Counseling e relazione di aiuto
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Counseling e relazione di aiuto
Sandra Gottardi assistente sociale Counselor, Centro psico-sociale di Saronno Lavorare, da più di un decennio, in ambito psichiatrico come assistente sociale a contatto quotidiano con le problematiche delle famiglie, mi ha spinto a cercare di migliorare la risposta al bisogno di aiuto che esprimono i familiari del paziente. È la famiglia che gestisce il riconoscimento dell’evento malattia e che deve decidere a chi rivolgersi per quel problema così nuovo e spesso sconosciuto. Il disorientamento di fronte all’esordio della malattia si accompagna così ad un senso d’inadeguatezza. Un altro vissuto, spesso presente nel familiare, è la paura del giudizio della gente al quale poi si associa l’isolamento e il senso d’incomprensione e di rifiuto degli altri. La Famiglia non si sente compresa nel suo gravoso compito di convivere con la malattia del congiunto e sente la difficoltà che gli altri hanno a condividere, anche solo in parte, quest’esperienza. Questo porta spesso ad un isolamento e alla perdita progressiva delle proprie reti sociali, divenendo così ancora più fragile perché privata delle risorse più naturali di sostegno. Le relazioni con i Servizi a volte appaiono conflittuali perché legate a grosse attese reciproche. L’ansia per il futuro del proprio figlio malato è presente in tutti i genitori e nasce dalla convinzione che la società non sia in grado di accogliere e tutelare appieno chi ha questo tipo di difficoltà. La richiesta d’avere informazioni sulla malattia, di come gestirla nel quotidiano, di come riconoscerla attraverso segnali premonitori si associa a quella di essere informati anche rispetto alla tutela del congiunto in difficoltà, da qui le domande soprattutto sulla possibilità di un’autonomia che passi attraverso il lavoro ad una vita indipendente. In particolare il lavoro assume un significato emancipatorio per eccellenza, infatti, questo è vissuto dai familiari come la via d’accesso ad un ritorno alla normalità, anche solo attraverso la formula del lavoro protetto. PERCHÉ IL COUNSELING Il counseling con la famiglia, di qual si voglia approccio teorico, è la forma che a mio avviso risponde di più al bisogno di relazione d’aiuto che ha il familiare, perché il processo di counseling enfatizza l’importanza dell’autopercezione, dell’autodeterminazione e dell’autocontrollo: il risultato finale è misurabile attraverso “il grado in cui si riesce a rendere una persona capace di azioni razionali e positive, a renderla più soddisfatta, più in pace con se stessa, più capace di vivere una vita serena e socialmente integrata” (Zavallone, 1977). Il counseling, è un processo tra persone (counselor e cliente) il cui scopo è di “abilitare” l’interessato a prendere delle scelte di carattere personale o a problemi o difficoltà che lo riguardano, secondo il principio di interazione rogeriana, che se una persona si trova in difficoltà il miglior modo di venirgli in aiuto non è certo dicendogli cosa deve fare ma, piuttosto, quello di aiutarlo a comprendere la sua situazione e a gestire il problema prendendo da solo e pienamente le responsabilità delle eventuali scelte. Il counseling come abbiamo più sopra detto ha a che fare con l’area del disagio esistenziale, anche reattivo ad eventi traumatici, in persone altrimenti ben integrate e adattate. METODOLOGIA La conduzione del colloquio con uno stile non direttivo, con un linguaggio pre- Note * L’esperienza trattata fa parte di un progetto più ampio, elaborato per i familiari dei pazienti in carico al servizio presso il Centro psico-sociale di Saronno, il quale prevede anche gruppi di automutuo aiuto e la psicoterapia familiare. Inoltre i risultati che si stanno ottenendo non sarebbero possibili senza la collaborazione di tutte le figure che compongono l’equipe di lavoro che, con entusiasmo, disponibilità e competenza professionale, rendono possibile il lavoro. PROFESSIONI SOCIALI LA METAFORA SOCRATICA DELLA LEVATRICE CHE NON SI SOSTITUISCE ALLA PARTORIENTE MA CHE È PER LEI UN IMPORTANTE ELEMENTO DI SUPPORTO E AIUTO BEN SI MUTUA COL PROCESSO CHE S’INSTAURA TRA COUNSELOR E CLIENTE. LA PROFESSIONE DI COUNSELOR IN UN PROGETTO RIVOLTO AI FAMILIARI DI UN CENTRO PSICO-SOCIALE.* 9 n° 8/2004 Prospettive Sociali e Sanitarie Counseling e relazione di aiuto valentemente quotidiano, non psichiatrico, e la richiesta di conoscere oltre ai fatti anche come sono stati vissuti, consentire al familiare di narrare la situazione di disagio, con le proprie parole, permette di aprire uno spiraglio, anche su quelli che sono i sistemi di valori e di priorità, sulle ipotesi che il familiare si è fatto, e non ultime sulle attese. È importante che il familiare trovi la possibilità di convogliare le emozioni, inizialmente nel racconto come lettura soggettiva dell’evento, per poi passare alla possibilità di riflettere, attraverso una restituzione di quanto narrato, su altre possibili letture. Tutto questo attraverso domande di tipo “circolare” e spesso “riflessive”, per creare un clima di fiducia e collaborazione. Successivamente alla fase di narrazione si passa di solito ad un momento anche informativo perché spesso il familiare pone numerose domande sia sulla malattia sia sul come affrontarla nel quotidiano. Come accennato più sopra anche le risposte ai quesiti dei familiari sono frutto di una rielaborazione del racconto, questo per cercare di creare attorno alla famiglia un clima che favorisca una crescita rispetto al problema, senza un’attenzione centrata sulla “patologia” ne tantomeno ad obiettivi di tipo normativo, spesso si riesce a rileggere gli eventi in altro modo e quindi ad innescare un piccolo processo di cambiamento. Questo lavoro è possibile solo se coordinato e condiviso con il terapeuta del paziente, lo scambio d’informazioni (intese come diverse letture degli stessi eventi) consente di avere una visione più completa della situazione e maggiori elementi di riflessione per possibili strategie d’intervento. Inoltre, per il paziente è molto importante poter mantenere lo spazio con il proprio terapeuta lontano dalle intrusioni dei familiari ed è altrettanto vero che il familiare ha bisogno di capire perché a volte vive l’esclusiva dello spazio terapeutico, in modo sbagliato, come “esclusione” dal progetto di cura del paziente. Dare al familiare uno spazio tutto suo, con le caratteristiche sopra descritte, spesso favorisce un rapporto collaborativo perché mobilita le sue risorse e capacità e lo rende più consapevole e informato. Inoltre il rapporto stabilito con l’operatore fa vivere al familiare la Struttura come più vicina e più raggiungibile. PROFESSIONI SOCIALI LA PROFESSIONE DEL COUNSELOR n° 8/2004 Prospettive Sociali e Sanitarie 10 La professione del counselor nasce dalla fiducia nell’essere umano e dalla convinzione che l’uomo sia in grado di scegliere la propria dimensione di vita e che solo lui sappia quale sia la risposta migliore ai suoi bisogni. Questa fiducia, nasce dalla consapevolezza che la persona che abbiamo di fronte ha in se la creatività, le risorse e la capacità per trovare il modo migliore per gestire la propria esistenza, trovando soluzioni personalizzate che tengano in considerazione l’unicità dell’individuo e della situazione in cui si trova. Presupposto indispensabile a quest’approccio di libertà di scelta è che l’individuo sia anche capace e responsabile nel mettere in pratica ciò che ha compreso, riconoscendo fino in fondo le conseguenze delle sue scelte e gli effetti che esse possono portare assumendosene la responsabilità Il counselor ha l’obiettivo di accompagnare chi gli chiede aiuto, verso la scoperta e l’attivazione di questa potenziale libertà, creatività e responsabilità. Usando le parole di Carl Rogers, il counseling ha l’obiettivo di “permettere al soggetto di raggiungere un grado d’auto comprensione tale da consentirgli di adottare provvedimenti corretti alla luce del suo nuovo orientamento”. La peculiarità del counseling appare già nella definizione della persona che chiede aiuto che non è definito “paziente” ma come una persona “cliente” che attraversando un momento di grosso disagio non riesce a recuperare da se le risorse di cui è dotato e deve essere aiutato, condotto, nella riscoperta o nella riattivazione di queste risorse. Molto bella è la metafora socratica della levatrice che non si sostituisce alla partoriente ma che è per lei un importante elemento di supporto e aiuto, che ben si mutua col processo che s’instaura tra counselor e “cliente”. Il counseling può essere definito come la conduzione di colloqui che coinvolgono temi personali privati ed emotivamente significativi per l’interlocutore, in cui questi è ”aiutato ad aiutarsi”, in questo senso “il counseling è prima di tutta una formazione alla crescita personale è un modificare la visione fatalistica della realtà in una visione più oggettiva in cui la realtà viene riconosciuta in continua trasformazione e in cui l’individuo può trasformare se stesso e la sua vita per trovare soluzioni più adatte alla sua specifica natura” (Danon, 2001)) Il counseling occupa un’area interdisciplinare e può attingere a tecniche e metodi provenienti da diversi orientamenti psicologici (nel mio caso è prepon- TAVOLA 1 I compiti del counselor • Accoglienza • Contratto • Ascolto partecipe • Consolidamento del rapporto empatico • Restituzione • Possibili altre letture • Valutazione della possibilità di applicazione • Conclusione { { { 1. Approccio accogliente attenzione particolare al primo contatto perché fondamentale per creare un buon rapporto empatico. 2. Aspettative del familiare. 3. Chiara definizione di quello che è l’approccio,e di quello che ci si può aspettare dall’intervento 1. Il cliente racconta la sua lettura degli eventi. 2. Il counselor attraverso domande riflessive conduce senza interferire ne condizionare la/ le storie. 3. Grossa attenzione ad accogliere le emozioni e a restituirle in modo partecipato. (Empatia, entrare nel sè dell’altro senza perdere di vista il proprio) 1. Rilettura da parte del counselor di ciò che è stato portato dal cliente, con attenzione a formulare la cosa in modo non categorico. 2. Focalizazione del problema. 3. Adesione del cliente ai due punti sopraelencati. 4. Conduzione del cliente a nuove letture possibili fino a individuarne una possibile per le sue risorse. 5. Breve sintesi di ciò che è avvenuto e condivisione del percorso col cliente. derante la formazione sistemico relazionale anche se altre tecniche apprese da altre scuole in situazioni che lo richiedevano si sono rivelate utili) fermo restando che lo strumento di lavoro principale è la creazione di un clima favorevole alla comunicazione (tavola 1). Quest’approccio è stato definito da Rollo May un’arte prima che una tecnica. Il counselor sì accosta al problema con la maggiore obiettività possibile, basata sulla comprensione che niente che sia umano gli è estraneo. Il counseling lavora su un problema specifico, su un disagio emergente, e da quella cerca di porre i presupposti per l’interazione, di schemi più responsabili, più creativi e più soddisfacenti con se stessi, con gli altri e con il mondo. Il counseling concentra la propria attenzione più sul presente che sul passato in un’area relativa al problema, rimanendo il più possibile vicino a questo, il discorso potrà ovviamente ampliarsi, ma senza mai mettere in discussione la struttura della personalità del “cliente” (Zerbetto, Sciacki, 2001). Il counselor propone strategie di ascolto, comprensione integrazione del sintomo nel “qua e ora” e ha il compito di assistere il “cliente” nella ricerca del suo vero sé e poi di aiutarlo a trovare il coraggio d’essere quel sé (May, 1991). Dopo aver specificato il lavoro di counseling vorrei ora per maggiore chiarezza collocarlo nel progetto più vasto e articolato che si occupa di sostegno ai bisogni dei familiari del servizio, che ha previsto nel tempo risposte diversificate ad esigenze diverse partendo sempre dalla convinzione della necessità di dare al familiare lo spazio che gli spetta. Lavorare come counselor, con strumenti codificati ma soprattutto con il privilegio della comunicazione “empatica” mi ha permesso di percepire il grosso senso d’impotenza che pervade il familiare nel momento in cui la malattia si manifesta. Impotenza che l’operatore esorcizza con la tecnica e con il salvagente delle barriere istituzionali, le quali però finiscono per non consentire una vera comprensione dei bisogni di chi sta chiedendo aiuto. La rete primaria di sostegno, la famiglia non può essere lasciata sola di fronte ad un evento traumatico come la malattia mentale di un o dei suoi membri. Il sistema familiare deve essere considerato nel suo insieme ed aiutato, con rispetto e senza pregiudizi. La famiglia non va vista né come problema, né come risorsa autonoma in grado di saper fronteggiare il problema, ma va pensata com’elemento importante cui fornire supporto, informazioni e partecipazione affinché trovando nuovi equilibri e risorse creative al suo interno siano in grado di vivere adeguatamente l’evento malattia. Attraverso questo atteggiamento d’appoggio attivo la famiglia può diventare attore importante nel progetto di cura. Il nucleo familiare spesso non è da “curare” ma da supportare in modo efficace perché strutturi in se, aiutata, le risorse indispensabili per trovare con creatività nuovi equilibri al suo interno. Una partecipazione attenta ed interessata da parte del counselor che consenta un percorso di scoperta di nuovi modi per gestire e vivere Gli ambiti in cui è possibile utilizzare il counseling in sanità sono molti. Questo tipo di approccio, può essere esteso a tutte quelle patologie molto invalidanti per il paziente e per chi gli sta accanto. Condividere con un operatore esperto le esperienze d’alcune malattie, dalle più tragiche e senza speranza, a quelle croniche non meno difficili da affrontare per il paziente e per chi gli sta accanto ma che spesso sono affrontate in solitudine, attenua lo stress. In situazioni non di per se definibili traumatiche, ma che rimettono in discussioni equilibri preesistenti e creano momenti d’iniziale disorientamento, come ad esempio una gravidanza difficile o l’inizio della relazione genitoriale, se affrontati con l’aiuto di un sostegno partecipato possono evitare inutili situazioni di disorientamento se non addirittura disagi più evidenti. L’unico pericolo che si può correre è di avvicinarsi a questo tipo di relazione d’aiuto basandosi troppo sulla spinta emozionale, fondamentale invece è saper utilizzare tecnica ed empatia in modo equilibrato non facendosi trascinare in percorsi di cui non si ha il pieno controllo, questo si ottiene attraverso una profonda conoscenza di se dei propri limiti e una formazione adeguata e continua. Bibliografia: Polidoro I., Bolongaro G., Gottardi S., “Gruppi di Familiari d’Utenti in carico da lungo tempo al C.P.S. di Saronno: descrizione di un’esperienza”, Rivista sperimentale di Freniatria, 3, Vol. CXXIII, 207-209, Sett. 1999. Fulcheri M., Accomazzo R., “Il counseling: un Giano bifronte”, Riv. Psicol. Indiv., 45, 1999. Di Fabio A., Counseling dalla teoria alla pratica, Giunti, Firenze, 1999. Parlato P., “Il modello adleriano quadrifasico di counseling in campo psico socio educativo”, Riv. Psicol. Indiv., XXVIII, Gen.-Giu. 2000. Folgheraiter F., “La relazione d’aiuto nel counseling e nel lavoro sociale”, in Mucchielli R., Apprendere il counseling, Erickson, Trento, 1987. Danon M., da Il Counselig Professionale, “Il counseling come formazione alla crescita personale” 137-143, Il Vetro Editrice, 2001. Zerbetto R., Sciacki R., da Il counseling Professionale, “Il rapporto tra counseling-psicoterapia tra continuità e diversità”, 168-174, Il Vetro Editrice, 2001. May R., L’arte del counseling, Astrolabio, Roma, 1991. O’Leary C. J., Counseling alla coppia e alla famiglia”, Erickson, Trento, 2002. Rogers C. R., Terapia centrata sul cliente, La Nuova Italia, Firenze, 1997. Rogers C. R., La terapia centrata sul cliente, Martinelli, Firenze, 1970, cap. 2. Rogers C. R., Barry S., Da persona a persona. Il problema di essere umani, Astrolabio, Roma 1987. Rogers C. R., Libertà nell’apprendimento, Giunti e Barbera, Firenze, 1973. Rogers C. R., Psicoterapia di consultazione, Astrolabio, Roma, 1971. L’AFFIDAMENTO AL SERVIZIO SOCIALE SI È TRASFORMATO NEL TEMPO IN UNA MISURA DI TUTELA DEI MINORI AFFIDATA DALLA MAGISTRATURA MINORILE AL SERVIZIO SOCIALE DEGLI ENTI LOCALI. IL GIUDICE DECRETA L’ALLONTANAMENTO DEL MINORE DALLA FAMIGLIA O L’AFFIDAMENTO DEL MINORE, EMETTENDO, IN QUESTO ULTIMO CASO, DISPOSIZIONI RIVOLTE AL MINORE, Edda Biancon assistente sociale * AI GENITORI, E AL SERVIZIO Servizio Infanzia, adolescenza, SOCIALE AFFIDATARIO. età adulta del Comune di Venezia In una situazione dinamica come quella che sta attraversando oggi la giustizia minorile, mi sembra interessante analizzare una particolare disposizione giuridica, l’affidamento al servizio sociale, poiché essa costituisce nella pratica operativa di giudici ed operatori, un mezzo di realizzazione concreta del diritto del minore a crescere nella propria famiglia, diritto ribadito anche nel Titolo I della recente legge del 28 marzo 2001, n. 149. Disposizione prevista nel lontano 1934 come strumento di rieducazione dei “minorenni irregolari per condotta o per carattere”,1 l’affidamento al servizio sociale si è trasformato nel tempo, in relazione a una più attenta lettura dei fenomeni del disagio minorile, in una misura di tutela dei minori affidata dalla Magistratura minorile al Servizio sociale degli enti locali. Poiché l’affidamento al servizio sociale è una misura restrittiva dell’esercizio della potestà genitoriale,2 essa consente ai servizi non solo di proteggere il minore, ma anche di sostenere le funzioni genitoriali attraverso concrete indicazioni educative ed un’opera di costante restituzione delle responsabilità educative degli adulti. Una disposizione quindi, che anche per il suo ampio uso realizza, come afferma Gianfranco Dosi, ”in alternativa alla segregazione e alla pena un nuovo paradigma operativo per la prevenzione ed il trattamento delle situazioni di disagio, di abuso e di devianza”.3 Si tratta, a mio avviso, di una disposizione interessante, ma non priva di aspetti critici, complessa nelle sue possibilità applicative, poco definita dal punto di vista normativo e quindi molto duttile. Ho inteso pertanto esplorare l’ambito applicativo dell’affidamento al servizio sociale, attraverso un’analisi della formulazione dei decreti giuridici contenenti tale disposizione ed emessi dal Tribunale per i Minorenni. Il versante della ricerca è quello dei servizi dell’ente locale cui essi vengono indirizzati, secondo gli articoli 22 e 23 del Dpr 616/77, al fine di provvedere con specifici progetti di sostegno, indirizzo e controllo alla realizzazione degli interventi di tutela dei minori. L’indagine cerca di mettere in luce gli aspetti principali della disposizione dell’affido al servizio sociale: lo spiccato carattere di flessibilità e duttilità innanzi alle diverse situazioni che si prospettano alla valutazione del giudice minorile; l’efficacia applicativa in relazione alla finalità principale che consiste nel garantire realmente ai bambini ed ai genitori, attraverso l’aiuto ed il controllo dei servizi, di poter continuare a vivere insieme anche dopo, o nonostante, momenti di crisi familiare. MINORI CONCLUSIONI L’affidamento al servizio sociale 11 Note * Laureata in Servizio sociale, si occupa, come referente, dei rapporti tra servizi sociali e magistratura minorile e da alcuni anni sviluppa il lavoro di rete sul tema della genitorialità fragile e in difficoltà per la presenza di problematiche di tossicodipendenza. 1 Ex art. 25 Rdl 20 luglio 1934 n. 1404 “Istituzione e funzionamento del Tribunale per i minorenni” e integrazioni della successiva legge del 25 luglio 1956 n. 888. 2 Il riferimento legislativo è costituito dall’art. 333 del codice civile che consente al giudice, quando la condotta del genitore non è tale da procurare al figlio il “grave pregiudizio” di cui all’art. 330, “di adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento del minore dalla residenza familiare”. 3 Dosi G., “Il minore vittima, per una teoria generale dell’affidamento”, in Losanna C., D’Errico A. (a cura di), La protezione del minore tra amministrazione e giurisdizione, Atti del convegno di Torino, giugno 1988, Unicopli, Milano, 1990, p.108. n° 8/2004 Prospettive Sociali e Sanitarie il problema, che sia sostenibile per quel particolare nucleo, che personalizzi e calibri le potenzialità reali di quella particolare persona e famiglia, possono evitare che il disorientamento iniziale diventi trauma e renda più difficile il percorso di recupero della persona malata.