Luca Martinelli - Fondazione culturale responsabilità etica

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Luca Martinelli - Fondazione culturale responsabilità etica
MESOAMERICA
VERSO IL BARATRO
Viaggio nella terra dei Maya ai tempi della globalizzazione
Dossier a cura del Centro Documentazione di Mani Tese, [email protected]
Realizzato a cura del
Centro di Documentazione
di Mani Tese
DICEMBRE 2006
Ciclostilato in proprio, presso la sede di p.le Gambara 7/9, 20146 Milano
2
INDICE
INTRODUZIONE
di Luca Martinelli
pagina
PARTE PRIMA – L’economia
1. Il Centro America verso il baratro
di Luca Martinelli
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2. Il Nafta e lo sviluppo rurale in Messico
di M. Pickard
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3. Il Cafta (Central America Free Trade Agreement): un trattato nuovo per politiche
vecchie di Luca Martinelli
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PARTE SECONDA – Le risorse naturali
4. Morti “dorate”. Il racconto della miniera Marlin in Guatemala
di Luca Martinelli
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5. La corsa all’oro è ricominciata. Da Repubblica delle banane a Repubblica delle miniere
di Luca Martinelli
pagina
SCHEDA 1. Honduras
6. Il cartello del legno in Honduras
di Luca Martinelli
pagina
7. Bahia de Tela: il capitale italiano all’assalto delle spiagge garifuna
di Luca Martinelli
pagina
PARTE TERZA – La società
8. Virginia e la maquila.Storia di una donna indigena in Guatemala
di F. Filippi
pagina
SCHEDA 2. Le maquilas in Messico ed in Centroamerica
9. “Marafobia”, tra psicosi e realtà. Le bande giovanili e la società
di F. Filippi
pagina
3
10. Tra fuochi incrociati. I migranti centroamericani nella loro traversata verso il Nord
di M. Pickard
pagina
CONCLUSIONI
Pagina
BIBLIOGRAFIA
pagina
4
Introduzione
di Luca Martinelli
“Dobbiamo proteggere gli investitori”.
In queste quattro parole, spese dal
presidente guatemalteco Oscar Berger nel
gennaio del 2005 per giustificare l’omicidio di
Raul Castro, un trentasettenne contadino del
dipartimento di Sololá ‘colpevole’ di
protestare contro il progetto di una miniera
d’oro, c’è tutta la storia del Mesoamérica. La
storia passata, presente e futura di questo
lembo di terra, un istmo ricchissimo di storia,
cultura e risorse naturali che unisce il Nord ed
il Sud America.
“Dobbiamo proteggere gli investitori”,
e quando l’investitore si chiama Banca
Mondiale è veramente difficile pensare di
difendere gli interessi economici di uno Stato
sovrano, e ancora meno è consentito a
qualsivoglia Governo agire nell’esclusivo
interesse dei propri cittadini. Così, in tutto il
Mesoamérica, la morte di molti Raul Castro è
una “non notizia”, e quelli che – come lui,
contadini o indigeni – manifestano contro
l’imposizione del modello di sviluppo
economico dominante sono guardati con
disprezzo e considerati “attivisti dell’antisviluppo”.
“Dobbiamo proteggere gli investitori”.
A ringraziare Berger ci pensa Glamis Gold,
impresa mineraria canadese titolare del
Marlin project, la miniera d’oro al centro delle
proteste dei gruppi contadini e ambientalisti
del Guatemala. La International Financial
Corporation (IFC) del gruppo Banca Mondiale
ha elargito un prestito di 45 milioni di dollari
per lo sviluppo del progetto che, secondo lo
Studio di Impatto Ambientale, garantirà
all’impresa utili per 707 milioni di dollari nei
dieci anni di estrazione, dei quali, per i termini
del contratto di concessione, solo l’1%
rimarrà in Guatemala. Glamis Gold calcola
che il Marlin project avrà una durata
complessiva di 13 anni, garantendo alla
popolazione dei municipi di San Miguel
Ixtahuacán e Sipacapa 1400 posti di lavoro
nel primo anno, e 180 nei dieci successivi.
Poi al Paese centroamericano resteranno
solo le montagne distrutte – 38 milioni di
tonnellate di rocce polverizzate – e suoli,
fiumi e falde contaminate.
Questa
che
abbiamo
appena
raccontato è solo una tra molte storie che, in
tutto il Centro America, hanno la stessa
trama ed uno stesso finale. Non cambiano,
spesso, nemmeno gli attori protagonisti. I
vincitori sono le imprese multinazionali, i
governi del Nord, le istituzioni finanziarie
internazionali (Banca Mondiale, Fondo
Monetario
Internazionale
e
Banca
Interamericana di Sviluppo) e le oligarchie
terriere. Gli sconfitti sono milioni di contadini, i
popoli indigeni che abitano la Regione da
prima della Conquista spagnola, e concetti
come sovranità nazionale e sovranità
alimentare, ormai privi di significato.
Una storia, quella del Marlin project,
che insieme alle altre raccolte in questo
volume disegna i contorni di una Regione allo
sbando, del Mesoamérica che avanza a
lunghe falcate verso il baratro, verso il totale
asservimento
al
sistema
economico
neoliberale e la cancellazione della propria
storia
e
dell’inestimabile
patrimonio
rappresentato dalle culture Maya e Azteca e
da coloro che oggi ne sono i portatori, i popoli
indigeni mesoamericani.
“Popolazione in esubero”, ecco cosa
sono oggi, per i governi di Messico,
Guatemala, Belize, Honduras, Nicaragua, El
Salvador, Costa Rica e Panamá, milioni di
indigeni che vivono ancora ai margini della
società mercantilista, rivendicando il diritto di
continuare ad esistere senza essere costretti
5
ad assumere nella propria cultura gli aspetti
più negativi di quella occidentale.
Una partita difficile, specie quando si
è costretti a giocarla nel “giardino dietro casa”
degli Stati Uniti d’America, oggi l’unica
superpotenza politica ed economia mondiale.
Ma una sguardo alla storia del Mesoamérica,
la storia delle famose “Repubbliche della
Banane” celebrate anche da Woody Allen in
uno dei suoi film, disegna i contorni di quella
che potremmo definire una tragedia
annunciata.
In Honduras, alla fine degli anni ‘20, le
compagnie
bananiere
statunitensi
controllavano circa un terzo del territorio
nazionale. Solo la United Fruit & Co.
possedeva, nel 1929, 650.000 ettari delle
terre più fertili del Paese. Strade, ferrovie e
porti erano di proprietà delle stesse
compagnie, che le avevano costruite per
commercializzare i propri prodotti.
In Guatemala, nel 1952, il Presidente
Jacobo Arbenz avviò una Riforma Agraria,
promulgando una Ley de Reforma Agraria e
distribuendo nell’arco di due anni un milione e
mezzo di ettari di terra. “La riforma beneficiò
circa 100.000 famiglie, attaccando le
compagnie dei grandi proprietari terrieri ed il
potere della grandi compagnie straniere, in
particolar modo della United Fruit Company,
di proprietà statunitense” (Viscidi, 2004). Nel
1954, così, un colpo di stato ordinato dagli
Stati Uniti ed organizzato dalla CIA depose il
presidente Arbenz, democraticamente eletto,
e consegnò il Paese nelle mani di un
generale vicino agli U.S.A., che annullò
immediatamente
buona
parte
delle
espropriazioni realizzate. “Le terre migliori
vennero restituite agli ufficiali dell’esercito ed
ai ricchi proprietari legati al regime militare,
‘cementando’ il sistema di iniqua distribuzione
delle terre” (Viscidi, 2004).
Cambiano i soggetti ma non le trame:
oggi un terzo del territorio di Honduras è
oggetto di concessioni minerarie, la maggior
parte delle quali rilasciate a compagnie
statunitensi e canadesi; mentre le imprese
elettriche europee, le spagnole Iberdrola ed
Endesa in primis, ma anche la nostra Enel,
stanno partecipando al processo di
privatizzazione dei servizi elettrici in tutto il
Mesoamérica.
È perciò significativo, a nostro avviso,
che l’Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale (Ezln), esercito indigeno insorto in
armi nello stato del Chiapas, il più
meridionale della Repubblica messicana, al
confine con il Guatemala, abbia scelto il
primo gennaio del 1994 per uscire allo
scoperto, occupando cinque città dello Stato
e pronunciando un simbolico “¡Ya basta!”. Lo
stesso giorno entrava in vigore il North
American Free Trade Agreement (NAFTA),
accordo di libero scambio che ancorava
ulteriormente l’economia messicana a quella
dei due vicini del Nord (Stati Uniti d’America e
Canada) proiettando il Paese nel primo
mondo, secondo la classe al Governo,
condannando ad un lento genocidio culturale
ed economico le popolazioni indigene
marginali, secondo l’Ezln.
Una guerra combattuta “per l’umanità
e
contro
il
neoliberalismo”,
contro
l’imposizione di un modello economico e
culturale unico, dopo decenni di ‘strane’
guerre civili, che hanno visto gli eserciti di
liberazione nazionale sorti in Guatemala,
Nicaragua e El Salvador confrontarsi con
eserciti ‘regolari’ sostenuti da truppe
‘irregolari’ finanziate e addestrate nelle basi
Usa della Regione, assoldate per difendere
gli interessi economici degli Stati Uniti
d’America preservando i governi fantoccio
imposti da Washington in tutto il Centro
America.
Il Movimento zapatista – innovando in
maniera profonda il carattere di “movimento
rivoluzionario” – ci ricorda che esiste ancora
un Mesoamérica che resiste e che lotta per
allontanare quel baratro verso cui gli interessi
dei Governi, delle istituzioni Finanziarie
Internazionali e delle grandi imprese
sembrano spingerlo.
NAFTA, CAFTA, ALCA, PPP non
sono mere sigle. Fanno parte, come descrive
il saggio che apre questo libro, di un unico
disegno volto a creare un mercato che vada
dall’Alaska alla Terra del Fuoco, rendendo
ottocentomilioni di americani consumatori di
un grande Wal-Mart1.
A undici anni dalla sua entrata in
vigore, il NAFTA ci offre è una prova, su
scala ridotta, di quello che rappresenta
1
Catena di grandi magazzini Usa. Il fatturato di
Wal-Mart è pari al 2% del Prodotto Interno Lordo
degli Stati Uniti d’America e superiore a quello di
un Paese come l’Austria. È presente in più di 30
Paesi ed è la prima azienda a livello mondiale
come numero di dipendenti. 1.500.000 di persone
lavorano per Wal-Mart.
6
l’integrazione economica e la liberalizzazione
degli scambi tra Paesi che partono da
condizioni estremamente diseguali. Il CAFTA
(Central American Free Trade Agreement),
recentemente ratificato da alcuni governi
centroamericani pur in un contesto di forti
proteste da parte della società civile
organizzata, non potrà che riproporre gli
stessi risultati, allargandoli a tutti i Paesi
dell’istmo centroamericano. Poco importano,
agli esecutivi di Guatemala, Honduras, El
Salvador e Nicaragua, le Lesson from Nafta
descritte anche dalla Banca Mondiale, che
ammette – tracciando un bilancio dei dieci
anni del Trattato – che il liberismo non ha
portato alcun beneficio per le regioni più
povere del Messico (il Sud-est). Che importa,
del resto, ai Governi dell’analisi oggettiva che
descrive i terribili effetti del NAFTA sul settore
agricolo messicano, qui presentata da Miguel
Pickard. In Paesi dove il settore primario è
fonte importante di occupazione, fonte di
reddito per milioni di famiglie e, soprattutto,
garanzia di auto-sostentamento nell’area
rurale, l’invasione di mais e sementi
geneticamente modificate prodotte negli Usa
rappresenta un attacco frontale al diritto alla
vita per milioni di persone, e non potrà che
provocare un aumento della ‘diaspora’ verso
le aree urbane e verso gli Stati Uniti
d’America.
“Economie delle rimesse”: questo
stanno diventando i paesi Mesoamericani,
anche se la strada verso “il Nord” è tutt’altro
che semplice per gli indigeni e i contadini
centroamericani. La militarizzazione della
frontiera
statunitense
inizia,
paradossalmente, dalla frontiera tra Messico
e Guatemala, La Mesilla. Economia delle
rimesse in quanto i Governi vedono nei soldi
inviati dagli emigranti a casa, alle famiglie
rimaste a coltivare terre ormai improduttive,
una risorsa di sviluppo.
“…se raggiungiamo il valore [di
rimesse] che è stimato per questo anno,
staremo parlando della prima voce di
ingresso di valuta straniera nel nostro Paese;
più del petrolio, più del turismo, più degli
investimenti esteri diretti. Che Dio ci ripaghi
abbondantemente, perché le vostre famiglie
fanno un uso eccellente di questo denaro”, ha
avuto modo di affermare il Presidente della
Repubblica messicana Vicente Fox parlando
nel novembre del 2003 di fronte al Consiglio
Consultivo dell’istituto per i messicani
all’estero. Intanto Banca Mondiale e Banca
Interamericana di Sviluppo (BID) stanno
approntando progetti per aiutare le famiglie a
fare un uno razionale delle risorse provenienti
dai propri familiari all’estero. Vale, per queste
istituzioni come per il Governo messicano,
l’equazione rimessa = risorsa, e non si
considera l’enorme costo, sociale e culturale,
che le migrazioni comportano.
Le migrazioni sono, allo stesso tempo,
conseguenza diretta e indiretta della
liberalizzazione. Se da un lato sono la miseria
e la fame a spingere migliaia di contadini
verso le aree urbane, dall’altro sono gli
interessi economici, spesso mascherati dietro
la “falsa promessa”, l’ossimoro, di uno
“sviluppo sostenibile”.
Come racconta Aldo Gonzales Rojas,
membro del Consejo Nacional Indigena (CNI)
messicano, indigeno zapoteco della Sierra
Juarez nello Stato di Oaxaca, all’arrivo degli
spagnoli gli indigeni furono spinti verso le
terre più inospitali del Paese, perché i
conquistatori avevano bisogno delle grandi
pianure coltivabili, per l’agricoltura. Oggi che
gli indigeni continuano a vivere in armonia
con la terra, nelle Selve e sulle montagne
dove sono stati confinati più di cinquecento
anni fa, l’Occidente ed il capitalismo scoprono
che proprio questi luoghi rappresentano una
fonte inestimabile di ricchezza, ricche di
acqua, di diversità biologica, di petrolio, di oro
e altri minerali.
È necessario perciò, con le buone o
con le cattive, mascherando questa seconda
conquista dietro il volto amico di alcune
Organizzazioni non governative e la formula
magica dello “sviluppo sostenibile” o
rappresentando pienamente la violenza con
l’invasione di ruspe e trivelle, che gli indigeni
si facciano da parte. La soluzione alla loro
esistenza, ché non è pensabile oggi – forse –
sterminarli tutti come provò a fare, nel corso
degli anni 80, il generale Rios Montt in
Guatemala, sta nella creazione dei distretti
maquilador,
corridoi
industriali
dove
assemblare prodotti per l’esportazione,
sfruttando la presenza di manodopera a
basso costo, prevalentemente nei settori
tessile
e
della
micro-componentistica
elettronica. Fabbriche che godono di una
sorta di extra-territorialità e dove non viene
rispettato nessuno dei diritti fondamentali di
un lavoratore (diritto ad iscriversi ad un
7
sindacato; diritto alle ferie, alla maternità, alla
tredicesima).
È questo il quadro che emerge nella
seconda parte del libro, dove si spiega
perché non è sostenibile il progetto di
sviluppo promosso dall’Unione Europea nella
Selva Lacandona; si racconta della barbara
invasione delle imprese minerarie che
squartano la terra di Honduras e Guatemala;
e, attraverso la storia di Virginia, si disegna
quella di migliaia di donne e uomini, costretti
a cercare il proprio futuro nell’inferno delle
maquiladoras.
Per finire, in appendice, la storia di
Leonardo e Marcelino Miranda, indigeni lenca
della comunità di Montaña Verde, in
Honduras, serva a capire cosa succede a
coloro che, per difendere la propria terrà e la
propria comunità, si mettono contro gli
interessi del capitale.
8
PARTE PRIMA :: l’economia
1. Il Centro America verso il baratro
Il Plan Puebla Panama e la liberalizzazione a macchia di leopardo
di Luca Martinelli
Lanciato ufficialmente il 15 di giugno del 2001
attraverso una dichiarazione congiunta dei
capi di Stato della regione centroamericana, il
Plan Puebla Panama rappresenta, secondo il
presidente messicano Vicente Fox che ne
rivendica la paternità, uno sforzo congiunto
dei governi centroamericani e messicano per
lo sviluppo economico della macro-regione.
Si tratta – secondo i documenti ufficiali - di
un’iniziativa atta ad apportare benefici
sostanziali che permettano di superare il
ritardo esistente, migliorando con ciò la
qualità di vita degli abitanti attraverso una
maggiore e migliore educazione, una crescita
economica sostenuta e sostenibile, la
creazione di impieghi ben remunerati,
l’armonizzazione dello sviluppo sociale e
umano
delle
popolazione
con
una
distribuzione efficiente delle risorse ed
un’espansione ed integrazione commerciale.
Le idee centrali alla base del Plan Puebla
Panama sono:
•
•
•
che la povertà possa essere superata
solo mediante un impulso allo
sviluppo economico, che a sua volta
può essere generato solo attraverso
l’investimento produttivo;
che un aumento dell’investimento
produttivo nella regione è possibile
sempre che questa si posizioni
all’interno dell’economia globale;
che
un
grande
impulso
all’investimento
produttivo
possa
nascere esclusivamente da uno
•
sforzo
nella
dotazione
delle
infrastrutture di base (educazione,
formazione,
trasporto,
logistica,
telecomunicazioni);
che è necessario generare sinergie in
quanto lo sviluppo del Sud-est
messicano e quello della regione
centroamericana possono essere
considerate solo in un congiunto.
Oggi, a tre anni dal suo avvio, possiamo far
riferimento al PPP come ad una mera sigla, e
certi di non star cadendo in errore. Risulta
infatti evidente da un’analisi dettagliata del
‘cammino’ del Plan Puebla Panama tanto il
fatto che esso non possa assolutamente
esser presentato come un Piano (in quanto
ciò dovrebbe sottendere una qualche
strategia di sviluppo locale e d’integrazione
regionale comune a tutti i progetti proposti),
quanto che molti dei progetti riassunti nei
documenti delle 3P (la Linea SIEPAC, il
Corridoio Biologico Mesoamericano, il
programma dell’Istmo, il Puente Chiapas, tra
gli altri) siano stati in realtà pensati e
progettati a partire dall’inizio degli anni 90.
Con il Plan Puebla Panama si è tentato di
rilanciare queste iniziative, presentandone
l’insieme come un programma (di sviluppo
umano), e tentando in questo modo di
mascherare la evidente strategia geoeconomica che esso sottende, garantendo
così una copertura alle politiche di
liberalizzazione e privatizzazione imposte dai
grandi organismi finanziari internazionali
(quali la Banca Interamericana di Sviluppo,
9
BID,
la
Banca
Centroamericana
di
Integrazione Economica, BCIE, il FMI e la
BM), schierati in difesa degli interessi del
‘campione’
economico
dell’emisfero
americano, gli Stati Uniti d’America.
Nel corso dell’articolo cercheremo di
dimostrare come il PPP rappresenti – insieme
con gli accordi bilaterali di libero scambio –
una delle tante strategie che il Governo USA
sta attuando per ‘traghettare’ la regione
centroamericana verso l’era dell’ALCA.
A dispetto di quanto asserito da molti ‘esperti’
del PPP che lo danno ormai per morto2, il
Plan avanza. A Managua, Nicaragua, si è
tenuta tra il 22 ed il 25 di marzo 2004 la VI
Riunione dei Presidenti dei paesi aderenti al
Meccanismo di Tuxtla3.
L’incontro, che seguiva quello celebrato oltre
un anno e mezzo prima a Merida, Yucatan, è
stato l’occasione per realizzare importanti
passi in avanti rispetto alle necessità di
riformulare le strategie del Plan alla luce del
forte movimento d’opposizione sviluppatosi
intorno al PPP, specie in merito alla strategia
di comunicazione ed al programma di ICP4
2
Primo tra tutti Andrés Barreda, ricercatore
universitario della Università Nazionale Autonoma
della Città del Messico (UNAM).
3
Il Meccanismo di Tuxtla nasce nel 1991 dalla
volontà degli esecutivi dei paesi della regione di
far risaltare i legami storici e la comune identità
delle nazioni mesoamericane, e “si considera il
massimo foro mesoamericano per analizzare in
forma periodica e sistematica le molteplici
questioni regionali, emisferiche e mondiali di
interesse comune; per concertare posizioni
politiche congiunte; per dare impulso al libero
commercio ed all’integrazione regionale; e per
avanzare nella cooperazione in tutti gli ambiti, in
appoggio allo sviluppo sostenibile dell’area”.
4
Informazione, consultazione e partecipazione.
“Nel 2004, la iniziativa di ICP vede programmato
un monitoraggio della società civile della regione
del PPP. Tale ricerca si baserà su un formulario
da compilare che alimenterà un database. Come
risultato, tale mappatura favorirà la realizzazione
di “migliori consultazioni”con la società civile” in
Interaction, Reunión entre ONGs y IDB – PPP 12
de febrero 2004, 10:00 - 1:00 pm. Sede del BID
Washington,
DC.
http://www.interaction.org/idb/index.html.
Interaction è fortemente critica rispetto a tale
progetto sostenendo che l’idea che muove il BID
al censimento della società civile siano piuttosto la
(Informacion, Consulta y Participacion),
necessità
individuate
come
prioritarie
appunto nella precedente riunione del 27 e
28 giugno 20025.
Oltre alla firma del Memorando relativo
all’Iniziativa di Turismo, a Managua sono stati
presentati quello relativo all’Iniziativa di
Sviluppo Umano ed una nuova strategia di
‘diffusione’ del Plan, elaborata sulla base dei
risultati di una ricerca commissionata nel
corso del 2003 al prestigioso studio
americano Fleishman-Hillard, ed intitolata
“Análisis De Clima De Opinión Regional y
Recomendaciones”6. Nel contempo, la
delegazione messicana ha presentato una
propria Agenda annuale per quanto riguarda
attività di consultazione con le popolazioni
indigene della Regione Sud-est7.
Il pesante ritardo con cui queste si stanno
attivando, tanto in Messico quanto in Centro
America, dove tali strategie sono finanziate,
programmate e realizzate direttamente dal
volontà di conoscere l’opinione pubblica rispetto al
PPP e quella di rendersi conto di quali siano i
settori della società civile che rappresentano un
ostacolo alla realizzazione del Piano.
5
Mecanismo de Tuxtla, Declaración Conjunta De
La Quinta Cumbre Del Mecanismo De Diálogo Y
Concertación De Tuxtla, 28 giugno 2002.
http://www.iadb.org/ppp/files/documents/OTRO/O
TRO-New/DeclaracionMerida.pdf
6
“Analisi del clima di opinione a livello regionale e
raccomandazioni”.
http://www.iadb.org/ppp/files/documents/OTRO/O
TROICP/ReporteFinal%20PPPFleishmanHillardw
eb.doc
7
L’uso del condizionale è d’obbligo dato che non
è stato possibile ricavare informazioni più
dettagliate rispetto a questo aspetto. Ci limitiamo
così a riportare quanto descrittoci da Cesar
Bustamante, responsabile del PPP nell’ufficio del
BID in Messico, in un’intervista sostenuta dieci
giorni prima della riunione di Managua.
Bustamante ha anche confermato che sinora il
Messico non ha effettuato alcuna consultazione
con le popolazioni indigene e che, comunque, il
Governo Fox terrà una propria agenda al riguardo,
diversa da quella del BID. Ciò è stato affermato
anche da Mr. Antinori, responsabile del PPP
presso il BID, in occasione della riunione del
12/02/04 tra ONG e BID, quando ha ricordato che
il Messico non può essere incluso nella strategia
di Informazione, Consultazione e Partecipazione
promossa dalla Banca perché il suo denaro non
proviene dal BID.
10
personale
della
BID,
consente
di
comprendere i motivi di una forte opposizione
al modello di sviluppo economico delineato
dal PPP.
La resistenza descrive la realtà di una
cittadinanza che chiede a gran voce la
possibilità di una concreta partecipazione
tanto nella fase di progettazione quanto in
quella di attuazione dei piani di sviluppo
regionali, e che risponde, costruendo
alternative di fatto, ad un’evidente chiusura
da parte sia della classe politica che dei
funzionari governativi incaricati dei progetti
inseriti nell’ambito delle iniziative del Plan
Puebla Panama.
Un’analisi dei progetti in corso evidenzia
infatti come oggi la creazione di infrastrutture
stradali risponda in primo luogo alle esigenze
strategiche dello sviluppo del mercato
statunitense, garantendo costi più bassi per il
trasporto di inputs ed outputs, piuttosto che a
quelle degli abitanti della Regione. Si punta a
catturare l’interesse e gli investimenti delle
imprese multinazionali (principalmente del
comparto maquilador), attratte dalla presenza
nella Regione di manodopera a basso costo,
piuttosto che a favorire l’accesso ai mercati
per i prodotti del settore agricolo.
L’iniziativa
di
integrazione
energetica
regionale (la costruzione della Línea
SIEPAC) è accompagnato in tutti i paesi del
Centro America dalla privatizzazione delle
imprese elettriche nazionali, e prevede anche
la costruzione di dighe e centrali
idroelettriche. Progetti che rispondono in
primo luogo agli interessi delle imprese
private, la maggior parte delle quali
transnazionali. Perciò, difficilmente potranno
rispettare la sovranità nazionale e le esigenze
di coloro che vivino e lavorano le terre che
verranno inondate dai nuovi invasi.
Anche quello che viene definito come
sviluppo sostenibile è in realtà un insieme di
azioni i cui obiettivi risultano essere la
legalizzazione del furto delle ricchezze
biologiche della Regione (in corso da anni,
peraltro) e l’allontanamento delle popolazioni
indigene dalle zone più ricche di risorse
naturali. In tale ottica, i cittadini e la
popolazione
indigena
vengono
visti
unicamente come una possibile causa di
instabilità sociale e della fuga (o del mancato
arrivo) del capitale internazionale.
Per finire il turismo, presentato come
“ecologico” e “sostenibile”, è solo un’altra
faccia del percorso che porta alla
privatizzazione della terra e delle risorse
naturali della Regione.
Ciò ci porta ad affermare, con J. M.
Sandoval8, che “il PPP [non] sia [altro che] la
strategia del regime di Fox per integrare
[sempre più] la regione del sud-est del
Messico e dell’istmo centroamericano nelle
dinamica del neoliberismo, per approfittare
delle risorse energetiche e naturali della
regione e costruire un ponte tra Nord e Sud
America, facilitando così la creazione
dell’Area di Libero Commercio delle Americhe
(ALCA)9.
È evidente che il Plan Puebla Panama non
sia mosso da altro proposito se non quello di
dotare la regione mesoamericana delle
infrastrutture necessarie affinché possano
dispiegarsi compiutamente nella regione i
‘vantaggi’ del libero scambio.
Tali infrastrutture sono infatti essenziali per
garantire l’“efficacia” dell’Area di Libero
Commercio delle Americhe (ALCA) che si
vorrebbe creare a partire dal 2005, se è vero
che la stessa Banca Mondiale, nel
documento di valutazione elaborato in
occasione dei 10 anni dall’entrata in vigore
del NAFTA (North American Free Trade
Agreement), non ha mancato di evidenziare
che, se il libero commercio non ha potuto
cambiare la condizione di sottosviluppo e
marginalità degli stati del Sud del Messico,
ciò è dovuto proprio alla mancanza delle
condizioni strutturali (e sociali) che avrebbero
reso effettiva e vantaggiosa l’apertura agli
investimenti del capitale straniero.
Il PPP è visto da molti (Sandoval, Fazio)
come un vero e proprio Cavallo di Troia,
8
Ricercatore in specifico sui temi di
militarizzazione e migrazione. È direttore del
Seminario permanente de estudios chicanos y de
frontera dell’Istituto Nazionale di Antropologia e
Storia (INAH).
9
8 Juan Manuel Sandoval, El PPP como
regulador de la migracion laboral, in A. Bartra,
coordinatore, op. cit., pag. 251
11
utilizzato dagli Stati Uniti d’America per
penetrare economicamente nella regione
mesoamericana, sfruttando a tal fine anche “i
vantaggi rappresentanti dalla integrazione
subordinata10 raggiunta dal Messico con i
paesi del Centro America per mezzo dei
trattati di libero commercio firmati a partire dal
1995”11.
Il profondo contrasto tra l’evidenza e la
propaganda ufficiale rispetto al PPP è acuito
anche dalle dichiarazioni del Presidente
colombiano Alvaro Uribe che chiede a gran
voce “una totale integrazione della Colombia
al Plan Puebla Panama”12. La sigla del PPP
significherebbe
adesso
Plan
Puebla
Putumayo, dal nome del dipartimento
meridionale del paese da lui governato.
Tale integrazione inizierebbe con una linea di
interconnessione elettrica tra la Colombia e
Panama, i cui studi preliminari sono stati
consegnati nel mese di aprile del 2004, per
proseguire poi con il secondo progetto per la
costruzione di un gasdotto, con l’aspettativa
che esso unisca non solo la Colombia con
Panama ma anche con il Venezuela.
Secondo il presidente, “ciò è necessario per
unire il continente dagli Stati Uniti [d’America]
fino alla Patagonia”13.
Il legame segnalato tra l’ALCA ed il piano di
sviluppo economico promosso dal Governo
Fox è verificabile anche analizzando due
ulteriori aspetti, rilevanti nello sviluppo del
sogno egemonico degli Stati Uniti d’America
sul continente americano, la cui realizzazione
è sempre più necessaria a fronte dalla forte
concorrenza per il controllo dell’economia
mondiale rappresentata dall’Unione Europea
e dal Giappone14.
Stiamo parlando del controllo militare e di
quello dei flussi migratori.
Nel documento Santa Fé II, testo
programmatico della strategia USA nel
continente americano nella decade degli anni
9015,
è
possibile
trovare
riferimenti
all’esigenza per gli Stati Uniti d’America di
contenere il flusso di migranti che,
illegalmente, superano la frontiera nord del
Messico per cercare occupazione come
braccianti agricoli in Texas o Arizona o nelle
cooperative di servizi della California. Nel
documento,
il
comparto
maquilador,
l’industria
dell’assemblaggio,
viene
13
10
Come descritto in modo dettagliato da Armando
Bartra, Sur. Megaplanes y utopias en la America
equinoccial, in A. Bartra, coordinatore, op. cit.,
pag. 27. “La relazione economica tra il Messico ed
i paesi del Centro America è profondamente
asimmetrica: per ogni dollaro esportato in Messico
dalle 7 economiche istmiche, esse importano da
questo paese beni per 4 dollari. Dall’altra parte,
per il Messico questa relazione commerciale è
poco rilevante, dato che per ogni dollaro di
esportazione verso i sette vicini del sud, ce ne
sono 11 ai ‘soci’ del nord, e in quanto alle
importazione messicane, la percentuale che ha
origine centroamericana è insignificante. Le
economie dei paesi poveri guardano in alto e
l’articolazione tra Mesoamerica e Nord America,
con il Messico come cerniera, conferma
l’affermazione”.
11
Non è un caso che sia in corso di negoziazione
anche un Trattato di Libero Commercio per
l’America Centrale (CAFTA, Central America Free
Trade Agreement). La citazione è tratta da Juan
Manuel Sandoval, op. cit., in A. Bartra,
coordinatore, op. cit., pag. 251.
12
“Reforma”, Plantea Colombia sumarse al PPP,
México D.F., 14 gennaio 2004.
Ibidem.
Gli Stati Uniti [d’America, N.d.R.] affrontano oggi
la concorrenza europea e giapponese. L’UE è
cresciuta, come sappiamo, nel proprio processo di
integrazione e, inoltre, ha trovato un’area
sfruttabile nei paesi dell’ex blocco socialista, visti
come una nuova periferia sottosviluppata. Il
Giappone mantiene la propria grande influenza
sull’area asiatica dove l’economia ha un peso
importante. Perciò, per gli Stati Uniti, creare in
America Latina un’unica regione sotto il proprio
dominio e comando è una forma di far fronte a
questa concorrenza tra i grandi centri di potere
economico; significa rafforzare il controllo sulla
regione nella battaglia per il controllo di mercati ed
investimenti, per la collocazione del capitale
speculativo, per l’accesso alle risorse naturali […]”
citazione tratta da O. Martinez, ALCA – El
proyecto de anexion de America Latina a Estados
Unidos en el siglo XXI, in CRIE, Construyendo,
No. 181-182, dicembre 2001 – gennaio 2002, pag.
14.
15
AA.VV., Documento de Santa Fé II, Una
estrategia por America Latina en la decada de
1990, Santa Fé, 1988.
http://www.geocities.com/proyectoemancipacion/d
ocumentossantafe/santafeii.doc
14
12
presentato come valvola di sfogo e di
‘parcheggio’ dei potenziali migranti16.
“lavoratori ospiti”, la regolarizzazione della
posizione degli illegali.
Si
tratta
soprattutto
di
cittadini
centroamericani (ma anche latinoamericani e
asiatici) che normalmente entrano in Messico
attraversando la frontiera Sud, con il
Guatemala, o Est, con il Belize, ed
attraversano tutto il paese per arrivare poi a
coronare il loro “sogno americano”.
A partire dal 1 luglio 2001 iniziò così il Plan
Sur con l’obiettivo di eliminare quelle
eventuali ‘porosità’ (corruzione dei funzionari
dell’Istituto Nazionale di Migrazione in primis)
che permettevano il passaggio di migranti
illegali attraverso la frontiera tra Messico e
Guatemala. Tale piano ha causato una
crescente militarizzazione di tutta la regione
meridionale del paese (con la presenza di
corpi dell’esercito e corpi di polizia da questo
addestrati) sino all’Istmo di Tehuantepec, il
collo di bottiglia che nessun migrante
dovrebbe oltrepassare. Un accordo con il
governo guatemalteco prevede inoltre che
questo si impegni per inviare al proprio paese
di origine tutti gli indocumentados che si
trovano sul territorio nazionale.
Già prima dell’11 settembre del 2001 i
problemi migratori rappresentavano per gli
Stati Uniti d’America una questione di
sicurezza nazionale ed al Governo (amico)
messicano è stato richiesto un impegno per
contrastare in modo efficace l’immigrazione
clandestina a partire dalla propria frontiera
sud. In cambio furono promessi alcuni
provvedimenti che avrebbero dovuto allentare
la pressione sui migranti messicani, quali la
concessione di un maggior numero di visti
per lavoro, un programma temporale per
16
“Gli Stati Uniti dovranno riconsiderare il
programma di Impianti Gemelli/Industrie di
Frontiera con il Messico, alla luce dei possibili
costi economici e sociali di lungo periodo per
entrambe le repubbliche. Le maquiladoras lungo
la frontiera messicana-nordamericana, hanno
portato impiego a centinaia di migliaia di
messicani. Senza dubbio, non è chiaro se lo
stesso beneficio si sia dato per i lavoratori
nordamericani. Inoltre, i milioni di messicani che
sono stati attratti verso il nord, e le cui aspirazioni
non sono state soddisfatte, tendono ad entrare
negli U.S.A. attraverso la frontiera e ciò accelera
ulteriormente la immigrazione illegale. Molti dei
messicani che oltrepassano la frontiera sono
uomini che non possono ottenere un impiego
presso le maquiladoras, giacché le principali
abilità manuali ed il lavoro a cottimo sono
realizzati in modo migliore dalle donne. […] La
concentrazione di nuove industrie lungo la
frontiera settentrionale del Messico ha reso ancor
più disequilibrato il già irregolare sviluppo del
paese. Perciò, le industrie nordamericane
dovrebbero considerare la possibilità di spostare
le proprie macchine molto più all’interno del
Messico. Questo spostamento verso il sud
aumenterebbe lo sviluppo equilibrato del Messico,
promuoverebbe le industrie locali, stabilizzerebbe
la famiglia messicana ed aiuterebbe a risolvere
alcune delle condizioni sociali e sanitarie stimolate
per il Programma di Industrie della Frontiera. Nel
lungo periodo, tale spostamento verso l’interno del
Messico, beneficerà entrambi i paesi”.
La militarizzazione di tutto il continente
americano, ufficialmente legata ai problemi
migratori nonché alla lotta contro il traffico di
sostanze stupefacenti, è in realtà uno
strumento per il controllo delle risorse
energetiche e per la salvaguardia di quella
fittizia stabilità politico-sociale creata negli
anni reprimendo nel sangue (intervenendo
direttamente con l’esercito USA o imponendo
dittature amiche) o indebolendo i movimenti
di liberazione nazionale che sono cresciuti in
molti dei paesi dell’area17.
Non dobbiamo però dimenticare che il
Messico è a sua volta un grande espulsore di
migranti18: ogni anno sono centinaia di
migliaia i contadini e gli indigeni costretti ad
abbandonare la propria terra per effetto delle
politiche neoliberiste e, incapaci di trovare un
impiego nell’industria maquiladora, vedono
nell’oltrepassare la frontiera l’unica possibile
situazione ai propri problemi.
Si calcola oggi in 8-10 milioni il numero di
messicani nati in Messico e residenti dall’altro
lato del Rio Bravo, le cui rimesse inviate ai
17
Si ricordano, tra le altre, le azioni in Guatemala
(1954, 1960, e 1967/69), Cuba (1959-2004), Cile
(1973), Argentina (1976), Granada (1983), El
Salvador (decade del 1980); Nicaragua (decade
del 1980); Panama (1989).
18
Ogni 100 persone che tentano di entrare
illegalmente nei confini degli Stati Uniti d’America,
40 sono cittadini messicani.
13
parenti sono state nel 2003 di 14 miliardi di
dollari, seconde solo ai guadagni per
l’esportazione di petrolio (18,6 miliardi) nelle
composizione del reddito nazionale. Il valore
di tali rimesse supera di gran lunga quello
degli investimenti esteri (9,4 miliardi di dollari)
e del turismo (4,1 miliardi) e sostiene
un’economia nazionale in perenne crisi, la cui
crescita nell’ultimo triennio sfiora lo 0%.
La militarizzazione dovrebbe garantire inoltre
una percezione positiva della situazione
politico-sociale della regione da parte degli
investitori. Aspetto che, insieme alla
dotazione d’infrastrutture prevista dal PPP e
la contro-riforma agraria in corso, dovrebbe
attrarre finalmente il capitale straniero, per il
quale la sola presenza di manodopera a
basso costo non rappresenta una vantaggio
economico assoluto.
Tali investimenti dovrebbero poi convertirsi in
milioni di nuovi impieghi nella regione sudorientale del Messico, verso i quali attrarre i
contadini costretti ad abbandonare le proprie
comunità (soprattutto a causa della
controriforma agraria in corso), dando così
vita, in una sorta di circolo virtuoso del
neoliberismo, ad una valvola di sfogo in
grado anche di limitare l’immigrazione verso
gli Stati Uniti d’America.
Il quadro presentato nel corso dell’articolo
descrive il “destino maquilador” della regione.
L’obiettivo, ben lungi dall’esser raggiunto e
raggiungibile, rivela il motore di fondo della
strategia di sviluppo economico che il
Governo sta attuando nella regione.
È evidente anche l’importanza, in tale
disegno,
della
Legge
di
Riforma
Costituzionale in materia Indigena approvata
dal Congresso messicano nel corso del 2001:
essa rappresenta infatti parte di quel
processo di contro-riforma agraria il cui
obiettivo è quello di “rendere alienabili quelle
terre che sono oggi sotto il regime ejidal o
comunale, per poi destinarle ad un’agricoltura
di piantagione una volta privatizzate”19.
PPP pretende di convertire i contadini
indigeni del sud-est in salariati ipersfruttati di
fabbriche di assemblaggio, urbane o semiurbane. Uno degli obiettivi primordiali di tale
politica è spostare i contadini indigeni dai
campi alle città, con l’obiettivo di separarli
dalle loro terre e dalle risorse naturali che
queste contengono”20.
L’attuazione di tale disegno non appare
tuttavia scontata.
“A due anni dall’avvio del Plan Puebla
Panamá (PPP), e nonostante gli investimenti
già canalizzati, non si è riusciti a coordinare
gli sforzi delle autorità statali e federali con
quelli dei governi centroamericani, per
rendere concreti i suo obiettivi. Intervistati in
diverse occasioni [nel novembre del 2004], i
governatori di Yucatán, Campeche, Tabasco
e Chiapas hanno tutti segnalato che le risorse
stanno arrivando molto lentamente, e che la
azioni del PPP non avanzano al ritmo che
richiede la regione Sud-Sudest del paese, e
che nel caso la situazione non cambi
passeranno altri 15 anni prima che il progetto
si consolidi”21.
Nel 2005, dopo due anni di budget ‘risicati’, il
Governo destinerà nuovamente un impegno
economico importante agli investimenti
nell’ambito del PPP, nella Regione SudSudest del paese.
Il ‘progetto’ di preventivo di spese per la
Nazione
dell’anno
2005
evidenzia
l’assegnazione di 3.625.135,582 pesos, 4,1
volte in più che nel 2004.
Come sempre, il preventivo maggiore
riguarda gli investimenti nella costruzione di
infrastrutture,
ed
il
Ministero
di
Comunicazione e Trasporti, incaricato
dell’implementazione di questi progetti,
riceverà 2.676.900,003 pesos, 3,26 volte in
più che nel 2004.
Secondo Carlos Fazio, “con la carota dello
sviluppo e delle creazione di posti di lavoro, il
La crescita più alta (in termini percentuali) lo
registrano gli investimenti nell’ambito della
Salute (con un preventivo 429 volte più alto
rispetto a quello del 2004), sebbene la
maggior parte di queste spese serviranno a
finanziare due strutture (ospedali) di Alta
Specializzazione, in Yucatan e Oaxaca.
19
20
C. Fazio, El juego de poder y el contendo
geopolitica del Plan Puebla Panama, in CRIE, op.
cit., pagg. 62-63.
Ivi, pag. 63. Corsivi dell’autore.
Y. Moguel/Finsat, Una torre de Babel el Plan
Pueble Panamá, El Financiero, 4 novembre 2004.
21
14
Siamo dubbiosi sulla capacità di rispondere,
attraverso progetti del genere, alle esigenza
sanitarie della gente, in zone rurali e
marginali, dove la diarrea e le infezioni
respiratorie sono ancora una grave causa di
morte.
Ma non è questo ciò che preme al Presidente
Fox, quanto piuttosto gli interessi dei potenti
investitori, potenzialmente attratti nella
Regione.
Di fronte a questa situazione, oggi, sono le
organizzazioni sociali, indigene e contadine,
di quello che viene definito il “Messico
profondo”23 a riempire il vuoto politico
nazionale, ed a rappresentare l’unica
speranza per un futuro diverso del paese nel
pieno rispetto dell’identità e della sovranità
nazionale.
Nonostante l’importante incremento nel
preventivo 2005 per il PPP (che avviene
proprio in un anno pre-elettorale, dopo 2 anni
di ‘stanca’), persistono dubbi sulle possibilità
che l’implementazione di questi nuovi progetti
possano dare il là alla crescita economica di
cui ha bisogno la regione. Le difficoltà
dell’economia statunitense (e di quella
messicana,
come
conseguenza
della
dipendenza economica), dopo l’11 settembre
del 2001, hanno creato problemi inaspettati
per il finanziamento delle opere.
E nemmeno i dubbi (politici) rispetto al PPP
espressi dai governato della Regione,
favoriscono il cammino di sviluppo del Piano,
sebbene rimanga chiaro il disegno del
Presidente, che mira a creare le basi delle
infrastrutture necessarie per l’Area di Libero
Commercio
delle
Americhe
(ALCA).
Riteniamo, che il PPP promosso da Fox
fallirà insieme con il progetto dell’ALCA, che
non è entrato in vigore a gennaio 2005, come
inizialmente previsto dal governo degli Stati
Uniti d’America.
Per fortuna, l’elettorato messicano ha ormai
riconosciuto il grave rischio insito nelle
politiche economiche attuate da una classe
dirigente che sta spingendo il paese verso il
baratro, dopo aver cancellato in questi primi
quattro anni di Governo le speranze di
cambiamento che riempivano le colonne dei
giornali nel luglio 2000, al momento
dell’elezione di Vicente Fox. La risposta
dell’elettore messicano medio è stato un
astensionismo del 60% in occasione delle
elezioni di medio termine che, il 6 luglio del
2003, rinnovavano la metà del Parlamento
Federale22.
22
Editorial: El triunfo de la abstencion, “La
Jornada”, 7 luglio 2003; L. Hernandez Navarro,
Ocho aproximaciones a unas elecciones
olvidables, “La Jornada”, 7 luglio 2003.
23
La definizione del Messico indigeno e contadino
come “Messico profondo” (México profondo) è
dello storico Guillermo Bonfil Batalla.
15
2. Il Nafta e lo sviluppo rurale in
Messico
Gli effetti del Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord
(TLCAN) sullo sviluppo rurale in Messico.
di M. Pickard
Riassunto: lo scorso 9 settembre una
versione leggermente distinta del seguente
saggio è stata presentata al “Primo Incontro
Nazionale sui trattati di libero commercio e
sviluppo rurale”, realizzato dalla Facoltà
d’Agronomia dell’Università “San Carlos de
Guatemala”, a Città del Guatemala.
Nel saggio si mettono a confronto le
promesse che sono state fatte 11- 12 anni fa
in Messico, quando il governo di Carlos
Salinas de Gotari tentò di “vendere”, allo
scettico pubblico messicano, i vantaggi che,
nei seguenti dieci anni, avrebbe comportato
l’entrata in vigore del Trattato di Libero
commercio (TLCAN), ponendo particolare
enfasi sugli effetti relativi all’agricoltura.
Questa retrospettiva ed analisi dei risultati in
Messico riguarda, oggi, anche altre zone
dell’America Centrale poiché altri cinque
paesi della regione hanno negoziato il
TLCAUSA (Trattato di Libero commercio
Centro America Stati Uniti) che ora dovrà
essere ratificato dalle legislature nazionali.
Introduzione
Il titolo di questo saggio riflette alla lettera ciò
che mi è stato chiesto per questa relazione,
ma
contiene
anche
una
grande
contraddizione nel senso che ciò che è
accaduto in Messico, al settore agricolo,
dall’entrata in vigore del TLCAN è tutto meno
che sviluppo.
Potremmo addirittura parlare di un “desviluppo”, un “anti-sviluppo” se si preferisce,
poiché ciò che è avvenuto in territorio
messicano, non solo grazie a dieci anni di
TLCAN, ma anche a venti anni di
applicazione di politiche neoliberali, é stato
assolutamente disastroso. Dipingendo un
quadro generale della situazione, in Messico
si rilevano maggiori livelli di denutrizione,
povertà, abbandono, emigrazione, perdita
delle diversità genetiche di molte coltivazioni
autoctone del paese e della regione,
principalmente del mais, invasione di prodotti
transgenici i cui effetti sugli esseri umani
sono tuttora sconosciuti, e perdita per l’intero
paese di sovranità sulla gestione dei prodotti
alimentari, di sovranità in generale, ed una
ancor più lunga serie di elementi che
sostengono l’opinione che il risultato del
TLCAN sull’agricoltura è stato disastroso.
Bisogna chiarire: i disastri del TLCAN vanno
al di là dell’agricoltura e toccano altri aspetti
economici della vita in Messico, come la
politica e la cultura anche se qui
restringeremo i nostri commenti all’ambito
rurale. Bisogna anche dire che la situazione
che esporremo non è opera esclusiva del
TLCAN, ma risponde ad una situazione
generale d’abbandono del settore rurale da
parte dello Stato messicano che è cominciata
come un’indifferenza passiva (ciò che i
francesi chiamano laisser passer, lasser
faire) negli anni ’40, quando lo stesso Stato
decise
che
era
obiettivo
prioritario
l’industrializzazione del Paese e usò il settore
rurale come leva per l’industrializzazione a
spese dell’agricoltura. Ciò che era un
abbandono
passivo
si
trasformò
in
un’aggressione a partire dalla metà degli anni
’80 quando, per ragioni ideologiche proprie
del neoliberismo, lo Stato dichiarò che
avrebbe fatto la guerra ai contadini messicani
se questi non si fossero adeguati e non
fossero riusciti a competere con i mercati
internazionali.
Le utopie neoliberali, tipiche ancor oggi di
molti burocrati messicani, anche di fronte
all’evidente falsità dei supposti vantaggi del
TLCAN, impediscono di vedere ciò che è più
evidente. Salvo piccoli settori che hanno
tratto beneficio dal TLCAN, che alcune fonti
circoscrivono a non più di un migliaio di
persone e di grandi imprese24, le campagne
messicane ed i contadini messicani
agonizzano in una morte lenta che consuma
contemporaneamente
le
tracce
della
sovranità alimentare del Paese.
Promesse incompiute
Non è difficile risalire agli anni
precedenti all’entrata in vigore del TLCAN in
Messico,quando il governo si prodigava in
un’opera di convincimento del popolo sugli
effetti positivi che avrebbe comportato il
Trattato con gli Stati Uniti e il Canada. Un po’
di tempo passato in un’emeroteca ci
aiuterebbe a ricordare le promesse e gli
impegni presi a quel tempo: ci dissero che il
Messico si stava collocando nella “scia del
primo mondo” e aveva solo bisogno della
spinta del TLCAN per raggiungerlo, che il
TLCAN avrebbe convertito i territori agricoli
inefficienti in zone altamente produttive e
commerciabili; che i contadini meno “
moderni ” ,che non erano in grado
d’esportare, sarebbero stati assorbiti come
manodopera nel moderno e crescente settore
dell’industria d’esportazione; che il Trattato
sarebbe stato “ sensibile ” rispetto alla
produzione
di
cereali
basici
per
l’alimentazione messicana, attribuendogli fino
a 15 anni di protezione durante i quali
24
Gómez Cruz, Manuel Angel y Rita
Schwentesius, “Desastroso impacto del TLCAN
en el sector agroalimentario: es urgente una
posición del legislativo para su revisión”, p. 10.
sarebbe stata definita una quota fissa
d’importazione,con tariffe doganali imposte
alle importazioni eccedenti da tale quota; che
per i messicani gli alimenti sarebbero stati più
economici.
Il TLCAN in quegli anni fu inteso come
sinonimo di maggiori esportazioni, più posti di
lavoro, maggiori investimenti, alimenti di
migliore qualità ad un prezzo più
basso,diminuzione della povertà….ecc.
Purtroppo quasi tutte quelle promesse si
sono rivelate false, ma perché non dirlo
apertamente? Si trattava di menzogne poiché
risultò, sia in Messico sia negli Stati Uniti, da
numerose analisi, studi e modelli economici,
che i risultati non sarebbero stati per nulla
favorevoli per il Messico. Negli Stati Uniti, per
lo meno, gli analisti sapevano perfettamente
che si sarebbe provocato un esodo dalle
campagne e che ci sarebbe stato un aumento
delle emigrazioni verso le città e anche verso
gli Stati Uniti. Non è un caso dunque che lo
stesso anno dell’entrata in vigore del TLCAN,
il 1994, cominciarono le grandi manovre delle
pattuglie di frontiera statunitensi contro gli
emigranti, come l’“ Operazione Guardiano ” e
altre che sono state via via organizzate
insieme allo stanziamento di cifre sempre più
cospicue per il mantenimento della frontiera
Sud, per la costruzione di barriere,
l’installazione
d’apparati
sofisticati,
la
deviazione delle masse migratorie verso
regioni
inospitali
e
la
crescente
militarizzazione e paramilitarizzazione della
frontiera25.
Fino ad oggi niente ha potuto fermare
l’ondata
migratoria
di
messicani
e
centroamericani verso gli Stati Uniti. Perché?
Perché nei nostri Pesi non c’è lavoro. Che
faranno le autorità statunitensi nel momento
in cui non riusciranno a fermare gli emigranti
nemmeno con i proiettili di gomma che oggi
gli sparano e il cui uso fu autorizzato dallo
stesso governo di Vicente Fox? Quando
l’opzione per gli emigranti é affrontare un
proiettile di gomma nel deserto dell’Arizona o
la miseria permanente del suo luogo
d’origine?
25
La spesa degli Stati Uniti per il controllo delle
frontiere è cresciuta da 967 milioni di dollari del
1993 a 2.56 miliardi di dollari nel 1999. Nel 1999
c’erano 9000 agenti di frontiera, più del doppio di
quelli che c’erano nel 1993. Cifre di Anderson,
“Seven Years under NAFTA”, p.7.
17
Risultati macroeconomici
Soffermiamoci sui risultati delle tante
promesse relative all’agognato sviluppo che
TLCAN avrebbe dovuto comportare per il
paese, le quali risultano alquanto simili alle
promesse che i governi del centro-america
fanno ai propri popoli per favorire l’adesione
al TLCAUSA (Trattato di Libero commercio
Centro America- Stati Uniti).
Prima di tutto vediamo ciò che a prima vista
può sembrare positivo: il TLCAN ha sì
rispettato due delle promesse che furono
fatte agli inizi degli anni ’90: il TLCAN ha
comportato più investimenti per il paese ed
ha significato più esportazioni dal Messico
(non esportazioni “messicane”). Le cifre
parlano chiaro. Per ciò che riguarda le
esportazioni, il Messico oggi esporta il doppio
di ciò che esportava nel 1993, anno anteriore
all’entrata in vigore del TLCAN (61miliardi di
dollari nel 1994; 158 miliardi di dollari nel
2001). Per quanto riguarda gl’investimenti
privati, la cifra è superiore di tre volte a ciò
che entrava nel paese nel 1993 (in media 4,5
miliardi di dollari l’anno tra il 1998 e il 1993; in
media 13 miliardi di dollari l’anno tra il 1994 e
il 2002).
In effetti ci sono alcuni, anche se pochi, che
sono risultati “ vincitori ” con il TLCAN. Per
esempio, gli industriali agricoli della birra e
del tequila, i produttori e imballatori d’ortaggi
e frutta tropicale d’esportazione,gli importatori
di carne, di cereali (con Maseca e Misna in
testa), importatori di frutta e succhi ed anche
l’industria delle bibite. Sono esempi delle
migliaia d’imprese o persone che nell’ambito
rurale hanno prosperato grazie al TLCAN,
rispetto ai milioni di persone che sono risultati
“ perdenti ”.
Analizziamo per un momento i risultati
economici generali, a livello dell’intera
economia messicana, per contestualizzare le
virtù ed i vizi del TLCAN. Ci focalizzeremo su
due momenti, da una parte l’ondata di
liberalizzazione,o apertura economica che ha
preso piede in Messico all’inizio degli anni
’80; dall’altra, il periodo che decorre
dall’entrata in vigore del TLCAN, che
comincia il 1° gennaio, 1994. Entrambe i
periodi si estendono fino ad oggi.
Tanto nel periodo d’apertura, come durante il
TLCAN, la crescita dell’economica messicana
è andata diminuendo. Dalla forte crescita del
reddito pro-capite del 3.4% mantenuta per 30
anni, dal 1945 al 1975,gli anni cosiddetti del “
miracolo messicano ”, la crescita economica
si è quasi bloccata: dal 1985 al 2000 è stata
di meno dell’1%.
In quanto alle esportazioni, anche se
sicuramente il Messico si è convertito in uno
dei maggiori esportatori del mondo, all’11°
posto al mondo, bisogna anche ricordare che
il Paese importa più di ciò che esporta, dato
che si traduce in una bilancia commerciale
cronicamente deficitaria. Nel 2003, il deficit è
salito a 14.500 milioni di dollari, vale a dire
4.3 volte gli stanziamenti federali a sostegno
dell’agricoltura di quello stesso anno.
Dall’entrata in vigore del TLCAN, solo per
l’acquisto d’alimenti, il Messico ha erogato 78
miliardi di dollari, cifra superiore al debito
pubblico del Paese (74 miliardi di dollari).
Si tratta in gran parte di alimenti che prima
erano prodotti in Messico e che ora devono
essere importati.
Rispetto all’occupazione, ci furono grandi
aspettative relative all’incremento di posti di
lavoro da parte del TLCAN, ma nella realtà
c’è stata un calo netto nella crescita
dell’occupazione, vale a dire che in media si
creavano più posti di lavoro in Messico prima
del TLCAN che dopo. Il Presidente Fox, nella
sua recente relazione al paese dello scorso
1° settembre, si è fregiato di aver creato, nei
tre anni della sua amministrazione, mezzo
milione di posti di lavoro. Si è però
dimenticato di dire che per far posto ai
giovani che anno dopo anno integrano la
nuova forza lavoro, l’economia dovrebbe
generare circa 750.000 posti di lavoro l’anno.
Vale a dire che, durante l’amministrazione
Fox, l’economia avrebbe dovuto generare
circa 2.250.000 posti di lavoro, cifra di fronte
alla quale impallidisce quella di mezzo
milione di nuovi posti di lavoro. Inoltre, la
maggior parte degli impieghi generati in
questi anni riguardano il settore sommerso
nel quale non esistono regolamentazioni delle
prestazioni lavorative né salario minimo
garantito.
Parlando solo del settore agricolo la
Segreteria del Lavoro (STPS) indica che
dall’entrata in vigore del TLCAN si sono persi
1.780.000 posti di lavoro, 600.000 dei quali
relazionati con le colture cerealicole di base.
I salari reali sono più bassi che mai. Il salario
minimo, dall’entrata in vigore del TLCAN, è
sceso del 23% in termini reali (di potere
18
d’acquisto) e del 60% dal 1982. I salari
contrattuali sono scesi del 55% dal 1987, e
del 12% dall’entrata in vigore del TLCAN. Il
60% dei lavoratori non percepisce nessuna
delle prestazioni attribuitegli dalla legge
messicana, il 33% della popolazione
economicamente attiva (PEA) si colloca nel
settore informal.
Tutto ciò si traduce in più povertà. Il numero
di famiglie povere è cresciuto dell’80% dal
1984, e più del 60% della popolazione vive in
povertà. In Chiapas, dove la crisi del prezzo
del mais si somma a quella del caffè si stima
che circa il 70% della popolazione vive in
condizioni di estrema povertà. Parlando in
modo specifico della popolazione rurale,
l’80% vive in povertà e più del 50% in
condizioni di estrema povertà.
Non solo è aumentata la povertà, ma anche
la disuguaglianza. Il coefficiente Gini, (ossia il
parametro che misura le differenze tra le
classi sociali) è passato da 0.43 a quasi 0.5
dal 1984 ad oggi, il che colloca il Messico tra i
paesi con più disuguaglianza di tutto
l’emisfero sud e del mondo intero.
La triste situazione non termina qui: per
quanto riguarda l’ambiente, il governo
stimava che i costi di degradazione
ambientale (che ha subito un’accelerazione
durante il TLCAN) nel 2003 sarebbero stati
pari al 10% del PIL cioé intorno ai 36 miliardi
di dollari. L’incremento del PIL nel 2003 è
stato di soli 9.4 miliardi di dollari.
E per quanto riguarda gli alimenti a prezzi più
bassi che il TLCAN ci avrebbe messo a
disposizione? Terminiamo questa lunga lista
di problemi dicendo che semplicemente
questa promessa non fu altro che
un’esercizio retorico. Dal 1994 al 2002, i
prezzi del paniere di alimenti basici
aumentarono del 257%, mentre i prezzi al
produttore agricolo s’impennarono del 185%.
Vale a dire che le importazioni fecero più
pressione sui prezzi al produttore che sui
prezzi al consumo.
Riassumendo, il paese oggi è più povero, con
più disuguaglianza, con meno occupazione e
più fame che dieci o vent’anni fa. Le politiche
neoliberali nel nostro paese semplicemente
non hanno funzionato e,grazie al TLCAN,
oggi lo Stato non possiede gli strumenti di
politica economica per correggere la
direzione della nave in modo favorevole al
popolo messicano.
Il TLCAN è molto più di un trattato di libero
commercio, anzi, non è nemmeno un accordo
principalmente commerciale, ma è parte di un
enorme progetto di revisione delle regole del
sistema economico a favore, quasi
esclusivamente, delle imprese multinazionali
e dei paesi sviluppati.
Ricordiamo che l’apertura o liberalizzazione
dell’economia messicana è cominciata molto
prima (circa dieci anni prima) dell’avvento del
TLCAN. Dagli anni ’80, i governi messicani
che si sono succeduti hanno diminuito le
tariffe,ridotto i sussidi nazionali all’industria,
ridotto il ruolo del governo nella conduzione
delle strategie economiche e di sviluppo del
paese. Il contributo del TLCAN è stato solo
quello di accelerare la liberalizzazione e di “
blindarla ” in modo che nessun governo
posteriore, specialmente uno di spinta
progressista, potesse cambiare le regole.
Già intorno al 1988, il popolo messicano
cominciò a risentire degli effetti della
liberalizzazione, principalmente a causa della
perdita di centinaia di migliaia di posti di
lavoro e per la diminuzione sostanziale del
potere d’acquisto dei salari. Quell’anno
ebbero luogo le elezioni presidenziali e il
popolo messicano votò contro il cammino di
liberalizzazione che aveva intrapreso il PRI
(Partido de la Revoluciòn Institucional) in quel
momento al governo, riversando una
montagna
di
voti
sul
candidato
dell’opposizione di sinistra: Cuauhtémoc
Càrdenas.
Con uno dei furti elettorali più sfacciati della
storia del Messico (che ne ha visti molti),
sostenuto dalla “caduta” del sistema di
computo dei voti la prima notte dello spoglio,
fu negata la vittoria di Càrdenas.
Così nel 1988 fu impedito il passaggio
democratico, ma l’allerta aveva suonato, in
modo particolare a Washington. Il pericolo si
sarebbe potuto ripresentare più in là. Di
fronte ad una tale eventualità si rendevano
necessarie una serie di misure che
assicurassero la continuità del progetto
neoliberale al di là delle velleità di qualunque
Presidente, soprattutto nel caso, come
nell’ipotesi più osteggiata dagli Stati Uniti,
dell’avvento al potere di un nazionalista di
sinistra come Càrdenas. I negoziati per il
TLCAN tra il Messico e gli Stati Uniti, ebbero
inizio appena un anno dopo il furto elettorale
del 1988.
19
La situazione nelle campagne messicane
Oggi il 22% della forza lavoro del
paese è impiegata nelle campagne. Il mais è
stato fin da tempi immemorabili, e continua
ad essere oggi, il principale prodotto agricolo,
occupando il 60% delle terre coltivate e
costituendo il 60% dell’intera produzione
agricola. Il mais rappresenta il sostentamento
totale o parziale di 18 milioni di americani.
Per comprendere la situazione attuale del
mais in Messico, analizziamo un’altra serie di
promesse che furono fatte nei mesi
precedenti alla ratifica del TLCAN. Si promise
che il Trattato avrebbe protetto le coltivazioni
“sensibili”, strategiche per il paese.
Nuovamente si trattò di demagogia.
Dopo appena due anni dall’entrata in vigore
del TLCAN, il governo messicano decise
unilateralmente di non far pagare i dazi
doganali che le stesse regole del TLCAN gli
davano diritto di riscuotere. Per quale
motivo? Per richiesta di chi?
Per favorire le grandi imprese agricole
messicane, Maseca e Minsa, l’allora
Presidente Carlos Salinas sospese la
riscossione dei dazi, permettendo che tali
imprese avessero così accesso a grandi
quantità di mais a prezzi economici. Mais che
è più economico di quello messicano, non
solo per una serie di fattori che rendono le
coltivazioni
agricole
particolarmente
favorevoli negli Stati Uniti, ma anche a causa
dei sussidi che il governo USA elargisce ai
suoi produttori. Tali sussidi raggiungevano un
tale livello e continuano a raggiungerlo che la
situazione configura un grave caso di
“dumping”. Sicuramente, come abbiamo già
visto, Maseca e Minsa ebbero un posto nella
ristretta elite dei favoriti dal Trattato,
producendo farine con il mais statunitense a
basso costo, in un momento in cui il prezzo
della tortilla sale senza pietà, a causa
dell’eliminazione, da parte del governo
messicano, dei sussidi al consumo.
Coloro che subirono maggiori perdite a causa
di questa valanga di tonnellate di mais furono
i contadini messicani. Diciotto milioni di
contadini subirono le conseguenze del crollo
dei prezzi del 45%,dovuto a questo
improvviso squilibrio. Allo stesso tempo il
governo messicano perse miliardi di dollari
che avrebbe potuto riscuotere come dazi
applicabili
agli
eccessi
d’importazione,calcolabili in 2.9 miliardi di
dollari per il mais e altri 77 milioni per i fagioli.
I problemi continuano :il governo messicano
per non dispiacere gli Stati Uniti ha rinunciato
anche ad ogni tipo di controllo sul tipo di mais
importato ,e di fatto esercita un controllo
sanitario molto limitato sulle carni e sui
prodotti agricoli provenienti da quel paese.
Nel caso specifico del mais,sono entrate
tonnellate di mais transgenico mescolate al
mais normale anche se sono tuttora
sconosciuti gli effetti sulla salute umana delle
varietà modificate geneticamente. Ciò che è
stato ampiamente provato è che il mais
transgenico contamina le varietà autoctone e
tende ad eliminarle ,rovinando la millenaria
opera di selezione delle varietà di mais più
adatte ai differenti microclimi operata dai
popoli indigeni. L’importazione di cibi
transgenici porta ad un’omogeneizzazione
delle specie cui consegue la dipendenza
dalle sementi vendute dalle imprese
multinazionali nonché una perdita di controllo
alimentare e il rischio d’epidemie che si
potrebbero moltiplicare tra le colture
omogenee.
La totale trascuratezza del governo
messicano nei confronti delle importazioni di
prodotti statunitensi contrasta con ciò che
accade dall’altra parte della frontiera.
I produttori messicani si devono confrontare
continuamente con restrizioni sanitarie e a
volte anche con veri e propri embarghi,
decretati dal potere legislativo o esecutivo
USA, i quali non solo si collocano al di fuori
dello spirito del TLCAN, ma a volte si tratta di
veri e propri atti illegali. L’abbandono delle
campagne da parte del governo messicano,
accelerato dal TLCAN, si pone in forte
contrasto con la protezione, l’appoggio e,
ancor più importante,i sussidi che il governo
degli Stati Uniti elargisce ai propri produttori
agricoli e in particolare alle imprese agricole
d’esportazione. Per esempio, nel 2003, il
“Farm Bill” ha stabilito un aumento del 70%
degli incentivi ai produttori locali. Il mais è, di
fatto, la coltivazione che riceve maggior
sostegno da parte del governo degli Stati
Uniti, basti pensare che nel 2000 le
sovvenzioni al grano raggiunsero la somma
di 10.100 milioni di dollari, dieci volte gli
stanziamenti
totali
del
Messico
per
l’agricoltura. Ricercatori specializzati hanno
calcolato in 105/145 milioni di dollari annuali, i
sussidi che il governo degli Stati Uniti
20
elargisce alle sole imprese che esportano in
Messico. Tale cifra supera le entrate totali di
250.000 produttori di mais dello stato del
Chiapas.
Non c’è da stupirsi, dunque, che le
esportazioni di mais dagli Stati Uniti al
Messico si siano triplicate dall’entrata in
vigore del TLCAN, invadendo il 33% del
mercato nazionale. E nemmeno ci si può
stupire che i produttori messicani vivano nella
miseria. Di fronti a sussidi di tale mole
qualunque riferimento dei burocrati messicani
alla presunta “inefficienza dei nostri contadini
rispetto alla produzione statunitense, diventa
assolutamente demagogica.
Altre cifre che tradiscono la profondità della
voragine economica che si sta scavando in
Messico grazie al TLCAN: prima del
TLCAN,nel 1993,il Messico importò 8.8
tonnellate di granaglie ed oleaginose. Nel
2002 già importava più di 20 milioni di
tonnellate dello stesso prodotto cui si devono
aggiungere grosse quantità di carni, frutta
proveniente da climi temperati e altre materie
prime
o
prodotti
elaborati
(riso,grano,latticini,tabacco,grassi
e
oli
vegetali,animali vivi e da macello,perfino
caffè, anche se il Messico ne è uno dei
maggiori produttori al mondo). Più che
esportare prodotti agricoli,il Messico li ha
importati a tonnellate, con un risultato
evidente agli occhi di chi vuole vedere:
migrazione dei produttori nazionali, aumento
della disoccupazione, annullamento della
sovranità sugli alimenti e la distruzione di
un’importante parte delle infrastrutture del
paese.
Le prospettive del TLCAUSA per l’America
centrale non regalano grandi illusioni
,soprattutto quando dettaglio più ,dettaglio
meno, tale trattato cerca similitudini con
TLCAN.
Strategie di sopravvivenza
Gli effetti del TLCAN sull’agricoltura
messicana sono stati negativi per tutti, ad
eccezione del piccolo gruppo d’individui ed
imprese che ne sono stati avvantaggiati. I
contadini messicani e le popolazioni indigene
stanno, però, lottando contro le forze che
cercano di separarli e si ribellano a chi gli
vuole sottrarre il controllo delle risorse
naturali, la terra prima di tutto, ma anche la
biodiversità, la legna, l’acqua, le risorse
energetiche e le altre materie prime. Per
cercare di sopravvivere a tale situazione, i
contadini hanno maturato alcune strategie . In
questa sede esporrò brevemente le strategie
adottate nello stato del Chiapas tenendo
conto che i dettagli specifici variano a
seconda delle differenti regioni del paese.
1. Espansione della produzione agricola
in particolare della coltivazione di
cereali di base e di altri prodotti
destinati
all’autoconsumo.
Tale
espansione si sta realizzando in terre
marginali e con rendimenti per ettaro
abbastanza scarsi. Trattandosi però di
autoconsumo,
lontano
dalle
oscillazioni del mercato, tutto ciò che
viene prodotto viene consumato.
2. Semina di prodotti vari (come caffè o
prodotti non tradizionali come fiori,
frutta “esotica o introdotta”, noce
macademia etc.) destinati alla vendita
e/o all’esportazione i quali portano un
guadagno modesto.
3. Espansione dell’attività d’allevamento
in mano a contadini indigeni,
esercitata in piccoli appezzamenti di
terreno e con piccoli margini di
guadagno che però generano un
minimo ingresso.
4. Sfruttamento delle risorse naturali più
disponibili (in particolare i boschi)
anche se non è possibile garantirne
uno sfruttamento sostenibile a lungo
termine.
5. Emigrazione di almeno parte della
famiglia verso le città del Messico o
degli Stati Uniti.
Per la maggior parte dei contadini e delle
comunità indigene del Messico, dunque, le
parole d’ordine sono: la terra non si vende.
Possederla un po’ di terra e farla produrre,
anche se solo per la sopravvivenza a medio
termine, per molti contadini e indigeni è
l’assicurazione sulla vita più affidabile di
fronte alle oscillazioni del mercato e alla
volontà delle imprese e del governo di
togliergli ciò che possiedono.
Futuro
A dicembre del 2002 si è formato in tutto il
paese un enorme movimento contadino di
rifiuto del TLCAN, che si manifestò con la
riunione di centinaia di migliaia di piccoli e
21
medi produttori nel centro di Città del
Messico. Il movimento, conosciuto come “ El
campo no aguanta màs” (la campagna non
ce la fa più), riuscì a riunire le proprie forze in
quattro blocchi ad adottare un'unica strategia
e a presentare un unico documento al
governo. L’Accordo Nazionale che nacque
come sintesi della tavola rotonda di dialogo
tra contadini e governo è costituito dai
seguenti punti:
1. Revisione del TLCAN
2. Sovranità alimentare come fulcro e
fondamento di tutte le politiche
agroalimentari e commerciali
3. Stanziamenti pluriannuali
4. Riforma strutturale della politica
agricola
5. Adempimento degli accordi di San
Andrés
(firmati
con
l’Esercito
Zapatista di Liberazione Nazionale)
6. Difesa e valorizzazione del patrimonio
territoriale delle comunità e delle
popolazioni indigene.
Anche se la presenza di organizzazioni
contadine più vicine al governo, le quali non
furono concordi nel richiedere che si
stabilissero dei termini per l’attuazione degli
patti, divise questo importante movimento e
debilitò le promesse che erano state ottenute,
le rivendicazioni che furono portate avanti
sono un eccellente punto di partenza per
eliminare i danni provocati dal TLCAN alle
campagne e all’intera società. L’Accordo
Nazionale, senza dubbio, sarà nuovamente
rivendicato prima delle prossime elezioni
federali del 2006.
Conclusioni
Il Messico ha negoziato uno scadente
trattato di libero commercio, pessimo se ci
riferiamo esclusivamente ai suoi effetti sulle
aree rurali. Il TLCAN ha poi dato luogo ad
altri aspetti, molto lontani dal commercio
propriamente detto, che hanno avuto
ripercussioni dannose in molti altri ambiti. Il
Capitolo 11 in particolare, dà alle imprese
multinazionali, diritti inauditi attraverso i quali
queste possono denunciare i governi
nazionali per qualunque legge, norma o
regolamento che interferisca con la
realizzazione delle proprie “ prospettive di
guadagno”. Ad oggi esistono già molti casi
d’imprese che hanno contestato atti
governativi di fronte al tribunale del TLCAN in
processi segreti che si sono risolti a loro
favore. Qualificando le leggi e norme
nazionali come un “espropriazione indiretta”
che deve essere risarcita obbligatoriamente,
il Capitolo 11 ha avuto un effetto devastante
per le leggi sull’ambiente, sulla protezione dei
lavoratori,sulle leggi sociali e incluso sullo
stesso processo democratico, non solo in
Messico,ma in tutti e tre i paesi che
partecipano al TLCAN. Il Capitolo 11sta
inoltre avendo un effetto di “censura
anticipata”, vale a dire ,i poteri legislativi a
tutti livelli si stanno astenendo dal
promuovere leggi che proteggano l’ambiente,
i lavoratori, la cultura, per timore che ci si
possa esporre ad una denuncia da parte di
qualche impresa multinazionale.
Il problema, però, non consiste tanto nei
trattati che si firmano, quanto nella mentalità
con la quale si attuano. Se tale mentalità è
quella del neoliberalismo o quella del
consenso di Washington, il risultato è quasi
assicurato: l’immensa base povera della
piramide sociale non otterrà nessun beneficio
e come abbiamo sperimentato in Messico da
decine di anni, la sua situazione tenderà a
peggiorare26.
Il punto focale intorno al quale si
contrappongono le opinioni dei sostenitori e
degli oppositori ai trattati di libero commercio,
consiste in due differenti idee di sviluppo. La
prima equipara lo sviluppo all’aumento del
capitale, alla presenza di grandi imprese, in
particolare imprese multinazionali, e al lavoro,
alla tecnologia e al capitale che dovrebbero
produrre. Tale concezione è elitaria ed
esclude dalla possibilità di partecipare al
processo di sviluppo una gran fetta della
società,inoltre nega la possibilità di dirigere
ed orientare l’economia a beneficio della
maggioranza della popolazione di uno Stato26
“Come disse il rappresentate messicano alle
negoziazioni (del TLCAN),’il migliore progetto di
questo paese è non avere nessun progetto
nazionale e lasciare che il mercato modelli il
migliore Messico possibile’. Questa teoria non ha
nessun fondamento storico. In nessun paese del
mondo il solo mercato ha portato sostenibilità e
giustizia sociale”. Da Arroyo, “Lecciones del
TLCAN: el alto costo del ‘libre’ comercio
(Resumen ejecutivo)”, p.5.
22
Nazione,e tanto meno di tener conto della
sua opinione. E’ la famosa teoria
dell’elargizione di benefici alla base grazie
all’attività della cupola.
Una seconda visione ,orientata verso la
società,si distacca dall’anteriore non solo per
la sua opposizione,ma anche in base alla
constatazione che tutti i paesi che oggi si
ritengono sviluppati,o del “Primo Mondo”,
sono passati per una forte ingerenza statale
nella determinazione di politiche che hanno
beneficiato
una
larga
fascia
della
popolazione,ad
esempio
con
l’industrializzazione
o
attraverso
la
determinazione di limiti e regole per gli
investimenti stranieri. Oggi il TLCAN nega
allo Stato la possibilità di adottare tali
politiche, ostacolando il percorso che tutti i
paesi oggi sviluppati hanno intrapreso nel
passato per fortificarsi al loro interno prima di
aprire le frontiere. Nessun paese sviluppato
ha mai dovuto sostenere la pesante pietra
che per i nostri paesi rappresentano i trattati
di libero commercio.
Nel mondo rurale, queste due visioni del
mondo e del futuro incontrano differenti
reazioni. Da una parte, la visione
predominante al giorno d’oggi, che in maniera
semplicistica riscontra i vantaggi nella
produzione di beni e servizi in una
diminuzione dei prezzi. Dall’altra una visione
più ampia che riconosce le molteplici funzioni
dell’agricoltura e non le riduce alla sola
produzione di beni agricoli al prezzo più
basso possibile. Tutti noi ci aspettiamo che
l’agricoltura assicuri beni genuini e di alta
qualità, che protegga l’ambiente, che vegli
sulle risorse limitate, che preservi il
paesaggio rurale e contribuisca allo sviluppo
delle aree rurali creando nuove opportunità
d’impiego27.
Vale a dire, “l’agricoltura non produce solo
beni in senso stretto, ma genera anche
servizi per la società il cui valore non è
retribuibile solo attraverso i prezzi degli
alimenti e delle materie prime”28.
E’ stato detto in altre occasioni: l’espansione
del commercio non è fine a sé stessa. Nel
migliore dei casi il commercio con altri paesi
può essere utilizzato per rafforzare
l’economia, ma il commercio “libero” da ogni
restrizione e controllo, l’assegno in bianco
dato in mano alle imprese multinazionali
perché facciano ciò che vogliono, produrrà
l’effetto che ha prodotto in Messico e che,ci
azzardiamo ad affermare, si ripeterà in
America centrale. Il “libero” commercio non
mitiga le disuguaglianze, non le elimina né le
annulla, al contrario, le accentua. Prima di
liberalizzare il commercio, abbiamo bisogno
di nazioni e popoli in salute, istruiti e in
condizioni di vita degne,con economie sane,
orientate
al
mercato
interno
o
regionale,generatrici di lavoro, che non
producano più fuga di manodopera all’estero.
In tal caso, il commercio giusto,che non
“libera”,
ma
compensa
la
profonda
asimmetria tra paesi ricchi e paesi poveri,può
essere un elemento utile ad una maggiore
prosperità della condizione umana.
27
Unione Europea, fonte non pervenuta.
Gómez y Schwentesius, “Impacto del TLCAN en
el sector agroalimentario: evaluación a 10 años”,
s/f, p.3
28
23
3. Il Cafta (Central America Free Trade
Agreement): un trattato nuovo per
politiche vecchie
di Luca Martinelli*
Premessa
Il primo gennaio del 2006 era stata designata
dal Governo Bush come la data per l’entrata
in vigore del CAFTA –Central America Free
Trade Agreement–, il Trattato di libero
commercio che lega i paesi centroamericani
(Costa Rica, El Salvador, Guatemala,
Honduras,
Nicaragua),
la
Repubblica
Dominicana e gli Stati Uniti d’America.
A pochi giorni dalla data stabilita, però, è
stato annunciato un ritardo: il CAFTA non
sarà attivo prima del mese di febbraio o
marzo.
La dichiarazione del portavoce dell’U.S.
Trade Representative’s Office (USTR)
informava della necessità di posticipare
l’entrata in vigore del Trattato perché
Costarica,
El
Salvador,
Guatemala,
Honduras,
Nicaragua
e
Repubblica
Domenicana
non
avrebbero
ancora
«armonizzato» le proprie leggi nazionali alle
disposizioni del CAFTA in merito a
concorrenza, servizi di telecomunicazioni,
servizi pubblici, trattamento riservato alle
imprese straniere.
Si tratta, né più né meno, di alcuni di quei
temi ancora non negoziati (e non negoziabili)
all’interno della World Trade Organization
(WTO) e che gli USA tentano perciò di far
passare attraverso le maglie –più deboli–
degli accordi bi- o multi-laterali29.
Firmato nell’estate del 2004, durante il 2005 il
CAFTA è stato al vaglio dei Parlamenti
nazionali e ratificato da tutte le parti ad
eccezione del Costa Rica30. Si tratta, per il
Governo USA, di un obiettivo economico ma
29
«I contenuti degli accordi di libero scambio
regionali e bilaterali sono molteplici e riguardano
anche aspetti non strettamente commerciali, come
avviene, d’altronde, anche in ambito multilaterale.
Oltre al tema dell’accesso al mercato, sia per i
prodotti agricoli, per quelli industriali che per i
servizi, troviamo settori specifici di questi ultimi,
come quello finanziario e delle telecomunicazioni,
i diritti di proprietà intellettuale, tre dei famosi
“Temi di Singapore”, vale a dire gli investimenti, gli
appalti governativi e regole sulla concorrenza, gli
standard lavorativi e ambientali. Non a caso,
questi accordi sono definitivi Wto Plus, non solo
perché contengono tematiche che non fanno parte
dei negoziati commerciali multilaterali, ma anche
perché su tutti questi aspetti si realizzano
liberalizzazioni più profonde». Sensi, Roberto, Gli
accordi regionali e bilaterali: uno sguardo
d’insieme, documento di lavoro Mani
Tese/Campagna per la riforma della Banca
Mondiale, gennaio 2006.
30
Il NAFTA è l’accordo di libero scambio che lega
tra loro le economie di Canada, Messico e Stati
Uniti d’America. È in vigore dal primo gennaio del
1994.
–soprattutto–
geopolitico31:
il
Trattato
rappresenta, infatti, a una dozzina di anni
dall’implementazione del NAFTAi –North
America Free Trede Agreement–, il seguente
(e conseguente) «passo» verso una nuova
colonizzazione (economica ma anche militare
e politica) dell’America Latina; un «passo»
reso ancor più necessario –negli ultimi anni–
dalla gravissime difficoltà che attraversano
tutti i processi di liberalizzazione negoziati a
livello multilaterale (e in particolare quelli in
seno alla WTO, con il fallimento sostanziale
dei negoziati multilaterali del Doha Round
durante le due ultime riunioni ministeriali di
Cancún –sett. 03– e Hong Kong –dic. 05–, e
quelli per la creazione di un’Area di Libero
Commercio delle Americhe –ALCA32–).
Riteniamo importanti tre considerazione
preliminari, volte a chiarire la natura
dell’accordo negoziato:
1. il Trattato di Libero Commercio non è
qualcosa di nuovo; rappresenta –piuttosto– il
punto di arrivo e la legalizzazione33 delle
politiche imposte nella regione a partire dagli
anni
80
nell’ambito
dei
Piani
di
Aggiustamento Strutturale, che dettero il via
ad una progressiva apertura delle frontiere
commerciali e finanziarie dei paesi.
Come riassume Joseph Stiglitz, prima di
iniziare a (tentare di) tracciare una nuova
agenda di riforme per l’America Latina34, che
31
Barahona, Amaru, “En el TLC hemos entregado
en bandeja nuestras ventajas más valiosas”, in
Revista Envío, Universidad Centroaméricana –
UCA–, Managua, settembre 2004; Alianza Social
Continental, “La ola del libre commercio”, luglio
2004. www.rmalc.org.mx
32
La negoziazione dell’ALCA è iniziata nel 1994,
subito dopo l’implementazione del NAFTA.
Originariamente, avrebbe dovuto entrare in vigore
dal primo gennaio del 2005. il processo, però, ha
subito numerosi stop, a partire dal 2003 e sino
all’ultima Cumbre de las Américas celebratasi in
Argentina nel novembre del 2005, legati al
ricambio politico nei paesi dell’America del Sud e
–in modo particolare– alla strenua opposizione di
Argentina, Brasile e Venezuela».
33
Marchetti, Peter e René Mendoza V., El TLC: un
fetiche que nos desempodera, in Revista Envío,
Universidad Centroaméricana –UCA–, Managua,
aprile 2005.
34
Stigltiz, Joseph, Hacia una nueva agenda para
América Latina. El rumbo de las reformas,
Universidad Andina Simón Bolivar – Sede
si preoccupi della riduzione della povertà e
delle trasformazioni sociali in corso prima che
della stabilità macro-economica:
«(a) le riforme aumentarono l’esposizione
dei paesi al rischio, senza accrescere la loro
capacità economica di affrontarlo;
(b) le riforme macro-economiche non sono
state equilibrate;
(c) le riforme spinsero alla privatizzazione e al
rafforzamento del settore privato, dando però
scarsa
importanza
ad
apportare
miglioramenti al settore pubblico»;
2. al CAFTA si accompagna, dal 2001, il
progetto del Plan Puebla Panama (PPP),
volto a creare –nella regione che comprende
nove stati del Sudest messicano e tutto il
territorio centroamericano– l’infrastruttura
fisica volta a rendere attrattivo per il capitale
internazionale l’investimento nella regione35 e
a permettere un più efficiente sfruttamento
delle risorse naturali.
Un progetto la cui realizzazione è subordinata
alla capacità dei Paesi della regione di
contrarre nuovi debiti presso le istituzioni
finanziarie internazionali e regionali (in
particolare, la Banca Interamericana di
Sviluppo e la Banca Centroamericana di
Integrazione Economica) e di attrarre
l’investimento privato già nella fase di
realizzazione del progetto (ad es., far
costruire un’autostrada ad un soggetto
privato europeo concedendo a questi una
concessione trentennale per la gestione del
servizio)36;
3. nonostante il Plan Puebla Panama venga
presentato come un progetto di integrazione
regionale, quello che manca –prima di tutto–
ai Paesi centroamericani sono processi di
Ecuador, Corporación Editora Nacional, Quito,
2004.
35
Nelle analisi della Banca Mondiale, infatti, è
stata proprio la mancanza di adeguate
«infrastrutture» (fisiche e sociali) a comportare il
sostanziale fallimento del NAFTA nelle regioni del
Sudest messicano. Esquivel, Gerardo, Daniel
Lederman, Miguel Messmacher e Renata Villoro,
¿Por qué el TLCAN no llegó hasta el sur de
México?.
36
Per un analisi dettagliata del Plan Puebla
Panama rimando a Martinelli, Luca, Mesoamerica
hacia el barranco: El Plan Puebla Panama y la
estrategia de liberalizacion “paso a paso”,
CIEPAC A.C., www.ciepac.org, 11 gennaio 2005
25
integrazione nazionale; le (più o meno
numerose)
minoranze
indigene
sono
ovunque escluse dalla gestione del Governo
e dell’indirizzo economico nazionale; i loro
diritti sono calpestati; vaste zone periferiche e
marginali, in tutto l’istmo centroamericano,
sono destinate a restare tali, senza essere
toccate dallo «sviluppo» e dal «progresso»: il
modello prevede che i «cittadini marginali»
siano ricollocati nei grandi corridoi industriali
(sedi dell’industria maquiladora) che si
svilupperanno intorno a arterie per l’alta
velocità (autopistas) costruite laddove ancora
oggi la maggioranza dei cammini non sono
ancora asfaltati. Paradossi dello sviluppo37.
La ratifica del Central America Free Trade
Agreement è avvenuta in un contesto di
generale opposizione. È interessante notare
come negli Stati Uniti d’America questa abbia
riguardato, anche il Congresso (che ha
passato l’accordo con 217 voti favorevoli e
215 contrari: uno scarto minimo per quella
che è stata definita «la priorità commerciale
n. 1 di Bush per il 2005»), oltre a sindacalisti,
organizzazioni sociali e della società civile,
mentre in Centro America i protagonisti
principali siano stati esclusivamente le
organizzazioni sindacali e quelle contadine e
indigene.
In tutta la Regione, le forze popolari si sono
mobilitate contro il Trattato, affermando che
la
sua
applicazione
lederà
–
necessariamente– il diritto alla vita di milioni
di essere umani, comportando la fine del
settore agricolo centroamericano, la totale
perdita della sovranità nazionale, un
peggioramento nei diritti riconosciuti ai
lavoratori, la cessione delle ricchezze naturali
dei paesi in mano ad imprese straniere.
37
«Passare cent’anni / in un giorno solo, / dai carri
nei campi / agli aerei nei cielo», cantava Luigi
Tenco nella sua ultima indimenticabile
interpretazione, Ciao amore, ciao.
Le ragioni della opposizione38 da parte di
questi appaiono evidenti e per capirle è
sufficiente leggere alcuni dei rapporti
pubblicati
in
occasione
del
decimo
anniversario del NAFTA, nel 2004, tanto
quelli prodotti da Organizzazioni non
governative anti-liberiste quanto quelli redatti
da funzionari della Banca Mondiale: milioni di
contadini e indigeni messicani, di fatto espulsi
dalle proprie terre dalla concorrenza sleale
dei prodotti agricoli sussidiati dal Governo
USA39, costretti a una forzata urbanizzazione
e a cercare lavoro nei distretti industriali
quando non, addirittura, a cercar fortuna oltre
la frontiera40.
Considerando le notevoli similitudini tra
NAFTA e CAFTA (in primis, il fatto che né
l’uno né l’altro tengano conto delle profonde
asimmetrie economiche esistenti tra le parti
contraenti41), è facile leggere tra le righe
anche le possibili conseguenze del CAFTA
38
Secondo sondaggi realizzati nei diversi Paesi
centroamericani, in Costa Rica il 58% della
popolazione chiede di rinegoziare il Trattato o di
rifiutare la ratifica; il 60,8% dei domenicani si
oppone; il 76% dei salvadoregni ritiene che il
CAFTA non aiuterà o, addirittura, peggiorerà la
loro situazione; in Guatemala, il 65% della
popolazione ritiene che il CAFTA sarò nocivo per
il Paese. I dati, raccolti da differenti fonti
centroamericane e statunitensi sono riportate in
Tucker, Todd, New year sees delay in CAFTA
implementation, op. cit.
39
Il Farm bill del 2003 ha stabilito un aumento del
70% degli incentivi ai produttori locali. Si tratta,
per lo più, di sussidi all’esportazione, diretti cioè –
direttamente– a mettere fuori mercato i produttori
locali nei Paesi del Sud.
40
Si calcola che siano almeno 500.000, ogni
anno, i cittadini messicani che cerchino
illegalmente di attraversare la frontiere con gli
Stati Uniti d’America.
41
Tutto il PIL delle nazioni centroamericane
rappresentano lo 0,5% del PIL degli Stati Uniti. Il
reddito pro-capite è 19 volte minore. Gudynas,
Eduardo, Dos caminos distinos: tratados de libre
comercio y procesos de integración, in TLC. Más
que un tratado de libre comercio (A. Acosta y F.
Falconi, comps.), ILDIS e FLACSO, Ecuador,
Quito, 2005. pp. 41-62. Sul incidenza del mercato
Usa per l’import e l’export della regione
centroamericana si veda invece Monge-González,
Ricardo, Miguel Loría-Sago e, Claudio GonzálezVega, CAFTA: CHALLENGES AND
OPPORTUNITIES IN THE AGRICULTURAL AND
AGRO-INDUSTRIAL SECTORS, En breve,
October 2003, n. 33.
26
sulle
economie
centroamericane.
o
sulle
società
È palese la mancanza di una forte
opposizione governativa o parlamentare al
Trattato in tutto il Centro America (laddove il
CAFTA non è ancora stato ratificato, in Costa
Rica, è riconosciuto il ruolo dominante svolto
da parte della società civile organizzata, che
ha realizzato una sorta di «educazione» nei
confronti dei rappresentanti istituzionali),
come l’incapacità, per i rappresentanti dei
Paesi centroamericani, di negoziare un
accordo che –in qualche modo– difenda gli
interessi dei propri cittadini.
Il problema, è nella classe politica:
«Negoziare significa, prima di tutto,
avere un progetto. E avendolo, renderlo
fattibile
attraverso
la
negoziazione.
Nell’esperienza della negoziazione del
Trattato di Libero Commercio degli Stati Uniti
con il Centro America, una delle parti, gli Stati
Uniti, –e quando alludo agli Stati Uniti, sto
pensando alla sua classe dirigente–, hanno
un progetto e costruiscono la sua fattibilità.
L’altra parte, che esprime gli interessi delle
oligarchie centroamericane, non ha un
progetto alternativo. E, come si è evidenziato
nella firma dell’accordo del TLC, nemmeno la
volontà di resistere al progetto della
controparte. Il suo progetto, infatti, è quello di
entrare a far parte del progetto dell’altra
parte»42.
Per comprendere al meglio le principali
criticità associate al CAFTA, riteniamo
importante analizzare le implicazioni del
Trattato in relazione a tre aspetti: il suo
impatto sul settore agricolo; le implicazioni
per l’industria maquiladora; il controllo delle
risorse naturali.
Il settore agricolo
Già nell’ottobre del 2003 un articolo di
analisi pubblicato dalla Banca Mondiale
metteva in luce le opportunità che il CAFTA
avrebbe rappresentato per il settore agricolo
e agro-industriale centroamericano, nonché
quelle che sarebbe state le maggiori sfide ad
una reale efficacia del trattato43.Secondo i
ricercatori dell’istituzione di sviluppo con sede
a Washington, il Trattato avrebbe dovuto
cercare di rispondere a due domande
principali:
«(a) come garantire un migliore accesso al
mercato Usa alle esportazioni agricole e
agro-industriali del Centro America, e
(b) come promuovere una maggiore apertura
all’importazione dagli Stati Uniti di alimenti
che sono “sensibili” nei mercati interni dei
Paesi centroamericani.»
È lo stesso documento, però, ad indicare, in
modo chiaro, quali siano le categorie che
fruiranno delle nuove opportunità offerte dal
CAFTA:
«In Centro America come negli Stati
Uniti, le uniche reazioni positive ai nuovi
negoziati in merito al commercio arrivano
dagli esportatori di beni tradizionali (caffè,
banane, zucchero, carne) e non tradizionali e
dai produttori impegnati nell’agricoltura di
sostituzione delle importazioni o di beni fuori
commercio».
Nello stesso articolo, la Banca suggerisce ai
paesi dell’America Centrale di eliminare le
tariffe volte a proteggere i “prodotti sensibili”
(«key agricoltural commodities for domestic
consumption (e.g., dairy products, yellow
corn, rice, beans, sugar, beef, pork,
poultry)»): le restrizioni non sono appropriate
–giudica la Banca Mondiale– data la
condizione di scarsa competitività associata a
questi prodotti.
Ovvero, il CAFTA prevede, per il futuro dei
mercati centroamericani, che questi siano
letteralmente inondati di mais a basso costo
prodotto sul mercato Usa (prodotto in
eccesso, vale la pena aggiungere, tornando
sugli altissimi sussidi che ricevono le grandi
aziende agricole statunitensi); ciò metterebbe
fuori mercato i piccoli contadini, che
producono mais per la sussistenza e che
vendono le eccedenze per far fronte alle altre
43
42
Barahona, Amaru, op. cit..
Monge-González, Ricardo, Miguel Loría-Sago e,
Claudio González-Vega, op. cit.
27
esigenze della vita (o, peggio, a emergenze
che possano loro capitare)44.
Un esempio interessante è quello relativo al
mercato del riso. Sinforiano Cáceres,
Presidente della Federación Nacional de
Cooperativas
Agropecuarias
y
Agroindustriales
(FENACOOP)
del
Nicaragua, descrive in modo chiaro lo
scenario che ci troveremo di fronte entro
pochi anni:
«La cosa peggiore del CAFTA, ciò
che può rovinarci la vita, è che [scrivendolo]
non si sono riconosciute le asimmetrie
[esistenti] affinché i prodotti che produciamo
noi e quelli che producono loro possano
competere lealmente sul mercato. Vediamo,
ad esempio, l’esempio del riso. Gli Stati Uniti
d’America sono il quinto produttore a livello
mondiale. Ad un produttore statunitense
produrre un quintale di riso costa 9 dollari e 4
centesimi. Ad un produttore nicaraguense
della Valle de Sébaco, delle nostre
cooperative, costa invece 8 dollari e 45
centesimi. Ciò significa che, rispetto al riso,
potremmo essere competitivi. Ma non lo
saremo. Perché il produttore degli Stati Uniti
può vendere in Nicaragua, e venderà, il suo
quintale di riso a 7 dollari e 65 centesimi.
Perché lo può vendere ad un prezzo più
basso rispetto a quello che costa produrlo?
Perchè riceve dal suo governo un sussidio, e
quando porta al porto una tonnellata metrica
di riso (22 quintali) per venderla qui a 179
dollari, ha già ricevuto 230 dollari di sussidi
per questa stessa tonnellata. O sia, che
quando imbarca il suo riso, non gli interessa
più molto quanto guadagnerà vendendolo in
Nicaragua. […] Finora, il Nicaragua importava
riso solo per coprire i deficit della produzione
nazionale. Il CAFTA stabilirà una quota
annuale massima di importazione, una quota
crescente, accada quel che accada sul
mercato nazionale. Nel primo anno del
CAFTA, il riso importato dagli Stati Uniti sarà
pari al 43% della produzione nazionale
odierna. Nel 2015 sarà già il 73%.»
E lo stesso potrebbe dirsi a proposito del
latte, dello zucchero, dei fagioli45.
44
In Centro America oltre il 33% della popolazione
è impiegata nel settore agricolo (con una punta
del 42,9% in Nicaragua, secondo dati della Banca
Mondiale).
Per i teorici di Washington, tuttavia, questo
non rappresenta un problema. Secondo
calcoli elaborati sulla base di dati raccolti in El
Salvador, Guatemala e Nicaragua,
«la maggior parte delle famiglie in
questi paesi guadagneranno qualcosa dal
cambiamento nei prezzi associato alla
rimozione delle barriere commerciali per i
beni agricoli “sensibili”. Più nello specifico, il
90% delle famiglie in Nicaragua, l’84% in
Guatemala, e il 68% in Salvador,
rispettivamente, sono state riconosciute come
consumatrici nette del paniere di beni agricoli
sensibili, e, perciò, si può supporre che
potranno beneficiare dai cambiamenti nei
prezzi relazionati al CAFTA. Solo il 9% delle
famiglie del Nicaragua, il 16% di quelle
guatemalteche e il 5% di quelle del Salvador
sono state individuate come produttrici nette
del paniere di beni sensibili e, quindi,
potrebbero sperimentare forme di riduzione
del proprio benessere.»46
A non permettere un dialogo tra le due
posizioni resta, senza dubbio, una profonda
divaricazione culturale47 –a partire dalla
stessa definizione di «povertà» coniata dalla
45
Sinforiano Cáceres, El CAFTA será como un
huracán Mitch, con nombre comercial, in Revista
Envío, Universidad Centroaméricana –UCA–,
Managua, settembre 2005.
46
World Bank (the), Central America Department
and Office of the Chief Economist Latin America
and Caribbean Region, “DR-CAFTA: Challenges
and Opportunities for Central America”.
Analisi della Banca Interamericana di Sviluppo
suggeriscono invece che «il reddito rurale non
proveniente da attività agricole rappresenta il 59%
del reddito in Costa Rica, il 38% in El Salvador, il
22% in Honduras e il 42% in Nicaragua (Reardon
et al, 2001).». Arias, Diego, Jessica Todd e Paul
Winters, CAFTA and the rural economies of
Central America: a conceptual framework for
policy and program recommendations, IADB,
December 2004.
47
Il documento della Banca Mondiale manca ad
esempio di analizzare, in modo dettagliato, come
ciò sia conseguenza degli ultimi vent’anni di
politiche di liberalizzazione imposte nella Regione
centroamericana dalla Wb e dal Imf nell’ambito
dei Piani di Aggiustamento Strutturale (nonché di
trent’anni di conflitti armati –guerre più o meno
civili, dato l’interesse diretto o indiretto
dell’esercito Usa–), e prende il dato attuale come
a-storicamente dato, appunto.
28
Banca Mondiale per colui/ei che non
percepisce un reddito superiore a 2$/giorno–:
chi considera l’agricoltura di sussistenza e
l’esistenza stessa di piccoli contadini indigeni
un refuso del passato, non può ammettere
che si possa scegliere di sopravvivere al di
fuori del mercato, e lottare contro chi vuole
cancellare questo diritto.
Non lo può ammettere, soprattutto, quando
l’apertura di quei mercati (ovvero, l’ingresso
sul mercato di milioni di nuovi consumatori,
vale la sopravvivenza del proprio modello
economico, un sistema industriale che
attraversa
una
fase
di
strutturale
sovrapproduzione e che incontra –oggi– seri
problemi per entrare in nuovi mercati)48.
Destino maquilador
Milioni di contadini, espulsi dalle
proprie terre, verrebbero quindi ricollocati,
abbiamo visto, nell’industria maquiladora.
Un settore importante e una valvola di sfogo
per tanti che, altrimenti, proverebbero a
cercar fortuna negli Stati Uniti d’America.
Un settore, però, che registra già da alcuni
anni una profonda crisi (acuita dall’inizio del
2005 per la fine dell’Accordo multifibre, che
limitava il volume di esportazione di prodotti
tessili). Nonostante quanto asseriscano i suoi
promotori, nemmeno il CAFTA potrà salvare il
settore tessile –uno dei principali comparti del
settore
maquilador
–
nelle
nazioni
centroamericane .
Todd Tucker, direttore di ricerca per il Global
Trade Watch di Public Citizen, negli Stati
Uniti d’America, analizzando alcuni dei miti
economici relativi al CAFTA49 evidenzia
condizioni strutturali che rendono il cotone
48
Senza ombra di dubbio, uno dei principali
problemi per l’economia americana, al giorno
d’oggi, è quello della sovrapproduzione (agricola
ma non solo). Il Centro e il Sud America vengono
visti come nuovi mercati ideali, mentre quello
europeo ed asiatico appaiono sempre più chiusi
alle merci Usa dopo l’allargamento dell’Unione
Europea e dato l’emergere delle economie cinese
e indiana a fianco del Giappone in Estremo
Oriente.
49
Tucker, Todd, Porque CAFTA no puede salvar a
Centro América de la expiración de la Cuota
Textil, IRC Americas Program, 27 de enero de
2005. www.americaspolicy.org
cinese assolutamente imbattibile per le
imprese istallate in Centro America.
CAFTA o non CAFTA, scrive Tucker, “il
Centro America perderà la sua quota di
mercato, a causa degli enormi vantaggi di
costo in Cina”. Il livello estremamente basso
dei salari cinesi, dell’ordine di 15/30 centesimi
di dollaro l’ora, comporta costi di produzione
difficilmente ripetibili, anche laddove –
Guatemala, Repubblica Domenicana, Costa
Rica– i salari sono tutt’altro che dignitosi
(rispettivamente, 1,49$/h, 1,65$/h e 2,70$/h
nei tre Paesi indicati).
Nemmeno la vicinanza geografica tra
l’America Centrale e gli Stati Uniti pare in
grado di garantire vantaggi importanti rispetto
all’industria cinese. Innanzitutto, alcune
compagnie
marittime
cinesi
stanno
notevolmente
riducendo
i
tempi
di
percorrenza verso la Costa Occidentale degli
Usa e – inoltre– i produttori centroamericani
non potranno mai convertirsi, per scala e
capacità produttiva, in rifornitori “al bisogno”
(ovvero, in tempi brevi, qualora i costumi e le
mode cambiassero repentinamente) dei
grandi magazzini statunitensi.
C’è poi, anche in questo caso, un distinguo
culturale importante. È necessario, cioè,
riflettere se si possa considerare –o meno–
positiva la presenza di un maggior numero di
imprese d’assemblaggio all’interno del
Paese.
Calcoli effettuati in Messico, dove l’industria
maquiladora è nata, lungo la frontiera
settentrionale con gli Stati Uniti d’America –
ma crediamo riproponibili anche per il
contesto centroamericano– mostrano come il
valore nazionale della produzione per ogni $
esportato da un’industria maquiladora è pari
a due centesimi (il 2%).
Ovvero, che questo tipo di industria –che
ottiene importanti concessioni dal Governo
(come quella di non pagare imposte, di un
utilizzo di acqua illimitato, di non riconoscere
alcun diritto sindacale)– non produce
ricchezza nel Paese e per il Paese.
Può, questo, essere definito sviluppo?
Il controllo delle risorse naturali
L’abbandono forzoso delle terre da
parte delle popolazioni indigene risponde
anche ad un secondo ordine di obiettivi delle
29
imprese multinazionali (l’interesse delle
corporations –e la ricerca di nuovi e maggiori
profitti–è infatti il motore delle politiche
economiche imposte dal Governo Usa50),
quello cioè di accaparrarsi una sempre
maggiore superficie coltivabile –per la grandi
piantagioni di quei prodotti agricoli per cui,
nell’ambito
del
CAFTA,
ai
Paesi
centroamericani è riconosciuto un «vantaggio
comparativo» rispetto agli Stati Uniti (nota: i
negoziatori del CAFTA non sono ancora
riusciti ad andare oltre l’economia di David
Ricardo)–, nonché le risorse naturali che
sono –tendenzialmente– concentrate proprio
nelle regioni dove hanno tradizionalmente
vissuto i popoli indigeni.
E, costi quel che costi, è necessario spogliare
le popolazioni indigene del controllo della
terra. Anche in questo caso, con il CAFTA –e
con le riforme costituzionali da approvarsi per
entrare a far parte del Trattato, o approvate
negli anni scorsi per compiacere la Banca
Mondiale
e
il
Fondo
Monteratio
Internazionale– si cerca di legalizzare questo
saccheggio51.
Per comprendere queste considerazione,
basti leggere la Legge Generale sulle
Concessioni discussa dal Parlamento
guatemalteco nel 2004, laddove si dettano le
disposizioni
50
Vi è chi definisce la fase attuale come quella
della globalizzazione corporativa, intendendo con
questo «la globalizzazione costruita su misura per
le grandi imprese». Pickard White, Miguel,
PRECAUCION: LA GLOBALIZACION PUEDE
SER PELIGROSA PARA SU SALUD, CIEPAC
A.C., www.ciepac.org, novembre 2002.
51
Per il tema della deforestazione, si rimanda ai
risultati della ricerca realizzata in Honduras da
Environmental Investigacion Agency (EIA, ) e
Center for International Policy (CIP): LA CRISIS
DE LA TALA ILEGAL EN HONDURAS. De cómo
la importación de madera ilegal hondureña por los
Estados Unidos y la Unión Europea incrementa la
pobreza, acelera la corrupción y destruye
bosques y comunidades, pubblicato nel novembre
del 2005. Per quanto riguarda, invece, il tema
dell’industria mineraria: Cuffe, Sandra, “Un
Desarrollo Patas Arriba y al Revés” Actores
Globales, Minería y Resistencia Comunitaria en
Honduras y Guatemala, Rigths Action,
www.rigthsaction.org, febbraio 2005; o Martinelli,
Luca, MUERTES “DORADAS”. TE CUENTO EL
‘CUENTO’ DE LA MINA MARLIN EN
GUATEMALA, CIEPAC A.C., www.ciepac.org,
novembre 2005.
«per
promuovere
lo
sviluppo
dell’infrastruttura fisica dello Stato e dei
servizi pubblici efissare la normativa di base
per la loro esecuzione e/o prestazione da
parte di persone giuridiche private, nazionali
o straniere,mediante la assegnazione di
concessioni.»
La legge, che si applica ai seguenti settori
(costruzione e/o manutenzione di strade,
autostrade, viadotti e tunnel; costruzione e/o
manutenzione del sistema ferroviario;
costruzione e/o manutenzione di porti;
costruzione e/o manutenzione di aeroporti;
costruzione e/o manutenzione di acquedotti,
oleodotti, gasdotti; istallazione e/o operazione
e/o
* Questo articolo è stato scritto dal suo
autore nell’ambito di un progetto di ricerca
del Centro interuniversitario di ricerca per la
pace e la cooperazione (CIRPAC) delle
Università di Firenze, Pisa e Siena,
finanziato dalla Regione Toscana.
prestazione del servizio di generazione di
energie elettrica; servizi di sviluppo turistico;
servizi di Piazze ed edifici pubblici; servizi di
depurazione e tutela ambientale; servizio
postale; servizi di alimentazione per ospedali,
carceri e scuole; elaborazione di documenti di
identificazione, quali passaporti, cedole,
patenti; sistemi di trasporto di massa (bus,
treni di superficie, metropolitane, altri); parchi
turistici)52 ha ricevuto il visto buono delle
Commissione per la Decentralizzazione e lo
Sviluppo del Congreso de la República che
riconosce, tra l’altro, il diritto –di coloro,
persone individuali o giuridiche, che
investiranno forti capitali nel Paese– «di
recuperarli e di ottenere i redditi che ogni
investitore necessita per partecipare a
processi di concessione di servizi pubblici o
di costruzione di opere pubbliche».
Vale la pena chiedersi chi, su al Nord,
avrebbe interesse a prendere il controllo di
alcuni di questi settori.
52
«Anche se la seguente enumerazione non deve
risultare limitativa». In Dictamen (de la Comisión
de Descentralización y Desarrollo de la República
de Guatemala) favorable a la iniciativa que
dispone aprobar Ley general de Concesiones.
30
31
PARTE SECONDA
::
le risorse naturali
4. Morti Dorate
Il racconto della miniera Marlin in Guatemala
di Luca Martinelli
Riassunto: Il proposito di questo (bollettino)
rapporto è di aggiornarci sulle lotte che il
popolo guatemalteco sta combattendo contro
le industrie minerarie canadesi e statunitensi
che vogliono violare i diritti dei popoli indigeni
per sfruttare con avidità i minerali dal
sottosuolo. Si ripete, tristemente, il patrono
degli incidenti che recentemente è stato
documentato dal quotidiano La Jornada sulle
compagnie minerarie che lavorano in
Chiapas.
Il tema dell’esplorazione e dello sfruttamento
minerario in America Centrale si è fatto più
interessante negli ultimi anni. Questo sia a
causa dell’aumento dei prezzi nei mercati
mondiali (l’oro, +19,1% nel periodo compreso
tra il 2003 e il 2004, è passato da 363.44 a
433.15 USD l’oncia; l’argento, +59,7%, da
4,90 a 7,63; ecc.); sia per l’approvazione, in
molti paesi della regione e in tutta America
Latina, di una legislazione “troppo aperta”
sugli investimenti sulla ricchezza mineraria,
ma in ogni modo patrocinata dalla Banca
mondiale, il Guatemala, l’Honduras e il
Messico
(per
citarne
alcuni)
stanno
concedendo diverse concessioni, la maggior
parte ad imprese internazionali statunitensi e
canadesi.
Il passato mese di agosto, La Jornada ha
pubblicato una serie di reportage a cura di
Rosa Rojas, riguardo alla situazione delle
miniere in Chiapas dove si evidenzia che in
questa regione il governo federale solo negli
ultimi cinque anni ha concesso espropriazione
e lo sfruttamento minerario di 357 ettari di
terra.
Gli episodi di violazione dei diritti umani
relazionati all’attività mineraria sono numerosi,
così come lo sono state le manifestazioni e le
azioni di gruppi (tra cui indigeni e contadini)
colpiti per le esplorazioni e lo sfruttamento
delle miniere. Tra questi, bisogna evidenziare
il caso del Marlin Project, una storia
dell’America Centrale purtroppo come tante di
violenza, repressione e di resistenza contro
un governo che vende o meglio, regala i beni
della Nazione a favore d’interessi economici
stranieri.
Lo scorso 8 settembre, la Banca Mondiale ha
pubblicato un rapporto riguardante il Marlin
Project
realizzato
dal
Compliance
Advisor/Ombudsman Office. Questo ufficio si
32
trova all’interno dell’ International Finance
Corporation (IFC), braccio destro della Banca
Mondiale che concede prestiti a privati e che
aveva prestato 45 milioni di dollari a la Glamis
Gold, impresa internazionale canadese che
tramite la sua filiale guatemalteca Montana
Exploradora si sta occupando del Marlin
Project.
Il rapporto è stato scritto dopo aver ricevuto
nel gennaio del 2005 una denuncia formale
contro la IFC che finanzia lo sfruttamento a
cielo apero di metalli, concesso all’impresa
“Montana Exploradora del Guatemala”. La
denuncia, diretta a la IFC da parte di Magali
Rey Rosa del collettivo “Madre Selva”,
un’organizzazione civile guatemalteca attiva
contro le concessioni minerarie (più di 550 nel
paese e che occupano più del 10% del
territorio nazionale). Questo documento
riconosce che i rapporti del progetto presentati
ai lider delle comunità indigene non
evidenziano con precisione i possibili impatti
negativi del progetto e critica la ricerca che la
Banca Mondiale dovrebbe in teoria effettuare,
secondo quanto dettano le sue regole interne
e le leggi internazionali (in particolare,
l’articolo 169 dell’ILO, l’Organizzazione
Internazionale
del
Lavoro).
Inoltre
il
documento mette in dubbio il fatto che il
progetto rispetti gli accordi firmati negli atti
della Politica di Sicurezza Sociale e Medio
Ambiente della Banca Mondiale.
Nel frattempo, il 18 giugno le comuntità del
municipio di Sipacapa si riunirono in
assemblea popolare per pronunciarsi contro la
presenza nel terriotorio municipale della
miniera di Marlin. Ma nè l’impresa, nè il
governo
guatemalteco
ha
manifestato
interesse sui risultati che l’assemblea
popolare ha raggunto, alla quale partecipò il
98% dei cittadini riuniti in assemblee
comunitarie per discutere i pro e i contra del
progetto. Dodici delle tredici comunità del
municipio si sono dichiarate contro la miniera
di Marlin.
Il progetto ancora non si è sviluppato al
massimo ma nonostante ciò a già provocato
le prime vittime attraverso la contaminazione
dell’ambiente.
Vite perse
Raul Castro aveva 37 anni quando,
insieme a migliaia di contadini guatemaltechi
delle provincie di Quiche e di Solola, prese
parte alla protesta che ha bloccato le
autostrade di Los Encuentros.
Proprio qui ostruirono il passaggio ad un
cilindro, un enorme tubo di acciaio utilizzato
per lo sfruttamento delle miniere, tubo di
proprietà della Montana Exploradora S.A., la
filiale guatemalteca della Glamis Gold che
sfruttava prima una cava d’oro, il Marlin
Project, nel dipartimento di San Marcos.
Il 9 gennaio del 2005, con l’inizio del
quarantesimo giorno di blocco della
circolazione, il governo annunciò l’intervento
dell’esercito: “Non c’è più niente su cui
discutere. Già abbiamo dialogato con le
autorità e non possiamo ancora permettere
che chiunque faccia ciò che vuole”, affermò il
segretario Carlos Vielman alla agenzia
Associated Press. Due giorni dopo, Raul
Castro morì durante lo scontro tra i militari e i
manifestanti a Los Recuerdos.
Domenica 13 marzo 2005, Alvaro Benigno di
23 anni stava ritornando alla sua abitazione
dopo aver assistito al concerto del coro di San
Miguel Ixtahuacan, nel dipartimento di San
Marcos, quando durante il tragitto si trovò
difronte Ludwin Waldemar Calderon e
Guillermo Lanuza, guardie giurate contrattate
dal Gruppo Golan, incaricato di provvedere
alla sicurezza del Marlin Project. I due gli
barrarono la strada e gli spararono 5 o 6 colpi
di pistola a bruciapelo.
La morte di Alvaro Benigno, che lascia una
moglie e una figlia di tre anni, è un messaggio
per la popolazione di San Miguel e per quanti
lottano contro l’attuazione del progetto.
Gli inversionisti vengono prima
Mentre si rafforza l’opposizione contro
l’attività mineraria in tutto il Guatemala,
opposizione coordinata dal Fronte nazionale
contro lo sfruttamento delle miniere e dalla
chiesa cattolica, il presidente guatemalteco
Oscar Berger si giustifica affermando che
“bisogna difendere gli interessi degli
inversionisti”. A maggior ragione se si tratta
della Banca Mondiale che partecipa al
progetto con un prestito di 35 milioni di dollari
alla Glamis Gold e la IFC con un’inversione
33
diretta di 10 milioni di dollari. Con simili
interessi, risulta impossibile pensare che
qualsiasi governo, di qualsiasi schiaremento
politico, possa prendere ferme decisioni a
favore dei propri cittadini. Il finanziamento
della Banca Mondiale rappresenta per la
Glamis Gold un salvacondotto, “con l’obiettivo
di mitigare i rischi politici e sociali del
progetto”.
Secondo le organizzazioni sociali che si
oppongono al Marlin Project, “è chiaro che la
partecipazione della IFC risulta essere una
sicurezza politica per la Glamis”, perchè come
scrive Sandra Cuffe, esperta di problemi
relazionati alla industria mineraria in
Guatemala e in Hunduras (in un docuemento
realizzato per la ONG canadese Rights
Action), i governi stranieri non volgiono
interferire con un progetto della Banca
Mondiale.
Il progetto si sviluppa rapidamente e in più
circola la voce che le attività di sfruttamento
iniziino prima della fine del 2005, anticipando
di un anno l’inizio previsto. Nel frattempo
continuano le minaccie contro tutti quelli che,
non impauriti dagli assassini di Raul Castro e
Alvaro Benigno, continuano a opporsi
pubblicamnete a la nuova cava.
Lo scorso 5 aprile, venne trovato in fiamme
una macchian di proprietà della Fondazione
Maya
(FUNDAMAYA),
organizzazione
integrante del Fronte nazionale contro la
industria mineraria. Il messaggio era diretto a
Carlos
Humberto
Guarquez,
Dominga
Vasquez e al marito di quest’ultima, Alfonso
Guarquez. Il primo membro attivo di
FUNDAMAYA, la signora Vasquez è il
sindaco del comune di Solola e partecipò
attivamente al blocco che portò alla morte
Raul Castro. Il marito del sindaco, giornalista,
aveva scritto vari articoli in cui spiegava i
motivi dei manifestanti. “Questo succede,
Signor Carlos Humberto per aver partecipato
a queste stupitaggini della società civile;
domani sarà il giorno per te di lasciare questo
mondo; ogni cosa arriva al suo termine, anche
per la Signora Dominga e per suo marito
Alfonso Guarquez” vi era scritto in castigliano
insicuro e pieno di errori di ortografia in una
delle 5 lettere trovate al lato dell’automobile
bruciata.
Una “miniera d’oro”
Il destino del Marlin Project è diventare
una vera miniera d’oro per la impresa
canadese. Secondo lo studio sull’impatto
ambientale, il progetto garantirà all’impresa
profitti globali per 707 milioni di dollari nei
dieci anni previsti per le estrazioni. Di tutto il
guadagno solo 1% rimarebbe in Guatemala, a
causa della logica delle esenzioni pagate dalla
Glamis Gold in cambio delle concessioni e
delle licenze. Una miseria che andrà divisa tra
il governo federale e quello municipale,
secondo quanto stabilisce la Legge dell’attività
mineraria approvata nel 1997 con la
benedizione della banca Mondiale e delle
multinazionali del settore.
La Glamis Gold pensa che il progetto avrà
una durata di 13 anni, durante i quali saranno
estratti 2.1 milioni di oncie d’oro e 29.2 milioni
oncie di argento (combinando sia le attività a
cielo aperto sia quelle sotterranee). La spesa
reale per estrarre l’oro è di 107 dollari la oncia
e il prezzo sul mercato mondiale sul finire del
2004 era di 433.15 dollari la oncia.
Un’analisi del febbraio 2004 del ricercatore
indipendente Robert E. Moran, basato sullo
studio sull’impatto ambientale del progetto, a
sua volta realizzato dalla Glamis Gold sulla
base di un modello studiato dalla IFC per la
attività
d’estrazione,
evidenzia
la
insostenibilità sociale e ambientale di questi
enormi profitti, i cui effetti si manifesteranno ai
danni della popolazione dei comuni di San
Miguel Ixtahuacan e di Sipacapa. Lo studio,
conclude Moran, è privo di “un sistema
permanente di controllo dell’acqua, di dati
attuali sulla disponibilità dell’acqua all’interno
della
regione,
di
informazioni
sulla
composizione chimica della vena metallifera,
delle roccie di scarico e i restanti residui.
Infine mancano misure per i possibili effetti
tossici che potrebbero danneggiare gli
organismi viventi dei suddetti residui e delle
roccie di scarico”.
Alla fine, non ci sarà nessun beneficio per gli
abitanti che rimarranno con montagne di rifiuti:
38 milioni di roccie polverizzate – e la terra, i
fiumi e le falde acquifere contaminate. Tutto
questo in cambio di 1,400 posti di lavoro
durante il primo anno di apertura della cava, e
180 durante i 10 anni successivi.
34
Strane consultazioni
La
Defensoria
Q’echi’
un’organizzazione indigena che lavora per
difendere i diritti umani, dichiara che “la
concessione di centinaia di autorizzazioni da
parte del Ministero per l’energia e le attività
minerarie constituisce una grave violazione
dei diritti per migliaia di guatemaltechi
indigeni, che non sono stati consultati nè
informati del fatto che, i diritti di proprietà del
sottosuolo delle proprie terre sono stati
concessi ad una compagnia mineraria”. In
base all’Accordo 169 della OIT riguardo i diritti
dei popoli indigeni e tribali, rattificato dal
Guatemala come parte integrante degli
Accordi di Pace del 1996, i movementi sociali
del paese rivendicano la illegalità del Marlin
Project.
Nonostante la Glamis dichiari di aver
consultato le popolazioni indigene ’colpite’ dal
progetto, una ricerca indipendente realizzata
dal giornale gautemalteco Prensa Libre nel
novembre del 2004, dimostra che il 37.5%
delle persone danneggiate dalla cava non
sapevano niente della concessione mineraria.
Altri, secondo quanto riportato in un
documento datato marzo 2005 e pubblicato
dalla Bank Information Center (Centro di
Informazione sulla Banca), “si lamentavano
del fatto che la impresa parlasse solo dei
benefici del progetto, senza informare
riguardo i rischi per la salute e per il
medioambiente”. Il 95% del totale degli
intervistati dall Prensa Libre si dichiarò contro
il progetto, invalidando quindi quanto
asseverato dalla Glamis Gold. Secondo la
impresa, il progetto disponeva “di un amplio
appoggio tra le comunità”.
L’opinione pubblica sulla Glamis no migliorerà
con la creazione della Fondazione Sierra
Madre, che insieme al prestito concesso dalla
IFC della Banca Mondiale, sono considerate
iniziative volte ad ottenere un salvacondotta
per il Marlin Project. Un processo di sviluppo
comunitario basado sul rispetto della
cosmovisione dei maya delle comunità del
dipartimento di San Marcos, sostengono
questi, non può essere definito da un
multinazionale interessata esclusivamente a
difendere i propri profitti.
Impresa VS comunita’: diverse idee di
sviluppo
“La visione dello sviluppo delle
comunità indigene, delle Ong e degli attivisti
che lottano contro la povertà è diversa, per
molti aspetti, dalla visione dominante”,
sostiene Rigths Action, organizzazione
canadese che appoggia la lotta contro
l’industria mineraria delle comunità indigene
del Guatemala e dell’Honduras. “Protestando
contro gli interessi delle compagnie menerarie
candesi e statunitiensi, le comunità locali e le
organizzazioni stanno lottando per un’idea di
sviluppo controllata e definita a partire dalle
esigenze delle stesse comunità”, conclude la
Ong canadese.
Risulta assurda la dichiarazione della Glamis
Gold che considera tutti quelli che si
oppongono al suo progetto “una minoranza di
attivisti del antisviluppo“. Sono, secondo la
impresa, agitatori stranieri che arrivano
mobilitare la popolazione guatemalteca, che
apparentemente non può da sola rendersi
conto degli staordianri benefici portati dalle
attività minerarie, che rappresentano lo
sviluppo, così semplicemente per lo meno
nell’ideologia della compagnia.
A tal proposito la Banca Mondiale pensa che:
“Il settore dell’attività mineraria è un’industria
essenziale e un cammino non immediato ma
importante per aiutare i poveri ad ottenere
alcuni dei benefici della società moderna”.
Come per esempio, l’autostrada che
congiungerà le comunità di Concepcion
Tutuapa e di San Miguel Ixtahuacan. Sono
venti chilometri di autostrada e quindi
un’inversione di 5 milioni di dollari, secondo
quanto annunciò la Glamis Gold il 6 settembre
in presenza del presidente del Guatemala
Oscar Berger, che ringraziò la impresa con
parole commuoventi: “nessuno ci perderà; tutti
ci guadagneremo. San Miguel ci guadagnerà
grazie a nuovi posti di lavoro, alle attività
economiche e alle infrastrutture...Questo è un
progetto esemplare”. Tutto ciò venne detto
alcuni giorni prima che si pubblicasse il
rapporto del Compliance Advisor/Ombudsman
office.
Nonstante questa nuova autostrada, ancora è
lungo il cammino per la giustizia per un popolo
che non si è ancora risollevato dalle ferite di
35
36 anni di guerra civile, che insanguinarono il
paese fino al 1996. Ferite che si sono riaperte
in seguito alla rattificazione, nel marzo 2005,
dell’Accordo di Libero Commercio con il
Centro America (Central American Free Trade
Agreement, CAFTA, secondo la sigla in
inglese), che sottomette di nuovo il Guatemala
al dominio degli Stati Uniti d’America. Come
50 anni fà, quando il governo del presidente
’comunista’ Jacobo Arbenz fu sconfitto a
causa del colpo di stato, elaborato dalla Cia e
quindi lla Agenzia Centrale di Inteligenza del
governo statunitense.
36
5. La corsa all’oro è ricominciata.
Da Repubblica delle banane a Repubblica delle miniere
di Luca Martinelli
Settant’anni fa a controllare Honduras
erano le compagnie bananiere –le ‘nonne’
della Chiquita e della Dole–; oggi –invece– la
piccola Repubblica centroamericana è alla
mérce delle imprese minerarie, per lo più
canadesi e statunitensi. Le concessioni già
rilasciate coprono più di un terzo del territorio
nazionale (112.088 km2 la superficie di
Honduras), ma quando verranno accettate le
147 richieste avanzate negli ultimi due anni si
arriverà al 45,2%. La metà di un paese
‘regalato’ all’industria estrattiva in cambio di
briciole: le royalty sono dell’1%, secondo uno
standard imposto dalla Banca Mondiale, che
negli ultimi anni ha contribuito a riscrivere le
leggi minerarie in una settantina di paesi; il
Governo è incapace, a causa della corruzione
(l’Honduras occupa il 107° posto su 159 paesi
nella classifica di Transparency International,
vedi Ae n. 64), –ma anche impossibilitato, a
causa della morsa del debito estero–, di
governare le risorse naturali (minerali, foreste,
pianure alluvionali, spiagge) nell’interesse del
paese e dei cittadini.
Una storia vecchia come il mondo, o almeno
come la Conquista, quella delle miniere in
America Latina, descritta splendidamente da
Eduardo Galeano nel suo Le vene aperte
dell’America Latina; la storia che ritorna, oggi
che l’oro tocca i 520 dollari la oncia (31
grammi, circa), il valore più alto degli ultimi 22
anni, e sono lontani gli anni 90 (un’oncia
scambiata per 253,2 dollari).
La corsa è ricominciata. «La nuova Ley de
Mineria, approvata subito dopo l’uragano
Mitch che colpì Honduras e tutto il Centro
America nel 1998, venne presentata come
una strategia per la riduzione della povertà:
avrebbe attratto gli investimenti esteri e
generato posti di lavoro», spiega Salvador
Zuniga del Copinh –il Consiglio civico di
organizzazioni popolari e indigene di
Honduras–.
Una bella favola, a cui non crede nessuno: la
Ley, affermano funzionari del DEFOMIN –
Dirección Ejecutiva de Fomento a la Minería,
l’organo di verifica della regolarità delle
concessioni, invitato però (e di fatto) a
fomentare l’attività estrattiva–, è stata scritta
dall’ANAMIN, il cartello delle imprese
minerarie. Non a caso, perciò, promuove gli
interessi di queste: un'unica licenza le
autorizza ad avviare le attività di esplorazione
e di sfruttamento delle miniere (exploración y
explotación in spagnolo, fino al 1999 erano
necessari due permessi distinti). Pensate: se
tutti i concessionari iniziassero insieme le
attività estrattive, Honduras diventerebbe
un’unica, grande, miniera; le imprese, poi,
possono espropriare “per ragioni di pubblica
utilità” terreni confinanti con le concessioni,
anche quando «i legittimi proprietari non
danno il permesso», e «utilizzare [tutte] le
acque, dentro e fuori la concessione».
Un saccheggio legalizzato, insomma. Come
quello della miniera San Martin, nel Valle del
37
Siria, «eletta –ci racconta Sandra Cuffe,
canadese, attivista e ricercatrice, in Honduras
da tre anni per Rights Action– a simbolo della
minaccia portata dalla nuova legge».
Nel 2000 sono iniziate le attività estrattive di
Entre Mares, sussidiaria hondureña della
canadese Glamis Gold, e da allora niente è
più come prima. La minaccia più grande si
chiama cianuro. Secondo lo studio d’impatto
ambientale, «l’oro può essere estratto a basso
costo, e ciò assicura la sostenibilità
economica del progetto». Come? La San
Martin è una miniera a cielo aperto e i costi
(economici) d’estrazione sono fino a 10 volte
più bassi. Utilizza, però, un processo ad alto
impatto ambientale e energetico: prima si
tagliano tutti gli alberi e si fa saltare il
coperchio –migliaia di tonnellate di terra,
liberando
nell’ambiente
altri
minerali
potenzialmente dannosi–, poi si estrae l’oro –
disseminato nella roccia– utilizzando il cianuro
per separarlo dagli altri minerali. La miniera
crea 18mila t di detriti rocciosi al giorno (per
dieci anni) e impiega –ogni anno– 6mila t di
cianuro di sodio (è sufficiente una molecola ad
uccidere un organismo vivente delle
dimensioni di un grosso pappagallo. Nel
gennaio 2003, una fuga avvenne nella miniera
d’argento San Andrés, sempre in Honduras:
almeno 18.000 pesci morirono nel Río Lara,
da cui si riforniscono di acqua numerose
comunità indigene e la città di Santa Rosa de
Copán); l’acqua utilizzata nel processo –
«Siamo autorizzati al consumo di 220 galloni
(832.8 litri) al minuto», commenta il direttore di
Entre Mares, e fatti due conti risultano oltre
650milioni di litri d’acqua all’anno– viene reimmessa nell’ambiente. Inquinata. Nel corso
del 2004 la Caritas Arcidiocesana di Honduras
ha fatto svolgere analisi indipendenti –
autorizzate da Entre Mares e dal DEFOMIN–
su campioni di acqua e di detriti (7, prelevati in
6 differenti siti alla presenza di rappresentanti
dell’impresa e del Governo). In quattro dei
sette campioni d’acqua è presente arsenico
(ben) oltre il livello di guardia (fino a 0,054mg/l
quando il limite consentito è di 0,01); in tre dei
sette campioni di sedimenti è presente
mercurio (6,27mg/kg con una soglia di guardia
di 0,11). Gli effetti si fanno sentire: la gente si
ammala –malattie della pelle, respiratorie e
gastrointestinali– e, al di là delle giustificazioni
dell’impresa –«È per la sporcizia e per il
contatto con gli animali»–, le malattie sono
legate all’inizio delle attività estrattive. Il dottor
Juan Almendares e la fondazione Madre
Tierra hanno realizzato periodiche brigate
mediche nel Valle del Siria. Alla fine del 2003
–l’ultimo dato a disposizione–, il 98% della
popolazione di El Pedernal (la comunità più
vicina alla miniera, 1.690 abitanti) soffriva di
problemi dermatologici (con un aumento
significativo, rispetto al 12% del 2001), il 30%
di malattie respiratorie, il 36% di patologie
neurologiche
(insonnia,
stress,
ansia);
secondo un’inchiesta della rivista El
Libertador, invece, nel 17,7% delle famiglie ci
sono più di due persone malate.
A causa dei prelievi selvaggi dell’impresa
anche l’acqua scarseggia. In una regione che
era il granaio della capitale, Tegucigalpa,
70km più a sud, la gente è costretta oggi a
comprare mais e fagioli; i raccolti si sono
ridotti del 15-20% e circolano meno soldi, ma
adesso –secondo El Libertador– l’83,9% degli
abitanti di El Pedernal, situata agua abajo
rispetto alla miniera, deve acquistare l’acqua
da bere e per cucinare.
La popolazione è esasperata e si acuisce la
lotta contro la miniera San Martin: la guidano il
Comité Ambientalista Valle de Siria e il
neonato SITRAMEMHSA, Sindicato de
Trabajadores de Minerales Entre Mares de
Honduras S.A., cui hanno aderito 190 dei 260
lavoratori della miniera.
Nel 2004, un alleanza di organizzazioni della
società civile ha anche presentato una
proposta di riforma della Ley de Mineria, che il
Governo non ha nemmeno preso in
considerazione.
Poco importa abbia le mani in pasta o le mani
legate, il risultato non cambia.
38
SCHEDA 1 :: HONDURAS
Sette milioni di abitanti sparsi su un territorio grande un terzo dell’Italia, Honduras è l’unico
tra i paesi centroamericani a non aver conosciuto, negli anni tra il 1970 e il 1990, l’insorgere di un
esercito di liberazione nazionale. Anzi: dalla base Usa di Palmerola, in Honduras, si muovevano le
truppe dei contras, addestrate per combattere le guerriglie in Nicaragua ed El Salvador.
Governato da una dittatura militare –quasi ininterrottamente– fin dagli anni 30, le prime elezioni
libere si sono svolte nel 1981. Da allora, il Partito Nazionale (PN) e il Partito Liberale (PL)
condividono potere ed interessi economici, in un bipartitismo perfetto. Nelle ultime elezioni –
tenutesi il 26 novembre del 2005– PN e PL hanno raccolto il 95% dei voti (per la cronaca, ha vinto
Mel Zelaya, del PL, che sarà presidente per i prossimi 4 anni); i partiti minori –Democrazia
Cristiana (DC), Unificazione Democratica (UD) e Partito per l’Innovazione e l’Unificazione
Nazionale (PINU)– avranno, in tre, meno di dieci seggi al Congresso.
Poche famiglie –legate ai due partiti di governo– si fanno sempre più ricche mentre il resto del
paese affonda: il 10% degli hondureñi controlla quasi il 40% della ricchezza, in perfetta media
centroamericana, mentre il PIL procapite –900$ l’anno– è il più basso della regione dopo quello del
Nicaragua; il 63% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (nelle aree rurali, dove
vive la metà degli hondureñi e la totalità di quanti appartengono ad una etnia indigena, la povertà
riguarda i 3/4 della popolazione); almeno 650mila famiglie dipendono dalle rimesse degli immigrati,
1miliardo e mezzo di dollari (quasi il 10% del PIL) nel 2005. Come ultimo regalo al paese, il
presidente uscente –Maduro del PN– ha firmato il CAFTA, Central America Free Trade
Agreement, poi ratificato dal Congresso. Il trattato, in vigore dal 2006, aggraverà la dipendenza di
Honduras dall’economia Usa: già oggi, oltre la metà delle importazioni arrivano dagli Stati Uniti
d’America e supera il Río Bravo il 69% dell’export di Honduras.
L'Honduras si trova in Centro America, ha poco meno di 7.000.000 di abitanti ed una estensione
inferiore a quella del Nord Italia. La sua posizione e conformazione favorisce l'esistenza di
biodiversità (sempre più rare nel mondo!). Ricco di acqua dolce, di giacimenti minerari, di oro e
argento, di terre fertili, di boschi antichi di legno pregiato e tanto altro.
La realtà dell’Honduras non é molto diversa da quella di una miriade di altri paesi del cosiddetto
“terzo mondo”, ricchissimo di risorse di ogni genere e con una popolazione ridotta all’estrema
povertà.
Queste immense ricchezze da sempre sono state gestite da una ristretta elite che, legata ai
dettami derivati dai governi e dalle imprese straniere (specialmente nordamericane) , non é nulla
più che il prolungamento dei tentacoli delle imprese stesse.
L’Honduras, a differenza dei paesi del Centro America con cui confina (Guatemala, Nicaragua, El
Salvador), non ha vissuto né lunghe guerre né rivoluzioni, ma é stato ugualmente governato da
lunghe dittature e da regimi militari che non attuavano diversamente da quelle degli altri paesi.
Alcune cifre ci servono a delineare un quadro della situazione che si vive in questo paese. Un
quadro molto triste perché, leggendo la denuncia fatta dal rappresentante della FAO in Honduras
nel corso del 2003, l’80% della popolazione vive in condizioni di povertà e non ha accesso a servizi
sociali di base. Il 40% dei bambini soffre di malnutrizione.
Ogni giorno muoiono circa 100 persone per patologie legate alla carenza di cibo ed all’ingestione
di acqua contaminata, in special modo bambini. Nelle zone rurali il tasso di mortalità infantile é di 7
bambini su 10.
Per quanto riguarda l’istruzione risulta che 1.200.000 persone sono analfabete e che 1.500.000
degli honduregni tra i 5 ed i 24 anni sono esclusi dal sistema educativo.
Negli ultimi anni il déficit commerciale é cresciuto del 400% rispetto alla produzione nazionale
totale.
Da altre fonti risulta che, dal 1998, i casi di assassinio e di esecuzioni extragiudiziali di minorenni
sono stati più di 2.300. Il governo stesso ha riconosciuto che agenti di polizia hanno partecipato in
molti di questi assassinii. L’impunità é assoluta.
39
Dal rapporto annuale di Amnesty Internacional risulta che Bambini e minorenni, compresi soggetti
in stato di arresto, sono stati uccisi da agenti di polizia, da personale penitenziario o da individui
non identificati (squadroni della morte).
Solo nel 2004, in due diversi penitenziari, sono rimaste uccise prima 69 persone (in aprile) e poi
piú di 100 (in maggio) a seguito di “strani incidenti”.
Specialmente nella zona della Costa settentrionale, aumenta inverosimilmente il turismo sessuale.
Aumenta il numero delle persone che spariscono perché finite nella rete di una sorta di “tratta di
donne e bambini” a scopo di sfruttamento sessuale. Il numero di ammalati di AIDS é tuttora
incalcolabile, anche se la malattia é oggi la terza causa di morte negli ospedali pubblici.
Sono altrettanto incalcolabili, per la loro enormità, le cifre che corrispondono al lavoro infantile.
Potremmo andare avanti a scrivere cifre su cifre e tutte rispecchierebbero una situazione
estremamente preoccupante e crescente di deterioramento delle condizioni sociali ed economiche.
Il paese vive una profonda crisi derivata dall’ingiusto modello economico applicato da sempre e
dalla degenerazione etica della classe politica dirigente.
Conoscendo questo paese e le sue immense risorse questa situazione pare quasi incredibile, ma
proprio queste risorse sono la causa dell’impoverimento delle masse popolari e dell’arricchimento
dei soliti pochi. Le materie prime e la mano d’opera hanno costi bassissimi, quindi le grandi
multinazionali stanno letteralmente invadendo il paese con maquillas (fabbriche di assemblaggio),
sfruttamento minerario, etc.
I popoli indigeni d’Honduras
L’Honduras é un paese multietnico e multiculturale, il 12% della popolazione é indigena,
suddivisa in 7 principali etnie (Lenca, Garifuna, Thawaka, Miskito, Pech, Tolupane e Chortì).
Questi popoli vivono in uno stato sconcertante di abbandono da parte del governo, emarginati
socialmente, politicamente ed economicamente. Il Governo ha ratificato la Convenzione 169 della
O.I.L. (Organizzazione Internazionale del Lavoro, ossia la normativa a livello mondiale sui diritti dei
popoli indigeni) nel 1994, ma non l’ha mai rispettata. Se il popolo honduregno é ridotto alla fame,
gli indigeni del paese lo sono doppiamente. Sono poche le comunità indigene che hanno una
scuola o un centro di salute o buone strade. Non viene riconosciuto il diritto alla terra a livello
comunitario, così come é nella loro cultura. La mortalità infantile raggiunge cifre spaventose e le
condizioni di vita sono di indigenza assoluta.
Il popolo Lenca è il più numeroso. E’ un popolo umile, solare e fortemente legato alla propria terra.
Il loro modello di vita è semplice (sono quasi tutti contadini) e strettamente legato alla natura. La
loro "cosmovisione" si presenta come matura consapevolezza di dover abitare questo pianeta non
come dominatori degli altri esseri viventi e della natura tutta, ma come parte di un ordine naturale
armonioso, fragile e complesso col quale coesistere in armonia. Secondo un'economia orientata a
garantire e trasmettere la vita, con una visione dei rapporti sociali comunitaria e non di
competizione individualista, con una spiritualità che arricchisca la vita. Purtroppo sono sempre
meno le terre a loro disposizione e questo implica, oltre che la povertà assoluta vista la loro
predisposizione contadina, anche la perdita d’identità indigena e comunitaria in quanto obbligati a
spostarsi verso le zone urbane.
Luca Martinelli
40
6. Il cartello del legno in Honduras
di Luca Martinelli
“Difendiamo i boschi”. In Honduras è
poco più che uno slogan, riportato sulle targhe
di tutti i veicoli immatricolati nel paese. Il
Governo, gli amministratori pubblici e gli
imprenditori più ricchi e potenti della piccola
Repubblica centroamericana (112mila kmq di
superficie, circa 7 milioni di abitanti) formano
un cartello che in nome del profitto sta
mettendo a rischio le risorse forestali di
Honduras.
Per legge, 24 leyes differenti, la più
importante delle quali è la Ley Forestal del
1972, è possibile tagliare fino 1,2 milioni di
metri cubi di legname ogni anno, anche se la
cifra reale è sicuramente maggiore, “perché
non esiste alcun controllo sullo sfruttamento
illegale delle foreste”. Non sono solo le Ong
ambientaliste a denunciarlo; ad ammetterlo è
Gustavo Morales, già responsabile della
gestione forestale per conto del Governo
honduregno. Tra il 1990 ed il 2000, l’Honduras
ha perso circa il 10% della propria superficie
forestale (5,4 milioni di ettari, in totale, nel
2000).
Secondo uno studio del 2003, la metà dei pini
-che rappresentano il 96% degli alberi tagliati
e la maggior parte del legname esportato- e
l’80% del mogano -più prezioso- vengono
tagliati illegalmente. Olancho, il più grande tra
i dipartimenti in cui è diviso l’Honduras, con
una superficie di oltre 24.500 kmq, è anche la
riserva forestale del paese. Quasi il 50% delle
foreste di Honduras si trovano nei suoi confini.
Non per molto, però: secondo il Movimento
Ambientalista dell’Olancho (MAO), in lotta
contro i tagli illegali, ogni cinque minuti si
distrugge un ettaro di bosco. 120 camion
escono ogni giorno dall’Olancho caricando
almeno 20 metri cubi di legname. 10 milioni di
alberi sono tagliati ogni anno.
Leader del MAO è Padre Andrés Tamayo,
sacerdote salvadoregno parroco nel municipio
di Salamà: “Ho visto gli alberi scomparire e le
piogge ridursi, e i contadini iniziare a perdere i
propri raccolti e soffrire la fame. Questo mi ha
fatto prendere la decisione di pronunciarmi
per la loro difesa”. Così Tamayo spiega il
proprio impegno, che lo ha portato nell’aprile
di quest’anno a ricevere negli Stati Uniti
d’America il prestigioso Goldman Prize, una
sorta di premio Nobel per l’ambiente.
Intanto, proprio dagli Usa arriva la conferma
dell’esistenza di una “rete per la depredazione
forestale in Honduras”. Una ricerca sul campo
realizzata nel corso del 2005 dall’Agenzia per
l’Investigazione Ambientale (EIA) e dal Center
for International Policy (CIP) denuncia, tra
l’altro, la devastazione della Riserva della
Biosfera del Rìo Platano, la più grande del
paese, che copre 800.000 ettari nella regione
nordorientale di Honduras, tra i dipartimenti di
Colòn, Gracias a Dios e Olancho. Stabilita nel
1980 per proteggere una sezione vitale del
Corridoio Biologico Mesoamericano, si stima
che già un 10% della Riserva sia stato
‘tagliato’ (illegalmente). Tanto che, dal 1996,
l’UNESCO classifica l’area “in pericolo”. I
ricercatori
dell’EIA,
spacciandosi
per
imprenditori stranieri interessati ad investire in
Honduras, hanno intervistato alcuni dei
principali industriali del settore. Il più ricco è
senz’altro
il
cubano
José
Lamas,
“l’intoccabile”.
Quando
nel
2004
la
Magistratura cercò di indagarlo, sparirono
41
dagli uffici della Cohdefor ( la Corporacion
Honduregna de Desarrollo Forestal) tutti i
documenti che autorizzavano le sue attività.
La sua Aljoma Lumber, con sede a Medley, in
Florida, è il principale importatore di legname
honduregno negli Usa: 70 milioni di tavole
all’anno (il 60% dell’export del paese), per un
fatturato di oltre 200milioni di dollari. Lo stesso
Lamas è presidente e principale azionista di
Bamer (Banco Mercantil de Honduras), che
riunisce i più grandi speculatori del paese
finanziandone gli investimenti (tra gli ultimi,
quelli per il controllo dei quattro aeroporti
internazionali di Honduras e per partecipare al
progetto di sviluppo turistico della Bahia de
Tela, che vede interessati anche capitali
italiani).
L’EIA ha incontrato anche Gilma Noriega,
figlia di Guillermo, titolare di Maderas Noriega,
un’altra impresa che esporta vari milioni di
tavole ogni mese, principalmente verso gli
Stati Uniti d’America e il mercato europeo.
“Attualmente, pagando non avrà problemi con
il Governo”, ha risposto a chi gli chiedeva
come ‘entrare’ nel mercato honduregno del
legname. E ancora: “Lavoriamo in Olancho da
16 anni. Basta trovare un accordo con il
sindaco, e pagarlo perché le permetta di
continuare”.
La
corruzione
tocca,
naturalmente, anche le strutture governative.
Nel 2004, il direttore di Cohdefor, Gustavo
Morales, è stato costretto a dimettersi proprio
per aver favorito Noriega, concedendo
permessi di taglio in Olancho. La corruzione
nella Cohdefor è pratica comune: molti
ingegneri e tecnici accettano mazzette per
‘segnare’ più alberi di quelli per i quali
ufficialmente si è dato il permesso di taglio,
facilitando in questo modo il taglio illegale; gli
impiegati incaricati delle ispezioni informano
gli industriali prima di realizzarle. Spesso, poi,
quando si tratta di visitare le regioni prima di
concedere i permessi, il viaggio dei funzionari
di Cohdefor è pagato dalle stesse imprese.
Dal taglio al trasporto: agenti di polizia
permettono il passaggio di camion che
caricano un volume di legname con
documenti falsificati o utilizzati illegalmente
per numerosi carichi.
Un vero e proprio “cartello” cui le
organizzazioni ambientaliste hanno risposto
organizzando una Marcha por la vida e
chiedendo una moratoria al taglio nella
regione orientale del paese. Nulla, purtroppo,
la risposta delle autorità.
42
7. Bahia de Tela
Il capitale italiano all’assalto delle spiagge Garifuna
di Luca Martinelli
«Vivevamo, poveri ma tranquilli».
Ha le idee chiare il vicepresidente del
Patronato di Triunfo de la Cruz, una comunità
garifuna situata nel golfo di Tela, lungo la
Costa Atlantica di Honduras.
I garifunas, i negri di Honduras, sono
centocinquantamila, il 2% della popolazione
nazionale secondo le statistiche ufficiali; sono
cinque o seicentomila (compresi quelli che
vivono all’estero, principalmente negli Stati
Uniti d’America) secondo i dirigenti di
Ofraneh, l’Organización fraternal de los
negros de Honduras che lavora dagli anni
settanta in una trentina di comunità, dislocate
lungo tutta la Costa Atlantica del Paese
centroamericano.
I discendenti dei primi garifunas giunti in
Honduras alla fine del settecento, provenienti
dell’isola
caraibica
di
Sao
Vicente,
sopravvivevano dedicandosi alla pesca e
all’agricoltura: poveri ma tranquilli.
A metà degli anni novanta, però, il Governo
ha deciso che le loro terre erano una risorsa
per il Paese; e che loro, che lì vivono da 209
anni, dove sono arrivati «ben prima
dell’indipendenza del Paese dalla Spagna» –
come ci tiene a sottolineare Ofraneh –, erano
di troppo.
Da allora non c’è più pace per i garifunas,
costretti a combattere una guerra impari
contro alcune delle famiglie più ricche e
potenti del Paese.
Il nodo del problema è il turismo: per il
Governo (e alcuni imprenditori che ne
muovono i fili) è l’unica salvezza per la
disastrata economia del Paese; lo ha scritto
anche il Washington post (gennaio 2004) che
l’Honduras è oggi una delle prime dieci
destinazioni turistiche a livello mondiale.
L’ex ministro del Turismo Thierry de Pierrafeu
(il Governo è cambiato il 27 gennaio scorso,
dopo le elezioni di fine novembre) lo definisce
“Eco-etno turismo”: mettere a disposizione del
turista la natura del paese e la ricchezza
culturale dei suoi popoli originari. Svenderle,
secondo i garifuna: non credono che il turismo
porterà prosperità e lavoro per la gente delle
comunità. «Al più ci chiameranno a lavorare
come camerieri, o per sculettare nei nostri
“balli tradizionali”» racconta il presidente del
Patronato.
Nel 1992 ci fu il primo tentativo di investire a
Triunfo de la Cruz. Il progetto si chiamava
Marbella: un complesso residenziale lungo
una striscia di sabbia di almeno tre km, dal
villaggio fino alla riserva naturale di Punta
Izopo.
Ville e villette con giardino in riva al mare,
piscina e belle mura in cemento armato.
Per aggirare la legislazione nazionale, che
protegge
l’inalienabilità
delle
terre
comunitarie, protette dalla Costituzione (oltre
che
dalla
Convezione
n.
169
dell’Organizzazione internazionale del lavoro,
ratificata dall’Honduras nel giugno 1994), il
Governo municipale di Tela ha votato una
43
delibera secondo la quale il territorio di Triunfo
de la Cruz apparteneva al centro urbano della
città.
Un espediente per poter iniziare a privatizzare
la costa: la lottizzazione oggi va avanti con il
finanziamento dell’Unione Europea nell’ambito
del
programma
Path
(Programa
de
Administración de Tierras de Honduras),
realizzato
con
la
collaborazione
di
Organizzazioni
non
governative
che
realizzano le attività di catasto (tra le altre,
l’italiana Cisp, Comitato Internazionale per lo
Sviluppo dei Popoli www.cisp-ngo.org).
Anche se l’opposizione ha fermato Marbella
(solo una decina le ville effettivamente
costruite, più una mezza dozzina di scheletri
rimasti incompleti vicino alla spiaggia), la
comunità ne paga oggi le conseguenze:
Triunfo de la Cruz ha subito seri danni per le
piogge torrenziali che hanno colpito
l’Honduras nell’autunno del 2005.
I corsi d’acqua sotterranei, ingrossati dalle
piogge, hanno trovato nei muri di cemento
armato un ostacolo al proprio cammino verso
il mare e se lo sono aperto dove hanno
potuto: tra le case della comunità.
Molti hanno perso tutto.
Sono nati nuovi fiumi (uno è stato ribattezzato
rio Gama, dal nome dell’ultimo uragano del
novembre 2005) e una parte della comunità
oggi è raggiungibile solo in canoa.
Per il caso Marbella Alfredo Lopez,
rappresentante di Ofraneh a Triunfo de la
Cruz, si è fatto sette anni di carcere.
L’accusa a suo carico, montata ad hoc dai
pubblici ministeri, era di traffico di sostanze
stupefacenti. La sua colpa, quella di essere
uno dei leader della comunità. Alfredo non è
mai stato processato.
«Mi hanno preso una prima volta nel 1995.
Due
paramilitari.
Mi
ha
interrogato
l’intelligence: mi chiedevano se sapevo cosa
ci fosse in gioco con il progetto. Lì ho capito
che stavamo toccando interessi forti».
La detenzione definitiva avvenne il 27 aprile
del 1997, a Tela. «Quattro giorno dopo il mio
arresto venne ucciso in un ristorante Jesus
Alverez, un altro dei leader di Triunfo»,
continua Alfredo. «Il movimento perdeva due
persone importanti in un colpo solo.
L’organizzazione era a terra e tutti i progetti
collettivi si fermarono», ricorda.
Nel frattempo grazie ad una Radio
comunitaria Alfredo riusciva a comunicare con
la sua gente e appoggiava così, dall’interno
del carcere, la rinascita del Comitato, alla cui
guida c’è Teresa Reyes, sua moglie.
A tre anni dall’arresto, Alfredo riceve un’offerta
che rispedisce al mittente: soldi in cambio del
permesso per far entrare il progetto nelle
comunità.
Rifiuta e viene trasferito nel carcere di Puerto
Cortés, a più di 200km da Triunfo de la Cruz:
«Dopo cinque anni senza un processo era
chiaro che fossi un prigioniero politico.
Presentammo il caso alla Commissione
Interamericana di Diritti Umani (CIDH) per
riesaminarlo. Alla fine sono uscito dopo quasi
sette anni, ma senza giustizia. Non credo che
mai si farà».
La nuova battaglia di Alfredo Lopez e di
Ofraneh è contro “Los Micos. Beach and golf
resort”. Conosciuto come proyecto Bahia de
Tela, è il diamante nella strategia di sviluppo
turistico di Thierry de Pierrefeu: alberghi di
lusso, 2000 appartamenti, 6 multi-residences
per un totale di 168 ville, centri commerciali,
parchi tematici e di intrattenimento.
Sono previsti anche un campo da golf e un
villaggio garifuna ricostruito all’interno del
complesso. In totale, un mostro di oltre 300
ettari in una zona vergine tra i villaggi di
Tornabé e San Juan. Per un investimento
stimato tra i 140 e i 200 milioni di dollari.
Opporsi è rischioso: in novembre hanno
bruciato la casa di Wilfredo Lopez di San Juan
de Tela. Hanno cercato di bruciarlo vivo,
insieme ai documenti raccolti sul progetto.
Il 15 gennaio altri membri del Patronato e del
Comité di San Juan sono stati attaccati da
pistoleri al soldo di Promotora de Turismo
(PROMOTOUR), l’agenzia di proprietà di
Jaime Rosenthal Oliva, uno degli imprenditori
più ricchi di Honduras, che pretende il
controllo delle terre di San Juan Nuevo.
Fanno parte, però, del titolo di proprietà
collettiva della comunità de San Juan: «1775
ettari che i garifuna utilizzano dal 1911»
precisano quelli di Ofraneh denunciando
l’attentato.
«Il Governo è infuriato con il popolo garifuna.
Funzionari vengono inviati nelle comunità per
spiegare i benefici di Bahia de Tela. Noi
vogliamo che ci dimostrino quali saranno
questi benefici», si arrabbia Miriam Miranda,
coordinatrice di Ofraneh.
44
Ovunque, stanno cercando di comprare i
leader comunitari: sono quasi riusciti a
fermare le proteste a Tornebé e Miami,
un’altra comunità della baia.
A Triunfo de la Cruz sono esperti: con il
Fondo Prosperidad della Banca Mondiale
hanno provato a dividere il Patronato offrendo
prestiti personali ad alcuni leader per avviare
piccole attività economiche (forni, bed &
breakfast).
dell’Honduras. Hotel, villaggi vacanze, bar e
internet café gestiti da compagnie occidentali
sulla spiaggia bianca dei Caraibi, senza
alcune ricaduta positiva – né economica (al di
là dei posti di lavoro) né sociale – per la
popolazione locale.
Non ce l’hanno fatta: la gente ha ben presente
lo sfacelo di Roatán, l’isola al largo della
Costa Atlantica che è diventata la Cancún
È meglio, pensano, restare poveri ma
tranquilli. «Non siamo contrari al turismo.
Siamo contro questo tipo di turismo».
I garifuna non ne vogliono una in casa propria,
anche se raccontano sia l’unico progresso
possibile.
45
PARTE TERZA :: la società
8. Virginia e la maquila
Storia di una donna indigena in Guatemala
di Francesco Filippi
Un racconto e alcune considerazioni sulle
strategie di sviluppo basate sull’industria
maquiladora in Guatemala e in Chiapas53.
E’ la prima volta che intervisto qualcuno;
dietro il registratore non mi trovo a mio agio e
mi meraviglio che la persona che sta dall’altro
lato si apra e mi racconti tante cose.
Soprattutto quando dall’altro lato c’è una
persona come Virginia.
Virgina ha 25 anni, poco più di me, e un
bambino di tre anni. Il padre di suo figlio non
ebbe il coraggio di condividere le difficoltà di
allevare ed educare un bambino e se ne
andò. Così Virginia, a 22 anni, si trovò con un
figlio neonato, sola e senza lavoro; senza
lavoro perché nella casa dove lavorava come
domestica era stata licenziata quando
scoprirono che era in gravidanza. Anche dal
primo lavoro che ebbe, Virginia venne
53
Il presente articolo si basa su dati, storie e
informazioni reali raccolte dall’autore in varie
interviste fatte in Guatemala, nel dicembre 2004,
con: sindacalisti delle federazioni FESTRAS e
UNSITRAGUA,
esponenti
del
gruppo
di
monitoraggio indipendente COVERCO e della
O.n.G. CALDH
licenziata; era segretaria in un ufficio notarile
e si trovava bene al lavoro. Fino a quando,
per strada, un proiettile la raggiunse
casualmente alle spalle, lasciandola immobile
in un ospedale per un bel po’ e, soprattutto,
lasciandola senza il suo posto di segretaria,
poiché il suo datore di lavoro non ebbe la
pazienza
di
aspettare
che
salisse
dall’ospedale.
Come allevare un bambino senza lavoro?
Come assicurargli una vita degnitosa?
Fortunatamente, il paese di Virginia,
Guatemala, alle donne giovani e alle ragazzi
madri come lei, offre una favolosa opportunità:
lavorare in una maquiladora.
I governi guatemaltechi degli ultimi 20 anni,
sinceramente preoccupati, per la situazione di
disoccupazione, povertà, violenza nella quale
vivono centinaia di migliaia di giovani
guatemaltechi, si sono impegnati in cercare e
creare opportunità, prima di tutto, di lavoro. In
Guatemala, la manodopera ha alcune
caratteristiche peculiari: le scarse risorse
economiche della quali gode la popolazione,
la forte concentrazione di queste risorse nelle
mani di poche persone e gli scarsi
investimenti
pubblici
in
settori
quali
46
l’educazione, hanno creato grandi numeri di
lavoratori non qualificati né specializzati; la
crisi del caffè (uno dei principali prodotti del
Guatemala), che determinò una drastica
diminuizione del prezzo pagato al produttore,
e del settore agricolo in generale, ha lasciato
in una situazione molto grave milioni di
guatemaltechi impiegati nel settore primario, i
quali hanno deciso di lasciare la campagna e
andare nelle città in cerca di migliori
opportunità di lavoro e di vita. Questo
fenomeno ha aumentato ancora di più le
masse urbane disposte ad accettare qualsiasi
lavoro per poter guadagnare il necessario per
“tortillas e fagioli”.
Che lavoro dare a queste persone ignoranti,
indigenti, molte delle quali giovani e donne?
Un
altro
elemento
importante
della
descrizione della manodopera guatemalteca è
rappresentato da una delle eredità lasciate
dalla guerra: la totale disarticolazione del
movimento operaio. Durante la guerra,
attivisti,
sindacalisti,
lavoratori
che
semplicemente chiedevano il rispetto dei
propri diritti vennero repressi, sottoposti a forti
pressioni, torturati e assassinati. Il clima di
paura e terrore fece si che i sindacati
perdessero iscritti e appoggio: oggi la
percentuale di lavoratori sindacalizzati è
infima, nonostante il codice del lavoro
guatemalteco garantisca la libertà sindacale.
E’ così che i governi del Guatemala, assieme
alle
imprese
nazionali,
straniere
e
multinazionali, ebbero una grande intuizione:
fare della scarsa qualificazione dei lavoratori,
della loro povertà e necessità estrema, e della
propria vulnerabilità non uno svantaggio nel
cammino per uno sviluppo umano integrale,
che
occorre
combattere
attraverso
investimenti nel settore educativo e nella
formazione, attraverso programmi sociali e la
tutela effettiva dei diritti del lavoro, bensì un
vantaggio. O meglio, un vantaggio competitivo
utile per attrarre e fomentare gli investimenti
stranieri e nazionali come le maquiladoras:
grazie all’abbondanza della manodopera poco
costosa e non qualificata e grazie alla paura
che i lavoratori ancora hanno d’organizzarsi
per
migliorare
le
proprie
condizioni,
Guatemala può attrarre grandi numeri di
stabilimenti dove si compiono le fasi
produttive più semplici e che richiedono
manodopera
in
misura
maggiore
(assemblaggio, confezione, ecc.). Il governo si
è impegnato molto per facilitare ancor di più
gli investimenti di questo tipo, accordando agli
investitori del settore maquilador, agevolazioni
fiscali per l’importazione degli inputs
produttivi, per la lavorazione degli stessi e per
l’esportazione dei manufatti.
Il Guatemala ha saputo trasformare problemi
che, generalmente, colpiscono negativamente
lo sviluppo di un paese in elementi che lo
alimentano.
Invece
implementare
cari
programmi pubblici per sanare questi
problemi, per lo più insostenibili in un’epoca
nella quale agli stati si raccomanda di ridurre
le proprie spese in nome del dogma liberista,
Guatemala ha approfittato di questi per
“diventare un paese esportatore”, come
annunciano i grandi cartelli pubblicitari posti,
lungo
le
strade
guatemalteche,
dall’AGEXPRONT
(l’associazione
degli
esportatori di prodotti non tradizionali).
La strategia del Guatemala è stata un grande
successo: i vantaggi competitivi elencati e le
facilitazioni fiscali hanno attratto nel paese
molte maquiladoras, soprattutto nel settore
tessile e dell’abbigliamento. Nell’ottobre 2004,
in Guatemala c’erano 225 maquiladoras della
confezione, 44 tessili e 275 di accessori e dei
servizi, con un totale di 145.511 impiegati.
Quando visitai VESTEX (Guatemala Apparel
and Textil Commitee), la sollecita impiegata
Claudia mi raccontò, illustrandomi montagne
di numeri, questa storia di successo
economico,
spendendo
molto
tempo
informandomi del contributo fondamentale che
le maquiladoras apportano alla crescita del
paese in termini di esportazioni, PIL, posti di
lavoro, ecc.
Virginia, invece, mi raccontò un’altra storia. La
sua storia.
Trovare lavoro in una maquila non era stato
un problema; non le avevano chiesto requisiti,
competenze specifiche o determinati livelli di
scolarizzazione. Solo voglia di lavorare e di
contribuire, unendo il proprio sforzo a quello
dei datori di lavoro, a fare del Guatemala “un
paese esportatore”; ha, quasi, un senso
patriottico questa espressione anche se il dato
per il quale 166 delle 225 imprese di
confezione
hanno
capitale
straniero
47
(soprattutto coreano)
supposto patriottismo…
toglie
molto
del
Virginia doveva lavorare 8 ore al giorno per un
salario mensile di 1440 Quetzales (195 dollari
statunitensi), più le ore di straordinario che
chiaramente erano volontarie anche se ben
accette come prova di buona volontà; così le
avevano detto. Virginia, senza molte
alternative, chiaramente accettò; con il salario
non riusciva a comprare “tortillas e fagioli” per
lei e per proprio figlio ma, per lo meno, aveva
un salario fisso e sicuro.
Dunque, Virginia entrò nella maquila.
Lavorava con altre 400 persone circa, in gran
parte donne. I bagni erano solo 4 e, in queste
condizioni, non era facile fare i propri bisogni
velocemente come era richiesto dalla
gerenza.
Su d’una lavagna bianca, ogni giorno, i gerenti
scrivevano le mete di produzione che
bisognava raggiungere, ossia il numero di
capi d’abbigliamento da confezionare.
Virginia non rifiutava le ore extra perché non
voleva perdere la fiducia della direzione e
perché aveva bisogno di queste ore per
raggiungere una somma mensile sufficiente
alle proprie necessità di ragazza madre;
Virginia lavorava, così, circa 13 ore al giorno
e, sostenendo questo sforzo, era sicura che
avrebbe ricevuto una paga soddisfaciente.
Arrivò un periodo nel quale le mete fissate
sulla lavagna bianca erano sempre più alte e il
suo orario raggiungeva, alcuni giorni, le 16-18
ore di lavoro! In questi giorni suo figlio di
ammalò e Virginia, un giorno, finite le 8 ore di
lavoro, salutò la propria collega (con la quale
quasi mai parlava per non rimanere indietro
nel produzione, nonostante le loro macchine
da cucire fossero molto vicine, come le aveva
messe la direzione allo scopo di risparmiare
spazio) e lasciò il proprio posto per portare il
figlio dal medico. Un urlo in spagnolo
imperfetto la fermò, spaventandola. La
responsabile coreana della sua linea di
produzione
la
raggiunse
chiedendole
violentemente dove voleva andare; Virginia
spiegò la propria situazione. La coreana quasi
la picchiò, gridandole che, se se ne andava,
non doveva più tornare al lavoro, e che erano
lontane ancora dalla meta di produzione
giornaliera e che, quindi, nessuno poteva
uscire. Virginia, spaventata, ritornò alla
propria macchina, mentre tutte le sue
colleghe, zitte e con lo sguardo basso,
continuavano a cucire, senza osare guardare
la coreana. Suo figlio, a casa della nonna,
continuava ad avere la febbre.
Arrivò il giorno di paga. 1600 Quetzales (216
dollari). Le numerose ore di straordinario
effettuate per raggiungere le mete di
produzione della lavagna bianca, lasciando
proprio figlio con la febbre senza attenzione
medica, le avevano reso 160 Quetzales (22
dollari). Virginia non ci poteva credere e
pensò che ci fosse un errore; decise di
chiedere spiegazioni. Il responsabile risorse
umane le confermò che 1600 quetzales erano
la paga e, inoltre, le mostrò la rinuncia al
lavoro, sottoscritta da lei, dicendole che se per
caso non le piacesse il lavoro o lo
considerasse incompatibile con le proprie
necessità personali, poteva andarsene senza
problemi, naturalmente senza ricevere
nessuna indennizzazione, dato che aveva
firmato la rinuncia volontaria al lavoro che
liberava l’impresa da ogni obbligo. Virginia
non poteva dire molto; le avevano detto che
quel foglio, la rinuncia, era parte del contratto
e lei, non sapendo leggere molto bene, aveva
firmato con fiducia. Addirittura chiese scusa a
testa bassa e ritornò al proprio posto di lavoro.
Uscendo dalla fabbrica, Virginia raccontò alle
proprie colleghe ciò che le era successo. Così
che, parlando con loro, scoprì che le ore di
straordinario non venivano pagate per ora
bensì a discrezione della direzione, anche se
erano, praticamente, obbligatorie.
Dopo pochi mesi di lavoro, Virginia iniziò ad
avere problemi respiratori; molte sue colleghe
soffrivano gli stessi disturbi ed era chiaro che
ciò aveva a che vedere con la grande quantità
di polvere e pelucchi, residui delle operazioni
svolte nello stabilimento, che si posavano
sulle macchine e sopra ogni oggetto nella
maquila, dato che molto raramente si
facevano le pulizie nella maquila e non
esistevano ventilatori. Viginia doveva andare
al Seguro Social (istituzione pubblica che
garantisce ai lavoratori assistenza medica
gratuita) per verificare le proprie condizioni di
salute, quindi chiese il permesso e i
documenti
necessari
alla
direzione;
nuovamente fu quasi licenziata e le negarono
il permesso, accusandola di essere pigra e di
dichiararsi ammalata per non lavorare. In
48
verità, la direzione non aveva nemmeno i
documenti necessari a Virginia per ricevere
assistenza medica, perché non le avevano
mai pagato il Seguro Social, nonostante la
direzione avesse sempre detratto dalla sua
paga la somma dovuta all’istituzione.
Virginia capì che lamentarsi era pericoloso.
Per lo meno se a lamentarsi era la unica.
Pertanto iniziò a parlare con le proprie
colleghe per vedere se anche loro avevano gli
stessi problemi e per cercare una soluzione
tutte insieme. Molte colleghe non volevano
nemmeno sentirne parlare: le dicevano che se
ciò che lei voleva fare era un sindacato, loro
non ne volevano sapere perché era troppo
pericoloso, che loro preferivano sopportare le
condizioni di lavoro piuttosto che mettere in
pericolo loro stesse e le proprie famiglie.
Virginia non capiva, mettere in pericolo,
perché? Le sue colleghe le raccontarono che
in alcune maquiladoras, chi aveva organizzato
il sindacato era stato messo sotto pressione e
picchiato. Ad una donna avevano, addirittura,
violentato la figlia, ad altre minacciato i
famigliari.
Virginia aveva paura, soprattutto per suo
figlio; ma sapeva anche che, in queste
condizioni, non c’era futuro né per lei né per
proprio figlio. Quindi, incontrando alcune
colleghe più disponibili, si fece promotrice
dell’organizzazione di un sindacato nella
maquiladora.
Virginia e le sue colleghe sindacalista o
iscritte al sindacato sono state licenziate;
hanno denunciato alle autorità competenti la
direzione della maquila, chiedendo di essere
reintegrate nel proprio lavoro e sono in attesa
della sentenza. Inoltre, nella maquiladoras,
improvvisamente, è nato un altro piccolo
gruppo di lavoratori che si oppone al
sindacato, affermando che il sindacato
colpisce gli interessi dei lavoratori stessi in
quanto dove c’è sindacato le imprese perdono
ordini di produzione. La stessa direzione
dell’impresa ha organizzato questo gruppo,
arrivando a pagare alcuni lavoratori affinchè vi
si integrino e si oppongano al sindacato.
Secondo la direzione non esistono problemi in
relazione al trattamento e alle condizioni dei
lavoratori, come confermerebbe il fatto che
l’impresa abbia adottato e volontariamente
“applichi” un codice di condotta che garantisce
i livelli minimi di tutela dei lavoratori.
In Guatemala, nonostante gli sforzi compiuti
da varie centrali sindacali, solo in tre
maquiladoras esiste sindacato, in una, la
maquila dove lavora(va) Virginia, la situazione
è molto difficile perché i lavoratori organizzati
sono stati licenziati. I tre sindacati esistenti
appartengono alla federazione FESTRAS.
Potrebbe essere la storia di Virginia la storia
di una donna chiapaneca?
Probabilmente si, soprattutto fra qualche
anno.
Come non dimenticano di sottolineare i politici
messicani, il Chiapas condivide con l’America
Centrale molte caratteristiche e un piano di
sviluppo di questo stato messicano non può
non integrare anche i vicini centroamericani. Il
Chiapas, per esempio, condivide con il
Guatemala molti dei vantaggi competitivi che
sono stati fondamentali nell’attrazione delle
maquiladoras; ossia, il Chiapas ha gli stessi
problemi che il Guatemala ha convertito in
supposti
vantaggi:
una
numerosa
manodopera non qualificata proveniente, in
parte, dalla campagna (dopo che l’invasione
dei prodotti agricoli statunitensi e la crisi del
prezzo del caffè hanno espulso migliaia di
contadini) e che è la meno costosa di tutto il
Messico, con una scarsa tradizione di
organizzazione sindacale.
Il governo messicano, con i paesi
centroamericani, ha lanciato, negli ultimi anni,
piani di sviluppo come il Plan Puebla Panamà
e il Plan Marcha hacia el Sur (marcia verso il
Sud) che, accordando facilitazioni e privilegi
agli investitori e attraverso la creazione di
infrastrutture di trasporto, ecc., promette di
attirare investimenti che sappiano approfittare
dei “vantaggi” del Chiapas; in relazione alla
scarsa tradizione sindacale del Chiapas, nel
sito intenet del governo statale chiapaneco
(www.chiapas.gob.mx), si può trovare una
presentazione del Plan Marcha hacia el Sur
che propone, esplicitamente, questo dato
come un vantaggio per gli investimenti nello
stato,
dimenticando
e
attaccando
palesemente il diritto all’organizzazione
sindacale dei lavoratori, garantito dalla
costituzione messicana e dai trattati
internazionali della OIL ratificati dal Messico.
49
Il numero delle maquiladoras in Chiapas e nel
Sud-Est messicano è aumentato molto negli
ultimi anni e l’installazione delle maquilas in
quest’area è stata salutata dalle massime
autorità come l’inizio di un nuovo sviluppo
industriale.
Il Messico conferma, così, una miope
posizione liberista; invece di educare e
formare le risorse umane locali, invece di
proteggere la produzione agricola di fronte
alle esportazioni statunitensi, invece di
implementare un’industria d’alto valore
aggregato e capace di generare un vero
sviluppo, invece di dare attenzione alla
fondamentale eredità culturale e sociale
autoctona, promuovendone l’emancipazione
economica e sociale e la salita da una
situazione di povertà ed emarginazione
plurisecolare, il Messico preferisce espandere
un’industria, quella maquiladora, che lascia i
lavoratori nella povertà e nella precarietà, che
non genera relazioni positivi e forti con
l’industria
locale
e,
nella
quale,
semplicemente
si
assemblano
e
si
confezionano inputs importati., producendo
manifatture destinate all’estero.
L’opzione scelta dal Messico non pare capace
di indurre uno sviluppo umano integrale, che
determini miglioramenti, non solo negli indici
macroeconomici, bensì anche nei reali livelli di
benessere e nell’effettivo rispetto delle libertà
e dei diritti della popolazione chiapaneca
meticcia e indigena.
50
SCHEDA 2 :: LE MAQUILAS IN MESSICO E IN
CENTROAMERICA
Storia dell’industria maquiladora
È il governo messicano il primo ad aprire le proprie frontiere all’industria maquiladora, “che
nasce in Messico nell’anno 1964, dopo la sospensione del “Programma bracciante”, come parte
del Programma Nazionale per la Frontiera e con l’obiettivo di risolvere una necessità concreta:
dare un impiego permanente ai lavoratori temporali (braccianti) che oltrepassavano la frontiera per
lavorare nelle piantagioni U.S.A.”54.
La Repubblica messicana muoveva verso la fine della politica di sostituzione delle importazioni che
aveva caratterizzato il modello di sviluppo industriale a partire dagli anni ’40, e con questo si
eliminavano le imposte sull’importazione di materie prima, macchinari e parti per l’industria
di assemblaggio le cui imprese dovevano essere localizzate entro 20 miglia dal confine
settentrionale del paese (c.d. “regime di Zona Franca”).
Fu il Governo di Echeverria a permettere (1972) la distribuzione delle maquiladoras su tutto il
territorio della Repubblica ma l’espansione, anche durante la Presidenza di Lopez Portillo (19761982), rimase limitata.
De la Madrid e Salinas de Gortari, che hanno governato il Paese tra il 1982 ed il 1994, hanno
invece dato un impulso straordinario allo sviluppo del settore con ogni sorta di riforma
costituzionale e fiscale volte a favorire l’ingresso del capitale straniero. Tra il 1980 ed il 1990 il
numero di imprese registrate passò da 620 a 1703 con una crescita del 200% circa, mentre
l’occupazione nel settore passò nello stesso periodo dalle 119.556 alle 446.436 unità. Nel corso
degli anni ’90 il numero di maquiladoras passò da 1703 a 3296 (giugno 1999) con un incremento di
circa il 100% per quanto riguarda l’occupazione.
Il dato interessante è che nella stessa decade tale industria, stanziatasi inizialmente solo lungo la
frontiera settentrionale del paese, ha espanso la propria influenza fino ad essere presente in 27
degli stati della Federazione tra cui Puebla, Guerrero, Yucatan e Quintana Roo nella regione sudorientale, anche se la percentuale installata al di fuori della frontiera Nord è tuttora bassa.
Le maquiladoras nel sud-est messicano
Nel corso degli ultimi quindici anni, un programma governativo, la “Marcha hacia el Sur”, ha
promosso la progressiva penetrazione dell’industria maquiladora nella regione sud orientale del
Paese, rispondendo alle esigenze degli Stati Uniti d’America, delineate nel documento Santa Fé II,
che delinea le strategie Usa verso l’America Latina negli anni novanta.
“Gli Stati Uniti dovranno riconsiderare il programma di Impianti Gemelli/Industrie di Frontiera con il
Messico, alla luce dei possibili costi economici e sociali di lungo periodo per entrambe le
repubbliche. Le maquiladoras lungo la frontiera messicana-nordamericana, hanno portato impiego
a centinaia di migliaia di messicani. Senza dubbio, non è chiaro se lo stesso beneficio si sia dato
per i lavoratori nordamericani. Inoltre, i milioni di messicani che sono stati attratti verso il nord, e le
cui aspirazioni non sono state soddisfatte, tendono ad entrare negli U.S.A. attraverso la frontiera e
ciò accelera ulteriormente la immigrazione illegale. Molti dei messicani che oltrepassano la
frontiera sono uomini che non possono ottenere un impiego presso le maquiladoras, giacché le
principali abilità manuali ed il lavoro a cottimo sono realizzati in modo migliore dalle donne. […] La
concentrazione di nuove industrie lungo la frontiera settentrionale del Messico ha reso ancor più
disequilibrato il già irregolare sviluppo del paese. Perciò, le industrie nordamericane dovrebbero
54
Andrea Comas Medina, Las maquiladoras en Mexico y sus efectos en la clase trabajadora, Novembre
2002. http://www.rcci.net/globalizacion/2002/fg296.htm
51
considerare la possibilità di spostare le proprie macchine molto più all’interno del Messico. Questo
spostamento verso il sud aumenterebbe lo sviluppo equilibrato del Messico, promuoverebbe le
industrie locali, stabilizzerebbe la famiglia messicana ed aiuterebbe a risolvere alcune delle
condizioni sociali e sanitarie stimolate per il Programma di Industrie della Frontiera. Nel lungo
periodo, tale spostamento verso l’interno del Messico, beneficerà entrambi i paesi”55.
La presenza di impianti maquilador nella regione sud-orientale del paese è così cresciuta in modo
vertiginoso negli ultimi anni e – d’accordo con le statistiche dell’INEGI – nel novembre del 2000 ne
esistevano già 377, la maggior parte delle quali impegnate nel settore tessile.
Esse ripetono le caratteristiche già ampiamente riscontrate ove le maquiladoras si sono istallate
dagli anni ’60: “un quasi inesistente grado di integrazione con l’industria nazionale e bassissimi
salari per le operaie e gli operai se comparati con l’intensità del lavoro”56 (più bassi del 30%
rispetto a quelli delle maquiladoras della zona centrale del paese e del 40% più bassi rispetto alla
frontiera nord).
Nel Municipio di Tehuacan, Puebla, esiste una struttura di circa 250 tra grandi, piccole e medie
imprese dove maquilan i propri vestiti grandi firme quali Tommy Hilfigger, Calvin Klein o Gap in
impianti dove pagano ai propri operai salari di 350-400 pesos mensili57.
Nel Municipio di San Cristobal de Las Casas, Chiapas, intervenne addirittura Vicente Fox per la
cerimonia di inaugurazione della “Trans Textil International” (TTI), la prima maquiladora nella
Regione Altos, la cui installazione è stata resa possibile da un investimento pubblico di 17 milioni
di pesos, 6 del programma federale “Marcia verso lo Sviluppo”e 11 del Governo statale, che,
inoltre, comprò per 11 milioni di pesos l’immenso stabilimento dal precedente proprietario,
cedendolo poi a TTI in comodato.
Era l’11 di aprile del 2002. Secondo una ricerca pubblicata nell’aprile del 2003 dal ricercatore
Miguel Pickard di CIEPAC, ad un anno dalla sua apertura “il 60% dei [450] lavoratori dell’impianto
sono donne, il 40% delle quali indigene. L’età media è di 22 anni. Gli impiegati ricevono il salario
minimo, attualmente 40.30 pesos al giorno (3.84 dollari U.S.A.) corrispondente alla “zona C”,
quella ove meno si guadagna nel paese. Ufficialmente si lavora per 45 ore alla settimana, ripartite
in 5 giorni, più due domeniche al mese, i giorni dei pacchi”58.
Se al momento della sua nascita TTI fabbricava maglie per l’esportazione, oggi essa riceve
prodotti semilavorati da imprese gemelle di Puebla e Tlaxcala che finisce di assemblare. L’impresa
ha già cambiato nome e sta licenziando lavoratori. “Secondo la denuncia di una donna licenziata
recentemente, la maquiladora non si chiama più Trans Textil ma è conosciuta come STS Spintex,
da dove si presume che cacceranno 200 impiegati su un totale di 450 persone che vi lavorano”59.
Pur affermando di non avere soldi per mantenere tanti operai, l’impresa sta cercando nuove
persone da occupare, il cui stipendio verrà coperto dai sussidi del Servizio Statale per l’impiego.
L’industria maquiladora in Messico oggi
La massima espansione dell’industria maquiladora è data nel giugno del 2001 quando si
contano 3.763 stabilimenti e 1.347.803 lavoratori impiegati. Da allora il settore registra una crisi
importante che ha portato alla chiusura (ottobre 2003) di 937 stabilimenti ed alla perdita di 277.892
posti di lavoro in circa due anni. La crisi ha colpito principalmente gli Stati di Chihuahua (Ciudad
55
Documento de Santa Fé II, Una estrategia por America Latina en la decada de 1990, Santa Fé, 1988.
http://www.geocities.com/proyectoemancipacion/documentossantafe/santafeii.doc
56
Alejandro Villamar, El Plan Puebla Panama: extension y profundizacion de la estrategia regional
neoliberal, o nueva estrategia de desaarrollo integral y sustentable desde las comunidades, RMALC,
febbraio 2001.
http://www.laneta.apc.org/biodiversidad/documentos/ppp/planpprmalc.htm
57
Fabiola Martinez, No se aplca la ley laboral en factorias de Puebla, La Jornada. 8 settembre 2002.
58
CIEPAC, Boletin Chiapas al dia No. 339, Tran Textil International S.A. de C.V., la maquiladora de San
Cristobal de Las Casas, 23 aprile 2003. www.ciepac.org
59
Carlos Herrera, Fabrica Trans Textil, un engano, Cuarto Poder. 28 gennaio 2004.
60
Gordon H. Hanson, The Role of Maquiladoras in Mexico’s Export Boom, University of California, San
Diego, July 2002.
http://www2-irps.ucsd.edu/faculty/gohanson/Rice%20Maquila.pdf
52
Juarez, - 64.058 impieghi, il 23% del totale) e Baja California (Tijuana, - 262 impianti e – 52.870
impieghi, il 19% del totale).
Nonostante la crisi degli ultimi due anni, il bilancio dell’industria di assemblaggio dall’entrata in
vigore del NAFTA resta positivo (almeno in termini macro-economici):
- a partire dal 1994 sono 523.323 i nuovi posti di lavoro creati nel settore;
- tra il 1990 ed il 2002 il settore ha conosciuto una crescita media annua (in termini di valore
reale) del 10% mentre la crescita media annua del PIL del paese si è attestata sul 3%;
- nel 2000 il commercio internazionale partecipava con il 32% alla formazione del Prodotto
Interno Lordo (contro l’11% nel 1980), in un contesto in cui le maquiladoras generano il
48% del commercio estero del Messico.
Per quanto riguarda invece il “paese reale”, tale crisi assume un valore drammatico se si pensa
che l’industria maquiladora ha rappresentato, dal 1994 ad oggi, il locomotore economico del
paese, l’unico settore che ha saputo garantire quella crescita miracolosa promessa dai padri del
Trattato di Libero Commercio, crescita ottenuta, però, a scapito di un effettivo miglioramento
sociale ed economico per i cittadini del paese.
Le ragioni che possono spiegare la crisi sono molteplici:
(a) l’eccessiva sensibilità dell’economia messicana rispetto all’andamento di quella statunitense in
generale ed al comparto manifatturiero in particolare. “L’attività delle maquiladoras cresce più
rapidamente del prodotto degli Stati Uniti durante un periodo di boom e si contrae maggiormente in
un periodo di recessione. Tra il 1990 ed il 2001, mentre l’output manifatturiero U.S.A. cresceva di
un modesto 4% annuale, il valore aggiunto della maquiladora cresceva di uno straordinario 13%
annuale. Tra il 2001 ed il 2002, quando l’output manifatturiero decresceva del 4% negli Stati Uniti,
quello dell’industria maquiladora cadeva dell’11%”60;
(b) un cambio di politica fiscale che ha comportato un aumento del 35% della tassazione sui
profitti di una compagnia;
(c) un aumento del salario medio degli occupati nel settore (dell’ordine del 8-9% netto tra il 2000
ed il 2002) che ha comportato lo spostamento di molte industrie verso paesi (Cina, in primis) ove è
possibile incontrare oggi una manodopera a più basso costo.
La crisi ed il Centro America
La crisi dell’industria maquilador, in special modo nel comparto del tessile dopo la fine
dell’Accordo Multifibre (Amf, 31 dicembre 2004), sembra destinata a colpire anche il Centro
America, dove il costo della manodopera è sicuramente inferiore a quello messicano, ma superiore
a quello cinese.
Nonostante quanto asseriscano i suoi promotori, nemmeno il Cafta, Central American Free Trade
Agremeent, trattato di libero scambio in corso di ratifica e che liberalizzerà il commercio e gli
investimenti di capitale tra Stati Uniti d’America, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras,
Nicaragua e Repubblica Dominicana, renderà possibile la sopravvivenza del settore tessile nelle
nazioni centroamericane.
Todd Tucker, direttore di ricerca per il prestigioso Global Trade Watch di Public Citizen, negli Stati
Uniti d’America, analizzando alcuni dei ‘miti economici’ relativi al Cafta contraddice questa
affermazione, mostrando i palesi limiti dell’accordo di libero scambio, e le condizioni strutturali che
rendono il cotone cinese assolutamente imbattibile per le imprese istallate in Centro America.
Cafta o non Cafta, scrive Tucker, “il Centro America perderà la sua quota di mercato, a causa degli
enormi vantaggi di costo in China”. Il livello estremamente basso dei salari cinesi, dell’ordine di
15/30 centesimi di dollaro l’ora, comporta costi di produzione difficilmente ripetibili, anche laddove
– Guatemala, Repubblica Domenicana, Costa Rica – i salari sono tutt’altro che dignitosi
(rispettivamente, 1,49$/h, 1,65$/h e 2,70$/h nei tre Paesi indicati).
Nemmeno la vicinanza geografica tra l’America Centrale e gli Stati Uniti pare in grado di garantire
vantaggi importanti rispetto all’industria cinese. Innanzitutto, alcune compagnie marittime cinesi
stanno notevolmente riducendo i tempi di percorrenza verso la Costa Occidentale degli Usa e –
inoltre – i produttori centroamericani non potranno mai convertirsi, per scala e capacità produttiva,
in rifornitori “al bisogno” (ovvero, in tempi brevi, qualora i costumi e le mode cambiassero
repentinamente) dei grandi magazzini statunitensi.
53
Tessile e maquiladoras
Oggi, dopo la fine dell’AMF il 31 dicembre 2004 e guardando ai dati relativi ai primi mesi
del 2005, possiamo tracciare un bilancio della crisi che – effettivamente – ha colpito il settore
tessile centroamericano, per lo più rappresentato da maquiladoras, imprese d’assemblaggio a
prevalenza di capitale straniero e che operano sotto il regime di Zona Franca e senza riconoscere
alcun diritto ai lavoratori impiegati.
Infatti, nonostante esempi come quello dell’impresa statunitense Cone Mills, sussidiaria della
International Textile Group, che ha già annunciato investimenti per 80 milioni di dollari in
Guatemala nel corso del 2005, il futuro non appare roseo. Secondo una nota pubblicata dall’Herald
Tribune, nei primi due mesi del 2005 hanno chiuso i battenti 18 maquiladoras in Guatemala,
Honduras, Costa Rica e Repubblica Dominicana, con una perdita di circa 10.000 posti di lavoro.
Solo in Guatemala, nel 2004, 14 maquiladoras hanno chiuso i battenti, spostando le proprie attività
in Cina, e si stima che 45 (su 225) potrebbero fare lo stesso quest’anno. Oggi, nel Paese, il settore
da lavoro a 140.000 persone (500.000 in totale in tutto il Centro America) su un totale di circa 3
milioni e mezzo di persone attive sul mercato del lavoro (la metà delle quali, però, nel solo settore
primario).
In El Salvador, dove il dollaro è moneta nazionale, nel 2004 sono andati perduti tra i 6.000 ed i
12.000 posti di lavoro.
** ** ** ** **
54
9.”Marafobia”, tra psicosi e realtà
Le bande giovanili e la società centroamericana
Di Miguel Pickard
In Messico e in America Centrale la presunta
invasione delle bande giovanili (maras)
provoca panico nella popolazione e si
moltiplicano le leggi e le azioni repressive.
Questo modo di affrontare il problema è
destinato a fallire perché considerare le maras
semplicemente come un problema di
sicurezza e di ordine pubblico equivale a
peccare di semplicismo. Conoscere meglio
queste bande ci aiuterebbe a non cadere nel
panico generale e ad affrontare più
efficacemente il problema. Analizzare le
cause di questo fenomeno giovanile, che
hanno radici profonde nella grave situazione
sociale ed economica del Centroamerica e del
Messico, potrebbe rendere più facile ideare
soluzioni al problema che vadano oltre la
semplice repressione, misura tanto inutile
quanto inefficace, se si prendono in
considerazione le contraddizioni strutturali di
paesi
come
El
Salvador,
Honduras,
Guatemala e Messico.
De-costruire il terrore.
Negli ultimi mesi, i quotidiani locali e
nazionali del Chiapas (stato sudorientale della
federazione messicana) e del Messico hanno
dato un’ampia informazione sull’attività
criminale delle maras. Gli articoli relativi
all’insicurezza in città del Chiapas come
Tapachula, Arriaga, Ciudad Madero, danno la
sensazione che queste aree si trovino nel
mezzo di una vera e propria invasione delle
maras in Messico. Tali articoli sono soliti
presentare le mara come le uniche
responsabili degli alti indici di criminalità della
regione della Serra e della Costa del Chiapas.
Quotidiani e riviste hanno dedicato prime
pagine e copertine eloquenti: sono stati
pubblicati titoli quali “Fuori controllo” 61 o “Le
maras ci invadono” 62, accompagnati da foto di
giovani pieni di oscuri tatuaggi e con
espressioni spaventose e da testi che
raccontano con grande ricchezza di macabri
dettagli i crimini degli appartenenti alle maras
(detti mareros). Quasi senza eccezione, i
mezzi di comunicazione trattano in modo
sensazionalista il problema “maras”.
Funzionari e politici locali e nazionali di
differenti partiti non hanno tardato ad
affrontare l’argomento, confermando un
atteggiamento superficiale e invocando
maggiore presenza delle forze dell’ordine,
maggiore controllo e repressione. I funzionari
di polizia e gli organi di sicurezza dello stato
denunciano la mancanza di risorse che limita
la loro azione, concentrando sempre
l’attenzione sulla necessità di reprimere il
fenomeno. Un deputato federale del
parlamento messicano dichiarò, al quotidiano
locale chiapaneco Cuarto Poder del primo
dicembre 2004, che “il governo federale deve
contribuire alla lotta contro questo problema
assegnando maggiori fondi e personale
61
62
Tratto da “Milenio”, no. 330, 12 gennaio 2004.
Tratto da “Cambio”, anno 3, no. 100.
55
preparato alle varie istituzioni incaricate del
controllo e della sicurezza della frontiera (con
il Guatemala), come la Segreteria di
Sicurezza Pubblica Federale, la Procura
Generale della Repubblica e l’Istituto
Nazionale di Migrazione” 63.
Oltre alle promesse di un maggiore controllo
si parla di altre misure. Si discute di
abbassare l’età penale, di coordinare azioni
congiunte con gli altri paesi centroamericani e
di approvare leggi più severe contro le maras,
prendendo
come
esempio
i
paesi
centroamericani, dove un solo tatuaggio è
motivo di sospetto e di incarcerazione.
Dopo alcune azioni dei mareros che hanno
avuto un forte impatto sull’opinione pubblica,
la polizia del Chiapas ha realizzato operativi
nei quali sono stati arrestati centinaia di
presunti integranti delle maras. Il 20 novembre
2004, nel contesto delle celebrazioni per la
Rivoluzione
Messicana
a
Tapachula
(Chiapas), mentre gli studenti delle scuole
secondarie sfilavano, membri delle due
maggiori bande giovanili in Messico e in
Centroamerica (Mara Salvatrucha 13 e Mara
barrio 18) si scontrarono. Quando vennero
esplosi presunti spari (nonostante nessuno
dei mareros arrestati nell’occasione portasse
armi da fuoco), scoppiò il caos. Una volta
ristabilito l’ordine, 57 persone erano state
soccorse per crisi nervosa ma nessuna
presentava ferite provocate dai mareros.
Due giorni dopo questo evento, voci di un
possibile attacco nelle scuole secondarie di
Tapachula, da parte della Mara Salvatrucha,
generarono un’ondata di terrore nella città. In
varie scuole, gli studenti fuggirono dalle aule e
numerosi genitori arrivarono per portare i
propri figli a casa. Si trattava di un falso
allarme.
Questi fatti sono solo due esempi dell’isteria
che la presenza delle maras, nel sud est
messicano, sta provocando. A questo clima si
rispose con un forte operativo della polizia:
solo il 23 di novembre più di 26 persone
vennero arrestate, oltre ai venti arresti del 20
novembre64. Nei giorni seguenti alla rissa del
giorno della Rivoluzione, sono stati arrestati,
in totale, quasi 200 presunti integranti di
maras 65.
Oltre a scontrarsi tra gruppi tra loro
dichiaratamente nemici, le maras si dedicano
principalmente ad assaltare gli immigrati
clandestini che arrivano in Messico dal
Centroamerica, diretti agli Stati Uniti. Furti e
delitti contro gli immigrati irregolari sono molto
comuni nella Costa del Chiapas, regione di
passaggio obbligato per molti di loro. Questo
fenomeno criminale ha assunto dimensioni tali
che esiste un’istituzione pubblica, dipendente
dall’ Istituto Nazionale di Immigrazione
messicano, creata per “proteggere” gli
immigrati nell’area, il Grupo Beta Sur de
Protección al Migrante 66. Nella frontiera Sud,
tra Messico e Guatemala, è normale attribuire
a le maras i delitti contro gli immigrati
irregolari.
Ma siamo sicuri che i mareros siano
responsabili di un numero così grande di
delitti? Lo stesso Grupo Beta Sur informa che
il 51 % di questi delitti è commesso dagli
agenti dei diversi corpi di sicurezza messicani
e il 49 % da delinquenti comuni; solo in due su
nove casi gli aggressori sono mareros 67.
Questo tentativo di ridimensionare il “pericolo
maras” in Messico non vuole sottostimare il
fenomeno: queste bande transfrontaliere che
si sono estese dagli Stati Uniti al
Centroamerica
e,
ora,
in
Messico,
costituiscono un problema serio e in
espansione ma sicuramente le maras non
sono colpevoli di tutti i mali che a loro si
attribuiscono.
Affrontare il problema senza fobie né panico è
l’unica maniera di trovare soluzioni migliori di
quelle già implementate in America Centrale e
in Messico.
Una critica alle
America Centrale
misure
antimaras
in
Mentre in Messico si insiste nell’imitare
le misure legislative e di polizia prese nei
paesi centroamericani contro le maras e nel
coordinare azioni tra questi paesi e il Messico,
il terrore scatenato contro i mareros in
Guatemala, Honduras e El Salvador ha avuto
gravi conseguenze.
66
63
Da: “Cuarto Poder”, 1 dicembre 2004.
64
Dati di “Cuarto Poder, 21-23-24 novembre 2004.
65
Pandilla de globalización, La Jornada, 30
novembre 2004.
In relazione a questa istituzione consultare il
bollettino “Chiapas al Día” no. 157, 28 maggio
1999, da CIEPAC, A.C.
67
Invasión o viendo maras con tranchete? 9 marzo
2004. Da: http://ciss.insp.mx/migracion/
56
“Utilizzando le maras come capri espiatori …
Guatemala, Honduras e El Salvador, tra luglio
e agosto 2003, hanno annunciato, quasi
contemporaneamente, misure repressive
denominate rispettivamente Plan Escoba,
Operación Libertad e Plan Mano Dura. Le
maras
sono
state
assimilate
alle
organizzazione criminali, appartenere ad una
mara costituisce un reato in sé e i minorenni
sono giudicati come fossero adulti” 68.
In El Salvador, chi ha dato impulso alla
strategia repressiva è stato Mauricio
Sandoval, direttore del Polizia Nazionale tra il
1999 e il 2003, proprietario di numerosi mezzi
di comunicazione nel paese e dirigente
dell’Alianza
Republicana
Nacionalista
(ARENA), partido di destra vincitore delle
ultime elezioni in El Salvador. Sandoval si è
dichiarato a favore, parlando delle misure
contro le maras, di “derogare alla
Convenzione
Internazionale
sui
Diritti
dell’Infanzia, in quanto questa può essere
valida per le democrazie stabili ma non per El
Salvador” 69. La repressione, iniziata poco
prima delle elezioni, aveva un chiaro intento di
propaganza elettorale e ha avuto scarsi
risultati: fino a febbraio 2004 la polizia
salvadoregna aveva arrestato 10.178 presunti
mareros, dei quali il 95 % è stato liberato per
mancanza di prove. Gli omicidi e i delitti nel
paese, ovviamente, non cessarono.
Inoltre, l’aumento della tensione ha portato
alla ricomparsa di gruppi militari attivi durante
la guerra in El Salvador, negli anni ‘80 e ’90.
Si sospetta che dietro ad alcuni orribili omicidi
di giovani, ci siano membri del gruppo Sombra
Negra che, tra il 1992 e il 1993, si dedicava a
eliminare attivisti e ex-guerriglieri 70.
Per affrontare questa ondata repressiva le
maras si adattano. Si spostano in Messico,
reclutano adepti sempre più giovani, si
rendono meno visibili e i capi si nascondono
ed entrano in contatto più stretto con il crimine
organizzato. Una politica repressiva che
vuole soddisfare necessità immediate di
sicurezza pubblica, reclamata a gran voce da
una popolazione estenuata da tanta
68
Philippe Revelli, Dietro la violenza delle gang in
Salvador, da Le Monde Diplomatique marzo 2004.
Edizione italiana edita da Il Manifesto.
69
Philippe Revelli, Dietro la violenza delle gang in
Salvador, ibidem
70
Alberto Nájar, La vida en territorio mara, da
Masiosare, domingo 7 de marzo 2004.
www.jornada.unam.mx/mas-maras.html
criminalità,
non
arriva
alle
principalmente sociali, del problema.
radici,
Analizzare le cause e prendere le misure
conseguenti.
Studi e ricerche svolti in Guatemala,
Honduras, Nicaragua e El Salvador e raccolti
nel testo Maras y pandillas de Centroamérica,
realizzato da vari gruppi di ricerca di questi
paesi, suggeriscono le principali cause
dell’espansione delle maras nell’area e
propongono
misure,
non
meramente
repressive, che potrebbero arrivare alle radici
del problema e contribuire a contenere il
fenomeno in America Centrale, prevenendo
una maggiore estensione del problema in
Messico.
Le bande giovanili in Centroamerica non sono
un fenomeno nuovo ma il numero di
integranti, il livello di violenza e la posizione
egemonica che hanno raggiunto le maras a
partire dagli anni ’90, fanno di queste un
elemento importante per comprendere la
situazione centroamericana. In verità, le due
maras che oggi generano l’allarme sociale
(Mara Salvatucha y Mara Barrio 18) non sono
originarie dell’America Centrale, bensì sono
un “prodotto di esportazione” degli Stati Uniti,
in particolare di Los Angeles. In questa città,
già a partire dagli anni ’60, la Mara 18 (che
allora era la Gang 18th street) era potente nel
proprio quartiere e, quando la giovane Mara
Salvatrucha tentò di invadere il territorio della
Mara 18, scoppiò la guerra tra le due bande.
Questi gruppi eran formati da immigrati
latinoamericani, soprattutto messicani e
salvadoregni, questi ultimi in fuga dalla guerra
civile in corso nel proprio paese. Negli anni
’80 il cresciente commercio di droga nella città
fomentò l’attività delle maras.
Dalla fine della guerra in El Salvador e
parallelamente all’entrata in vigore di leggi
migratorie statunitensi sempre più restrittive,
iniziarono le deportazioni di latinoamericani e,
soprattutto, di salvadoregni ai propri paesi
d’origine. Molti giovani deportati avevano fatto
parte di bande giovanili negli Stati Uniti,
cosicché le deportazioni in massa ebbero un
ruolo importante nell’evoluzione della Mara 18
e della Mara Salvatrucha in Centroamerica.
La cultura delle maras importata dagli Stati
Uniti trovò nei paesi centroamericani
condizioni favorevoli per il proprio sviluppo,
contribuendo all’aumento dei mareros in El
57
Salvador,
Honduras,
Guatemala
e,
recentemente, in Messico.
Le maras sono gruppi di giovani con una
identità ben marcata, per la quale riti e simboli
assumono grande importanza. I tatuaggi
indicano l’affiliazione ad una delle due bande
o segnano permanentemente momenti
importanti della vita privata o comunitaria del
marero (la prima fidanzata, il numero di delitti
commessi, ecc.); grande importanza hanno
anche le prove che i mareros devono passare
per entrare a far parte della banda: ad
esempio, sopportare per un dato tempo i colpi
violenti perpetrati dagli altri membri della
banda, tenere un rapporto sessuale con
una/un integrante della mara, commettere un
delitto, ecc.. La solidarietà tra componenti
della mara è un valore assoluto e il gruppo
riconosce l’autorità di un capo. Si può uscire
dalla banda solo per motivi riconosciuti come
validi: il matrimonio, l’avere figli, aderire ad
una confessione religiosa, ecc.. Se la
decisione personale di uscire dalla banda non
viene accettata dal gruppo, il marero pentito
viene perseguitato e la punizione può essere
anche la morte.
Le maras si dedicano al racket, al commercio
di droga, al furto di veicoli, agli assalti, ecc.,
anche se il motivo principale della loro
esistenza è la guerra contro la banda nemica
per il controllo del territorio, segnalato con
graffiti.
E’ importante comprendere gli elementi che
hanno facilitato l’espansione delle maras per
affrontare efficacemente il problema. In tal
senso, è fondamentale studiare il contesto nel
quale vivono i giovani e le giovani che
appartengono alle maras, accettando che il
problema è il prodotto di condizioni sociali e
non il risultato di caratteristiche genetiche o
psicologiche
personali
dei
mareros.
Analizzare un contesto sociale significa
analizzare numerose variabili che, tra loro,
hanno complicate relazioni. Vari studi fatti in
Centroamerica mettono in luce numerosi
elementi che influiscono sull’esistenza e sullo
sviluppo delle maras.
Innanzitutto, è chiaro che esistono relazioni
tra alcune variabili socioeconomiche e le
maras. In particolare, esistono dati che
confermano la relazione tra maras e
educazione,
reddito
delle
famiglie,
affollamento delle famiglie nelle case, stato
delle infrastrutture del quartiere (strade,
igiene,
ecc.).
Alcuni
dati
sembrano
particolarmente significativi: considerando, nel
congiunto, le ricerche svolte in alcune
comunità in Guatemala, Honduras e El
Salvador, dove c’è attività delle bande, la
media degli anni di scolarizzazione è di 4,33
(mentre nei luoghi dove le maras non sono un
problema, è di 5,41 anni). Il reddito medio
delle famiglie che vivono in aree colpite dal
problema delle maras è di 257 dollari mentre
nelle comunità senza attività delle maras è di
320 dollari. I luoghi dove le case sono
maggiormente affollate, le strade e altre
infrastrutture sono in cattivo stato, sono
maggiormente colpiti dal problema delle
bande giovanili. In generale, si può affermare
che le maras si sviluppano nei quartieri dove
esistono condizioni di precarietà sociale, con
molte famiglie vulnerabili che vivono in case
troppo piccole per accogliere adeguatamente i
nuclei familiari.
Inoltre, queste variabili sembrano essere
associate ai livelli di violenza nelle comunità,
che a loro volta sono relazionati allo sviluppo
delle maras: dove si verifica una maggiore
incidenza della violenza, maggiore è lo
sviluppo delle maras. Maras, violenza e le
variabili
socioeconomiche
analizzate
appaiono, dunque, parte di uno stesso circolo
vizioso.
Nonostante possano sembrare ovvie le
relazioni tra povertà e maras, gli indicatori
appena illustrati non hanno sempre una
relazione univoca con l’espansione delle
maras. Per esempio, la relazione tra redditi
familiari e maras non è sempre confermato:
mentre in Honduras sono i quartieri più poveri
a registrare più mareros, in El Salvador non è
così. Pertanto, è più preciso parlare di un
contesto sociale e comunitario di povertà, che
di povertà delle famiglie o delle persone.
Per comprendere meglio la complessità delle
condizioni che favoriscono lo sviluppo delle
maras, è necessario introdurre il concetto di
capitale sociale, inteso come l’insieme delle
relazioni tra le persone che permette loro di
cooperare con lo scopo di raggiungere
obiettivi comuni. Le variabili del capitale
sociale che sembrano influire di più,
positivamente
o
negativamente,
sulla
presenza delle maras sono la fiducia tra le
persone, la partecipazione comunitaria, la
presenza di spazi pubblici di incontro o
l’esistenza di spazi pubblici “perversi”. E’
chiaro che tutti gli elementi che diminuiscono
la capacità di una comunità di costruire reti
sociali atte ad affrontare collettivamente le
necessità di appoggio e di identità dei giovani
58
e capaci di regolare il comportamento delle
persone, favoriscono lo sviluppo delle maras.
La fiducia tra le persone in una comunità
inibisce la formazione delle maras. Gli spazi
pubblici di incontro e di divertimento “positivi”
(edifici pubblici, piazze, ecc.) facilitano le
relazioni
positive
tra
le
persone,
neutralizzando l’apparizione delle maras. Al
contrario, spazi pubblici perversi, come le
case di prostituzione, ecc., stimolano la
violenza e la formazione delle bande
giovanili.
Anche l’amministrazione pubblica pare
giocare un ruolo importante: stimolando
l’interazione tra le persone in una comunità,
amministrando bene le risorse delle comunità
e controllando i fattori negativi, le autorità
municipali, più vicine alle necessità della
popolazione di quelle statali o federali,
possono influire indirettamente sullo sviluppo
delle maras.
Dunque, il fatto che una comunità sia povera,
non è un motivo in sé affinchè lì si sviluppino
le maras, come non è sufficiente che nella
comunità ci sia poca fiducia tra le persone.
Povertà e abbandono da parte delle istituzioni
si mescolano con scarsità di luoghi di incontro
comunitari, con l’assenza di controllo dei
luoghi che generano violenza, con la carenza
di meccanismi di partecipazione e con
l’insicurezza generata dalla violenza. Difronte
a una tale complessità di condizioni che
determinano congiuntamente lo sviluppo delle
maras, è chiaro che semplici misure di polizia
sono inutili e dannose. Negli operativi, la
polizia entra nelle comunità, reprime, controlla
e poi si ritira, lasciando la comunità più
disarticolata, più sospettosa e sfiduciata.
Inoltre, molte comunità oggi sono in mano di
differenti chiese che mescolano assistenza a
fondamentalismo religioso e che tentano di
risolvere il problema attraverso conversioni
personali ma senza trasformare le condizioni
di vita della gente.
E’ necessaria una serie di politiche e di
programmi integrati, nei quali organizzazioni e
governi locali si impegnino congiuntamente.
Invece di insistere con la semplice
repressione, sarebbe importante rivalorizzare
la comunità nel controllo del problema,
mediante differenti misure. Combattere la
povertà e la miseria è fondamentale però è un
obiettivo difficile e che richiede tempo,
cosicchè mitigare i loro effetti potrebbe essere
un obiettivo più realista. Ridurre le situazioni
di abbandono e marginalità di molte comunità,
modificare il contesto sociale dove vivono i
giovani e dotare quest’ultimi di abilità e
opportunità,
facilitandone
l’integrazione
sociale sono le sfide delle autorità pubbliche.
Quali sono le misure pratiche da prendere?
Consistono nel moltiplicare i programmi
dedicati ai giovani, migliorare le infrastrutture,
i servizi e la partecipazione nei quartieri e
nelle comunità. Queste misure locali devono
essere inserite in un quadro generale di
politiche più amplie che correggano la
diseguaglianza e pongano rimedio alla
povertà che colpisce diffusamente l’America
Latina.
Affrontare integralmente il problema delle
maras, arrivando alle radici sociali del
problema, con politiche e programmi nei quali
lo stato e le autorità locali compiano il proprio
importante ruolo, è l’unica maniera che il
Messico ha per controllare e risolvere il
fenomeno, senza incorrere negli errori
commessi dai paesi centroamericani.
Purtroppo, in questi mesi il Messico ha imitato
pedissequamente le misure repressive già
attuate in Centroamerica. Inoltre, le politiche
neoliberiste, implementate nella federazione
da vent’anni, non lasciano spazio a interventi
pubblici efficaci, né a livello locale né a livello
nazionale. Senza una completa comprensione
del problema e delle sue cause, è
praticamente inevitabile che le maras
continuino a svilupparsi, alimentate dalle gravi
contraddizioni strutturali che il Messico
condivide
con
l’America
Centrale.
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10. Tra fuochi incrociati
I migranti centroamericani nella loro traversata verso il Nord
Di Miguel Pickard
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Miguel Pickard
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