1 INTRODUZIONE La pubblicazione nel 1964 di “Apocalittici e
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1 INTRODUZIONE La pubblicazione nel 1964 di “Apocalittici e
INTRODUZIONE La pubblicazione nel 1964 di “Apocalittici e integrati” di Umberto Eco ha segnato un punto di svolta nella discussione sui media in Italia, da allora in avanti due tipi distinti di atteggiamento verso i media si sono riconosciuti in questi due aggettivi. Come ben sappiamo, queste due visioni alternative discordano nel fatto di mostrare opposti giudizi di valore nei confronti dei media e della società di massa1. Gli apocalittici pongono cultura pop, mass-media e “industria culturale” nel ribollente calderone di una decantata decadenza della società moderna; gli integrati preferiscono raffigurarsi come felici consumatori dei media e delle culture “non alte”, esaltano gli effetti positivi della società mediatica abbracciando quella che a volte ricorda un po’ la retorica ottocentesca delle “magnifiche sorti e progressive”. Nelle parole di Eco: “L’ Apocalisse è un’ ossessione del dissenter, l’ integrazione è la realtà concreta di coloro che non dissentono. L’ immagine dell’ Apocalisse va rilevata dalla lettura dei testi SULLA cultura di massa, l’ immagine dell’ integrazione emerge dalla lettura dei testi DELLA cultura di massa. Eco, in quegli anni, fu il primo in Italia a perfezionare gli strumenti per un’ analisi “elevata” della cultura popolare, scrivendo saggi sul fumetto, sulla musica di consumo e sulla televisione. E’ stato senz’ altro un pioniere, ma ai fini del nostro saggio non entreremo nel merito specifico delle sue ricerche. Ci basta, più utilitaristicamente, usare la sua suggestiva terminologia e, come vedremo più avanti, giocarci sopra. D’ altronde, Eco stesso era consapevole di quanto “apocalittici e integrati” fossero due concetti-feticcio, cioè generici e rigidi. Fetìcizzare vuol dire reificare una cosa animata e deificare una cosa inanimata, fissare il mutevole e il continuo in categorie discrete e immobili. Questa è la sorte che è toccata prima ai concetti di massa e cultura di massa, poi in tempi più recenti ai concetti di comunicazione e informazione. Così come in certe culture primitive il feticcio è un oggetto semplice e inanimato caricato di valenze totalmente “altre”, così nel mondo della cultura spesso si creano termini-ombrello che racchiudono una tale complessità che, paradossalmente, alla fine si riducono a significanti vuoti. L’ apocalittico non solo riduce i consumatori a quel feticcio indifferenziato che è l’ uomo-massa, ma- mentre lo accusa di ridurre ogni prodotto artistico, anche il più valido, a puro feticcio- riduce egli stesso a feticcio il prodotto di massa. E anziché analizzarlo, caso per caso, per farne emergere le caratteristiche strutturali, lo nega in blocco….e’ questo uno dei fenomeni più curiosi e appassio nati di quel fenomeno di industria culturale che è la critica apocalittica dell’ industria culturale. 1 Eco stesso dice: “..siamo obbligati a ricorrere a un concetto generico e ambiguo come quello di cultura di massa”. Ebbene, se già nel 1964 questo concetto appariva poco definito, non saremo certo noi a riproporlo. In realtà, nel dibattito mediologico, massa e cultura di massa sono espressioni sorpassate. Comunque, si tornerà più avanti sul problema di “uno, nessuno e centomila masse” 1 Tuttavia, di feticcio in feticcio, “la funzione degli apocalittici ha una propria validità, nel denunciare cioè che l’ ideologia ottimistica degli integrati è profondamente falsa e in malafede”. Ora, in un testo recente di Abruzzese e Miconi sulla sociologia dell’ esperienza televisiva2, possiamo risentire i toni della critica Echiana alle teorie “apocalittiche”. De facto, questo atteggiamento è fortemente contraddittorio e, in definitiva, superficiale,nella misura in cui rappresenta un pregiudizio aprioristico di una certa intellighenzia culturale che giudica i media- soprattutto la televisione- in maniera negativa ma senza il beneficio di un’ analisi puntuale e concreta. Il caso paradigmatico della televisione espone e svela la logica profonda di tale teoria: infatti, giudicando ciò che non conosce bene, essa cade in contraddizione proprio quando denunciando l’omologazione creata dalla TV si preoccupa per i possibili effetti di induzione alla violenza e devianza giovanile. Da una parte, quindi, la TV rappresenta la pochezza contenutistica per antonomasia, dall’altra essa è un pericoloso e potentissimo mostro fuorviante. Insomma: Essendo incapace di liberarsi di queste contraddizioni, il pensiero critico è stato obbligato a riprodurle e a moltiplicarle. Ha dovuto ancora negare alla cultura di massa una valutazione scientifica, per impu tarle invece una serie di effetti di omologazione e di devianza, di trasparenza eccessiva e di eccessiva opacità, di narcosi e di eccitazione, di passività e di violenza. Effetti tra loro irriducibili, logicamente esclusivi. Dietro alle critiche apocalittiche si cela dunque una fondamentale incomprensione del valore sociale dei media, pericolosa almeno quanto una acritica epopea “integrata”. E’ bene qui offrire una puntualizzazione. Parlare dei media è parlare di una molteplicità di mezzi di comunicazione, sistemi che permettono lo scambio informativo a livello interpersonale e di massa, contesti plurimi e varianti in cui determinati mezzi supportano determinati tipi di messaggio. Nella “società dell’informazione” i flussi di energia comunicativa scorrono su distinti tipi di binari. Uno-a-uno, uno-a-molti, molti-a-molti: come già anticipato, anche l’uso del termine massa risulta generico, una volta che si prende atto di assistere a movimenti compenetranti di frammentazione e omogeneizzazione nel corpo sociale, di localizzazione e globalizzazione ( o piuttosto “glocalizzazione”). Anche se mai fosse esistita, oggi certamente non esiste una comunicazione di massa univocamente definibile. Ci troviamo di fronte ad una galassia che fa apparire ristretto il campo dei media studies. I corpi di questa galassia sono essenzialmente di tre categorie: comunicazione di massa, telecomunicazioni, comunicazioni di dati informatici.3 Studiare compiutamente i media significa studiarne i risvolti economici, istituzionali e culturali. E’ concettualizzabile una “cultura dei media”, anche se qualche apocalittico storcerà la bocca, a patto di coglierne la portata decisiva con lucidità intellettuale e poliedricità disciplinare. E’ inutile e fuorviante vedere media e società come due entità che non partecipano della medesima natura. Una volta appurata la realtà della loro interazione, bisogna stabilirne i territori in comune: studiare il sangue che fluisce nelle arterie. Mi si conceda la terminologia Lotmaniana: la “cultura dei media” entra a pieno diritto nella semiosfera, intesa come “grande insieme di sottoinsiemi culturali -concepiti come testi- che convivono separati, oppure si 2 3 si tratta di “Zapping: sociologia dell’ esperienza televisiva” Per questa partizione, si veda Van Dijck, J. “Sociologia dei nuovi media”, Il Mulino, Bologna 2002. 2 compenetrano, o entrano in relazione reciproca modificandosi, a volte addirittura esplodendo nell’impatto reciproco e quindi riorganizzandosi come se fossero organismi viventi” (Pozzato, 2001). Questo spazio semiotico è il terreno d’azione degli studiosi della cultura e anche degli scienziati della comunicazione. L’attuale società occidentale vede flussi di conoscenza ed esperienza che transitano per i canali della comunicazione mediata. I flussi mediati hanno raggiunto un livello di pervasività tale da agire su tutta l’estensione della semiosfera: quindi indagare sugli effetti dei media vuol dire conoscere forme e grammatiche, e della mediasfera e di quelle sfere contigue. Un apocalittico, in vena di estremismi, giungerebbe forse a far coincidere la media-sfera con tutta l’estensione della stessa semiosfera. Non si necessitano risposte complesse a ciò: molto realisticamente, è chiaro che i media non sono tutto ciò che vediamo, sappiamo e crediamo su questa terra. Tuttavia, come rileva Peppino Ortoleva, “ forse per nessun altro oggetto di ricerca esiste una simile offerta di modelli interpretativi, dalla semiologia alla sociologia, dai cultural studies alla psicologia cognitiva, dalla critica di origine estetico-letteraria agli studi economico-organizzativi: modelli che…. poco si curano di trovare un linguaggio comune” (Ortoleva, 1997). Sulla scorta di questo autore, anche noi crediamo che sia utile una categoria come quella di “sistema dei media”, tale da permettere di studiare la specificità dei mondi di ogni singolo media tenendo presente l’importanza di una visione il più possibile unitaria ed integrata. Ci si trova di fronte al problema: diversi media, diversi metodi di studio?o piuttosto: le particolarità del sistema comunicativo influenzano univocamente contenuti dei messaggi ed effetti? Una possibile risposta è che esiste un certo margine di differenza nella capacità di ogni singolo medium di esercitare influenze specifiche, però l’apparente concorrenzialità dei media sembra piuttosto risolversi in complementarietà. A livello di messaggi, è palese quanto i media operino rimandi intertestuali fra loro, diacronici e sincronici. Inoltre i media richiedono agli utenti una competenza che viene esercitata in vari gradi lungo tutto l’arco dell’esistenza individuale, patrimonio genetico da almeno due generazioni. Certo, la mediasfera è fertilissima di innovazioni tecnologiche, ma gli individui sanno perfettamente integrare il vecchio e il nuovo4. Per di più, l’ individuo non viene socializzato separatamente con singoli medium, bensì avviene un apprendimento comparato: non si saprà usare un computer se non si è mai vista la televisione, ci si terrorizzerà della tv se non si è a conoscenza dell’esistenza della radio. Tuttavia, tanto più si è “allenati” a media distinti, tanto più sarà agevole socializzare con media nuovi. L’homo mediaticus a nostro avviso prosegue la linea genealogica dell’ homo sapiens, è una nuova forma di umanità, di essere-nel-mondo. E’ evidente il cambio epocale già acquisito ed ancora in divenire: un uomo mediatico, inserito in una nuova mente collettiva, le cui esatte proporzioni permangono da definire. Però ci vogliono nuovi strumenti di misurazione. Una volta accertata l’esistenza della “cultura dei media”, prerogativa dell’homo mediaticus, rimane da tracciarne territori e contrade. 4 Per le dinamiche evolutive della mediasfera, vedasi R. Fidler, “Mediamorfosi.Comprendere i nuovi media”, Guerini e associati ed. 3 L’ HOMO MEDIATICUS E L’ IMMAGINARIO Alberto Abruzzese ritiene che gli studi mediologici risentono ancora della classica opposizione tra cultura d’elìite e cultura di massa. Prendiamo il dibattito sulla tv come caso paradigmatico. La critica avrebbe operato un inconsapevole ribaltamento fra effetti e cause. Essa avrebbe narrato l’ evoluzione della tv “individuando come degenerazione il suo semplice compiersi, rivelarsi al massimo delle sue possibilità genetiche”. La critica apocalittica si farebbe così prendere per mano dai propri giudizi di valore, rendendosi così cieca e unidirezionale. Cieca perché incapace di vedere obiettivamente la fenomenologia della fruizione televisiva, unidirezionale perché intenta a seguire solo il percorso teorico che essa stessa va tracciando, evitando intenzionalmente di sconfinare in territori teorici scomodi. Quali sono questi territori? Sono in primis i territori fisici occupati dal consumatore/spettatore con le sue dinamiche di fruizione, la sua emotività e la sua relazionalità. Inoltre, un apocalittico si priverebbe della visione di quel territorio ibrido e anfibio nel quale abita l’homo mediaticus, che plasma il medium nel momento in cui il medium plasma esso. Verrebbe così sprecata l’opportunità di capire a fondo il rapporto tra uomo e media proprio perché si presta attenzione e rilevanza solo al secondo termine del binomio, tralasciando la dimensione umana e contestuale. La critica alle comunicazioni di massa e la critica televisiva vanno ridefiniti in chiave socio-antropologica; così come si sono esaminate le società tribali con il metodo dell’osservazione partecipante, così va fatto uno studio antropologico dei media. Va prestata attenzione alla relazionalità “innescata” dai media. La tv crea una nuova idea di comunità e una nuova visione dell’Altro. Essa è stata una forte agenzia di socializzazione, supplendo alla resa delle ideologie e alla fine delle grandi narrazioni. La potenza del mezzo è consistita nella sua straordinaria capacità, esponenzialmente progressi va, di ottimizzare, trasformare, concentrare e miscelare operazioni e bisogni molteplici e diffe renti, sradicandoli dai loro contesti di appartenenza, dalle loro funzioni originarie, e unifican doli in una sola pratica polimorfa. Informazione, intrattenimento, educazione e socializzazione ai riti di una società: la tv domina la matrice dei media contemporanei, probabilmente ne è il paradigma. Il mezzo televisivo presenta il suo proprio linguaggio specifico, autonomo da quello di altri mezzi di comunicazione, i quali peraltro vengono attratti nella sua orbita. Basti pensare al cinema e alla stampa. Anche Abruzzese sostiene la necessità di un approccio interdisciplinare che unisca riflessioni teoriche finora tenute separate, quali “la prima fioritura di una riflessione sociologica sui destini della civiltà metropolitana, nonché una riflessione socio-antropologica sul traumatico passaggio dai regimi comunitari a quelli societari, e sull’avvento delle strategie effimere della Moda in contrapposizione ai valori stabili e ciclici della Tradizione preindustriale.”il trauma del trapasso dall’Antico al Moderno è stato rielaborato dalla cultura dei media e dal mezzo televisivo, i quali si sono”strutturati come metabolizzazione simbolica delle innumerevoli morti di cui si compone l’esperienza quotidiana di uno sviluppo sempre più accelerato e catastrofico” (Abruzzese, 2001). Insomma, una critica sui valori dei media e sui loro effetti sulla vita sociale deve fare i conti con i nuovi regimi della scrittura e dell’immagine, cogliendo significati in apparenza nascosti e 4 impercettibili. Occorre indagare i processi di derealizzazione che operano sull’esperienza individuale e sull’esperienza di quella nuova entità che è la cellula uomo-video. Questa riflessione socio-antropologica permetterebbe dunque di comprendere che: L’omologazione non è stata soltanto violenza sui valori individuali, negazione della particola rità, guerra al soggetto, ma ha funzionato da strumento necessario all’attivazione di altrettan to forti processi di individualizzazione: è questo uno di quei meccanismi multipli che la me diologia e ancor più la critica tradizionale non hanno saputo cogliere nel loro progressivo svi luppo. Quindi, lungi dal sopprimere le pratiche sociali di matrice comunitaria5, il mezzo televisivo funziona da attivatore di un nuovo immaginario collettivo che, proprio in quanto condiviso, vive nell’individuo, anzi lo individualizza. Mitologie e simboli, che costituiscono l’autorappresentazione di un sistema sociale, confluiscono in un immaginario “tecnologicamente attrezzato nel metabolizzare -proprio nei luoghi del tempo libero- ciò che la società è andata traumaticamente razionalizzando nei suoi ordinamenti” (Abruzzese, 2001). L’esperienza della morte, il Kitsch, il destino individuale e il destino collettivo: i media scavano nel “rimosso” sociale, lo metabolizzano, forse costituiscono una sorta di apparato digerente del corpo sociale. Questo immaginario collettivo ha tempi e luoghi propri, svincolati dai contesti fisici e dalle strutture di produzione. Riflettere sulla cultura dei media deve tener presente questo aspetto, studiare la realtà del simulacro e l’artificialità del reale. In particolare il mezzo televisivo ha inaugurato una nuova sensibilità, nuove rappresentazioni collettive. Studiare gli effetti dei media sulla vita sociale vuol dire contemplare l’urgenza di un nuovo paradigma antropologico e culturale, “per cui è il corpo stesso della collettività, il suo ventre, che prende la parola seppure attraverso e nei territori in cui è nato –quelli della divulgazione e del divertimento- e da cui dunque si emancipa esibendo i tratti istintivi, irriflessivi, ingordi e capricciosi dell’infanzia” (Abruzzese,2001)6 5 Sul tema media-strutture del tradizionale viver comunitario, si veda R.D. Putnam, Bowling alone: the Collapse and Revival of American Community, Simon&Schuster, New York, 2000 6 Sarebbe interessante studiare a fondo questo lato delle comunicazioni di massa: le analogie fra l’onnicomprensività informativamente ingorda del sistema-media e la struttura psico-cognitiva del bambino che si affaccia alla vita. I media, forse, sono un bambino capriccioso da addomesticare. 5 I MEDIA ELETTRONICI E LO SPAZIO INTERMEDIO All’interno della “matrice dei media contemporanei”, i media elettronici dominano senz’altro per pervasività e strategie metanazionali. Inoltre, con l’avvento dei new media, il linguaggio digitale si è definitivamente imposto come principale supporto della comunicazione e dell’informazione. Ma il “sistema dei media”, almeno fino ad oggi, non si esaurisce nel digitale. Le trasformazioni del sistema ribadiscono le premesse già implicite nel passato: l’evoluzione delle tecnologie segue a ruota la storia della società e della cultura. In questo assunto, è implicito il rifiuto di qualsiasi determinismo tecnologico. La nostra società non si esaurisce nel “sistema dei media”: esso è solo una galassia, sebbene di grande peso, nella semiosfera della cultura occidentale. Dalla stampa ai media elettronici dell’era moderna, fino ai new media della fase attuale, non c’è relazione univoca di causa-effetto fra tecnologie comunicative e assetti della società e della cultura. Concepire il comportamento sociale come variabile dipendente e i media come unica funzione di cambiamento è un errore: è utile semmai concepire un modello di influenze a più direzioni, pena il rischio di astratte idealizzazioni. Credo che una ricerca come quella di Federico Boni sul “corpo mediale dei leaders” si trovi sul percorso a cui ci riferiamo, in quanto è impostata sull’osservazione congiunta e delle cornici comunicative dei media e delle cornici interpretative e relazionali del pubblico. Riprendendo la terminologia goffmaniana- si studiano i media frames e gli audience frames- e integrandola con la biopolitica foucaultiana e gli studi sul body politic, Boni ci presenta un interessante studio sulle rappresentazioni mediali di Bill Clinton e di Papa Woijtyla. E’ illuminante scindere il momento della produzione di senso dei testi mediali e i processi di significazione intervenienti nel pubblico. L’autore presenta comparativamente i messaggi delle principali testate giornalistiche italiane nel periodo 1999/2000 e la conseguente “messa in chiave” di tali messaggi ad opera di quattro focus groups composti da studenti universitari. Gli eventi presi in questione sono il Sexygate per quanto riguarda Clinton e l’Apertura dell’Anno Santo 2000 per il pontefice. Ebbene, se dalla parte dei media opera un processo di de-sacralizzazione del corpo del leader, dal lato dell’audience si rilevano strategie di attribuzione di senso che vanno in direzione opposta, cioè verso una ri-sacralizzazione. Il rituale di degradazione mediatico (da una parte la videodeposizione di Clinton davanti al Grand Giurì che indaga sulle sue malefatte, dall’altra l’immagine del pontefice vecchio e malato eppure sacro, o forse sacro proprio perché vecchio e malato) è in qualche maniera “digerito” dal pubblico per mezzo di una attività di framing. Il messaggio mediatico è così reso significante in una particolare “messa in chiave”, che Boni definisce medicalizzazione. Nel caso di Clinton, il suo corpo mediale viene sottoposto ad un’indagine impietosa –patologizzazione della sua vita sessuale, dei suoi connotati di gender, addirittura del suo vissuto psicologico profondo- mentre nel caso del Papa “lo spettacolo del dolore” 6 viene incorniciato ulteriormente in chiave “cristica”, cioè in termini di Passione e sacrificio cristiano. A questo punto, Boni si riaggancia alle acquisizioni teoriche di Meyrowitz, depurate tuttavia del suo determinismo tecnologico7. In particolare riprende il suo concetto di “spazio intermedio”. Vediamo di chiarire il discorso: i media elettronici hanno, fuor di ogni dubbio, modificato gli atteggiamenti sociali degli individui, intervenendo sul meccanismo che tiene distinti i territori da ribalta e i territori da retroscena. In particolare il mezzo televisivo ha introdotto una nuova poetica degli aspetti emotivi ed espressivi, tradizionalmente agganciati agli spazi da retroscena. Meyrowitz, dopo aver introdotto la dicotomia comunicazione vs espressione8, ritiene che sia peculiare dei media elettronici la trasmissione dell’espressività personale: Una differenza fondamentale tra media scritti e media elettronici consiste nel fatto che i primi contengono solo comunicazioni, mentre la maggior parte dei media elettronici trasmettono anche espressioni personali. I media elettronici rendono pubblica un’intera serie di informa zioni un tempo confinate alle interazioni private (…..) In questo senso, la stampa scritta tende alla ribalta, mentre i media elettronici hanno una distorsione da retroscena (corsivi miei). A mio avviso, Meyrowitz è criticabile quando afferma che leggere un testo scritto non dà sufficienti informazioni sulla personalità dell’autore e anche quando giudica certi media da retroscena e a altri media da ribalta. Tuttavia, ai fini del nostro discorso, è importante stabilire quanto i media elettronici abbiano creato uno “spazio intermedio” fra “l’estremo retroscena”, che permane nascosto, e “l’estrema ribalta”. Goffman parlava di “barriere che si frappongono alla percezione” all’interno di quelli che sono i rituali comunicativi; ebbene i media elettronici hanno inaugurato un nuovo modello di flusso informativo, il quale permette “l’accesso ai comportamenti di altre persone” (Meyrowitz, 1995), un tempo invisibili. E’ chiaro quindi che i tradizionali ruoli sociali, in particolare quelli legati all’autorità, vengano messi in discussione. “La distanza tra le situazioni contribuisce al grado di separazione nello stile comportamentale”, ma questa distanza è determinata dal tempo e dallo spazio. Ma sono proprio queste le variabili che subiscono una radicale trasformazione ad opera dei media elettronici. Il “senso del luogo” è cambiato, quindi situazioni sociali un tempo divise sono venute a fondersi. Ed è a questo punto che si genera il comportamento da “spazio intermedio”, prodotto dalla “nuova sovrapposizione tra situazioni e pubblici, mentre i comportamenti da profondo 7 Nell’incipit della sua opera “No sense of place” (1985), Meyrowitz critica Innis e McLuhan. L’autore americano esalta il fascino incompreso della loro prosa epica, ma li critica perché non trattano effettivamente di come si manifesti de facto la decantata “estensione sensoriale” provocata dai media elettronici. Essi non direbbero nulla per chiarire gli effetti reali sulle situazioni e sui comportamenti: affermano che nell’era della comunicazione mediata le categorie di tempo e spazio vengono sconvolte, ma non chiariscono le conseguenze di tale mutamento a livello di comunicazione interpersonale. D’altro canto, prosegue Meyrowitz, coloro che si interessano di comunicazione non-mediata (Goffman in primis) tralasciano o quasi l’esistenza delle interazioni degli individui CON i media e delle interazioni FRA i media. Insomma ( e qui sta il nocciolo del rimproverato determinismo dell’autore americano) bisogna concepire l’esistenza di un meccanismo di causa-effetto fra la comunicazione mediata e il comportamento sociale. Per lui, i media elettronici creano un nuovo e peculiare ambiente sociale, nuove situazioni comunicative, nuovi flussi informativi. Tuttavia, come rileva Boni, si può vedere come questo atteggiamento, portato all’estremo, avallerebbe l’ipotesi per cui tutti i “corpi mediali dei leaders”subiscano lo stesso effetto desacralizzante ad opera della rappresentazione mediatica: mentre la sua ricerca dimostra ampiamente che non è così. 8 Inoltre, l’autore cita la distinzione simboli discorsivi/simboli rappresentativi elaborata dalla filosofa Susanne Langer. 7 retroscena e di primo piano derivano dalla possibilità di nuovi tipi di comportamento più puri o più estremi, adatti a contesti più isolati e specializzati” (Meyrowitz, 1995). L’autorità, dicevamo, è messa in discussione: così come lo è quella dei leaders politici, lo è anche quella dei genitori verso i propri figli. La TV in particolare mostra ai bambini il retroscena della vita dei genitori, che prima era tenuto separato da pareti e barriere non solo fisiche. Non sono tanto i ruoli sociali in sé a mutare, quanto la possibilità di accesso ad essi, funzione diretta del grado di accesso al patrimonio informativo che li caratterizza. I nuovi modelli di flusso informativo, secondo Meyrowitz, creano un nuovo paesaggio sociale, in cui nuove identità di gruppo vengono create dalle fusioni e condivisioni di esperienze rese possibili dai media elettronici. Anche la soglia fra maschile e femminile si abbassa, proprio grazie al fatto che ora i due generi SANNO molto di più l’uno rispetto all’altro. Di nuovo, troviamo i media valorizzati come agenzia di socializzazione, che riconfigurano lo spazio pubblico e il “chi sa che cosa di chi”. Ma l’esistenza dello “spazio intermedio” e la ridefinizione di sfera pubblica/sfera privata vanno sottoposte al vaglio della critica. E qui torna di nuovo utile l’analisi del “corpo mediale del leader”. Il punto è questo: cosa succede quando l’individuo realizza che la sua potenzialità di accesso a informazioni ed esperienze di ALTRI può essere compensato dalla possibilità, per gli ALTRI, di un medesimo accesso a informazioni ed esperienze SUE? Nelle parole di Boni: L’analisi dei frames di media e pubblico relativi a questa tematica ha mostrato come un determinato tipo di rappresentazione del potere influisca sulla rappresentazione di sé dei cittadini/consumatori mediali: in qualche modo, ciò che emerge è una sorta di processo di identificazione riflessiva, per cui la stessa vulnerabilità del leader (la sua profanazione, la biopolitica a cui il suo corpo è sottoposto, etc.) si va ad identificare con la vulnerabilità dei cittadini (….) I corpi dei cittadini (i corpi “locali”) intrecciano il loro destino con quelli del leader (i corpi “globali”); tutti sono sottoposti a regimi di estrema visibilità e controllo. Come risulta dalla sua indagine, sia i media frames che gli audience frames hanno “incorniciato” il corpo del leader (soprattutto nel caso di Clinton) nell’ambito della perdita della privacy, da una parte, e della sua continua ricerca e difesa, dall’altra. Boni parla di corto circuito cognitivo; di fronte alla desacralizzazione –che è in primis desacralizzazione della privacy, prima che della leadership- “gli stessi media, nonché i loro pubblici, descrivono l’incarnazione di questi fenomeni in termini di forte preoccupazione, lamentando la privacy perduta e rivendicandone una strenua e talvolta ossessiva difesa” (Boni, 2002, corsivo dell’autore) 8 L’INCOMUNICABILITA’ MEDIATA E I DIS-INTEGRATI Fino a qui si è cercato di dar conto, a grandi linee, di quanto sia estranea al concetto di comunicazione mediale l’idea di univocità, nel senso di contenuto del messaggio e sua interpretazione. In questa ultima parte del nostro lavoro, si parlerà ancora di questa ambiguità, introducendo l’idea di comunicazione alienante. Sulla scorta di Gian Piero Jacobelli9, diremo che essa presenta quattro modalità: il silenzio, il malinteso, l’inganno e la comunicazione s-comunicante. Attraverso una riflessione trasversale, questo autore analizza la “retorica dei messaggi” e la “retorica dei mezzi”, operando un excursus storico-filosofico che punta dritto al sempiterno rapporto fra la società occidentale e le sue pratiche di comunicazione. In “Scomunicare”, l’autore “usa” figure storiche come Alcibiade e Alessandro Magno per inquadrare l’ontologia della comunicazione scomunicante, rintracciandone le dinamiche di seduzione ed esclusione. Ricostruisce “come si sia potuto e si possa scomunicare, parlando, scrivendo e leggendo a proposito, ma più spesso a sproposito, vale a dire fingendo di fare altro o di non farlo affatto”. Le sue suggestioni teoriche ci sembrano utili all’interno della vasta problematica degli effetti dei media e della comunicazione di massa. Esse pongono con forza l’esistenza della alienazione scomunicante, nucleo originario e irriducibile di ogni comunicazione, interpersonale e di massa. Ogni comunicazione discende da una separazione fondamentale del soggetto con l’oggetto, e prevede una dialettica di mezzi e messaggi che ha implicita in sé la possibilità dell’incomprensione. Ma cosa succede quando in uno scambio comunicativo chi comunica non VUOLE farsi capire dall’interlocutore, eppure lo illude di essere partecipe di una comprensione interattiva? Cosa succede quando chi (s)comunica gioca astutamente con mezzi e messaggi per indurre l’interlocutore a non uscire da un supino assenso travestito da replica? La comunicazione scomunicante massifica l’interlocutore, lo fuorvia in un senso che va oltre l’equivocare ed il puro mentire. Inibisce una relazione dialettica e di dialogo, svaluta definitivamente le identità personali proprio nell’illusione di tutelarle. E’ un’aberrazione rintracciabile in tutta la storia dell’umanità e che l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa ha ingigantito. L’amore per “l’etica del discorso” e l’odio per la volontà massificante di scomunicare tuttavia “non implica una demonizzazione ed un rifiuto dei mezzi di comunicazione, né dei vecchi né dei nuovi, comunque irrinunciabili, ma l’esigenza di una loro gestione accorta e lungimirante, senza abdicazioni irragionevoli e irresponsabili esaltazioni, in cui da sempre hanno messo radici il pregiudizio e la confusione”(Jacobelli, 2003). E’utile ribadirlo: lo scomunicare, o comunicare per alienare,non significa tanto equivoco o menzogna, ma una parvenza di comunicazione, che però è vincolante e immobilizzante in quanto ferma un vero movimento di pensiero. Esso blocca il sé dandogli illusione di movimento, lo irretisce in un territorio che promette sconfinatezza, ma che in realtà è una gabbia traditrice che genera isolamento e vuota parcellizzazione. L’individuo 9 “Scomunicare. Il quarto escluso della comunicazione alienante” si veda la bibliografia. 9 viene messo in condizione di non poter realizzare i suoi obiettivi, sedotto e poi tradito, preda di “un vedere che acceca” (Bauman, 1999). La sua reazione è composta da “sconcertanti compensazioni nevrotiche nei confronti delle comunicazioni scomunicanti”, “fughe in avanti” che Jacobelli identifica ne “la mediazione infinita della realtà virtuale” e ne “l’apocalisse individuale della New Age”. Ora, queste suggestioni (che non affronteremo per ragioni di spazio) ci riagganciano al punto di partenza del nostro discorso, ovvero le apocalissi culturali e le visioni “integrate”. Ebbene, apocalittici, integrati, DIS-integrati: questi ultimi sono i figli, a mio parere, dell’incomunicabilità mediata, della comunicazione scomunicante che trova cittadinanza nella comunicazione comunicante. Essi sono coloro che, lungi dal “digerire” il mondo dei media, sono “digeriti” da esso. Sono i nevrotici della “società dell’informazione”, prede del troppo comunicare e del troppo poco comunicare. E’ certamente in atto una implosione delle diverse identità culturali che rende il mondo un caleidoscopio di visioni frammentate e frammenti di visione. Ha senso parlare di fine delle grandi narrazioni? Forse no, nella misura in cui esiste un ipermercato culturale di “piccole” narrazioni, pronte ad essere usate e ad usare chi le usa. Essere DIS-integrati presuppone l’essere integrati? Forse sì, nella misura in cui non si esce dalla “cultura dei media”. E’ controproducente rifiutarla, forse è impossibile non aderirvi in almeno qualche momento della propria esistenza. Il DIS-integrato è colui che soffre questa frammentazione, è colui il quale sente di essere egli stesso metabolizzato dalla “cultura dei media” e ha paura, ha timore di perdersi, o forse si è già perso. E’ colui il quale soffre per la confusione fra messaggio e meta-messaggio, colui che è definitivamente disorientato da “quella sorta di immediatezza eccessiva con tutto e con tutti, in quel relativismo di ritorno nell’ambito del quale, manipolando sia la storia propria sia quella altrui, si giunge ad elaborare una sorta di catalogo per corrispondenza dei modelli di cultura, dove ogni tradizione, vicina e lontana, sembra tornare buona e dove ciascuno può scegliersi il costume da indossare nel carnevale del bimillenarismo contemporaneo” (Jacobelli, 2003). Ecco, il DIS-integrato è stufo del carnevale, vuole evadere dal dominio dell’emotività e dell’espressività, vuole tornare al discorso, di qualunque natura esso sìa, basta che non sia scomunicante. Egli cerca nuove strategie di soggettività, perché quelle vecchie le ha perse nel mare magnum della comunicazione alienante. Forse la sua ricerca ha come punto d’approdo la consapevolezza dell’estrema artificialità delle cose e di corpi (mediali) e delle forme di sensibilità odierna. Si tratta di una accettazione sofferente, per questo egli è un soggetto DIS-integrato. Ma forse egli può trovare una sua nuova integrazione, accettando di essere “una cosa che sente” (Perniola, 1994), abbandonandosi al sex-appeal dell’inorganico. Accettare di essere inorganico, per poter vivere in quello che, sulla propria pelle, viene sentito DIS-organico. Ecco, dunque, l’effetto (potenziale) che i media hanno su questi individui DIS-integrati: essi, con una potente e difficile torsione del pensiero, possono venire agevolati –per mano della stessa “cultura dei media”- a ri-trovare la loro soggettività. Proprio nel momento in cui sentono di perderla. Ri-trovare una cosa mentre la si sta perdendo può anche voler dire rassegnarsi alla perdita, superare la perdita. Dal DIS-organico all’inorganico, dall’alienazione scomunicante al sex-appeal dell’inorganico. 10 Bibliografia A. Abruzzese, 2001, L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Roma, Meltemi A. Abruzzese, A. Miconi, 1999, Zapping. Sociologia dell’esperienza televisiva, Napoli, Liguori F. Boni, 2002, Il corpo mediale del leader. Rituali del potere e sacralità del corpo nell’epoca della comunicazione mediale, Roma, Meltemi U. Eco, 1964, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani G. Jacobelli, 2003, Scomunicare. Il quarto escluso della comunicazione alienante, Roma, Meltemi J. Meyrowitz, 1995, Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Bologna, Baskerville P. Ortoleva, 1997, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Milano, Nuova Pratiche Editrice M. Perniola, 1994, Il sex-appeal dell’inorganico. Torino, Einaudi M.P. Pozzato, 2001, Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Roma, Carocci Per i testi stranieri si riporta l’anno della traduzione italiana. 11 INDICE 1.INTRODUZIONE 2.L’HOMO MEDIATICUS E L’IMMAGINARIO 3.I MEDIA ELETTRONICI E LO SPAZIO INTERMEDIO 4.L’INCOMUNICABILITà MEDIATA E I DIS-INTEGRATI ABSTRACT Questo lavoro si intitola “Apocalittici e Dis-integrati”. Da ciò si deduce quanto ci si sia ispirati al classico testo di Umberto Eco, paradigmatico per il chiarimento dei due principali atteggiamenti circa le comunicazioni di massa. Dopo aver brevemente delineato pregi e incoerenze dei due atteggiamenti –in particolare della critica apocalittica-, ci si è rifatti alle suggestioni di Alberto Abruzzese relative all’immaginario collettivo. In particolare, il discorso verte sul mezzo televisivo, paradigma di linguaggio mediatico profondamente coinvolto nei meccanismi socioantropologici. Si è cercato di vedere criticamente il pensiero di Meyrowitz, in particolare si sono visti certi aspetti “goffmaniani” della sua teoria del mutamento sociale. Ribalta, retroscena, spazio intermedio: abbiamo ritrovato queste strutturazioni in una recente ricerca mediologica che ci ha offerto stimoli e suggestioni. Si tratta della ricerca di Federico Boni sulla rappresentazione mediatica di Bill Clinton e Papa Woijtyla. Si è offerta una visione pratica di come intervengano le attività di framing nel rapporto degli individui con i testi mediatici (nella fattispecie, quelli informativi) e si sono sollevate questioni sulla privacy e l’accesso informativo. Infine, si è speculato intorno alla comunicazione che non comunica, o che non vuole farlo. Si è ipotizzata l’esistenza di individui DIS-integrati dalle comunicazioni di massa, sfiduciati perché irriducibili al ruolo di vittime della comunicazione scomunicante. Pertanto, ribelli? Si, ma solo se accettano di farsi “cosa che sente”: atteggiamento filosofico che accetta la reificazione, ne esalta il sex-appeal inorganico proprio per non cadere nella DIS-organicità. 12