatto irrinunciabile; amava moltissimo due pontefici: Pio XII e
Giovanni XXIII, ma era legata soprattutto al primo, che aveva conosciuto
di persona. Nella vita era stata in contatto con molta gente, ma nel mondo
dello spettacolo – almeno, all’epoca in cui era in auge – aveva pochi veri
amici, che peraltro quasi non frequentava al di fuori del set: uno era
Roberto Villa e la moglie Adriana Parrella, l’altro Amedeo Nazzari. Con
quest’ultimo – com’è spiegato nella lunga intervista che le feci – c’era stato
un amore non consumato: dunque un amore vero, romantico, proprio come
quello di alcuni film di quell’epoca; tanto che, molti anni dopo, Lilia si legò
di grande amicizia con la figlia di lui, Evelina. Nazzari era stato l’unico
uomo che aveva amato, assieme al marito, l’ex calciatore del Genoa e della
nazionale Riccardo Scarabello, che aveva conosciuto in treno il 17
dicembre del ’39, aveva sposato pochi mesi dopo e col quale era vissuta
felicemente per ben sessantasette anni, fino alla morte di lui. Mi raccontava
che era un «compagno meraviglioso»: certe volte, anche nei loro ultimi
anni, si divertivano, a letto, a giocare come bambini, facendo buffi versi e
raccontandosi delle storie inventate lì per lì.
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Il terzo amore di Lilia – ma, in ordine cronologico, il primo – era
stato, c’è bisogno di dirlo?, il mondo dello spettacolo, e in particolare il
cinema. Il fatto di trovarsi davanti a una macchina da presa, per lei, era
come bere un sorso dalla mitica Fonte della Giovinezza invano cercata in
Florida dal conquistador Ponce de Léon; e quando, nel 2010 – vale a dire,
sessant’anni dopo l’ultimo film da lei interpretato, Napoleone di Carlo
Borghesio, del 1950 – il regista Gianni Di Gregorio l’aveva contattata per
una parte nel suo film Gianni e le donne, aveva accettato con entusiasmo,
entrando probabilmente, in modo forse inconsapevole, anche nel Guinness
dei Record per un ritorno al cinema dopo tale enorme arco di tempo.
L’anno seguente, col film di De Gregorio, usciva anche il documentario In
arte Lilia Silvi di Mimmo Verdesca, prodotto da Leo Gullotta e Fabio
Grossi, che nel 2012 venne premiato col Nastro d’Argento per il Miglior
Documentario sul Cinema al Festival di Roma: per Lilia fu un nuovo
ritorno alla popolarità. Avrebbe volentieri interpretato altre parti, se gliele
avessero offerte: non era mai sazia di esprimersi, e di migliorarsi.
Certe volte, mentre parlavamo, le facevo ascoltare al telefono alcune
sue vecchie canzoni, come quella, bellissima, de La bisbetica domata;
oppure, sempre su You Tube, guardavo alcuni suoi film: Scarpe grosse,
Dopo divorzieremo, La bisbetica domata, la sua particina ne Il signor Max
di Camerini, quando vende fiori a De Sica... E mi dicevo: “Questo film è
del 1937, vale a dire di ben settantacinque anni fa, che corrispondono a tre
quarti di secolo; e io sono qui, e parlo con una sua interprete!”. Mi pareva
di sognare, o meglio, di valicare con la voce di lei al telefono e la sua
immagine giovanile davanti agli occhi la barriera invisibile tra realtà e
sogno... Dopotutto, anche questo è un record da Guinness dei Primati, e un
record che credo di non condividere con nessuno.
Con Lilia Silvi, si può dolorosamente dire, muore anche lo spirito dei
‘telefoni bianchi’; di allora, a sopravviverle, resta ormai solo Valentina
Cortese (e, forse, Adriana Benetti: sulla cui sorte c’è più mistero che sulla
Maschera di Ferro). Per fortuna, grazie a You Tube, oggi anche molti
giovani possono farsi un’idea – per quanto ancora limitata a qualche titolo
– di chi fosse Lilia, dell’indiscutibile talento di quest’attrice, un volto e una
presenza che s’imprimono nell’immaginario collettivo ergendosi tra i
simboli di un’epoca: gli anni, poi, sono proprio gli stessi che videro in
attività il Trio Lescano.
A Lucia, Elisabetta e Luca Scarabello porgo le mie più sincere e
accorate condoglianze. Piango con loro.