Rosa Piro

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Rosa Piro
Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 157-164
Il lessico medico dalla prosa alla poesia:
il terzo libro dell’Almansore e lo Cibaldone
Rosa Piro
Università degli Studi della Basilicata
Abstract
Il contributo apre la via alle prime indagini sul lessico dell’Almansore, volgarizzamento fiorentino trecentesco del Liber medicinalis ad
Almansorem regem, un’enciclopedia medica contenente dieci trattati. L’opera ebbe molta fortuna nel Trecento e per tutto il
Quattrocento soprattutto in area settentrionale, tanto che il terzo libro, inerente la virtù dei cibi, fu ridotto in versi a Venezia, alla fine
del XV secolo, in un poemetto conosciuto sotto vari nomi e genericamente indicato con il titolo di Libro Tertio d’Almansore, overo
Cibaldone. Quest’ultimo si presenta come un compendio in versi del terzo libro dell’Almansore e in esso sono mescolati, oltre ai brani
del noto trattato, parti della Santà del corpo e di opere attinte da fonti diverse non meglio identificabili. Il lavoro mette in risalto
soprattutto le caratteristiche lessicali dell’opera in versi rispetto al trattato fiorentino in prosa. Lo Cibaldone, infatti, si presenta con una
patina settentrionale veneta che consente di annotare differenze lessicali nel passaggio dalla prosa alla poesia e da un volgare di area
toscana a un altro di area veneta.
1. Il lavoro prende le mosse dal primo volgarizzamento
fiorentino di un trattato integrale di medicina:
l’Almansore1. L’opera, tradotta dall’arabo in latino alla
fine del XII secolo a Toledo da Gherardo da Cremona, è
stata volgarizzata in fiorentino nel 1300, stando alla data
riportata dal codice più antico: il Laurenziano Pluteo
LXXIII.43 (Lp)2. Il trattato comprende 10 libri: anatomia
(I libro), fisiologia e fisiognomica (II libro), virtù dei cibi
(III libro), regole per mantenere la sanità accompagnate da
un breve trattato di pediatria (IV libro), trattato di bellezza
(V libro), consigli sulla dieta di chi si mette in viaggio (VI
libro), chirurgia (VII libro), trattato delle medicine e dei
veleni (VIII libro) trattato di tutti i mali che colpiscono il
corpo con la spiegazione di ciascuno di essi e dei rispettivi
rimedi (IX libro), trattato delle febbri (X libro). A più
riprese i medici medievali attinsero dall’Almansore latino
(da ora in poi Alm.lat.3) e in particolare Aldobrandino da
Siena ne utilizzò molte parti per realizzare il Régime du
corps, tradotto successivamente dal francese in fiorentino
da Zucchero Bencivenni.
Il lavoro di ricostruzione critica dell’Almansore è stato
complesso sia per la mole del testo su cui ho lavorato sia
per la situazione testuale, della quale fornisco qui un breve
resoconto, necessario alla funzionalità del mio discorso:
- l’edizione critica ha permesso di individuare due
famiglie che fanno capo allo stesso archetipo: una
famiglia tramanda l’Almansore fedele alla fonte latina
(da ora Alm.), l’altra restituisce un testo interpolato con
una traduzione fiorentina del Régime du corps che
sembrerebbe appartenere alla stessa famiglia della
Santà tradotta da Zucchero Bencivenni4;
- l’edizione ha smentito l’autorevolezza di Lp, che
pure è il ms più antico: esso, infatti, tramanda
integralmente l’Almansore, ma interpolato (da questo
momento indicato con Alm.interp.) con la traduzione
del Régime du corps;
- l’edizione ha messo in dubbio che il volgarizzatore
dell’Almansore sia stato Zucchero Bencivenni, perché
solo Alm.interp. riporta tale informazione nel colofone
che, probabilmente, è un’ulteriore interpolazione con
la Santà tradotta da Bencivenni;
- si è fatta avanti una tradizione indiretta cospicua e
molto difficile da gestire, che testimonia l’enorme
successo sortito tanto dall’opera latina quanto da
quella volgarizzata almeno fino al 1510, quando
ancora veniva stampato il settimo libro inerente la
chirurgia5.
1
Ringrazio Rita Librandi e gli amici che hanno letto questo
scritto, per i consigli schietti e per le preziose potature: Roberta
Cella, Maria Francesca Giuliani, Pär Larson, Fabio Romanini.
Sono grata, inoltre, alla dott.ssa Maria Teresa Vigolo e al
personale della Biblioteca di Palazzo Maldura di Padova per aver
reso agevoli le mie ricerche. Questo lavoro si inserisce
all’interno del PRIN 2005 «Censimento, Archivo e Studio dei
Volgarizzamenti Italiani (CASVI)» che vede coinvolte le
università di Lecce (responsabile R. Coluccia), della Basilicata
(responsabile R. Librandi), di Catania (responsabile M.
Spampinato), di Siena-Università per Stranieri (responsabile C.
Ciociola) e di Torino (responsabile A. Vitale Brovarone).
2
Per queste e per altre notizie circa la struttura testuale
dell’Almansore, la cui edizione critica è stata oggetto della tesi di
dottorato di chi scrive, discussa il 7 aprile 2006 presso
l’Università della Basilicata e ora in corso di stampa presso
SISMEL-Edizioni del Galluzzo, mi permetto di rinviare qui, una
volta per tutte, al mio saggio preparatorio dell’edizione (Piro,
2006b: 201-218).
3
Gli esempi latini che si porteranno sono tratti dalla editio
princeps del Liber medicinalis ad Almansorem regem, stampata
a Milano nel 1481.
Per quanto riguarda il terzo punto, l’Alm. fu conosciuto
nel XV secolo anche grazie a una riduzione in versi
intitolata genericamente Libro tertio d’Almansore, overo
Cibaldone6, la cui editio princeps, sprovvista di data,
sarebbe stata stampata tra gli anni 1472-1476 a Venezia
4
Il condizionale è d’obbligo, dal momento che non è stata
ancora districata la complessa tradizione della Santà del corpo,
di cui solo un’auspicabile edizione potrà dar conto. L’opera è
stata tramandata almeno in due versioni, una anonima e l’altra
realizzata da Bencivenni (Baldini, 1998: 33-38). I brandelli
presenti nell’Almansore interpolato aderiscono in parte alla
prima e in parte alla seconda versione. Per una terza versione
della Santà rimando all’edizione di Garosi (1981).
5
Mi riferisco alla stampa El modo di ordenar le recette in
Cyrogia… 1510.
6
Rimando la discussione sull’etimologia di ‘zibaldone’ data da
Elwert (1958), e tutte le informazioni contenute in modo
sommario in questo contributo, a uno studio più approfondito.
Per una spiegazione del termine cfr. Ageno (1952).
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presso Gabriele di Pietro7. Di tale poemetto Theodore
Elwert (1958: 63-110) curò uno studio che potrà essere
aggiornato sulla base delle nuove acquisizioni. Dai
sondaggi che ho avuto modo di espletare sulla princeps,
divergente per alcuni aspetti dalle almeno otto stampe
(IGI) successive e non veneziane, l’Almansore in versi (da
ora Alm.Cib.) è la riduzione in metro di tutto il terzo libro
dell’Alm. che tratta della virtù dei cibi e dei modi di
tenersi in salute attraverso l’abitudine del bagno. Il
confronto con il testo in prosa ha dimostrato che Alm.Cib.
non è, contrariamente a quanto è stato notato, un duplice
trattato8. Ma da quale Almansore il versificatore realizzò
la sua opera? Sicuramente aveva dinanzi un Alm. fedele
alla tradizione dotta latina, come si dimostra di seguito9:
Alm.lat.
Mora que sunt dulcia in caliditade sunt
temperata et in stomacho fastidium faciunt.
Acetosa vero frigida sunt que et ventrem
commovent et sanguinem fortiter remprimunt
(C 7v col. b).
Alm.10
Le more che ssono dolci in caldeçça sono
temperate e nello stomacho fanno fastidio. E
l’acetose sono quelle che ’l ventre commuovono, cioè fanno uscire, e ’l sangue forte
ripriemono e attutano. (III.XX.66-69)
Alm.Cib.11
Le more dolce son temperate e calde / Al
stomaco son molto fastidiose / E ’l ventre
move se son acetose. (vv. 28-30)
Alm.interp. More sono di due maniere sì come mature e
verdi. Quelle ke ssono mature e dolci sì sono
kalde e humide [...]. Quelle ke sono verdi e non
mature sì·ssono fredde e secche e di lor natura
confortano lo stomacho, e raffreddano, e
donano talento di mangiare, e valliono piu per
malatia rimuovere ke per santà guardare […].
E la radice del moro cotta in acqua sì amolla il
ventre […]. Le foglie cotte in aqua, e quella
acqua tenere cibo in boccha sì conforta i denti
e le gengie e rimuove il calore. (p. 864).
7
Per la datazione approssimativa, vista la mancanza di
indicazione nel testo, cfr. IGI s.v. Cibaldone.
8
Elwert, infatti, sulla base di Hain (1826-38: paragrafi 1390213904), sostiene che, per la diversità del verso e per la diversità
dei temi trattati, ci si trova dinanzi a due poemetti diversi. Lo
stesso si leggeva già in Brunet (1820: 195) che, in riferimento
allo Cibaldone, asserisce «sont deux petits poëmes, l’un en terza
rima […] l’autre en sestine».
9
Mi limiterò, per motivi di spazio, a portare successivamente
solo un esempio tra i più significativi.
10
Si riportano i luoghi citati negli esempi secondo l’edizione
critica dell’Almansore (Piro, 2006a): per Alm. il primo numero
romano indica il libro, il secondo il capitolo e le cifre arabe i
righi a cui si fa riferimento; per Alm.interp. si riportano i luoghi
citati secondo le pagine contenute in appendice all’edizione
dell’Almansore. Negli esempi in prosa, per uniformità, ho tolto
le barre separatrici indicanti i righi (che erano state mantenute
nell’appendice dell’edizione), sciolto i tituli senza segnalarli e
aggiunto h nelle voci di avere.
11
Il testo che si riporta, regolarizzato negli accenti, nella
punteggiatura, nella distinzione di u/v, è quello della princeps
veneziana del 1472-1476, conservata nella Biblioteca
Universitaria di Bologna.
Ma il versificatore dovette, forse12, avere dinanzi
anche l’Alm.interp. come dimostra il confronto che segue:
Alm.lat.
Assente
Alm.
Assente
Alm.Cib.
Le nespole sì sonno e seche e fredde / Conza il
stomaco e ’l vomito dischaza / Collera abassa e
orina fora schaza. (vv. 55-57)
Alm.interp.
Nespole sono fredde e secche nel primo grado
e di lor natura confortano lo stomaco e
ristringono il vomire e menagione ke viene per
caldi homori, e fanno bene orinare e valliono
più per malatie rimuovere ke per nodrire il
corpo […]. (pag. 869)
Il paragrafo delle nespole è assente in Alm. e Alm.lat.;
Alm.interp. lo desume dalla tradizione volgare che
tramanda il Régime du corps.
Sono, inoltre, identificabili brandelli di testo non
appartenenti né alla tradizione di Alm. né alla tradizione
francese del Régime du corps13 né a quella della Santà.
L’indagine lessicale, tuttavia, sembrerebbe genericamente
ascrivere alcuni contenuti di Alm.Cib. alla tradizione
culinaria: tra i paragrafi assenti nelle tradizioni poc’anzi
nominate si segnalano quello del rosmarino o della carne
vergellata, che saranno discussi più avanti.
Il versificatore di Alm.Cib. non solo mescola più opere
in un solo poemetto, ma anche tradizioni diverse: la prima
è quella della poesia didascalica che rende in versi i
trattati di medicina teorica o, in generale, quelli che
dovevano essere considerati trattati scientifici, ai quali si
affilia la riduzione in versi di una sezione del Liber
ruralium del Crescenzi.
Da quest’ultima, tuttavia, Alm.Cib. si allontana perché
il versificatore del Liber ruralium traduce in rima
direttamente dal testo latino (Santa Eugenia 1996: 223225), mentre, come si accerterà nello studio del lessico,
Alm.Cib. ebbe davanti, contrariamente a quanto sostenuto
da Elwert (1958: 69), un testo già volgarizzato. La
seconda tradizione confluita in Alm.Cib. è quella della
riduzione in metro delle conoscenze dell’arte culinaria,
tradizione alla quale partecipa il Saporetto di Simone de’
Prodenzani, una composizione in sonetti sulle singole
vivande e sull’ordine delle portate nelle mense (Faccioli
1966: 109-113)14. Ovviamente ciò non meraviglia né è un
fatto nuovo della medicina medievale, dal momento che,
come gli stessi contenuti dell’Almansore dimostrano, i
medici medievali, ma già Rasis e prima di lui i medici
greci, ricorrevano alle nozioni di culinaria per conoscere
12
Sospendo, per questa fase, il giudizio definitivo in merito alla
questione: allo stato dell’arte non mi è ancora possibile dire con
certezza se Alm.Cib. abbia autonomamente fatto lo stesso lavoro
del confezionatore di Alm.interp., ossia mescolare insieme
l’Almansore e la Santà del corpo, o se abbia avuto l’Alm.interp.
come fonte. In contrasto con la seconda ipotesti si veda quanto
detto alla n. 22. Negli esempi che saranno portati in seguito,
pertanto, mi limiterò a segnalare i paragrafi che le opere hanno
in comune e che testimoniano una stessa fonte originaria.
13
Ho controllato sul testo francese di Landouzy-Pépin (1911).
14
Per la versione completa del Saporetto, cfr. Carboni (2003).
Il lessico medico dalla prosa alla poesia
le virtù dei cibi. Nel Medioevo non era raro, inoltre,
trovare tra i possessori di ricettari culinari i «medici che
nei libri di cucina cercavano riscontro per le loro
riflessioni sulle proprietà curative degli alimenti» (Lubello
2006: 392)15.
2. L’Alm., in generale, offre un nuovo contributo alla
conoscenza della lingua medica delle Origini. In questa
sede, tuttavia, si sonderà, seppure in modo sommario, il
passaggio dalla prosa alla poesia di alcuni termini
dell’Almansore
e
il
graduale
processo
di
detoscanizzazione che l’opera subì dal Trecento fino alla
fine del Quattrocento acquisendo i caratteri della koinè
settentrionale. Già nella tradizione dell’Almansore in
prosa è ravvisabile tale processo che va dal manoscritto
più antico in fiorentino, il già citato Lp, a un testimone di
base toscana ma con influenze settentrionali (Firenze,
Bibl. Medicea Laurenziana, Pl. LXXIII.44 e Antinori
150), fino ad arrivare alla patina fonomorfologica veneta
del ms conservato a Venezia nella Biblioteca Marciana
(It.III.32). Se il testo in prosa ha risentito tuttavia, nel
corso dei due secoli, soltanto di un rivestimento
fonomorfologico della koinè settentrionale veneta, nel
testo in poesia la necessità di adattare la prosa preesistente
al metro costringe il versificatore anche a cambiamenti
terminologici. Ciò permette di analizzare alcuni aspetti
della diffusione dei sinonimi (o geosinonimi) di piante,
frutti, animali di tradizione settentrionale e più
precisamente veneta. Come asserito dalla Corti (1960:
217) per i copisti trecenteschi che adattavano i testi alle
proprie parlate, avviene non di rado che il nostro
versificatore «alle prese con un vocabolo indicante in
modo per lui esotico un animale o un oggetto altrimenti
familiare, lo sostituisce con disinvoltura mediante altro
vocabolo che abbia il pregio di essere consueto o di
provenire da una tradizione letteraria». Ed esotici
dovevano apparire molti termini dell’Alm., penetrati in
fiorentino attraverso la mediazione latina di Gherardo da
Cremona: come avviene, in particolare, per musa / mulsa e
fistici / pistacchi di cui si parlerà a breve.
Lascio da parte l’evoluzione fonetica popolare che
distingue gli esiti latini dei volgari toscani da quelli veneti,
anche se questi fenomeni contribuiscono a sancire
ugualmente la «differenziazione areale» (Gleßgen 1993:
192): prune (Alm.) vs brogne16 (Alm.Cib.), collera (Alm.)
vs colera (Alm.Cib.), ragione (Alm.) vs rason (Alm.Cib.),
coriandro (Alm.) vs curiandolo (Alm.Cib.).
Non contengono nessuna informazione marcata in
senso locale né le voci dotte o semidotte con comune base
latina o araba che si attestano geograficamente omogenee
in tutti i volgari italiani (ad es. appio, porcellana, aneto),
né gli ‘internazionalismi’, ossia «parole tecniche che
appaiono con poche diversificazioni in varie lingue»,
proprie della lingua della scienza, come atriplici17
15
Una buona ricognizione sullo stretto rapporto tra medicina e
cucina nei secoli è stata fatta di recente da Montanari (2006: 6370).
16
La lenizione iniziale è tipica dei dialetti settentrionali. Il
termine è presente nel Serapiom e si accompagna ai sinonimi
pruno, soxim, soxina (Ineichen, 1966: 39, 83, 371).
17
Il termine significa ‘bietolone, sorta di erba commestibile’
(TLIO).
(Gleßgen, 1993: 192). Queste ultime sono utili, tuttavia, a
stabilire il grado di sovraregionalità che alcuni termini
avevano già acquisito alla fine del Quattrocento.
3. Di seguito si darà saggio di quanto asserito attraverso il
confronto di alcuni termini. Si indicheranno anzitutto le
forme: a destra sarà segnalata la forma presente nella
tradizione dell’Almansore, a sinistra quella di Alm.Cib. Si
citeranno i luoghi in cui i termini occorrono registrando,
in ordine, Alm., Alm.interp., Alm.Cib.; laddove i primi due
coincidessero comparirà il simbolo (=) e si citerà secondo
la lezione di Alm., in base ai criteri già indicati nella n. 10.
Per quanto riguarda gli esotismi e gli adattamenti dei
termini arabi che giungono nell’Alm. fiorentino attraverso
l’Alm.lat. e che sono cambiati da Alm.Cib. si segnalano:
musa / mulsa
Alm.=Alm.interp.:
«Musa
è
calda,
la
quale,
conciosiacosach’ella sia rea, allo stomacho fa fastidio»
(III.XX.33-34)
Alm.Cib.: «La mulsa è calda e al stomaco è ria» (v. 10)
Dalla lettura dei testi si evince l’errore commesso da
Alm.Cib. e presente anche nei testimoni visionati da
Elwert (1958): il versificatore, probabilmente, non
conosce il termine musa ‘banana’ e lo adatta, per
paretimologia, a un termine che gli è più noto, la mulsa
ovvero ‘acqua melata’ (GDLI), l’acqua dolce, che si adatta
bene a un contesto in cui si parla di cibi molto dolci, di
frutti come datteri, fichi, uva passa.
Rara, o nota solo attraverso gli schizzi di viaggiatori,
doveva essere anche la conoscenza del frutto che il nome
musa, proveniente dall’arabo mūz (Ineichen 1966: 160)18,
designava, ossia la ‘banana’. In Alm. esso è traduzione
letterale dal latino musa che a sua volta si mantiene fedele
alla tradizione araba. Musa presente in Alm. rappresenta la
prima attestazione del termine.
dora / melica
Alm.=Alm.interp.: «Dora è seccha e poco nudrisce e ’l
ventre stringe» (III.III.70)
Alm.Cib.: «Melica ha fredda ancor sua natura / Pocco
nutrisse che in corpo la spinge / E a manzarla il ventre
restringe» (vv. 322-324)
Dora deriva direttamente dal latino di Gherardo da
Cremona che riporta «dora sicca est [...]», ed è un termine
di origine araba. Nell’Alm. è il nome con cui viene
designata la ‘saggina’. Alm.Cib. preferisce il più volgare e
18
Il termine ricorre anche in Lionardo Frescobaldi in base al cui
racconto la musa sarebbe il frutto per il quale Adamo peccò, e
associerebbe a ciò il fatto che tagliando il frutto vi si trova il
segno della croce: «Per le parti d’Alessandria e per l’Egitto sono
i frutti molto dolci [...]. Quivi è una generazione di frutte che le
chiamano muse, che sono come cedriuoli, e sono più dolci che ’l
zucchero. Dicono che è il frutto in che peccò Adamo, e
partendolo dentro per qualunque modo vi trovi una croce, e di
questo ne facemo prova in assai luoghi. Le sue foglie sono come
d’ella, ma più lunghe; il suo gambo è come di finocchio, ma è
molto più grosso, e seccasi e rimette ogni anno una volta»
(Angelici, 1944: 65-66).
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marcato in senso veneto melica. Dora è il corrispettivo
colto di tradizione latina, diffusosi soprattutto in Toscana,
di SORGHUM CERNUUM altrimenti nota, sempre in
Toscana, come durra, saggina bianca, saggina turchesca,
saggina dal collo torno (Penzig, 1924: 470). Il GDLI
registra solo le forme dura / durra (dall’arabo durra)
entrate in italiano durante le guerre d’Abissinia: così,
infatti, in Africa era chiamata la saggina (o sorgo o
melica). Il DEI registra sia dòra, che sarebbe entrata
nell’italiano nel Settecento, sia dur(r)a penetrata, come
già visto nel GDLI, all’inizio del XX secolo. Dalla
testimonianza di Alm., però, si deduce che il termine
doveva essere noto e usato nel Trecento. Alm.Cib. lo
sostituisce con melica, da ciò si desumerebbe che, nel
Quattrocento, il termine dora era diffuso con il significato
di ‘saggina’ e si alternava a melica. Sembrerebbe, inoltre,
che dora e dura fossero oscillanti, come conferma la
variante dura di uno dei mss di Alm19. Si registrerebbe,
quindi, in Alm. la prima attestazione, unica per il
Trecento20, del termine. La forma melica si attesterebbe
soprattutto in ambito settentrionale e deriverebbe
direttamente dal bassolatino melica / milica < lat. MEDICA
(HERBA), per cui cfr. EV, s.v. melica. La prima
attestazione è dantesca, segue quella del Palladio volg.
(1340ca) in cui in una glossa è annotato: «il campo nel
quale si vuole seminare la meliga, cioè la saggina»
(DELI). Si veda, però, anche l’ipotesi di Trumper-Vigolo
(2005: 141), per i quali la forma sud-padovana mélega «si
ricollega alle forme lombarde emiliane […] per il rapporto
con milium» ossia il ‘miglio’ e non l’‘erba medica’.
fistici / pistacchi
Alm. = Alm.interp.: «I fistici sono più caldi de le mandorle e
approno l’oppilacione del fegato» (III.XX.105-106)
Alm.Cib.: «Pistachi sono molto nobel cosa / Apren le vene a
chi sonno opilati / E sonno al figato utili e provati» (vv. 9193).
La forma attestata in Alm. è passata direttamente dal
latino di Gherardo, fistici. In fiorentino antico, come si
desume dal corpus del TLIO, è attestato anche fistuchini
‘di color pistacchio’ / fistuchi21 ‘pistacchi’. Il diverso
vocalismo di fistichi / fistuchi (e derivati) dipenderebbe
dalla differente provenienza delle due forme: fistici
deriverebbe dal persiano fistik (Ineichen 1966: 181),
mentre fistuco deriverebbe dalla forma araba fostuq (DEI
s.v. fistuchino). La forma fistici dell’Alm., calco dal latino,
rappresenta la prima attestazione per il volgare, successivo
sarebbe l’aggettivo fistichini che si legge ne La pratica
della mercatura di Pegolotti (Evans, 1936: 55 e 58) .
Pistacchio < PISTACHIUM è attestato la prima volta a
Venezia in un contesto lat. mediev. nel 1289 (DELI). Il
diverso vocalismo e l’esito consonantico rispetto a fistici /
festuchi indicherebbe che il termine fu sottoposto alle
regole fonetiche del greco pistákion (DEI) prima di
passare al veneziano. La prima attestazione in fiorentino
19
Si tratta del ms Biscioni IX conservato a Firenze nella
Biblioteca Medicea Laurenziana.
20
Ho consultato il corpus del TLIO.
21
Sono grata a Rossella Mosti per avermi segnalato la forma
fistuchini nel corpus del TLIO.
ricorre in Pucci (Vàrvaro, 1957: 47). Si notino ancora le
seguenti coppie:
borrana / boragine
Alm.: assente
Alm.interp.: «Borrana sie calda et humida nel primo grado»
(p. 860)22.
Alm.Cib.: «Boragine è in un grado caldo e humido» (v. 145)
La trattazione della borrana, assente in Alm., è
sviluppata in Alm.interp. che la desume direttamente dal
Régime: «Borraces sont caudes et moistes ou premier
degré» (Landouzy-Pépin 1911: 164). Borrana è la forma
volgare più antica e più diffusa in Toscana della pianta
che viene identificata nella botanica moderna con
BORRAGO OFFICINALIS, come dimostrano le prime
attestazioni registrate dal GDLI, la Santà (Baldini, 1999) e
l’anonimo autore toscano del glossarietto fiorentinoromanesco che, ancora nel Seicento, attesta la forma
fiorentina borriana contro il romanesco borragine
(Baldelli, 1988: 171). Quest’ultima, forma etimologica sul
caso obliquo latino, si è poi affermata in italiano.
baucie ~ pastinache / pestenache
Alm.: «Baucie, cioè pastinache, calde sono ed enfiative le
quali a pena e con dureçça si digerono» (III.XVIII.77-78)
Alm.interp.: attinge dalla traduzione della Santà del corpo
(Piro, 2006a: 859).
Alm.Cib.: «Le pestenache son ventose calde» (v. 220).
La forma baucie registrata in Alm. ricalca direttamente
il latino «Bautie calide sunt et infiative» (Alm.lat. C6v col.a)23
ed è il corrispettivo di dauchus nella tradizione
dell’Alamansore. Nel nel Serapiom si legge alla c. 176r
38: «La pestenaga salvèga fi chiamà daucho» e nel Ric.
fiorentino «dauci, idest pastinacha salvaticha, cioè seme»
(Ineichen, 1966: 177); la pianta, inoltre, identificabile con
il daucus creticus, era già in latino sinonimo di pastinaca
hortensis (André, 1985: 87). Per la sovrapposizione dei
vari generi della pastinaca e del dauco si veda l’analisi di
Trumper-Vigolo (2005: 193-194).
Baucie sembrerebbe attestazione unica, presente solo
nella tradizione dell’Almansore. Parrebbe una di quelle
parole per le quali sarebbe inutile cercare di trovare «linee
di sviluppo che all’epoca costituivano dei rami secchi»
(Casapullo, 1999: 151).
Pastinache è voce dotta dal latino PASTINACA(M),
indicante la pianta e il pesce che assomiglia alla pianta
(DELI). La voce è ben attestata in area toscana e
settentrionale senza importanti variazioni, mentre si
registra al Sud la forma bastinaca (DEI). In particolare è
padovana la formazione di pestenega che risente del
cambiamento di suffisso per il passaggio di à > e in -ACUS
> -ègo (Ineichen, 1966: 367).
22
Il caso esemplificato è uno di quelli che metterebbe in
discussione la possibilità che Alm.Cib. abbia attinto proprio da
Alm.interp. per trasporre in versi la sua opera, e sembrerebbe
confermare che, come già ipotizzato all’inizio di questo lavoro, il
versificatore abbia mescolato insieme non solo di brani tratti da
Alm. e Santà del corpo, ma anche di altre opere. Cfr. anche n. 12.
23
Una mano moderna registra daucus a marg.
Il lessico medico dalla prosa alla poesia
Sicuramente settentrionali e venete sono le forme
seguenti che non trovano piena corrispondenza, o non ne
trovano affatto, in Alm. e Alm.interp.:
osmarino
grasso, cioè che abbia anche del grasso’ (BOERIO s.v.
verzelà); la prima attestazione è registrata nel 1288 a
Venezia (DEI s.v. verzelato). Cfr. anche vergellato
‘vergato di grasso e di magro’ in Maestro Martino
(Faccioli, 1966: 131 e 140).
Alm. = Alm.interp.: assente
Alm.Cib. «Lo osmarino sie secco e caldo» (v. 175)
In questo caso Alm. non è fonte di Alm.Cib., né si
trovano riscontri in Alm.interp., nel Régime o nella Santà
del corpo; Alm.Cib. non ha come fonte neppure il noto
trattatello delle Virtù del ramerino24. Il termine più
comune a Firenze del ROSMARINUS OFFICINALIS è
ramerino (cfr. il francese romarin). Nella forma osmarin /
osmerin, comune ai dialetti veneti, al parmigiano e al
milanese «la r etimologica si mutò in l da losmarin si fece
l’osmarin» (Mussafia, 1864: 226). La forma osmarin è
ben attestata nel padovano e nel vicentino (TrumperVigolo 2005: 178). La prima attestazione è veneziana e
risale al XIII sec.: San Brendano, «sì como (de) inzenso e
aloe e muscio e balsemo e de anbra e de ’osmarin e de
savina» (Grignani 1975: 244).
missalta
Alm.: assente
Alm.interp.: «Et s’ella è insalata d’un die o di due sie più
sana […] Et s’ella è dimorata salata d’un anno o più o meno
sì de’ essere calda e seccha per la força del sale e ingenera
malvagio sangue» (pag. 836).
Alm.Cib. «Il porcho in sale, che sia pur [carne] missalta /
humida è molto, ma se l’è salata / nutrica pocho ed è secca
aprovata» (vv. 484-486).
Missalta, la ‘carne sotto sale’, è assente in Alm. che
non tratta neanche della carne di maiale. Il termine non
ricorre in Alm.interp. e, quindi, nella Santà, anche se si
parla della carne sotto sale. La fonte di Alm.Cib., come si
nota dagli esempi, non è sicuramente Alm. ed è diversa da
quella di Alm.interp. Attestata già in antico veneziano, nel
XIV sec., missalta deriverebbe dal latino medievale
*misaltare; si registra anche in Burchiello e in Doni (DEI
s.v. misaltare). Nell’Opera di Scappi si legge la forma
verbale: «tortore e quaglie […] si misaltano» (Faccioli,
1966: 36). La prima attestazione è nel Libro Vermiglio
(1333-1337), in cui è usata come aggettivo e sempre in
relazione alla carne di maiale: «la portatura a Vignione e
per uno botticino di romecha, per chandelle e frutta,
charne misalta, anche per tre porci, uno quartiere di bue
salato, per tre barigli d’olio» (Chiudano, 1963: 53).
vergelata (vergolata)
Alm. = Alm.interp.: assente
Alm.Cib.: «Vergolata si fa sangue temperato» (v. 547)
Il termine è assente in Alm., Alm.interp. e Santà del
corpo, e la forma vergolata, variante della più comune
vergelata (cfr. Elwert, 1958: 95), è associata a carne in
veneziano. La carne verzelada è la ‘carne vergata di
24
Ho confrontato il testo nell’edizione data da Bénéteau (1990:
248-250).
cisoni
Alm.= Alm.interp.: assente
Alm.Cib.: «Ogni cisoni e altri osei salvatici» (v. 676)
Annotata anche da Elwert (1958: 99n), cisoni non
sembra trovare esatta corrispondenza in Alm.25. Il DEV
registra zizòn / sisòn, il ‘maschio dell’anitra’ in veronese,
avente la stessa etimologia di zesano ‘cigno’ (cfr. anche
vicentino cisano nel BORTOLAN). Il DEV registra ancora
il veronese sisoni con il significato di «ciocche di capelli
ribelli (forse in relazione alle piume arricciate della coda
del maschio dell’anitra)», e gli aggettivi ziesòn / siesòn
con il significato di ‘zazzeruto, capellone’. Nel BOERIO
si legge cison è lo «zazzerone. Pien di capelli». I termini
troverebbero etimo comune nel cecino ‘cigno’ dal latino
CYCINUS (DEV). La prima attestazione in fiorentino è
riscontrabile nella forma cecino, mentre la prima forma
attestata in assoluto è la lucchese cieceno. La confusione
semantica tra anitra e cigno si registra già nella Santà di
Zucchero Bencivenni, laddove si dice che la «charne di
cieceno si tiene a natura di charne d’ocha salvatica»
(Baldini 1999: 147). Cfr. anche il Libreto del Savonarola
in cui cisno ‘cigno’ viene considerato come uccello
domestico (Nystedt 1987: 123). Zizòn è voce dialettale
moderna ferrarese che identifica il ‘germano reale’, il
maschio dell’anitra26: la stessa forma è assente nei
vocabolari ferraresi dell’Azzi (1857) e del Ferri (1889).
4. Seguono alcune note sulla formazione delle parole
nell’Alm.Cib. Per i mutamenti nel genere, i nomi di frutto,
femminili nei volgari toscani, nei dialetti veneti,
solitamente, sono maschili (Marcato-Ursini 1998: 59):
fiche / fichi, pesca / persico; sebbene non manchino
attestazioni contrarie (le pere, ad esempio, sono al
femminile anche in Alm.Cib.). Si registra mutamento di
genere nella serie seguente, indicante il frutto
dell’albicocco:
humiliache / armelini
Alm. «Grisomule, cioè humiliache, sono fredde, le quali
muovono il ventre ed enfiano […]» (III.XX.81-82).
Alm. interp., glossando, aggiunge: «Grisomole sono piccole
peschette che noi kiam[iam]o humiliache» (p. 866)
Alm.Cib. «Li armelini sì son freddi e humidi» (v. 52)
Tanto il femminile toscano humiliache quanto il
maschile armelini sono continuatori dal latino ARMENIUS
‘dell’Armenia’, cui fu aggiunto un suffisso -ÀCUS
soprattutto nell’Italia nord-occidentale, mentre le parlate
orientali seguitarono con un suffisso -ino che diede vita
25
La forma non sembra trovare corrispondenza nemmeno nella
denominazione delle specie in veneto: ho consultato per questo
Pigafetta (1978) e Simoni (1993).
26
Ringrazio Fabio Romanini per la notizia.
Rosa Piro
alla forma ven. armelin27. La forma humiliache (segnata
nelle forme umiliaca / meliaca nel LEI) ricorrente in Alm.
è la spiegazione che viene data al latinismo grisomule, ed
è, probabilmente, il risultato di un ripensamento
etimologico popolare su humilis, in quanto le pesche
humiliache sono piccole, di poca cosa. Alm.Cib. adatta
humiliache ai versi traducendole con il nome del frutto
diffuso nelle parlate settentrionali. La differenza regionale
tra humiliache e armelini doveva essere molto sentita.
Alm. e Alm.interp. glossano il termine dotto latino
grisomule / grisomole, affiancando il corrispondente
fiorentino. Nel Libreto del Savonarola, nel titolo dedicato
al frutto, si specifica il termine ferrarese: «Dello
armoniaco ditto apresso di nui armillo»28 (Nystedt, 1987:
91), o nel senese Benzi: «grisomule o mognaghe o
persiche picinine», o in Bagellardo «olgio de crisomile da
molta giente dite armoniache e similmente lo olio de
armele» (Gualdo, 1996: 199). Per le forme con affissi
segnalo i seguenti casi.
a. Forme con a- prostetico
Il fenomeno, frequente in testi lombardo-veneti e
franco-italiani (Ineichen 1966: 407), si ritrova al v. 383:
«La scabia asmorza e di rogna el focore».
b. Forme con des-/ disIl prefisso è molto produttivo, come si osserva in
discaza «[Lo osmarino] L’humor discaza dal polmon e ’l
pecto» (v. 177 et passim). Dis- assume semplice valore
rafforzativo, non privativo né peggiorativo (Rohlfs, 196669: §1012) e non altera il significato del termine che è
comune a quello di scaccia: «[la zuca] ria al stomaco e
l’appetito scaccia» (v. 239 et passim), e caccia: «Dal
stomaco e figato il caldo caccia» (v. 240 et passim). Lo
stesso prefisso ha semplice valore rafforzativo in
desmagra (v. 371). Nei casi che seguiranno il prefisso
assume valore privativo: per es. in desnebriare ‘togliere
l’ubriacatura’ (v. 117), desinfie (v. 764), discarigato (v.
929). Dispuza ‘toglie la puzza’, «[L’appio] dispuza la
bocca» (v. 140), (cfr. Alm. «al reo odore de la bocca da e
fa rimedio» III.XVIII.38-39), sembrerebbe un solecismo:
non ho trovato attestata altrove la forma. Si può, tuttavia,
accostare al veneto spuzzar, di Oudin e Magalotti (EV, s.v.
spuzzeta ‘persona fumosetta’). In veneziano moderno è
presente, inoltre, la forma spussa ‘puzza’29 e spussare
‘puzzare’ (Marcato-Ursini 1998: 230). La perdita del
valore privativo di s- ha costretto Alm.Cib. a ripensare a
un termine che potesse condensare la negazione di
spuzzare ‘puzzare’. Si noti disfilza (v. 212): «Collera rossa
ripreme e disfilza»; cfr. Alm. «la collera rossa spegne e
riprieme fortemente» (III.XII.55-56). Il termine, in
sinonimia con ripreme e con il significato di ‘diminuire’, è
usato per rendere la rima con milza al verso successivo:
«E anco alarga il figato e la milza». In italiano è presente
sfilza ‘lunga serie, grande numero’, derivata da filza ‘serie
di cose simili infilzate una di seguito all’altra’ e attestata
27
Cfr. l’esaustivo studio delle voci ARMENIACUS, ARMENIUS
realizzate da Zamboni nel LEI; cfr. anche Trumper e Vigolo
(2005: 164).
28
Sembrerebbe una variante settentrionale di armellino: Ineichen
(1966: 68) annota nel Serapiom la forma armelio.
29
Ibidem.
già in bolognese nel 1287 (DELI). È possibile che, in
questo contesto, desfilza sia adoperata in senso
metaforico, per cui il *desfilzare è inteso come l’atto di
rompere la filza, quindi diminuirla nelle sue componenti.
In questo contesto il verbo assume il semplice significato
di ‘diminuire’.
Mi limito a registrare distemperato: «Ma chi [il vino
vecchio] distemperato e troppo il prende / Figà, celebro e
nervi molto offende» (vv. 344-45). Per lo studio e la
polisemia del verbo si veda distemperare in Gualdo
(1996: 86-87 e 199).
c. Forme in sIn smagrato «[Capparo] el corpo fa smagrato» (v.
269), il prefisso non ha valore privativo ed è in
concorrenza con dis-, per cui cfr. dismagra al paragrafo
precedente.
d. Forme con prefisso inIl prefisso in- è molto produttivo nei volgari veneti
(Pellegrini 1990: 223) soprattutto nelle forme verbali dove
sembra mantenere l’originario significato latino
dell’«avvio ad un nuovo stato (o anche l’inizio di uno
stato)» (Rohlfs 1966-69: §1015), così come al v. 111 «[Lo
sperma] fa molto insoniare» che rende Alm. «fa sonno»;
cfr. anche il Serapiom insuniare ‘sognare’ (Ineichen 1966:
410); oppure ingenera ‘genera’: «molta superfluità fa e
ingenera» (v. 500 et passim) usato con lo stesso valore di
genera: «Turbida genera pietra ne le rene» (v. 380 et
passim).
Registro anche impreme per ‘reprime, diminuisce’, che
non ricorre nella princeps (laddove leggo ripreme) ma è
presente in tutte le stampe consultate da Elwert (1958:
84): «[Melongia] Colera rossa impreme e desfilza» (v.
212), usato in sinonimia con riprime: «Colera rossa abasa
e la riprime» (v. 59 et passim) e preme: «Collera rossa e
sangue preme bene» (v. 18).
e. Forme con prefisso rePrivo di valore reiterativo (Rohlfs 1966-69: §1027) il
prefisso in ringrassata «Carne d’animal vechio e
ringrassata / E quella che non è anchor parturuta / è ria, e
la natura pocho aiuta» (vv. 436-38), cfr. anche Alm. «E la
carne degli animali vecchissimi e ingrassati, e di coloro
che traono del corpo degli animali dinanti al parto, è rea e
noce, e nel loro manichare non è utilitade» (III.IX.6-8).
e. Forme verbali in -isse
Le forme verbali in -isse sono proprie dell’uso veneto.
L’ampliamento del tema rispetto non comporta
mutamento semantico: es. pentisso, impignisso per pento e
riempio (Marcato-Ursini 1998: 230). Registro in Alm.Cib.
impisse (v. 372): il verbo in veneziano è impinir (anche
impenir) ‘empiere, riempire’ (BOERIO; Marcato-Ursini
1998: 230), nel contesto usato nel poemetto ha il
significato di ‘aumentare’. Segnalo le forme che in
toscano hanno uscita in -isco alla prima pers. del pres.
ind.: suplisse (v. 50); padisse (v. 51 et passim); nutrisse
(v. 218 et passim, anche nutrica al v. 503 et passim);
impidisse (v. 321).
Il lessico medico dalla prosa alla poesia
5. Sebbene il testo sia poetico vi si ritrovano termini che
possono a pieno titolo rientrare nella categoria individuata
da Serianni dei «tecnicismi collaterali» (1989: 82-83 e 9498), alcuni dei quali si specializzarono nella lingua della
medicina già tra il Trecento e il Quattrocento, fino ad
arrivare all’italiano contemporaneo.
[abbassare]
Il verbo, pur non appartenendo a un registro
particolarmente elevato (Serianni 2005: 128), si
specializza in Alm.Cib., a fronte della vastità dei sinonimi
che sono presenti nell’Alm., per indicare la diminuzione
della collera rossa, della febbre o di altre malattie grazie
alla porcellana: «la collera abassa» (v. 53) laddove in Alm.
troviamo: «ripriemono la collera rossa» (III.XX.82); circa
la virtù delle grisomole è detto che: «la sperma abassa e la
colera ardente» (v. 144), cfr. Alm.: «a ccoloro che hanno
la collera rossa […] giova et la sperma menoma»
(III.XVIII.115-118).
[indurre]
Si riconosce a questo verbo una specializzazione già
antica risalente al Crescenzi e, nel XV secolo, al
Savonarola e al Brancati (Serianni, 1989: 403, 421 e 2005:
148). Ancora una volta, grazie al confronto con l’Alm., è
possibile vedere la scelta di Alm.Cib. di una parola più
specializzata rispetto a sinonimi più vaghi. Alcuni esempi:
«luxuria induce» (v. 140) vs Alm. «la luxuria commuove»
(III.XVIII.39); «[il latte] fastidio induce» (v. 413, Alm. non
è fonte); «il vecchio caso è caldo e sete induce» (v. 418,
Alm. non è fonte); «Chi l’usa [la passara] induce il corpo a
far luxuria» (v. 647) vs Alm. «commuove la luxuria»
(III.X.14-15). Accanto alle forme con diverso prefisso ma
con lo stesso valore semantico di indurre, segnalo:
«[Carne vergelata] Fastidio fa e collera rossa adduce»
(v. 549); «[La carne cotta] sperma aduce d’inverno» (v.
589); «[il caldo] collera assai conduce e la replica» (v.
612).
[ventoso]
Mi pare che anche l’aggettivo possa rientrare nella
specificità del lessico medico antico, attestato in Alm.Cib.,
ventose (v. 74), in cui è usato con il significato di ‘ciò che
causa ventosità’. Con lo stesso significato è presente già in
Crescenzi (DEI). In Alm. è assente.
6. Per quanto riguarda gli adattamenti metrici, che
sovente spingono il versificatore a usare termini poco
consueti e non sempre attestati nei dizionari, si segnalano
odorifica (v. 375) e il già commentato desfilza. Tra le
forme riprese dalla lingua poetica con suffisso in –ore si
segnala focore (v. 383 et passim). In alcuni casi la
necessità di fornire una rima crea forzature
nell’interpretazione dei significati: come seccare il
fastidio per ‘diminuire il fastidio’ in «Sotiglia il cibo e lo
fastidio secca» (v. 431). Notevole il pulline (v. 663) inteso
nel senso di ‘pollo’ e non attestato in Alm. né Alm.interp.
In veneziano si trova attestato pulina: «Pollina, Sterco de’
polli ch’è buono ad ingrassar le terre» (BOERIO).
Sembrerebbe una forma usata al posto del semplice ‘polli’
per far rima con galline al verso successivo: «Carne di
galli nel padir è dura / Ed è più grossa che de le galline / E
men nutrica che l’altre pulline» (vv. 662-663). Nel trattato
di falconeria in latino del Dancus rex si legge: «Omnes
falchones qui habent pennas rubeas sunt sanguinei, sic
convenit medicari cum medicinis frigidis et humidis, sicut
sunt mortina, tamarendi, medula cassiafistule, manna, et
omnia ista in aceto, carnes pulline, agneline, camici,
agirones et scarças», dove carnes pulline è ‘la carne di
pollo’ (Tilander 1963: 88).
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Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo
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Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo
LXXIII.44
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El modo di ordenar le recette in Cyrogia: con le
intentione curatiue como si fa in physica: et di conzar
gli ossi dislogati: rotti e spezzati: et molte altre cose
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Rasis, stampata in Venetia per Simone de Luere ne la
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