la donna nella chiesa: modelli del passato

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la donna nella chiesa: modelli del passato
LA DONNA NELLA CHIESA: MODELLI DEL PASSATO – SFIDE DELL’OGGI CETTINA MILITELLO La questione femminile s’impone oggi più che mai nella società e nella Chiesa. Restano ancora molteplici le sperequazioni sul piano della famiglia, del lavoro, della politica. La questione ci tocca come credenti perché molte forme della diseguaglianza uomo-­‐donna hanno avuto e hanno – anche fuori dal cristianesimo – una fondazione “religiosa”. Pretestuosa, certamente, ma pesantissima nel vissuto concreto della donne. Capirne il come e il perché chiede una rilettura del passato e del presente, così da meglio discernere e operare. MODELLI DEL PASSATO Nella tradizione veterotestamentaria la soggezione della donna è coerente alla cultura dell’agiografo. Ciò malgrado non mancano spie di una progettualità diversa. Uomini e donne sono protagonisti della storia della salvezza. L’amore umano diventa addirittura cifra del patto di Dio con il suo popolo. Il che, se avverte circa il valore dell’incontro uomo-­‐donna, non manca di proiettare nell’uomo la potenzialità del divino e nella donna la limitatezza del creaturale, così stabilendo un rapporto impari e squilibrato a livello sociale e morale oltre che religioso. La comunità gesuanica appare però di segno diverso. Seguono Gesù discepoli e discepole. Queste ultime, assai spesso, attestano un rapporto privilegiato che espunge ogni sottomissione religiosa, politica e morale. Di fatto, però, questa partnership discepolare viene mediata dagli agiografi che inevitabilmente le sovrappongono la propria visione antropo-­‐religiosa. Un manifesto evidente di questo percorso ci giunge dagli scritti paolini. Nella loro parte più antica è evidente la novità cristiana risolutiva d’ogni discriminazione (cfr. Gal 3,28). Le donne hanno parte attiva nella comunità compartendo con gli uomini compiti d’evangelizzazione, di gestione della comunità, di guida e discernimento profetico (cfr. Rm 12). Al cuore delle “Chiese domestiche” esse esercitano un ruolo singolare nella crescita del movimento cristiano primitivo. Ma già il passaggio alle lettere della prigionia ci pone dinanzi i “codici familiari” nei quali il cristianesimo appare vincolato alla situazione socio-­‐culturale-­‐
religiosa vigente, rinunciando, quasi, al suo slancio innovatore. Il che connota ancor più le lettere pastorali. Ormai è la famiglia patriarcale il modello di riferimento. La Chiesa è appunto assimilata alla famiglia contrassegnata dall’autorità paterna e maritale. Ed è il vescovo a recepire il ruolo culturale del pater familias. E tuttavia una novità il cristianesimo l’ha prodotta sul piano del rapporto tra i sessi. Infatti si diventa cristiani con la medesima ritualità. Far parte della comunità non comporta discriminazioni. Non c’è come nell’ebraismo una iniziazione soltanto al maschile. L’iniziazione cristiana è identica per gli uomini e per le donne. Il sigillo è ora il battesimo. Né si da differenza relativamente al dono dello Spirito o alla partecipazione al corpo e al sangue del Signore. Ma questa “equivalenza nell’ordine della grazia” non comporta analogie sul piano sociale e giuridico. La donna resta “sottomessa nell’ordine della storia” e perciò esclusa da ogni soggettualità attiva di tipo religioso, politico, morale. Il binomio “subordinazione-­‐equivalenza”, caratteristico del pensiero dei Padri, resterà indicativo della diseguaglianza uomo-­‐donna sino all’età moderna. Le grandi mutazioni politico-­‐sociali tra la fine del secolo XVIII e tutto il secolo XIX non toccheranno le donne se non marginalmente. E bisognerà arrivare al secolo XX perché i germi degli ultimi decenni del secolo XIX elaborino una domanda di parità di diritti, d’indole politica innanzitutto, ma anche religiosa. A fronte del nascente femminismo, la Chiesa – nel secolo XX – avrà una sola preoccupazione: salvaguardare la peculiarità femminile, con ciò ipostatizzando i ruoli culturali sin lì elaborati. Sarà visto come pericoloso e alienante l’accesso della donna al mondo del lavoro, la domanda di diritti civili, primo tra tutti il diritto di voto. Questa difesa ad oltranza della stereotipia femminile, della sfera familiare e privata come specifica della donna comporterà, ciò malgrado, la necessità di aggiustamenti riconducibili alla formula “dalla diseguaglianza alla parità diseguale”. Dinanzi alla insostenibilità culturale della disparità uomo donna, la difesa a oltranza della autorità maritale e paterna, maturerà la locuzione “parità diseguale”. Essa tuttavia non incrina l’autorevolezza del padre o del marito, criterio ultimo del buon ordine della società. Nel frattempo è però mutata la coscienza delle donne. È cresciuto il loro livello di scolarizzazione. Le due guerre mondiali sono state per esse il banco di prova di una capacità di sopperire produttivamente l’assenza degli uomini. In particolare, è iniziato il processo relativo al diritto di voto che, in Occidente, nell’arco di circa cinquant’anni vedrà le donne sia elettrici che elette. Di questo processo emancipatorio partecipano anche le religiose, impegnate ad autogestirsi secondo una linea d’autorità femminile. LA SVOLTA DEL VATICANO II: LA RISCOPERTA DELLA SOGGETTUALITÀ BATTESIMALE L’evento più significativo nella storia delle donne cattoliche è il Concilio Vaticano II, frutto della profezia di Giovanni XXIII che, nell’enciclica Pacem in Terris, ha colto nell’accesso delle donne alla vita pubblica un “segno dei tempi”. Il concilio non apre uno specifico cantiere sulla questione femminile. Tuttavia, le affermazioni relative al popolo di Dio tutto disegnano una Chiesa capace di oltrepassare la discriminazione multisecolare operata nei confronti delle donne. Tuttavia al Vaticano II è esplicita la condanna del sessismo (cfr. LG 32; GE 1; GS 29.60). Non meno importante è il riconoscimento, più volte presente nella Gaudium et spes, della rilevanza della donna nella vita economica e sociale (cfr. i nn. 9.31.34.60) E, finalmente, a fare la differenza è il riconoscimento dell’apporto che la donna arreca alla cultura e al suo sviluppo (cfr. GE 1.8; GS 55.60). Deludente è invece il Messaggio del concilio alle donne, pieno di stereotipi, assolutamente inadeguato alla domande che settori avanzati del femminismo cattolico avevano rivolte ai padri conciliari. Né va dimenticato che al concilio le donne presero parte come uditrici e parteciparono attivamente al III e IV periodo. Ma, appartenendo, le uditrici a una élite sociale oltre che religiosa, mancò loro quella sensibilità alla questione femminile che alcune di esse acquisirono poi negli anni successivi. DOPO IL VATICANO II: LA DIFFICILE RICEZIONE Il post-­‐concilio ha segnato per le donne l’accesso alla studio, alla ricerca, all’insegnamento della teologia. Proprio l’acquisire questi strumenti ha affinato la loro richiesta di una più equa e significativa presenza nella Chiesa. Il punto di maggior tensione ha riguardato la questione del ministero. L’esclusione, perché donne, da qualsivoglia ministero “liturgico”. La discriminazione relativa a lettorato e accolitato si è riproposta nella sua forma solenne relativamente al ministero ordinato. L’Inter Insigniores, il documento pubblicato nel 1976, ha avuto una portata devastante. Tanto più che, nel frattempo, tutte le Chiese cristiane, ad esclusione delle Chiese ortodosse, si sono aperte via via a una soluzione altra del problema. L’acme della distanza venne sperimentato nel fallimento della commissione istituita sulla questione donna in concomitanza con l’anno internazionale della donna indetto dall’ONU nel 1975. La commissione si spaccò proprio sul fronte del ministero. L’Inter Insigniores, poi, fece suo, accanto al principio della traditio perpetuo serbata, il cosiddetto principio iconico, a partire dal quale solo la mascolinità del ministro garantirebbe il suo rappresentare Cristo. La femminilità, invece, rappresenterebbe soltanto la Chiesa – ovviamente dimenticando che essa è fatta insieme di uomini e di donne. Più di un decennio dopo papa Giovanni Paolo II avrebbe affrontato di nuovo la questione donna e, successivamente, la questione del ministero. Nella Mulieris Dignitatem sarebbe stata affermata con forza la pari dignità della coppia umana e la sua relazionalità sarebbe stata additata come segno della relazionalità intratrinitaria. L’uomo e la donna, insomma, a immagine di Dio. Immagine soprattutto evidente nella communio personarum, segno esplicito di quella communio personarum in divinis di cui appunto l’essere umano è espressione nell’accadimento suo duale. La Mulieris dignitatem ripropone però le tesi della Inter Insigniores. Di più, l’ammissione delle donne al ministero nella Chiesa anglicana ha provocato un ulteriore documento, l’Ordinatio sacerdotalis (1994) che ha confermato l’esclusione delle donne dal ministero ordinato, mutandone lo statuto teologico da questione “disputata” a questione “chiusa”. Una nuova questione andrà ponendosi all’attenzione: quella del gender. In uso sin dagli anni ’70 quello di gender è un concetto classificatorio volto a smascherare l’equivoco di ruoli “naturali” espressioni, in verità, più che della natura, della ricezione culturata della natura stessa.. La sua radicalizzazione ha condotto a supporre irrilevante ogni caratteristica sessuale e a teorizzare una sorta di indifferenza o nomadismo di genere, sino alle teorie del queer di J. Butler. Contro la negazione del valore della sessuazione, la Congregazione per la dottrina della fede ha proposto nel 2004 un documento su La collaborazione degli uomini e delle donne nella Chiesa che, stigmatizzando le teorie di genere, ha ricondotto l’antropologia dei sessi su percorsi tradizionali. In verità, forse, ciò che occorre oggi, è un punto di equilibrio. E soprattutto un dialogo con le scienze altre. Non si può elaborare una antropologia teologica se non in atteggiamento di sincera attenzione e dialogo con le scienze tutte dell’uomo, le neuroscienze innanzitutto. Chiudere nella stereotipia della sessuazione elementi “culturati” e considerarli definitivi e assoluti (“naturali”) non aiuta a una reale comprensione dei sessi e delle loro relazioni. LE SFIDE DELL’OGGI: UN MUTUO RICONOSCIMENTO Ciò che da più parti si chiede alla Chiesa è un atteggiamento meno dogmatico, più consapevole delle sfide che ci interpellano. Una lettura equilibrata, non ideologica, del rapporto tra i sessi non è irrilevante per il futuro delle nostre comunità. Essa chiede il riconoscimento per le donne della dignità profetica. Mai è loro mancato il dono della profezia. Anzi è attestato sia nell’At che nel NT. Ma profezia vuol dire discernimento, capacità critica, lettura del presente per orientare il futuro. Cose tutte le che le donne possono e debbono fare per la crescita della comunità cristiana. Il battesimo rende tutti, uomini e donne, re, sacerdoti e profeti. L’autorevolezza, dunque, non è qualcosa che caratterizza la mascolinità, ma la persona umana, proprio perché a immagine di Dio. La regalità, libertà, creatività propria del Padre è partecipata a tutti, uomini e donne. Riconoscere l’autorità femminile, le sue forme, i suoi peculiari modelli, la sua necessità, è qualcosa su cui non è possibile indugiare ancora. Le donne, insomma, sono Chiesa, nella pienezza del diritto battesimale, crismale, eucaristico che promana dai sacramenti dell’iniziazione. Non è pensabile per le donne un ruolo subalterno, marginale. Al contrario occorre fare spazio, e ampiamente, al loro diritto-­‐dovere di partecipare. Sappiamo bene che il corpo ecclesiale cresce nel concorso di tutte le membra. Anche le donne ricevono i doni dello Spirito, devono essere aiutate a discernerli e soprattutto a metterli in circolo per l’utilità comune. UN BILANCIO IN ITINERE Molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare. Sulla questione donna come su altre questioni la cristianità è stata ambigua e titubante. Occorre oggi con parresia comprendere la direzione da seguire e non per il vantaggio delle donne, ma per la crescita effettiva della Chiesa. Una comunità discriminante non ha diritto a proporsi quale testimone di colui nel quale è sconfitta ogni discriminazione ed è inaugurata una umanità nuova. Le aspettative sul futuro, tante e urgenti, devono tuttavia farci rendere grazie per quanto è già acquisito e potrà essere condotto a migliore acquisizione. Le donne sono passate, anche nella Chiesa, “dal silenzio alla parola”. Questa, è, forse, la rivoluzione più grande, l’inversione maggiore di tendenza. Per secoli sono state escluse dalla parola riflessa, impedite nella parola di conforto, accompagnamento, guida, direzione. A fare la differenza con il passato è oggi il diritto conclamato a misurarsi con la parola, a comprenderla, approfondirla, proclamarla, rielaborarla. Sotto questa angolazione la novità più incisiva è quella della teologia delle donne. Siamo lontanissimi dall’averla recepita, ma essa costituisce una novità innegabile i cui frutti avremo modo ancora di gustare. Per secoli le donne sono state circoscritte al privato. Strette nella morsa aut murus aut maritus, nell’un caso come nell’altro su di esse chiostro o matrimonio rappresentavano una pietra tombale. Oggi le donne hanno rovesciato la pietra che le chiudeva nel privato. Hanno rovesciato la pretesa maschile di garantirne la fedeltà nel tramite della segregazione. Sono perciò passate “dalla invisibilità alla presenza”. Le troviamo a esercitare tutti i ministeri della parola, a farsi carico della preghiera liturgica, a esercitare autorità. Certo sono esercizi “informali”. Ma ciò che veramente importa è che esse ci siano e che siano visibili. L’onda lunga di questa visibilità produrrà i suoi frutti. E finalmente le donne sono passate “dalla subordinazione alla corresponsabilità”; hanno abbandonato il modulo della presunta e naturale subordinazione per accedere pienamente alla corresponsabilità ecclesiale. Le troviamo in numero crescente nei posti che contano. Ma soprattutto le vediamo e le sappiamo partner, vere compagne, assolutamente necessarie alla crescita delle comunità ecclesiali. Il cammino è stato lungo ed è tutt’altro che compiuto. Ma la meta è ormai illuminata dalla consapevolezza nuova che il disegno di Dio è un disegno inclusivo. Dio non discrimina a partire dal sesso, ma ha segnato sessualmente la nostra carne proprio perché potessimo ricordare e testimoniare che il suo è un mistero d’interrelazione. Stare l’uno/a di fronte all’altra/o, vivere la reciprocità, la gratuità, il reciproco prendersi cura: questo il senso dell’ essere al mondo nella concretezza di una carne signata e “redenta” che attende di essere trasfigurata.